Novembre 23, 2024

275 thoughts on “8 DOMANDE SU SCRITTORI E POLITICA, parte I

  1. 3. Se il governo assume a tecnica politica l’organizzazione culturale, la partecipazione di uno scrittore, il suo impegno, non si riduce a un contributo più o meno significativo alla creazione del consenso?

  2. Dicevo, provate a rispondere…
    Poi – tra un paio di giorni – inserirò le risposte fornite dagli scrittori interpellati, e vi chiederò di individuare quella con cui vi sentite più in linea (o che vi sembra più “congeniale”) spiegandone le ragioni.

  3. La prima domanda mi sembra un po’ in contraddizione. L’impegno dello scrittore se espresso esiste e come. Molti scrittori scrivono perchè vogliono cambiare le cose. In quanto alla responsabilità degli scrittori in quanto tali, anche questa domanda non mi sembra molto chiara. Potrei interpretarla nel senso che se uno scrittore si estranea dall’impegno politico e lascia andare e cose alla deriva c’è una sua responsabilità in questa deriva. Se è così, è in parte vero. Ma resta il fatto che molti scrittori, la maggioranza, scrivono su temi intimistici che poco hanno a che fare con la questione sociale. Certo non è facile oggi per uno scrittore impegnato trovare un editore disposto a pubblicarlo. La lunga mano di Berlusconi ormai controlla tutto. Anche se Mondadori-Einaudi sembra apparentemente non risentire gli effetti nefasti della lobby berlusconiana , la realtà potrebbe anche essere diversa da quella che sembra. E poi mi domando quanto altri editori, per esempio Bompiani-Rizzoli, siano disposti ad inimicarsi il Prescritto. Insomma nel bene e nel male, più nel male, Berlusconi controlla e mette il bavaglio a tutto e a tutti.

  4. ciao a tutti, vorrei rispondere al post di pippo sanfilippo, in quanto ci sono cose che non condivido. innanzitutto secondo me è un grave e diffuso errore quello di centralizzare l’intero apparato culturale italiano nella figura di una sola persona, che rimane sempre e solo una persona, non un Dio. a me sembra che attribuire questi poteri magniloquenti è un pò come ratificarli. occorre parlare d’altro. la situazione politica occidentale sta cambiando, c’è un ringiovamento delle principali cariche che prima o poi toccherà anche lo stivale, E SONO FERMAMENTE CONVINTO che il miglior mezzo per combattere il potere reazionario sia cercare il positivo, la strada positiva, iniziare a studiare le forme di energia alternativa, a capirle, a utilizzarle, a condividerle. La nostra cultura ha bisogno di fare gruppo, mai come adesso l’individualismo miete le sue vittime, più di un fucile.

    Nicola Castellini

  5. Chiedo scusa a Maugeri. L’unica cosa che vorrei è che questo interessante dibattito si riducesse a discutere su Berlusconi e sul suo controllo dei media. Vorrei prorpio che i forumisti non tenessero conto della parte che ho scritto su Berlusconi. Anche se parlando di editoria , purtroppo, non si può fare a mendo di fare certe considerazioni. Certo sono, siamo, siamo ossessionato dal Prescritto e dal modo come lui esercita il suo potere. Ma la Cultura deve seguire il suo corso. Guai a fossilizzarci su Berlusconi.

  6. 1. Ha senso oggi parlare di impegno per uno scrittore? Cioè esiste una responsabilità specifica degli scrittori in quanto scrittori?

    “Ogni azione della nostra vita, anche la più piccola, è responsabile della bellezza o bruttezza del mondo” disse giustamente in un’intervista Augusto Daolio (che era il cantante dei Nomadi e a cui fisicamente somiglio abbastanza. Comunque, musicalmente, i Nomadi non mi interessano per niente). Io detesto con tutte le mie forze quegli intellettuali (siano scrittori o registi, cantanti o attori, disegnatori o chissà cos’altro) che iniettano nel loro pubblico solo sfiducia pessimismo sconforto nichilismo odio cupaggine rassegnazione disgusto tedio prepotenza. Credo che facciano del male a chi si imbatte nelle loro opere, soprattutto se il loro pubblico è costituito da bambini, da adolescenti o da giovani. E trovo assurdo trincerarsi dietro una presunta extraterritorialità etica dell’intellettuale. Quasi che le parole, le immagini e i suoni non toccassero sul serio le persone che leggono, guardano e ascoltano.
    Io sono convinto che con i libri, i film, le musiche si possa fare molto bene, ma anche molto male. E che troppi intellettuali agiscano male.
    Dentro di me, coccolo un’ingenua utopia. Eccola: per cinquanta anni, tutti gli scrittori disegnatori registi attori musicisti cantanti e creativi in genere trasmettono con le loro opere una visione positiva del mondo e dell’essere umano. Non esaltando più la volgarità e la sopraffazione, il cinismo e la mercificazione dell’altro, la violenza e la stupidità. E al contrario, senza predicare, senza realizzare opere didascaliche e stomachevolmente finte, senza salire in cattedra, senza moralismi ma con un forte senso etico e un saldo senso della responsabilità individuale e collettiva, senza nascondere che dolore sofferenza male paura debolezza angoscia tormento esistono, utilizzando strumenti come l’ironia e l’autoironia, il dubbio e il mettersi nei panni dell’altro, l’autocritica e l’autostima, la fiducia reciproca e l’allegria, l’amore sempre rispettoso dell’altro, la solidarietà e la speranza…privilegiando questi valori proporre un mondo migliore.
    Ecco, io sono profondamente convinto che se davvero i mass media agissero così e gli intellettuali aderissero con creativo entusiasmo a questo compito…dopo cinquant’anni potremmo vedere alcuni risultati.

  7. 2. Qual è oggi l’equilibrio possibile fra interessi privati e responsabilità collettiva?

    Rispolvero due parole gloriose della sinistra italiana: giustizia e libertà, il binomio inscindibile di giustizia sociale e libertà individuali. Ma purtroppo in Italia, per moltissimi motivi (accenno solo alla mancata Riforma protestante, l’assenza di responsabilità individuale, la presenza invasiva del Vaticano, il familismo amorale, il disprezzo per il bene pubblico, l’esaltazione della furbizia), la “responsabilità collettiva” viene intesa solo come appoggio ai propri “interessi privati”. Ecco allora che il ruolo di uno scrittore potrebbe essere mettere in scena questa situazione, raccontando le difficoltà cui va incontro, soprattutto in Italia, chi non mette se stesso al centro dell’Universo. In tal senso, la narrativa ci offre sempre l’occasione di guardare dentro le esistenze degli altri, aiutandoci a percepire che i punti di vista cambiano e che “i nostri comodi” non sono un valore assoluto.

  8. 3. Se il governo assume a tecnica politica l’organizzazione culturale, la partecipazione di uno scrittore, il suo impegno, non si riduce a un contributo più o meno significativo alla creazione del consenso?

    Il rischio è questo. Un antidoto potrebbe, e forse dovrebbe, essere diffidare sempre del potere, sia esso governato dai tuoi avversari oppure dal tuo schieramento. Non fare mai sconti al potere e alle sue manifestazioni perverse, non accettare mai la logica mostruosa del “se lo fanno gli altri è un crimine, se lo fanno i miei è un bene”. Non stancarsi mai di criticare e di “fare le pulci” al potere. Nello stesso tempo, però, è legittimo e giusto che uno scrittore (così come qualsiasi altro cittadino) partecipi alla vita politica del proprio paese. Faccio un semplice esempio riassuntivo: se io fossi americano, avrei attaccato sistematicamente la presidenza Bush e poi avrei appoggiato con entusiasmo Barack Obama. Ma da quando the President sarà lui, cercherei di non praticargli nessuno sconto.

  9. 4. Vi sentite più vicini al pragmatismo pessimista di Sciascia o all’indignazione lirica e visionaria di Pasolini di fronte ai guai della società italiana?

    Troppe idee di fondo di Pasolini (ad esempio l’esaltazione di una presunta innocenza del popolo, il richiamo a valori arcaici, l’attacco alla legge sull’aborto, certi compiacimenti masochistici del senso di colpa) mi sono totalmente estranee. Così come, di Sciascia, mi fece arrabbiare l’intempestiva e ingiusta polemica contro “i professionisti dell’Antimafia”. Però, premesso questo, non ho ombra di dubbio: nel complesso amo Sciascia e torno spesso alle sue opere. Pochi giorni fa ho riletto con grande gusto “Le parrocchie di Regalpetra”. Mentre diffido molto del pasolinismo e soprattutto dell’uso che ne viene fatto in modo indiscriminato.

  10. Ciao Massimo, interessantissimo il quesito.Mi auguro che non si risolva ad un test contro il Governo attuale(meriterebbe sì una strigliatina!)
    1)Lo Scrittore(e non lo scrivente) esprime il suo mondo perché sente la necessità di raccontare la Vita(sua, degli altri, immaginata, reale- non importa).La Parola nasce dal rpporto con le cose, con gli uomini(come etimo e come significanza). Parola etica. Responsabile.E’ un lievito che si spande e poi, solo poi darà frutti-anche se immediatamente inascoltata.
    2)Equilibrio instabile.Dato che l’Utile privato, fine cui mira il Potere, che si consegue con la Forza spesso subdola,non può rispondere alle richieste della collettività.
    3)Che la techne politiché si vesta di valori che solo la Cultura anima (cultura come movimento incessante del pensiero), non possiamo che abbracciare tale Ipotesi e consentirne l’attuazione.
    4)Pensiero e azione non dovrebbero mai scindersi(idea e pragma).Personalmente mi sento indignata per come va il mondo e notevolmente indegna del patrimonio culturale che mi lievita dentro, offerto dai luoghi in cui mi trovo a vivere, dalle tradizioni che rimandano a nuclei fondanti e paradigmatici della vita.Il guaio é che al Potere interessa solo far funzionare la ferrovia(che non funziona per nulla),subordinandone la persona, l’uomo in toto, la dignità, i diritti(in primis il lavoro,come recita la costituzione).Mi fermo. Ho troppa nausea per snocciolare le manchevolezze, per esprimere il senso di precarietà che leggo negli occhi di tante Persone.(Senza presumere di colpevolizzare alcuno.Semmai la colpa é di chi non riesce a far sentire dignitosamente al sua Voce. Incapacità? Imbavagliato?). Lucia Arsì.

  11. @ massimo
    splendida e da condividere totalmente l’idea di Ferroni sulla verità.figlia prediletta, cercata e sempre abbandonata, per il recondito desiderio di ri-cercarla.Ri-velarne il mistero non potest.Dato che non può non essere mistero. lucia

  12. Lo scrittore è un uomo. Cioè alle volte penso è uomo più di tutti gli altri mestieri, è uomo che scrive la sua umanità, la sua interpretazione del vivere. Quando leggo dei doveri dello scrittore penso sempre ai doveri dell’individuo. Perchè c’è questa continuità, come in tutti gli altri mestieri ma anche un po’ di più.
    E dunque, abbiamo sempre il dictat dell’impegno politico? Un minimo – ma il masismo?
    1)Sarebbe bello che la polis fosse un dovere, ma essa è di fatto una passione. La polis è un virus che ti prende, e se hai del talento puoi scrivere delle cose politiche molto belle. Ma se hai del talento e ti prende invece il virus della vertigine psichica beh potresti essere ugualmente un grande scrittore. Prima dell’etica la scrittura ha il dovere dell’estetica, e personalmente un libro con delle ottime intenzioni morali potrebbe ugualmente rivelarmisi una pecionata.
    Dunque – No. Non ha senso.
    2) ne consegue che non ha senso deliberare un unico punto di equilibrio tra individuale e collettivo – perchè questo è troppo prescrittivo e terribilmente pericoloso: mi puzza di cultura di regime – quandi si fissano questi criteri si comincia apubblicare monnezza. E i regimi anche i regimi di sinistra hanno insegnato che tra gli umani esistono parecchie bestie frivole. Possono essere in grado di fare delle cose belle.
    3) Non è detto: ogni paese ha una cultura nazionale e la trasmissione della sua cultura nazionale (in senso lato: nel mio concetto di lettura nazionale c’è l’apertura al fuori) l’intellettuale può decidere di essere utile nella propagazione nel mantenimento della cultura nazionale. vuol dire patrocinare eventi culturali, vuol dire battersi per la qualità dell’istruzione, vuol dire battersi perchè la cultura dilaghi. In Italia, questo non lo fa nessuno: in italia abbiamo Bondi – l’uomo che tassa gli amplessi raccontati – e non dico altro.
    4) Sinceramente nessuno dei due. Mi sento lontana da entrambi, e li conosco poco entrambi.

  13. Io credo che la responsabilità di chi scrive sia – sempre e in ogni contesto politico – sfiorare la bellezza del mondo.
    E questo perchè tra il bello e il bene esiste un legame misterioso, inafferrabile e indistruttibile. Lo intuiva già Platone (“Il bello è lo splendore del vero”), e lo ribadisce Dostoevskji (la bellezza salverà il mondo).
    A questo proposito Marguerite Yourcenar ha scritto un racconto:” Come Wang-Foo fu salvato “, che si ispira a un’antica leggenda cinese.
    Il pittore Wang-fo e il suo discepolo Ling erravano lungo le vie del regno di Han. Il vecchio maestro era un artista eccezionale. Aveva insegnato a Ling a vedere la realtà autentica, la bellezza del mondo.
    Un giorno i due giunsero nella città imperiale dove vennero arrestati e condotti innanzi all’imperatore. Costui era giovane e bello ma in preda a una fredda collera.Aveva trascorso l’infanzia rinchiuso nel castello e aveva conosciuto la realtà esterna solo attraverso i quadri del maestro. Uscito dal palazzo all’età di sedici anni e visitato il mondo, ne era rimasto profondamente deluso:non era bello come quello ritratto da Wang-fo.
    Per la delusione, e per la scoperta di un mondo che senza l’aiuto dell’arte e della bellezza era caotico e insensato, l’imperatore decise di far cavare gli occhi al maestro e di tagliargli le mani. Nell’udire la condanna il discepolo Ling tentò di difendere il geniale pittore, ma venne decapitato all’istante dalle guardie.
    Prima che Wang-fo fosse mutilato, l’imperatore gli ordinò di terminare un suo quadro rimasto incompiuto e che si trovava all’interno del palazzo. Portarono il dipinto nella sala del trono: era un bel paesaggio che risaliva al periodo giovanile dell’artista.
    L’anziano maestro prese i pennelli e iniziò a ritoccare il lago che si trovava in primo piano.
    E subito il pavimento del salone iniziò a inumidirsi.
    Poi disegnò una barca, e in lontananza si iniziò a udire lo sciabordìo dei remi. Sulla barca c’era il discepolo Ling, vivo e con la testa ben piantata sul collo.
    La stanza del trono era ormai inondata.Le trecce dei cortigiani galleggiavano nell’acqua e il volto dell’imperatore ondeggiava come un fiore di loto.
    Ling giunse al bordo del dipinto. Lasciò andare i remi, salutò il maestro e lo aiutò a salire sull’imbarcazione.
    E i due si allontanarono “sul mare di giada azzurra che poco prima Wang-fo aveva inventato”.

  14. Mi permetto di rispondere solo alla prima domanda perchè sono convinto che le altre risposte siano poi una conseguenza della risposta formulata.

    Alla prima domanda applico il pessimismo antropologico della scuola storica del XIX secolo. Molto vicino, secondo me, al pragmatismo di Sciascia. Lo scrittore non può in alcun modo porre la propria arte come mezzo di propaganda politica. L’uomo è schiavo del tempo che vive, subisce la storia e qualunque tentativo si pone di modificarla non fa altro che peggiorare la situazione. Partendo da qui si può subito affermare che la Democrazia è fallace, è utopia;. un artifizio inapplicabile nella società odierna. Lo scrittore deve impegnarsi ad esprimere la propria arte, secondo un gusto tipicamente letterario, secondo il proprio impulso e istinto libero da qualunque intento ideologico. La possibilità di un pensiero progressista è morta da un pezzo. Finito l’illuminismo finisce anche il “potere” agire secondo un manifesto politico. Badate bene, il potere! Il dovere è sempre un qualcosa che viene dal proprio animo. E’ irrefrenabile, non è limitabile ad un determinato contesto dunque si espande libero da ogni costrizione. L’illusione rimane pur sempre una spinta necessaria che ci fa sentire un po’ tutti liberi. Distanti da una società molto pessimista e superficiale. Personalmente, nel definirmi un giornalista prima e uno scrittore dopo mi sento vicino a Pisolini. Solo così posso convincermi da essere libero e al di fuori di ogni schema. La realtà è un’altra storia.

  15. Ah… Che bello il libretto “Novelle orientali”! Una delle opere che maggiormente amo della Yourcenar.
    Ricambio la bellezza della novella da te riportata, Simona, con questo brano del mistico sufi Suhrawardi (Iran settentrionale, 1155 – 1191) intitolato “Storia del pavone”, tratto da “L’angelo purpureo” (Luni, 2000):
    ***
    Un re aveva un giardino che in tutto e per tutto rassomigliava all’Eden; non v’era stagione in cui mancassero basilico e nipitella, i fiori più rari, le acque più dolci. Luoghi incantevoli eran disseminati ovunque, uccelli rarissimi e melodiosi intrattenevano il visitatore, cui tutto doveva apparire ben al di là di ogni immaginazione. Un gruppo di pavoni – per grazia e bellezza, di certo, sogno di un dio – se l’eran prescelto a dimora.
    Un giorno, il re prese il pavone più bello e ordinò che lo si cucisse in una pelle; in modo che nulla più restasse del suo piumaggio; e, anche volendo, l’animale non potesse rimirarsi. Dispose, poi, che fosse calato su di lui un canestro, con un’unica fessura per il miglio. Passò del tempo. Re, giardino e compagni scomparvero dalla sua memoria, insieme alla bellezza che gli era stata vanto. Contemplava disperato la sua pelle immonda e, intorno, un’indegna oscura dimora. Ma, col tempo, maturò la convinzione che non esistesse contrada più vasta del fondo del canestro, e se qualcuno avesse preteso di cercare oltre gioia, o luogo di riposo o perfezione, costui sarebbe stato da ascrivere agli empi.
    Ogni volta che un soffio di brina gli portava molteplici odori, dalla rosa, al basilico, al cedro, provava uno strano piacere. E anche turbamento; acuto desiderio di volarsene via. Ma non sapeva donde gli venisse; non aveva, ad immagine di sè, se non la pelle che lo rivestiva. Nè conosceva altro mondo all’infuori del canestro, altro becchime che non fosse il miglio. Aveva dimenticato. Sebbene, udendo i pavoni e gli altri uccelli, fosse preso da acuta nostalgia, non sempre prestava attenzione ai molteplici canti dell’aria e allo zefiro che spirava da Oriente. (…)
    ***

  16. Grazie, Gaetano. Com’è vera questa bellezza che non si vede. Che va scoperta. Com’è nuda. Senza maschera. Travisamento.
    Un abbraccio,
    Simo

  17. In effetti, come ha accennato Lucia, sarebbe bene non fare riferimenti specifici all’attuale governo… altrimenti il dibattito rischierebbe di arenarsi in considerazioni che sono già state ripetute più volte.

  18. Bene.
    Per il momento mi limito a ringraziare coloro che sono intervenuti fino a questo momento: Pippo Sanfilippo, Nicola Castellini, Luciano Comida, Lucia Arsì, Jerry76, Zauberei e i già citati Simona e Gaetano.

  19. Continuate a dire la vostra (in risposta alle domande). Magari potrebbe essere interessante commentare le risposte degli altri.
    Alla fine immagino che sarà divertente leggere le risposte date dagli scrittori chiamati in causa da “Nuovi Argomenti”.

  20. Ciao, rispondo alle domande
    1) No, non ha segno parlare di impegno dello scrittore. Si sa che gli intellettuali non hanno nessun ascendente sulle masse. Gli scrittori a mala pena riescono a trovare la porta del bagno, figuriamoci che responsabilità possono avere in quanto scrittori. Possono arrivare a violare il codice della strada (eccesso di velocità, poniamo) e in quanto scrittori pagano la multa come tutti.

    2) alla seconda domanda rispondo che l’equilibrio fra interessi privati e responsabilità collettiva è impossibile da fissare in maniera definitiva, si tratta di un eterno e noioso tira e molla, per cui se uno ha i soldi tira diqua e se è povero tira dilà. Limportante è attaccarsi al capo giusto della corda e tirarla a tutta forza. se si rompe, meglio

    3) L’ipotesi in uestione non mi sembra all’ordine del giorno, quindi questa la passo. In linea di massima, se lo scrittore vuole far soldi deve essere sempre antigovernativo a prescindere

    4) Sciascia è stato molto più utile di Pasolini ma l’ho sempre evitato accuratamente perché i siciliani mi interessano solo se non si occupano di Sicilia: dal che deduco che la Sicilia è piuttosto marginale nella mia weltschaung (questa parola la butto là quando volgio impressionare l’uditorio, per cui non fateci caso).

  21. Ah, dimenticavo di pronunciarmi sul pezzo Giulio Ferroni. Mi ci vorrebbe la penna di un Cervantes per farne una parodia adeguata. Per dire che sono discorsi piuttosto triti, già uditi e sempre uguali. Ferroni ogni tanto ha qualche buono spunto, ma poi si perde per strada, sempre. Buona notte a tutti

  22. caro Maugeri, ho scoperto il suo blog grazie a Paolo Di Stefano del quale sono forumista leggendario (lo massacro da anni e credo che ormai non mi sopporti più; anche se in realtà non mi sopportava nemmeno all’inizio).
    Se le fa piacere ogni tanto vengo a salutare anche lei su questo bel blog che mi sembra molto ben frequentato.

  23. Caro Massimo sono interessanti i quesiti che poni e credo che chi scriva cerchi sempre di dare voce a chi o a cosa non ha voce.
    E’ vero esistono anche gli esercizi di stile, ma la letteratura, quella immortale, racconta sempre un pezzo di storia e di società…così diventa impegnata senza volerlo perché “denuda” l’uomo coi suoi vizi e le sue virtù…è un campo da arare prima di mietere, un tunnel che aspira la luce, domande che cercano risposte. In un mondo complesso come il nostro forse la letteratura può davvero aiutare a comprendere i punti di contatto tra i popoli…perché conoscersi è sempre meglio che temersi!!!

  24. Mah, dibattito ampio e vecchio, che ha a che fare con la comunicazione di massa più che con i valori dell’arte. Lo facciamo risalire al «J’accuse» di Zola?
    Sono d’accordo con Elena, l’impegno «arriva», non è tanto costitutivo quanto necessario, per non disancorare dal mondo l’opera.
    Però. Non si può ridurre all’impegno il valore artistico di un opera: Romeo e Giulietta non è un dramma sulle faide familiari, la Divina Commedia non è un trattato politico, Una vita immaginaria di David Malouf non è «letteratura dell’outback australiano» — per quanto questi elementi siano innegabilmente presenti nelle opere. La letteratura parla dell’uomo (e della donna, ci mancerebbe!) interiore, delle passioni, delle grandi domande, del destino, della speranza, della possibilità. E certamente tutto ciò che ostacola l’uomo nella ricerca di sé stesso (che sia un governo, la criminalità organizzata, il Padre come simbolo) può diventare cruciale per chi scrive e “costringerlo” all’impegno, a un certo colore dell’impegno.
    Bisogna avere qualità davvero eccezionali per sedersi all’ombra del potere, bisogna essere impegnati nella ricerca di qualcosa così grande, così bella e così vera da poter semplicemente ignorare, appunto l’ombra del potere. Penso a Virgilio, la cui Eneide oscura l’«impegnata» Pharsalia di Lucano, o a Ovidio, che alla fine inciampa proprio nel potere in cui si crogiolava, mentre compiva il suo tentativo di immortalare l’aspetto effimero della bellezza.
    Si può anche restare nell’establishment e fare letteratura. Ma c’è bisogno di una magnanimità e una consapevolezza che non sono né facili né accessorie. Chi legge «Vanity Fair», saprà a chi sto pensando 😉
    A Sciascia e Pasolini, preferisco la posizione di Rigoni Stern, che ha sempre parlato con le sue azioni.

  25. 1 – Per me si può e si deve parlare di “impegno” per il cittadino in generale, a maggior ragione per uno scrittore

  26. 2 – Equilibrio difficile, ma necessario. L’interesse privato deve finire là dove comincia la responsabilità collettiva.
    Utopia?

  27. Grazie mille per i nuovi commenti.
    Qualcuno di voi mi ha scritto per mail che le domande sono… “difficili”.
    Provate ugualmente a rispondere.
    Prometto che non metterò voti 🙂

  28. 1) Lo scrittore ha sempre una responsabilità, seppur minima, su ciò che scrive.
    2) Glisso. Sarò stanco ma non riesco a concentrarmi su questa domanda.
    3) Non sono contro la partecipazione di uno scrittore all’organizzazione culturale di un governo (se ho ben capito la domanda), purché lo stesso scrittore si limiti a fare cultura e non politica, né tantomeno propaganda. Peggio ancora è quando lo scrittore è un politico, come spesso accade oggi, in tal caso il rischio di divenire uno strumento di consenso è più che scontato.
    4) Una via di mezzo?

  29. Un saluto e un ringraziamento a Elena e a Paolo S.

    Paolo, hai ragione quando dici si tratta di “dibattito ampio e vecchio”… nel senso che sono domande che – in fondo – ci poniamo da tempo immemore.
    Però ogni tanto fa bene riproporle. Anche perché il mondo – nel bene o nel male – cambia.
    Oppure, in fondo, è sempre lo stesso vecchio mondo?
    Tu che dici?

  30. @paolo s
    Ogni parola orale o scritta esige un impegno, la totale partecipazione dell’essere che grazie alla parola si rivela.Noi esser avveduti, razionali e personizzanti soliamo etichettare l’impegno:civile, giuridico, economico, letterario, potico etc.;noi soliamo letteralizzare tutto.La differenza sta nel linguaggio, che dovrebbe essere specifico, e nello sguardo profondo.Oggi non più evergeti o mecenati,che fomentavano la cultura per loro tornaconto( l’immortalità attraverso gli scritti) e qualcuno(callimaco, teocrito,virgilio, orazio, lucrezio ovidio e altri) seppe approfittare( o fu riconosciuto idoneo) dell’aiuto del potente per cantare la melodia dolce-amara della vita.Oggi il potere della visibilità senza i contenuti invisibili impegna sia politici che scrittori(qualche eccezione?).Lucia Arsì

  31. Simona, prendo spunto dal tuo ben riportato racconto, ringraziandoti di averlo presentato.
    Spero di averlo inteso bene, quando affermo che esso ci presenta l’eterno conflitto tra la realtà e la fantasia.
    Al loro confronto, siamo richiamati continuamente allo stato limitato della nostra esistenza.
    Nella fantasia cerchiamo di uscire dalla prigionia della realtà vincente e dannosa, la quale rispecchia il livello raggiunto dalle nostre forze e volontà nell’intento di superarlo. Potrebbe anche risuonare come un monito: attento uomo, il momento della tua liberazione non è ancora arrivato.
    Eppure, senza la fantasia retrocederemmo di botto, così che sembra giusto considerarle in uguale misura per non perdere la possibilità di un accedere futuro in una dimensione superiore e migliore all’attuale.
    Una sottovalutazione della realtà, come una sopravvalutazione della fantasia, comporterebbe il rischio di bloccarci psichicamente, cadendo in una depressione costante e continua fino a rischiare la follia.
    Lo scrittore ha, a mio parere, il compito primo di indicare come poter sostenere il confronto con la realtà, il che significa come poter ammaestrare meglio questa vita.
    In possesso di una grande sensibilità che gli permette di perlustrare l’animo umano in difficoltà nel suo manifestarsi nella vita reale, egli è in grado, più di ogni altro essere umano, di indicare i compiti da assumere e i doveri da sostenere, di modo che la vita assumi un senso utile e in esso diventi vivibile.
    Ogni scritto, uguale quale contenuto e forma abbia, dovrebbe alla fine riportare un senso educativo, istruttivo e morale della sua storia, perché solo così ha senso il trasmettere e il raccontare fatti e analisi.
    Anche il potere avrebbe bisogno di un costante accesso della fantasia, onde rigenerarlo, anche se la realtà la tramutasse di nuovo in illusione e delusione a causa della ancora dominante immaturità dei suoi pretendenti.
    La fantasia incorpora la forza della sopravvivenza, mentre la realtà il suo stato reale al confronto con le capacità personali e forze dimensionali.
    Oggi, assistiamo a un processo inflazionistico di possesso del presente sul futuro, che più non sarà se non riusciamo a limitare le nostre pretese di poter diventare onnipotenti ed evoluti senza lo spirito d’umiltà e gratitudine verso le forze superiori alle nostre.
    Da qui l’impegno morale di ognuno che voglia raccontare o anche solo comunicare, altrimenti sarebbe meglio il silenzio nella riflessione personale continua e proficua.
    Grazie, Simona, e cari saluti.
    Lorenzo

  32. Grazie, Massimo, per il benvenuto, e in un prossimo post trasmetterò i tuoi saluti a Di Stefano (il Capo, come lo chiamo io). Sono molto curioso di conoscere le risposte degli scrittori coinvolti, per cui staserà seguirò il blog (anzi, adesso ordino a una scrittrice mia amica di intervenire, si tratta di Paola Calvetti)

    rex (leggendario e pluripremiato forumista del “leggere e scrivere”)

  33. Gaetano, un altro bel racconto, al quale desidero inviarti un mio commento.
    Per fortuna che il pavone più bello riuscì ad adattarsi alla sua nuova immagine, perché di immagine di sé si tratta. Essa varia costantemente, non soltanto al confronto con un mutato aspetto esteriore, ma a volte ancor più con quello interiore, del quale non riusciamo a prendere nota quando siamo attirati fin troppo dalle sembianze esteriori.
    Un pavone intelligente non avrebbe mutato le sue percezioni, quando esse fossero state sempre rivolte alla sua sostanza interiore.
    In più, avrebbe cercato di liberarsi dalla sottomissione del re e cercato di vivere la sua vita al meglio delle sue capacità ma in assoluta libertà, anche a costo di finirla in breve tempo.
    Come vedi, ogni immaginazione ha un prezzo, ed ognuno la facoltà della scelta, la più veritiera o la più comoda.
    Cari saluti e grazie del bel racconto.
    Lorenzo

  34. rispondo brevemente e in maniera comulativa. Mi sembra che occorra fare una distinzione tra una situazione politica determinata da un normale alternarsi democratico e uno stato totalitario.
    Nel primo caso credo che uno scrittore debba comportarsi come tutti, appoggiare un partito o uno schieramento che più lo rappresenta e agire di conseguenza. Votare, o se scrive articoli sulla stampa argomentare le sue idee, se scrive romanzi o versi provare a porre in risalto quelli che sono i suoi convincimenti.
    In uno stato totalitario la situazione è diversa. La mancanza di democrazia e di libertà impone a uno spirito libero una presa di posizione più forte. Opposizione tenace, resistenza armata, esilio, sono soluzioni che si offrono alla scelta dell’essere contro. Ognuno credo debba decidere in base ai suoi convincimenti e alla situazione contingente. Avrebbe avuto poco senso che Croce prendesse le armi contro il fascismo…
    Ma in ultimo, io sono convinto che non sia il rispetto delle regole democratiche a determinare la grandezza di uno scrittore. Penso a Platone, penso a Racine, penso a Proust, penso a Pound. Li considereremmo tutti reazionari adesso, ma chi potrebbe affermare che non siano stati grandi?
    Con gli anni invece ci vengono a noia i drammi di Brecht, e i poeti risorgimentali sono stucchevoli anche se ogni volta che passo accanto alla Trinità dei Pellegrini a Roma penso a Goffredo Mameli morto a ventidue anni per l’ideale repubblicano. E’ questo che lo fa grande, non i versi del nostro Inno nazionale.

  35. (era Weltanschauung?: quando voglio fare bella figura scrivo questa parola e la sbaglio regolarmente)

    però ho fatto un ritorno perché a proposito di Pasolini, secondo me ci dimentichiamo di sottolineare che in fondo non era che un divulgatore dei principi della “scuola di Francoforte” (che io considero tuttora interessante e per nulla sorpassata). Pasolini lo salvo solo come romanziere. Di Stefano non è d’accordo, per lui il “corsaro” è irrinunciabile

    rex

  36. caro Maugeri, non solo ho salutato Di Stefano come mi hai chiesto ma ti ho fregato pure le quattro domande e le ho portate al “leggere e scrivere” (citando la provenienza)

    Di Stefano l’ho postato in “copertina” e ha ordinato ai forumisti di rispondere a loro volta. Per cui la discussione ormai è a tutto campo

    rex

  37. Caro Lorenzo,
    grazie. Credo che il racconto della Yourcenar parli anche del (labile) rapporto tra realtà e fantasia. Ma – soprattutto – della vera bellezza. Quella che sana le ferite. E che è potentemente richiamata dalla fantasia.
    Non è una bellezza formale. Né esteticamente perfetta.
    Kalòs – bello – per i greci, ha forse (lo dice Socrate nel Cratilo) una segreta assonanza col verbo kalein. Invocare . Chiamare. Bello è ciò che chiama a valicare un limite entro il quale l’esistenza sembra priva di qualcosa di essenziale. Incompleta.
    Trovare ciò che manca, rimpiangerlo come un astro lontano ma necessario, è la ricerca di ogni arte.
    La bellezza è ciò che ci manca. Ciò che speriamo, anche. Che da’ un senso alla solitudine in cui l’umanità è immersa quando non sogna.
    Lo spazio che ci separa da essa è forse quello di un braccio teso a toccare la notte da una finestra spalancata. Non la afferriamo mai. Ma nel ritrarre il braccio, lo scopriamo velato da sottile polvere di stelle.

  38. Il post è molto interessante. Ma debbo dire che le risposte più affascinanti ai quesiti di Massimo finora le hanno fornite Marguerite Yourcenar e il mistico sufi attraverso le loro storie riportate da Simona e Gatano. Dove si evince che dissertare direttamente sugli argomenti può essere interessante, talvolta piacevole, ma parlare attraverso la letteratura è ancora di più stimolante, spesso entusiasmante.
    I discorsi sul ruolo dell’intellettuale, anche se fatti da uno Sciascia o da un Pasolini confesso che perlopiù mi annoiano e comunque mi lasciano piuttosto freddino. Non è così con i loro grandissimi romanzi.

  39. Sono con Filippo Tuena, su tutta la linea eccetto queste due piccole divergenze (piccole? a me sembrano tali, a vedere il discorso complessivo di Filippo):

    1) I ”convincimenti” di uno scrittore quando fa, appunto, lo ”scrittore di libri”, qui intendendo romanzi o poesie o affini, a mio avviso farebbe meglio a tener lontani i propri convincimenti d’ordine strettamente partitico e magari esprimere la propria umanita’ in senso piu’ ampio ed elevato.

    2) Mameli a mio avviso fu grande anche per l’Inno Nazionale, oltre che per la triste – e gloriosa – fine fatta. Patriota a tutto tondo, Goffredo. Onore e gloria a lui.

    Saluti Cari
    Sergio Sozi

  40. @ Simona
    riporto il pezzo finale della tua esaudiente e poetica risposta e ti ringrazio.
    La bellezza è ciò che ci manca. Ciò che speriamo, anche. Che da’ un senso alla solitudine in cui l’umanità è immersa quando non sogna.
    Lo spazio che ci separa da essa è forse quello di un braccio teso a toccare la notte da una finestra spalancata. Non la afferriamo mai. Ma nel ritrarre il braccio, lo scopriamo velato da sottile polvere di stelle.

    Postato Lunedì, 1 Dicembre 2008 alle 9:33 pm da Simona Lo Iacono

    ……e cerchiamo di perlustrare questa polvere di stelle alla ricerca della luce, qui ed altrove. Immaginiamo di non trovarla se non nel nostro spirito che è parte di essa e ci invoglia a sognare, perché è solo nel sogno che riusciamo a crearci anche se solo per un attimo una realtà bella e serena da riuscire a dimenticare quella esterna seguente altri ordini e necessità.
    Ti leggo e seguo la rima della tua prosa che mi dona serenità e mi rende la giornata bella e gioiosa.
    Grazie e cari saluti.
    Lorenzo

  41. Io invece dissento da Sergio su Mameli riguardo proprio all’inno nazionale. Un testo tronfio e pieno di retorica, che però ben si adatta (questo lo ammetto) ad una musica insulsa e ridicola.
    Opinioni, per carità, ma che mi paiono piuttosto diffuse se già alcuni anni fa si discuteva riguardo al sostituirlo.

  42. Rex, hai fatto benissimo.
    Mi piace questa sorta di “integrazione a vasi comunicanti” tra Letteratitudine e Leggere e scrivere del nostro caro Paolo Di Stefano.

    Salutami tanto anche Paola Calvetti.
    So che conosce Letteratitudine. Anzi, se non ricordo male credo sia anche intervenuta un paio di volte.

  43. Carlo,
    qualche volta dovrei dedicare un post all’inno di Mameli.
    Sarebbe molto interessante. Mameli, sì… o Mameli, no? E le alternative?
    Ma ne parleremo un’altra volta.

  44. De gustibus, Carlo. A me il nostro Inno piace, sia come testo che come musica, e sia pure perche’ lo sento mio ed iniscalfibile, in questo mare italiano di cambiamenti continui e non sempre azzeccati.

  45. Adesso inserirò di seguito le risposte fornite a ‘Nuovi Argomenti’ dagli scrittori coinvolti nel “questionario”.
    Farò così: inserirò solo le risposte alla prima domanda. Le risposte alla seconda domanda le leggerete domani. Quelle alla terza, dopodomani… ecc.
    Vi chiedo di indicare quella (ammesso che ci sia) con cui vi trovate in maggiore sintonia.

    Adesso, per non fare confusione, riscriverò la prima domanda. Seguiranno le risposte con i nomi degli scrittori riportati in stampatello (giusto per precisare ribadisco che leggerete le risposte inviate a ‘Nuovi Argomenti’ e non interventi “in diretta” rilasciati nel contesto di questa discussione).

  46. Caro Massimo, grazie. Sì, ho scritto una mail a Paola Calvetti che mi ha detto che già conosceva il blog e che interverrà al più presto.

    Il nostrocaro Di Stefano è la mia “vittima” preferita ormai da anni, se non mi ha ancora cacciato dal forum vuol dire che ormai s’è abituato.
    Grazie ancora a te e alla prossima.

    rex

  47. Lo scrittore dev’essere profondamente impegnato nei confronti della letteratura (il che è anche un impegno morale e civile, oltre che estetico).

  48. Non credo: in quanto scrittori, la loro responsabilità è essenzialmente verso la propria arte. Ma c’è una responsabilità del cittadino cui neanche lo scrittore può sottrarsi, e una responsabilità ancora più grande di chi, a qualunque titolo, è in grado di influire sull’opinione pubblica.

  49. La responsabilità che ogni scrittore deve avere è nei confronti della propria forma, che è poi una modalità espressiva che si è dato per guardare con una lente deformata, non usurata, la realtà. Credo anche però che tutti i grandi romanzi, tutte le grandi narrazioni non abbiano solo una responsabilità
    di tipo espressivo, stilistico, ma anche comunicativo – anche se poi quello che più attrae della leggenda dell’individuo è proprio quella parte di destino che è dell’imperscrutabile, la parte misteriosa e inafferrabile dell’esistenza. Ma poi in ogni buon romanzo c’è anche fortemente la società, l’epoca che fa da fondale, da contesto, e questo corrisponde all’impegno morale dello scrittore nell’assumerne un punto di vista proprio, una capacità di visione, di rappresentazione. Inoltre gli scrittori concorrono, insieme agli storici, agli studiosi della società, ai filosofi, anche a creare parte della memoria del proprio tempo. A questo si deve aggiungere che c’è un impegno legato ai temi, che è un altro aspetto, e anche un grado di partecipazione emotiva, corporale nel farsi della scrittura. In tutte queste cose messe insieme credo si possa riassumere il concetto di responsabilità. Ma è una responsabilità legata a un fare specifico. Anche se poi io amo gli scrittori che oltre a scrivere dei buoni libri si impegnano e si indignano: Pinter, Rushdie, Vonnegut, Vidal, gente che letteralmente “prende la parola” perché sa di avere un potere e lo esercita. Ma è un impegno diverso dallo scrivere.

  50. L’unica forma di resistenza si dà a mio parere nel testo. È lì che si annida la resistenza umanistica, che è il nucleo in cui si è contratto, in tempi di dilagante condizionamento mentale di massa e di crollo della trasmissione dei saperi, il comparto umanistico. Ciò è il discrimine canonico, nel senso che soltanto in base all’irradiazione del testo (stilistico-retorica, strutturale, ritmica, immaginaria e di eccedenza rispetto a ogni linguaggio) noi disponiamo di un canone, noi sappiamo se quel testo è opera d’arte o meno. In questo impegno, che è politico in quanto ha come referente la comunità, i morti e i non ancora viventi, si gioca la totalità dell’impegno intellettuale, cioè il lavoro culturale e il lavoro interiore – il che sembra abbandonato dagli scriventi in gran parte oggidì.

  51. Lo scrittore ha una grande, enorme responsabilità, nei confronti della propria opera. Scrivere un buon, un ottimo, forse anche addirittura un grande romanzo: questo deve essere il suo demone, la sua ossessione, la pietra di paragone con la quale egli per primo deve giudicare se stesso. Scrivere un buon libro è il più grande contributo che uno scrittore possa dare al paese in cui vive. Un editoriale indignato sugli ultimi disastri di governo – in forma breve su quotidiano o nella forma innaturalmente annacquata di un romanzo – ha invece il vantaggio di essere molto più facile, più economico, e assolutamente trascurabile.

  52. Ritengo che la poesia tenda alla negazione del linguaggio di consumo. La sua natura antagonista non si traduce, però, in un contrasto diretto con il Potere, visto che spesso, anzi, accade il contrario. L’antagonismo proprio della poesia riguarda piuttosto la sua reazione nei confronti dell’impiego usuale, prosaico del linguaggio. Essa si oppone all’uso strumentale della parola, e si configura come una specie di anticorpo, sottraendo i materiali verbali alla mercificazione quotidiana.
    È questo a renderla di per sé salutare, etica, “impegnativa”.
    Leggere poesia significa cioè assumere un impegno nei confronti del linguaggio.

  53. La parola impegno è diventata vecchia. Le parole forti invecchiano prima di quelle deboli. Nel dopoguerra e negli anni 70 è stata una parola con alone e oggi, chiunque la adoperi, non può staccare dal termine quell’impronta aureolata che la rende datata e fuori tempo. Ma anche senza chiamarla impegno, rimane la questione della responsabilità. Lo scrittore, come cittadino, ha delle responsabilità. Se poi la sua voce acquista un certo prestigio attraverso gli scritti, tacere diventa più significativo. Nello stesso tempo non si può non fare i conti con la spettacolarizzazione di ogni presa di posizione pubblica, soprattutto quando c’è di mezzo la televisione.
    Impossibile sottrarsi a quel tanto di “recita” che comportano ogni gesto e ogni parola di fronte “messi in scena”. C’è sempre un pubblico in agguato e questo rende difficile la sincerità.
    Comunque lo scrittore non può sottrarsi al suo stato di testimone: guarda e racconta. Dentro ogni racconto, anche se non espresso e consapevole, si nasconde un giudizio, che può essere contagioso.

  54. Lo scrittore è un cittadino come un altro – forse, se ha avuto fortuna, ha solo la possibilità di parlare a più persone che se fosse, che so, un idraulico o un ingegnere. In generale, i libri non cambiano il mondo. Hanno cambiato, però, qualche singolo individuo, come hanno cambiato me. In questo senso, uno scrittore è responsabile di quello che scrive, come di quello che dice, insegna, o fa. Ma i libri non hanno una sola voce, e ciascuno ne fa l’uso che crede. La loro ambiguità e reversibilità è anche la loro unica ricchezza, ciò che non permette loro di morire, ma di rinascere a ogni lettura. Trovo ridicolo e anche un po’ disgustoso accusare uno scrittore di essere immorale, di non dare un’immagine positiva del mondo o degli uomini, e così via. I libri sono liberi, molto più dei loro autori.

  55. Io ho capito che la domanda dà per scontata la responsabilità dello scrittore come uomo, pertanto dà per scontato il fare bene il proprio lavoro, l’essere vigile sulla societas e sulla polis, essere attivo verso di esse. Ecco, dunque, ti chiedo: sei sicuro di aver posto bene la domanda?

  56. Ha senso immaginare una via d’uscita (stilistica). Il pericolo della rappresentazione (impegnata) del male è la retorica dell’indignazione. Questa forma stilistica tende a riprodurre (narrativamente) quello che si vuole contestare. Un buon esempio di impegno civile è il monumento delle fosse ardeatine a Roma. È civile non perché commemora i morti dell’orrenda strage, ma perché rifiuta stilisticamente i canoni del fascismo: niente marmo bianco, scaloni, pire, braciere.
    Niente magniloquenza, romanità, classicismo ecc. Uno scrittore impegnato non ti dice che un altro mondo è possibile, te lo dimostra (stilisticamente e dunque silenziosamente).

  57. In quanto scrittore conta soltanto quello che scrivo nei miei libri (ammesso che conti qualcosa!), dove certamente mi sento impegnato verso i miei lettori, pochi o molti che siano.
    Per me il lettore non è mai parte di un pubblico, è sempre e soltanto un altro individuo che mi ospita. Mi sento impegnato in questo: voglio fargli provare una sensazione nuova, voglio coinvolgerlo, offrirgli qualcosa di bello, di profondo, ma senza annoiarlo. So bene che la parola “impegno” si riferisce ad altro, quindi non sarò ipocrita e dirò che quel tipo di impegno non mi interessa. Perché per vie ormai oscuramente ideologiche impegnarsi significava “educare” o “convincere”, attività diverse tra loro e soprattutto diverse dal lavoro di un narratore. Che secondo me non vuole convincere nessuno, né tanto meno educare. Poi ognuno interpreterà il suo ruolo come gli pare. Se uno scrittore ha dentro di sé tante cose intelligenti da dire (oppure: se è in condizioni di grande emergenza, di guerra e simili, ed è costretto a pensarle) le dirà nelle forme opportune. Non mi piace esprimere “opinioni” su fatti di cronaca o intervenire in dibattiti politici di cui so quello che sanno tutti. Il mio silenzio “politico” non nasce da nessuna esclusione: molte pagine di quotidiani (che ringrazio) mi hanno offerto disponibilità e spazi, quindi il silenzio (come spesso accade) significa semplicemente che non ho niente di originale da dire.

  58. Impegno e responsabilità sono due concetti diversi: impegno è connotato storicamente, è l’engagement, vale a dire il vincolo di uno scrittore a una certa idea o anche ideologia politica; responsabilità è un concetto morale e allo stesso tempo di deontologia professionale. Questo significa che lo scrittore è responsabile di ciò che scrive, deve scrivere responsabilmente e, almeno per come la vedo io, ha delle responsabilità nei confronti della letteratura. Oggi si ha spesso la sensazione (io ce l’ho) di avere a che fare con veri libri (che possono essere belli o brutti, riusciti o non riusciti) e con falsi libri, falsi libri nel senso di moneta falsa. Non è solo questione di mercato ma, appunto, di responsabilità di chi scrive.

  59. Sono sempre stato disinteressato a qualsiasi tipo di letteratura che si considera sufficiente a se stessa, ma allo stesso tempo non ho mai creduto che l’impegno in sé sia un valore.
    Molte volte accade che il fine si sovrapponga all’opera e che uno scrittore si ammanti d’impegno per nascondere la sua mediocrità. Nella famosa polemica tra Manganelli e Primo Levi sull’immoralità dell’oscurità della parola, mi sono sempre espresso a favore di Levi. L’impegno di uno scrittore, la responsabilità che si assume dev’essere innanzitutto nei confronti della sua parola, dentro, nella capacità di fare luce utilizzando lo strumento letterario per far conoscere i meccanismi che sottintendono il potere. E questo deve nascere da un’urgenza, perché altrimenti le parole non ne riceveranno la forma e la forza della letteratura. Quindi è giusto che chi non avverte questa necessità continui a percorrere altre strade. Io continuo ad amare Manganelli anche se la strada tracciata da Primo Levi è la mia.

  60. Senz’altro. Non può essere altrimenti. La responsabilità dello scrittore non dipende da una contingente situazione storica ma dall’essenza stessa del gesto letterario. Come sosteneva Bataille, al pari di tutte le forme più intense di comunicazione, anche la letteratura si fonda su certe complicità nella conoscenza del male. Ma riguardo alla questione e all’esperienza del male, la letteratura non ha diritti perché i diritti sono solo dell’azione. Non ha diritti e dunque nemmeno doveri. Ha, perciò, una responsabilità piena e assoluta. Più passa il tempo e più mi convinco che la questione del male sia la questione della letteratura, soprattutto in un Occidente secolarizzato. Lo scrittore di letteratura, proprio nella misura in cui si muove al di fuori di ogni discorso specialistico, puntando alla generalità dell’umanità tutta, si specializza nella maledizione che la affligge. Scrivendo per l’Uomo e in nome dell’Uomo (ogni vero scrittore crede di farlo, anche se non lo dichiarerebbe mai a un cocktail party, se non quando molto ubriaco), calandosi nella zona di bruciante contatto con il male senza poter rivendicare alcun diritto né assolvere ad alcun dovere, lo scrittore compie un gesto di assunzione di responsabilità incondizionata nei confronti di tutto ciò che è umano, nei confronti del male che l’uomo infligge all’uomo così come nei confronti di quello che ci è procurato dalla vacanza di Dio, dal posto vuoto lasciato dalla sua assenza nel disordine dell’universo. Proprio perché la letteratura è, in fondo, una esplorazione della miseria umana e della miseria in quanto verità della condizione umana, deve sentirsi gravata da una colpa metafisica, deve, cioè, alla fine, dichiararsi colpevole. La scrittura letteraria, anche quella apparentemente più lieve, sarà perciò sempre una sorta di teodicea informa narrativa, ma una teodicea senza Dio. Un “experimentum crucis in corpore vili”.

  61. Non riesco a pensare alla letteratura se non come a una forma di impegno. L’arte per l’arte la stanno già facendo i media e l’industria; l’estetizzazione globale della realtà è uno degli strumenti di potere del consumismo occidentale. La letteratura ben pettinata, quella che porta scritto in fronte ‘letteratura’, quella che ci intrattiene e ci fa sentire fighi, è semplicemente prostituzione e non vale la pena di parlarne. Ma anche molta letteratura apparentemente ‘impegnata’ (i malati di Aids, l’Africa, i piccoli manovali della camorra, la devastazione afghana, la strage di Marzabotto) è la nuova maschera della vecchia letteratura esotistica d’evasione (esotismo nel tempo e nello spazio). L’autocoscienza dell’artificio, il sapere di essere “da museo”, ha perso ogni spinta propulsiva e ogni valore ermeneutico in una realtà completamente plastificata; a chi dirlo, che siamo degli automi, ad altri automi ? È ovvio che tutto può essere integrato, omologato e digerito, ma almeno prepariamogli bocconi grossi, che gli intasino momentaneamente l’esofago. Forse non ci si pensa abbastanza a quanto la letteratura (quella inaspettata, quella che ti aggredisce alle spalle) sia propriamente “insopportabile” per il sistema dei consumi e dell’informazione spettacolare: tant’è vero che cercano di annegarla e di renderla inoffensiva, coi due carri armati del reality televisivo e del giornalismo.
    Vogliono imporre una trascrizione estetica della realtà fatta di pochi spessori, appiattita e semplificata (in cui un abito, un romanzo, un piatto di slow-food e una crisi isterica si pongano sullo stesso piano); sperano che la moneta cattiva scacci quella buona, si augurano che bellezza non significhi più altro che glamour, che la voce da ascoltare sia quella dello scambio, o della cronaca (i fatti di sangue, gli eventi “clamorosi”, come gridano i telegiornali ogni cinque minuti); la letteratura vera ascolta gli dèi.
    Se l’organizzazione mondiale del consenso si nutre di fantasmi, diamogli almeno fantasmi interi, surdeterminati e gonfi di contraddizioni. Lo scrittore in questa fase storica ha l’ “obbligo di capire”, nell’unico modo in cui può farlo: accumulando livelli eterogenei, in stato di indecidibilità morale.
    Costruendo macchine conoscitive “di ciò che non si può conoscere dividendo”. Ma siamo in stato di emergenza, gli dèi sono impastati di presente. Se dovessi definire l’impegno oggi, direi che è soprattutto una rinuncia: rinuncia all’infinita libertà e leggerezza della creazione per mettersi al servizio di una mutazione epocale, perché noi oggi siamo solo degli esempi.

  62. Sono in parte d’accordo con Piersanti, trovo intelligente quello che dice Pascale, interessante Magrelli; ma concordo pienamente solo con Lagioia, non sposterei una virgola, sottoscrivo tutto e non ho nulla da aggiungere perché il suo discorso mi pare esauriente.

    Poi sono in disaccordo con Scurati, a lui riserverò un post a parte.

    rex

  63. Scurati, per quello che sono riuscito a capire del suo discorso enofilosolirico, paragona lo Scrittore a un Gesucristo che, volente o nolente, in nome dell’Umanità deve, o comunque è chiamato a farsi carico del male del mondo e a riordinare l’Universo abbandanato da Dio nelle mani degli Scrittori. Insomma, lo scrittore è il sostituto pro tempore di Dio.

    Non mi sembra corretto nei confronti del padrone di casa infilare una dopo l’altra 10-12 battute che faccio una fatica boia a trattenere ma che comunque devo trattenere. Per cui vi auguro anch’io la buonanotte e ripeto con Lagioia che lo scrittore è responsabile nei confronti della propria opera, quando gliela fa. Non appena comincia a pensare alle proprie responsabilità nei confronti della letteratura, come suggerisce la Campo, o nei confronti dell’Uomo-Universo come nel caso di Scurati, è destinato a fare cilecca nell’unica funzione che gli viene richiesta e che è alla sua portata, ossia quella di scrivere buoni libri.

    rex ex-ex

  64. Devo ringraziare Simona per avermi fatto conoscere un brano delle Novelle Orientali della Yourcenar. La fantasia e l’arte sconfiggerà il potere ci dice. Sarebbe bello se fosse così. Comincio la mattina con questo microscopico racconto della Yourcenar e non ci potrebbe essere un inizio migliore. E’ esagerato dire che la Yourcenar mi ha aperto il cuore e la mente? E’ incredibile constatare come in poche parole ci possa essere un universo di pensieri.

  65. @ Mauro: sì sì, certo che sono qustioni che vanno poste: Zola im-poese una questione in termini che ancora oggi sono “inevitabili”. Non voglio dire che non ha senso farsi le domande, ma che ci muoviamo all’interno di uno spazio discorsivo già aperto.
    @ Lucia: grazie, molto belle e profonde le cose che scrivi. Ma sei sicura che tutto quello che ciascuno dice lo “impegni”? C’è un problema di sacralità e di sincerità della parola che non sempre chi parla e chi ascolta si pongono… per gli antichi forse era meno difficile avvicinarsi con la poesia, con la “parola che fa”, a una parola che impegna — ma poi penso ai sofisti (e quindi al nesso politica-città e all’uomo misura di tutto, concetti capitali per chi colora l’impegno in un certo modo), e vedo che certe posizioni sono più vecchie di quanto mi piace immaginare.
    Tra questi interventi: Walter Siti, Walter Siti, Walter Siti. Si vede che vive quello che qualcun altro semplicemente ripete…

  66. Mi sono molto piaciute le seguenti affermazioni, che condivido:
    – Dentro ogni racconto, anche se non espresso e consapevole, si nasconde un giudizio, che può essere contagioso (Maraini);
    – I libri sono liberi, molto più dei loro autori (Mazzucco);
    ma anche io, come rex, trovo perfetta la risposta di Lagioia: estremamente chiara, sintetica, definitiva.
    Io stesso ieri avevo scritto: “le risposte più affascinanti ai quesiti di Massimo finora le hanno fornite Marguerite Yourcenar e il mistico sufi attraverso le loro storie riportate da Simona e Gatano. ….. I discorsi sul ruolo dell’intellettuale (oggi aggiungerei qualsiasi discorso diretto riguardante la politica, la religione, il sociale) anche se fatti da uno Sciascia o da un Pasolini confesso che perlopiù mi annoiano e comunque mi lasciano piuttosto freddino. Non è così con i loro grandissimi romanzi.”
    In qualche modo anche il commento di Pino Granata, qui sopra, sembra confermarlo di fatto. Aprire il cuore e la mente di chi legge. Questo è il solo dovere di chi vuol fare letteratura.

  67. Scrivere è essenzialmente ricerca di parole, ma cercando le parole si finisce col trovare i pensieri. E i pensieri sono sempre un impegno con se stessi e con i lettori. Forse, col mondo.
    Per questo motivo condivido l’opinione di Nicola La Gioia secondo il quale compito dello scrittore è essenzialmente quello di scrivere un grande romanzo. E generalmente un buon libro, come suggerisce Dacia Maraini ha dentro di sé, ” anche se non espresso e consapevole”(…) un giudizio, che può essere contagioso.

  68. HA SENSO OGGI PARLARE DI IMPEGNO PER UNO SCRITTORE? CIOÈ ESISTE UNA RESPONSABILITÀ SPECIFICA DEGLI SCRITTORI IN QUANTO SCRITTORI? ci e si chiede Maugeri. Oddio, ci ho dovuto pensare a lungo, per uscire dalla tana di chi non si consdera “all’altezza”. Non è falsa modestia (come si diceva un tempo… come l’alone al quale accenna Maraini…le parole hanno una scadenza…?), ma sincero imbarazzo. Non riesco ad esprimere concetti, meglio, molto meglio per me, parlare di esperienza. Credo che tante sensazioni, infiniti approfondimenti, epici racconti di un tempo passato (anche recente, ma non vissuto direttamente) mi siano arrivati dai… romanzi. Romanzi, non saggi. Chi meglio della Woolf ha scavato nell’animo delle donne e ci ha descritto magistralmente l’epoca in cui i suoi tormenti erano tangibili, carne oltre che spirito? Chi meglio di uno scrittore – e non saggista teorico – di romanzi ha potuto e saputo raccontare la Storia?Pensavo al parallelo con il cinema, certo più comodo (poltrona, popcorn e due orette filate) di un romanzo e all’orrenda televisione, diciamo fiction (romanzo raccontato per immagini) e proprio in parallelo pensavo che il nostro dovere, e dunque il nostro impegno, debba continuare ad essere quello di raccontare. Il cronista testimonia, lo scrittore racconta. Saviano accenna a Manganelli: Levi è altro, ma l’animo tormentato di Manganelli ha saputo raccontare, ad esempio, l’Italia, il Paese meglio di altri con una raffinatissima eppure popolare scrittura e con un’ironia magistrale. Non ci ha chiesto classifiche, Maugeri, ma pensieri. E, nella mia infinita timidezza, penso che a noi scrittori viene chiesto di regalare emozioni, sensazioni, e perchè no “distrazioni” dal reale o adesioni al reale, mediate dalla parola “libera”. Mazzucco, autrice che amo per la grandezza e l’opulenza felice della sua scrittura, ci ha regalato Vita, nomen-omen col suo omonimo romanzo: quanto di più apprenderebbero i nostri figli-studenti se leggessero (guidati) romanzi anziché banali riassuntini sui loro libri scolastici? Ecco, credo che l’impegno di uno scrittore, ovunque impagini le sue storie, sia quello dell’onestà, dello sguardo, dell’antenna perennemente accesa sulla realtà per poi raccontarcela filtrata dalla sensibilità. Sembra banale, ma non è facile. Impegno è questo, a mio avviso, senza tante teorie. Impegno è avere dentro di sè una storia e raccontarla. Poi, come scrive Melania Mazzucco, i libri possono determinare una vita. E se ogni scrittore sentisse questo richiamo, per averlo magari vissuto come lettore, il suo impegno potrebbe essere quello di arrivare agli altri, i lettori sconosciuti che entrano in una libreria e mettono mano e cuore a ciò che lo scrittore ha donato (privilegiato, hai ragione Melania) in modo onesto. Intellettualmente ed emotivamente onesto. Forse anche generoso, chissà.
    Paola Calvetti

  69. Per la prima domanda annoto che è un errore del nostro tempo postulare che uno scrittore possa essere impegnato o meno. La ricezione di un testo come impegnato dipende dal lettore. Vi è sempre una connotatività di impegno in un testo scritto. Questa si può manifestere positivamente con il manifestare apertamente una certa idea politica o una certa visione della società e dei rapporti tra gli uomini o negativamente come assenza di una propria opinione e in tal caso l’effetto può essere anche maggiore se il lettore riesce a pensare con la propria mente e secondo quei valori che considera necessari per una buona convivenza sociale. Non dimentichiamo che il governo fascista negli anni Trenta richiedeva agli intellettuali un “impegno”.

    La seconda domanda è formulata da una visione “capitalistica” (mi si scusi il termine) del contesto sociale. L’interesse privato deve essere sempre (e non può essere altrimenti) in relazione con quello collettivo, altrimenti la collettività provvede quasi naturalmente ad espellerlo. La questione per uno scrittore poi è direttamente collegata alle complesse vie che ne determina il successo (o la ricezione) o meno.

    Per la terza domanda credo che uno scrittore abbia l’obbligo morale di partecipare alle iniziative volte a determinare il profilo culturale di una nazione. Certo non per confermarsi alle direttive dei politici, se queste non corrispondono alle proprie convinzioni ma per opporsi e far sentire (anche se con proprio rischio, come hanno fatto tanti autori in Germania con il nazismo e in Russia con, il comunismo) la propria voce e il proprio dissenso, per cercare di cambiare, di convincere gli altri o semmai per raggiungere una forma di dialogo che sia uno scambio fruttifero di idee e non una semplice affermazione delle proprie idee senza sentire quelle degli altri. Gli assenti hanno sempre torto ed è facile giustificarsi con il dire “io non c”ero”. Si pensi alla parabola dei talenti.

    Per la quarta domanda si avrebbe bisognoo di tempo e spazio per determianre innanzi tutto la portata ideologica del messaggio di Sciascia e di Pasolini. “Pessimismo” e “lirismo” sono etichette che non andrebbero applicate a due dei maggiori scrittori che l’Italia ha avuto nella seconda metà del Novecento. I miei anni di gioventù ne sono stati “meravigliati” senza approdare mai ad una contrapposizione ideologica dei due autori. Andrebbero oggi riletti (dai professori nelle scuole, ma anche da ognuno di noi separatamente) con quella prespicacia e suella profondità che la “storia” ci ha dato.

  70. Trovo molto interessante la questione dell’impegno, perché penso che sia uno dei temi fondamentali per capire molte cose della nostra realtà italiana attuale, “da dove veniamo”, per dirla con parole grosse.

    1. Ha senso oggi parlare di impegno per uno scrittore? Cioè esiste una responsabilità specifica degli scrittori in quanto scrittori?

    Credo che abbia senso, ma credo che la responsabilità degli scrittori non sia molto diversa da quella di altre figure che operano nei media, tv, radio, cinema, teatro, e per qualche verso anche gli insegnanti. Tutti quanti, a loro modo e con linguaggi e con scopi diversi, descrivono la realtà del mondo e dell’uomo, i sentimenti, le virtù, i vizi, il bene e il male. La loro descrizione, il loro racconto, contribuisce a creare consapevolezza, a prescindere dal tema. Da qui viene la loro responsabilità.
    Che poi, storicamente, la parola in Italia sia connotata esclusivamente da un’appartenenza all’ideologia rivoluzionaria del comunismo, questo è un incidente a cui il passare del tempo rimedierà.

  71. 2. Qual è oggi l’equilibrio possibile fra interessi privati e responsabilità collettiva?

    Difficile, anzi impossibile fissarlo. La democrazia è per sua natura in continuo divenire. Gli interessi privati costituiscono una parte molto forte, propulsiva, potenzialmente positiva, della vita dei singoli, della società, della politica. Se inseriti in una cornice di controlli veri ed efficaci, di forti deterrenti, di giuste punizioni, sono l’anima del miglioramento.
    Io non credo che sia positivo per la società additarli come CONTRARI al bene comune. A certe condizioni possono invece favorirlo.

  72. Scrivere significa cercare parole giuste e cercando le parole si finisce col trovare i pensieri. L’impegno, se c’è un impegno o un talento sta nel saper tradurre i pensieri in parole, lasciando nel lettore l’impressione che siano proprio sue le parole ed i pensieri che legge.
    Ha ragione nicola La Gioia l’impegno di uno scrittore è quello di scrivere un grande romanzo e generalmente un grande romanzo contiene quello che Dacia Maraini definisce come un “giudizio contagioso”.
    Perché le parole come sosteneva Pindaro “hanno vita più lunga che i fatti”.

  73. 3. Se il governo assume a tecnica politica l’organizzazione culturale, la partecipazione di uno scrittore, il suo impegno, non si riduce a un contributo più o meno significativo alla creazione del consenso?
    In parte è così, ma non può essere altrimenti. Il politico ha il proprio interesse, e lo scrittore impegnato non può che “sporcarsi” almeno un po’.
    In Italia fino a oggi lo si è visto molto bene con l’egemonia culturale prospettata da Gramsci e realizzata poi gradualmente nel corso del tempo. Anche dopo la fine dell’era dell’intellettuale organico, la cultura di per sé indirizza il consenso a sinistra.

  74. 4. Vi sentite più vicini al pragmatismo pessimista di Sciascia o all’indignazione lirica e visionaria di Pasolini di fronte ai guai della società italiana?
    Io di fronte ai mali della società italiana direi di dimenticarci Sciascia e Pasolini e passare a un pragmatismo ottimista.

  75. Abbiamo responsabilità in quanto persone, abbiamo responsabilità in quanto scrittori. Ma il significato di questa responsabilità va analizzato e deciso da ciascuno. Troppo spesso l’impegno, la comunicazione politica servono allo scrittore per farsi strada e vendere, per crearsi un nome. Troppo spesso le parole “pesanti” sono usate a vanvera nella speranza di ottenere un centimetro in più di visibilità. E – orrore – si assiste al balletto triste di scrittori mediocri che agguantano argomenti a manciate dai media e provano il desiderio irresistibile di dire la loro. Però. Esistono anche scrittori che sanno come fare, il cui DNA è vicino alla comunicazione sociale e politica, e allora tutto il mio rispetto e la mia voglia di ascoltare. Bravi, hanno qualcosa in più che non è dato a tutti, ma non c’entra necessariamente con il talento letterario.
    Sì, la parole scritta incide su chi legge, lo sappiamo perché siamo (mi auguro) lettori appasisonati che permettono alla letteratura di farsi strada e cambiare anche solo un piccolo dettaglio dentro di noi. La potenza della scrittura è enorme, in questo possiamo immaginarla come responsabilità. Ma non è affatto detto che l’intellettuale, lo scrittore siano in grado di incidere positivamente e in modo intelligente sulla politica (sulla società).

  76. Caro Dott. Maugeri,
    oggi lo scrittore celebre viene spesso trasformato in un divo dell’industria culturale (cioè dell’editoria moderna, indirizzata a fini commerciali); in campo letterario prendono piede fenomeni di mercificazione e certi libri vengono lanciati quasi come si farebbe per un dentifricio. Questi non sono che aspetti vistosi delle nuove condizioni create dalla società di massa, che riesce a produrre consenso attraverso massicci ed insistiti messaggi pubblicitari. Vi sono recenti grandi successi di cassetta in campo letterario che hanno fortuna proprio grazie a questi metodi. Scrittori alla ricerca di visibilità sono, a mio avviso, responsabili di questo percorso che porta a squalificare il libro come strumento di idee e di cultura e a trasformarlo in oggetto di consumo.
    Se il Governo assume a tecnica politica l’organizzazione culturale ecc.?
    Per sapere cosa forse accadrebbe é sufficiente ricordare le risposte rilasciate da alcuni politici all’uscita dal Parlamento.
    D. “Quando è stata scoperta l’America?”
    R. “Nel 1700”
    D. “Coosa?”
    R. “Sa, io non sono bravo in…geografia”
    D. “Ricorda De Gasperi?”
    R. “Sì, era un Cardinale”
    D. ” E Luciano Lama?”
    R. “Un monaco tibetano”.

    Vi sono molti altri florilegi ma preferisco fermarmi qui.

    Con grande stima
    Maria Luisa Papini Pedroni

  77. Sapevo di giocare un brutto tiro a Paola Calvetti -che non ama molto teorizzare-, tirandola in ballo su simili questioni, ma l’ho fatto di proposito perché sapevo che avremmo ascoltato una voce “diversa”. Prima di proseguire, vorrei riportatre qui un mio post al “leggere e scrivere”, con relativa risposta del Capo (Di Stefano)

    Marcuse e la realtà di un’opera d’arte

    Il mondo di un’opera d’arte è “irreale” nel senso comune della parola. E’ una realtà fittizia. Ma è “irreale” non perché sia meno, ma perché è più reale oltre che qualitativamente “altro” rispetto alla realtà stabilita. Come mondo fittizio, come illusione esso contiene più verità di quanta ne contenga la realtà quotidiana. Perché quest’ultima è mistificata nelle sue istituzioni e nelle sue relazioni, che rendono la necessità una scelta e l’alienazione un’autorealizzazione. Solo nel “mondo illusorio” le cose appaiono come ciò che sono e ciò che possono essere. In virtù di questa verità […] il mondo è invertito: è la realtà data, il mondo ordinario che ora appare come una realtà bugiarda, falsa, ingannevole. (Marcuse, “L’uomo a una dimensione”)

    Mi sembra un ragionamento interessante e particolarmente applicabile alla letteratura.

    rex ex-ex

    Di Stefano Giovedì, 08 Novembre 2007
    Bellissima citazione e molto utile: la tendenza d’oggi, in letteratura, è quella di riprodurre esattamente la realtà, ma la realtà non si può riprodurre a parole se non falsandola
    ——————

    Ci sono cose che solo il romanzo può dire, per dirla con Kundera. Anzi, visto che la rivista è “Nuovi argomenti”, mi pare meglio il caso di citare il Moravia de “L’attenzione”:

    ..il romanzo era diventato per me molto più di un genere letterario, addirittura una maniera di intendere la vita. … il romanzo era il solo luogo in cui l’autenticità non soltanto era possibile ma anche, per così dire, inevitabile…
    ——————————-

    Cara Paola, mi piace quando dici: penso che a noi scrittori viene chiesto di regalare emozioni, sensazioni, e perchè no “distrazioni” dal reale o adesioni al reale, mediate dalla parola “libera”.
    E ancora: -Ecco, credo che l’impegno di uno scrittore, ovunque impagini le sue storie, sia quello dell’onestà, dello sguardo, dell’antenna perennemente accesa sulla realtà per poi raccontarcela filtrata dalla sensibilità. Sembra banale, ma non è facile. Impegno è questo, a mio avviso, senza tante teorie. Impegno è avere dentro di sè una storia e raccontarla.

    D’accordo con te su tutto, tranne una cosa: teorizzare serve, secondo me, a fare il punto della situazione: fra autore e critico ci dev’essere una tensione dialettica continua, che non approderà mai a nulla che abbia una parvenza di concretezza, pure è questo che definisce la “letteratura”. La “letteratura” è una creatura mitologica inventata da quelli che teorizzano e scrivono saggi: forse, però, senza questo alato mostro saremmo peggiori.
    E graaaaazie per avermi accontentato, come sai sono il tuo fan più scatenato in assoluto.

    E grazie a Maugeri per l’ospitalità, di cui ho largamente approfittato. (saluto “special” agli amici del “leggere e scrivere”, Granata e Papini Pedroni)

    rex

  78. 1)Sì, se si intende per impegno l’attenzione volta al sociale. Anche
    una fiaba esprime una visione del mondo, una presa di coscienza.
    2)Non c’ è dicotomia: la letteratura è rispecchiamento reciproco scrittore-
    ricevente della scrittura.
    3)Sarebbe una iattura se ciò accadesse. I cattivi esempi del passato insegnano…
    4)Senza dubbio Pasolini, che univa spirito profetico (quasi luterano) ad onestà intellettuale; una persona che oggi avrebbe avuto cose importanti da dire.
    Grazie dell’ attenzione.
    LUCIANA PRISCIANDARO

  79. D’accordo con Walter Siti…la letteratura vera ascolta gli dei. Ed é vero.Quando il dio visita, quando l’entusiasmòs stringe, quando il kratos divino sorregge, lì scorgiamo l’impegno che é impastato di viscere cuore ed intelletto, che ha la leggerezza della nostalgia e la bellezza della chiamata,il furore di Ares e la ferita provocata da Eros mentre Dioniso trascina donne e uomini morigerati là ove il sì si confonde con il no,ove scorgi-e nel viaggio ti accompagna Apollo-che la vittima sacrificale paga perché l’errore é umano.Le grandi emozioni, quelle dei grandi poeti, si sono spente. Gli invisibili(dei)bugiardi ,ambigui e testardi si sono stancati di noi e a noi non resta che la luce della ribalta, il potere della visibilità senza i contenuti invisibili.Ed é l’impegno dei politici e degli scrittori, di oggi. Lucia Arsì

  80. Buona serata a tutti e grazie per i nuovi commenti.
    (Un grazie “personalizzato” per Rex, Pino Granata, Paolo S, Carlo S., Elena Varriale, Prof. Ulla Schrøder, Vincenzo Garzillo, Maria Giovanna Luini, Maria Luisa Papini, Luciana Prisciandaro, Carmine, Lucia Arsì).

  81. Non so se ve ne siete accorti, ma ho aggiornato il post.
    (Guardate in alto).
    Vi spiego anche qui…
    Tempo fa mi ha scritto Sofia Assirelli, studentessa in Scienze della Comunicazione pubblica, politica e sociale dell’Università di Bologna:

    Gentilissimo Massimo Maugeri,
    mi chiamo Sofia Assirelli, sono una studentessa della Laurea specialistica in Scienze della Comunicazione pubblica, politica e sociale dell’università di Bologna. Per motivi di studio sto seguendo il progetto della collana editoriale Verdenero – Noir di ecomafia (www.verdenero.it) e delle attuali tendenze letterarie italiane nei confronti della società e dei suoi problemi.
    Sarebbe molto interessante conoscere l’opinione dei lettori del suo blog su questa collana e in generale sul rapporto tra problemi sociali e romanzi o racconti di finzione. Pensa che sia possibile proporre una discussione di questo tipo?
    La ringrazio per l’attenzione resto in attesa di un suo gentile riscontro.
    Sofia Assirelli


    A seguito di quella mail ho dato piena disponibilità a Sofia, invitandola a scrivere un “pezzo” che poi avrei utilizzato per avviare una discussione. Siccome questo post mi pare piuttosto “in linea” con la proposta della Assirelli, ho pensato di inserire il suo contributo aggiornando il post.

  82. Sofia pone tre domande. Ve le riporto qui, invitandovi a rispondere (se ne avete la possibilità):
    – Per chi ha letto uno o più titoli della collana (VerdeNero), cosa ne pensate del progetto editoriale in generale e dei romanzi nello specifico?
    – In che modo e con quali limiti i romanzi possono parlare dei problemi sociali?
    – I romanzi possono essere strumenti di comunicazione sociale? Avete qualche esempio da portare?

  83. Ho invitato a partecipare al dibattito il dr. Alberto Ibba, direttore commerciale di “Edizioni Ambiente”, la casa editrice che pubblica la collana VerdeNero.
    Credo che interverrà domani.

  84. Semplificando un po’, credo che se gli interessi privati sono positivi e moralmente giusti per il singolo apportino beneficio anche alla collettività (e viceversa).

  85. Rispondere a questa domanda significherebbe risolvere la crisi in cui si dibatte la politica: la difficoltà di trovare un simile equilibrio, e di creare un consenso sufficiente intorno a esso, è forse il male più grave dell’Italia di oggi.

  86. Credo debbano essere sempre cose separate, altrimenti quando gli interessi entrano in conflitto sappiamo bene cosa può succedere. Purtroppo l’interesse privato ha vinto sulla responsabilità collettiva. E poi nell’ultimo ventennio sono passate culture individualistiche tipiche del capitalismo più selvaggio e aggressivo, a discapito dell’idea di comunità, di legame sociale tra le persone. Questo è evidente a livello di individui e impressiona parecchio. Poi ci sono le istituzioni, pubbliche e private, le aziende, le regioni, i comuni. Si parla tanto di codice etico, responsabilità d’impresa, trasparenza, ma in realtà il paese reale è miserevolmente corrotto fin nelle viscere, i bubboni putrescenti sono sotto gli occhi di tutti. Il rapporto clientelare è la norma nelle assunzioni del pubblico impiego, per non parlare del sistema degli appalti, delle commesse.
    Eppure in Italia, nel cuore del cattolicesimo mondiale, nessuno tira mai in ballo la “questione morale”. Si dà per scontato che tutto questo sia fisiologicamente parte del mondo che viviamo, nessuno si indigna più.

  87. Non c’è e non c’è mai stato un equilibrio possibile. Esiste soltanto la responsabilità di un individuo, capace di disindividuarsi, a favore della responsabilità della collettività. L’equilibrio è annullamento del narcisismo e distacco dall’“io”, superamento della presenza visibile e ubiquitaria (che sarebbe poi la traccia laica ed epocale dell’antico movimento con cui l’“io” pretendeva di eternizzarsi nei testi). O c’è captazione del collettivo in cui l’individuale è inscritto, o non c’è equilibrio. L’equilibrio è il viaggio verso gli archetipi e gli universali e oltre, tutto mondano, nel qui e ora – ciò configurando la radice morale e politica dell’operazione d’arte.

  88. La nostra epoca è caratterizzata dall’incompetenza, come il Duecento dal gotico, il Seicento dal barocco e il primo Ottocento dal Biedermeier. Ormai non si tratta più uno stile di lavoro o di vita, ma dello Stile tout court. L’incapacità di impiegati, infermieri, manager, corrisponde alla curvatura
    delle ogive, alla rotazione dei capitelli, alla riscoperta dell’intimità post-napoleonica. Per questo, in un mondo come il nostro, far bene la propria professione è già di per sé un atto di eroismo, il massimo esempio possibile di responsabilità collettiva.
    Trascrivo qui di seguito la mail di un amico: “Ormai il concetto di competizione ha sostituito quello di competenza.
    Competenza era la capacità intellettuale che permetteva al borghese di svolgere la sua funzione progettuale, amministrativa, organizzativa, e giustificava il suo diritto alla proprietà.
    Da quando le tecnologie dell’intelligenza hanno reso possibile la standardizzazione di quei processi di progettazione, coordinamento e amministrazione che un tempo erano fusi con la funzione proprietaria, le funzioni intellettuali si sono trasformate in funzioni del lavoro dipendente. La borghesia competente è stata sostituita da un ceto che fa della competizione l’unica competenza”.
    È davvero così? Ieri, in un ristorante della capitale, un cameriere è venuto alla nostra tavola chiedendo cosa desideravamo mangiare. Eravamo sei in tutto, ma giunti alla terza ordinazione si è fermato stupito: “Allora”, ha aggiunto sconsolato, “devo andare a prendere carta e penna”. La sua esclamazione, lievemente interrogativa e insieme venata di rimprovero, non mi ha fatto prendere sonno.
    Cosa intendeva dire? Era un alieno? Era contrariato dal fatto che tutti e sei, per una inattesa bizzarria, volessimo mangiare? Oppure dava per scontato che avremmo voluto tutti lo stesso piatto? Forse tra sé e sé, aveva sperato che, pur di non turbarlo, avremmo evitato di ordinato alcunché… Ma può, un simile individuo, avere un “sé”? Magari, invece, è vero proprio il contrario: questa tipologia di persone non possiede che un “sé”, ha cioè abolito la possibilità stessa che esista “l’altro da sé”.
    (Tacerò sulla figura di un cameriere degli anni passati, il quale – proprio in un bar della stessa strada! – prendeva anche sessanta ordinazioni diverse a memoria: finì in televisione, nell’apoteosi di un celebre quiz.)
    Ma nell’insonnia continuavo a domandarmi: che cosa fa di solito un addetto alla ristorazione quando un gruppo di clienti gli espone le proprie scelte? Dirò di più: che cosa deve fare, se non è un mnemonista, oltre al semplice fatto di segnarle su un foglio? Cosa altro, appunto, se non “essere un foglio”, ovvero “farsi foglio”?
    (Altro bar. Torino. Agosto. Mezzogiorno. Ricordo la mia vertiginosa richiesta di un te in lattina. La ragazza al bancone me ne dà una calda, tirandola fuori da una cassetta posata a terra. Glielo faccio notare. Interviene il padrone che ne prende un’altra dal frigorifero, commentando gentile: “Deve capirla, è il suo primo giorno di lavoro”. Ho sperato fosse l’ultimo, poi invece ho compreso il pericolo di un suo trasferimento.
    Ho brindato, col te, a un suo incardinamento definitivo in quel bar, affinché la sua presenza letale non potesse nuocere ulteriormente alla collettività.)
    La verità è che si è rotto qualcosa, forse sul piano generazionale, nei riguardi del concetto stesso di lavoro. Siamo di fronte a un vero e proprio divorzio fra il lavoratore e il consorzio umano cui dovrebbe appartenere.
    (Un mese fa, a teatro, chiedo a una maschera se i posti dispari siano a destra. Mi dice di sì. Erano a sinistra. Errare è umano, ma cosa dovrebbe sapere una maschera “oltre” alla distribuzione delle poltrone? Non dovrebbe, appunto, sapere solo e soltanto quello? O è troppo difficile anche afferrare la distinzione fra destra e sinistra? Disturbi del sistema binario.
    Ora, se ciò è quanto accade svolgendo le semplici mansioni di una maschera, si comprende facilmente cosa capita, in proporzione, a livello imprenditoriale, politico, amministrativo…
    Sono tutti così: “La chiamerò più tardi”. Da anni attendo invano di essere richiamato.)
    “Lavorare”, significa sempre e comunque “collaborare”, ossia, letteralmente, “lavorare con” qualcuno, entrando cioè nel quadro di una comunità di intenti, desideri, linguaggi.
    Non c’è lavoro, senza questa con-divisione di intenti. Privato di questa funzione, che assicura il legame fra l’attività e il contesto in cui essa si svolge, anche il servigio di uno schiavo risulterebbe inutile. Loro, invece, tolgono il prefisso “con”.
    Ora, se questi cripto-ribelli operano in questo modo per mettere in atto una qualsiasi forma di protesta, occorrerebbe avvertirli del misero risultato conseguito: il Sistema li assorbe perfettamente, mentre il loro sabotaggio finisce per colpire le altre vittime, i sudditi, le scorie, rendendogli la vita impossibile.
    Ecco: con gente del genere, con comportamenti del genere, ci chiediamo se sia opportuno aprire centrali nucleari in Italia.
    Ovviamente sono un accanito fautore dell’energia eolica.

  89. Non credo che ci sia una separazione netta fra diritti individuali e responsabilità collettiva. Le due cose sono intrecciate. Un diritto individuale è per esempio il diritto al lavoro. Ma come faccio a pretendere il mio diritto individuale senza tenere conto delle ragioni collettive che permettono al mio diritto di farsi realtà?

  90. So di dare una risposta utopistica, ma ho la forte convinzione che ormai solo una rivoluzione di sistema possa trasformare il rapporto sfilacciato, cinico, opportunistico e sostanzialmente amorale che il cittadino italiano intrattiene con le istituzioni, e dunque con la collettività. Il cittadino italiano
    finge totale estraneità alle istituzioni, delegando ad altri l’onere di rappresentarlo e scaricando su questi, come il parafulmine di Franklin, la responsabilità di ogni azione, scelta, nefandezza, godendo però – in modo non sempre visibile – del privilegio, della contiguità e del vantaggio che quelle stesse vilipese istituzioni gli assicurano. Il circolo perverso garantisce l’impunità del cittadino, la sua completa deresponsabilizzazione e l’assenza totale del senso di appartenenza a una comunità. La mia idea è che la responsabilità della cosa pubblica non vada delegata ma condivisa. Che sia cioè compito di tutti, per un breve periodo della nostra vita, assumercene il peso. Chiamiamolo Servizio. (Non servizio militare, né servizio civile – semplicemente servizio: servire gli altri.) Che ciascuno di noi, a turno, sia rappresentante del popolo di cui è infima parte – consigliere e assessore, deputato e ministro o qualunque altro ruolo pubblico. Che doni due anni, tre, alla collettività. Direte: e le competenze? Ci si addestra. Si impara.
    Oggi nei ministeri e nelle amministrazioni si avvicendano persone completamente prive, all’inizio e talvolta anche dopo, delle competenze necessarie. Che ciascuno sia responsabile delle proprie azioni e del proprio operato, e poi torni al proprio mestiere e alla propria vita. La politica è una risorsa e una peculiarità della specie umana: della sua natura. Ridurla a una professione, come fare il meccanico o il veterinario, equivale all’idea che solo un prete possa parlare con Dio o solo un letterato possa essere uno scrittore.

  91. Lo stesso di sempre. La capacità di raccontare la fitta, ampia, complicata, rete di relazioni che si instaura tra noi e il mondo. La narrativa realistica in senso stretto tende ad assomigliare a un dettato, cioè alla descrizione delle circostante sfavorevoli (e spesso è una derivazione brutale della famosa frase: a me m’ha rovinato la guerra…), cioè, il mondo cattivo e brutale e responsabile delle tue cattive e brutali azioni. La narrativa d’avanguardia (o antinarrativa) che fa della paranoia il proprio punto di forza ti suggerisce che qualcun altro è responsabile delle tue azioni. Realismo e avanguardia si somigliano.

  92. Purtroppo le due aree semantiche mi appaiono troppo ampie, confuse e addirittura sovrapponibili. In una società perfetta sarebbero la stessa cosa, ed è questo quindi il nostro punto prospettico, il chiodo a cui appendere il nostro filo. Il mio interesse privato è la base di quello collettivo, e riguarda la mia stessa sopravvivenza. Altra cosa è l’ “interesse privato in atti d’ufficio”, che cito per segnalare un pregiudizio atavico (certo giustificato nel caso specifico) contro l’interesse privato.
    A me invece viene voglia di proteggere al massimo tutto quello che è privato e che riguarda i diritti dell’individuo.

  93. Uno scrittore dovrebbe essere fedele alla sua singolarità, perché solo così può dire qualcosa di utile anche alla singolarità degli altri: la singolarità non è un interesse privato, è una traccia di verità umana. Oggi la singolarità è minacciata, in molti diversi modi, e questa minaccia grava sulle collettività, che sono pur sempre fatte di singoli individui. In altri termini, non credo che uno scrittore possa assumersi direttamente una responsabilità collettiva, come un politico o un pubblico amministratore, ma se è responsabile nel suo lavoro lo è anche nei confronti della collettività. Anche perché le collettività cambiano (sentimenti, desideri, bisogni, valori) e i libri restano, o almeno dovrebbero.

  94. L’equilibrio tra interessi privati e responsabilità pubblica è cambiato nell’ultimo periodo. Penso agli anni Sessanta quando istanze di interesse privato diventarono istanze di interesse pubblico e comune come avvenne per il femminismo o la cosiddetta rivoluzione sessuale. Oggi ci troviamo davanti a un capovolgimento: interessi collettivi percepiti e trattati come interessi privati. La difficoltà di accedere ad alcuni diritti civili (penso alle coppie di fatto) e la precarietà oggi sono problemi che ricadono internamente nella sfera privata delle persone proprio perché è assente un’istanza collettiva ampia che se ne faccia carico.
    Ovviamente gli scrittori sono in ritardo su questo tema.

  95. La risposta alla prima domanda riguardava lo scrittore in quanto scrittore, cioè in quanto inscritto e risolto nella propria opera. Un modo per rispondere a questa seconda domanda starebbe nel considerare lo scrittore in quanto voce pubblica, che esercita la propria autorevolezza, basata sul prestigio che gode al livello sociale il magistero formale di cui è ritenuto portatore, direttamente nel dibattito pubblico. Questo suo ruolo è storicamente mutevole. Il secolo che ci siamo lasciati alle spalle prevedeva che lo scrittore lo svolgesse in quanto antagonista del potere, a tutto campo e sotto qualsiasi cielo. Non era, certo, una lotta tra inermi e potenti, e nemmeno tra vittime e carnefici, ma un rapporto di forze che si stabiliva tra due forme di potere: il potere simbolico e quello politico, economico o coercitivo. Lo scrittore, in quanto depositario del potere simbolico, era per sua natura sempre all’opposizione delle altre forme di potere e per questo tendeva a sposare le lotte sociali degli oppressi, degli emarginati, degli ultimi. Nella nostra epoca la figura dello scrittore impegnato intesa in questo senso è in forte cedimento. Lo è, soprattutto, perché è spossessato dell’egemonia sul potere simbolico, che è passato ad altri e, soprattutto ad altri linguaggi. Per questo motivo, come sostiene Gore Vidal, tendono a scomparire gli scrittori ‘famosi’, cioè quegli autori la cui opera viene sistematicamente discussa dall’agorà, nello spazio politico, ma è la stessa sfera pubblica in quanto sfera politica che tende a dileguarsi quando, ad esempio, l’arena pubblica è delimitata dallo spazio televisivo, profondamente a-politico. Gli scrittori famosi cedono così il passo agli scrittori celebri. Mai come oggi, forse, lo scrittore ha la possibilità di accedere a una repentina celebrità, spesso addirittura alla sua prima opera – anzi soprattutto alla sua prima opera poiché viviamo in una società che tributa un culto idolatrico ai simulacri della giovinezza.
    Paradossalmente, però, questo suo facile accesso alla celebrità, lo scrittore lo ha pagato al prezzo di una quasi totale deintellettualizzazione. Il che significa che guadagna la ribalta della scena sociale solo a condizione di recitare fuori ruolo. Gli viene data la parola solo a patto che non dica nulla.

  96. Come dicevo, dobbiamo considerarci delle cavie: inocularci i mali del presente, seguirne il decorso nel nostro stesso sangue. Svuotarsi dei compiacimenti e delle consolazioni personali, fare del nostro ‘io’ un recipiente vuoto. Diventare dei buoni “condensatori di emotività”: perfettamente ipocriti con noi stessi, essere dentro e fuori dalle nostre emozioni nello stesso istante. Metterci in uno stato di bisogno, rinunciando a quella cosa rassicurante che è la “costruzione di sé” (o delle nostre ascendenze familiari, storiche: di fronte al presente siamo soli e nudi). Dobbiamo rassegnarci al fatto che ogni mutazione profonda, ogni sfumatura religiosa (che si riferisca alla perdita d’anima dell’Occidente o all’intransigenza di altre fedi) non solo ci riguarda ma “costituisce un frammento del nostro io” di scrittori. Se l’obiettivo è svuotarsi e spersonalizzarsi, l’ultima cosa da fare è essere buoni cittadini.

  97. Bene.
    Vi auguro buona lettura e buonanotte.
    E vi invito a dire la vostra…
    Tra le risposte alla seconda domanda… qual è quella che vi convince di più (o con cui vi sentite più “in linea”)?

  98. Concordo appieno con quanto detto da Lucia Arsi’, essendo questa un’evidenza che avverto profondamente:
    ”Le grandi emozioni, quelle dei grandi poeti, si sono spente. Gli invisibili(dei)bugiardi ,ambigui e testardi si sono stancati di noi e a noi non resta che la luce della ribalta, il potere della visibilità senza i contenuti invisibili.Ed é l’impegno dei politici e degli scrittori, di oggi.”
    Grazie, Lucia
    Sergio Sozi

  99. P.S.
    Pur concordando come ho detto qui sopra, pero’, credo tuttavia che il nostro dovere/piacere di scrittori sia proprio quello di ostinarsi a ritrovare gli dei fuggiti.

    Isole greche (1999)
    ”Spente lampade
    dei errabondi
    marmo pentelico
    squarcia le onde”

  100. 1. l’impegno di uno scrittore è essere Scrittore. la responsabilità è grande: deve riuscire ad ascoltare e far riascoltare il pezzo di spazio-tempo che ha inciso sul suo vinile o cd, se scrive un libro o un blog. deve capire se la registrazione che ascolta è vera o no, soprattutto in italia, lo Scrittore deve dire, semplicemente, ma non sempre, cosa sta succedendo obiettivamente. alcuni già lo fanno.
    2. lo Scrittore è indivi-duale: è sé e la collettività che osserva, e la determina tanto quanto ne è determinato. lo Scrittore è complesso.
    in alcuni casi lo scrittore deve vendere una sicurezza di vita che non esiste, la vita. in altri casi mi piace pensare che uno Scrittore ‘si sacrifichi’ e assuma una sorta di ‘santità laica’ come diceva un grande maestro del teatro, grotowski.
    3. se il governo assumesse un’etica umanista, il con-tributo dello Scrittore potrebbe, ma non è detto, essere più o meno significativo, scrivere contro la dittatura elettrica di ber lu o il soffocante papalismo. attualmente lo Scrittore, come fa CB, anche se non è morto, CB dico, dovrebbe essere contro una letteratura che sia rappresentazione di Stato\stato. è rischioso ma, citando la signora Busi, la cui scritturalità ed est-etica, con rispetto per gli scrittori metapresenti, amo particolarmente, bisogna essere suicidali nel vivere, e forse anche nella Scrittura.
    4. altaleno tra l’uno e l’altro. ma credo prevalga la crudelissima gioia di pier paolo pasolini. anzi facciamo la signora busi, ché lui a volte è amaro e disfattista altre è indignato un po’ lirico e visionario.

    ci sono alcune frasi che mi colpiscono (ci mancherebbe, sono Scrittori, mica lo scrittore che sono):)

    automi che parlano ad automi. walter siti
    il lavoro culturale e il lavoro interiore. giuseppe genna
    la questione del male sia la questione della letteratura. antonio scurati
    Leggere poesia significa cioè assumere un impegno nei confronti del linguaggio. valerio magrelli
    fare luce utilizzando lo strumento letterario per far conoscere i meccanismi che sottintendono il potere. roberto saviano
    Lo scrittore, come cittadino, ha delle responsabilità. dacia maraini
    Impegno e responsabilità sono due concetti diversi. elisabetta rasy
    Uno scrittore impegnato non ti dice che un altro mondo è possibile, te lo dimostra (stilisticamente e dunque silenziosamente). antonio pascale

  101. Caro Massimo, su McCartney mi spiace deluderti ma sono un rollingstoniano puro e senza cedimenti da sempre (ho appena comprato il dvd di “shine a light”, te/ve lo consiglio)

    Quanto alle risposte degli scrittori, sono furbeschi tentativi di non andare al sodo perché non saprebbero che pesci pigliare. Sono la dimostrazione pratica del perché poi gli “intellettuali” non contano un fico secco: chi ci racconta le storielle del cameriere, chi si perde dentro le aree semantiche, insomma un bel pacco di chiacchiere che non dicono un bel niente. Ricordano gli azzeccagarbugli manzoniani, nella migliore delle ipotesi.

    Gli intellettuali dovrebbero dire chiaramente che dopo la fine dell’Urss e il trionfo globale del capitalismo, i ricchi stanno diventando troppo ricchi e stanno sfrontatamente rompendo tutte le regole del capitalismo sopportabile e in qualche misura temperato che c’era prima (in Europa).

    In Italia l’evasione fiscale supera ampiamente quella degli altri paesi europei, e di gran parte di questa evasione è responsabile la grande impresa. Questo determina una rottura sempre più grave del “patto sociale” fra le classi -a causa della continua pressione esercitata dalla borghesia per il ridimensinamento del welfare- e causerà grossi guai in avvenire.
    Le speculazioni finanziarie possono determinare il crollo del sistema da un momento all’altro e la politica in questa fase conta quasi niente, contano solo “i mercati”, comanda la finanza.
    Per cui.
    L’unica cosa che possono fare gli intellettuali è di tentare un rilancio della politica intesa non come un muro di chiacchiere fumose (ne abbiamo un esempio qui sopra), ma come la richiesta di uno spostamento concreto di quattrini dai ricchi ai poveri, richiesta motivata dal fatto che la società dei due terzi sta diventanto la società dell “un quinto”, presto si ridurrà all’un decimo e al quel punto per quel decimo saranno casi seri, molto più seri di quanto non lo furono in passato.
    Quindi, riassumendo: aumenti di salari e pensioni, ridimensionamento dei profitti e meno furbizia-stupida da parte della borghesia al potere.

    Queste cose però gli intellettuali credono di non poterle dire, perché siamo tutti sul libro paga della borghesia e anche gli intellettuali (specie quelli italiani) tengono famiglia (e qualche villa, la fuoriserie ecc.); invece la borghesia non aspetta altro che qualcuno gliele spieghi per bene, per questo pagano gli intellettuali: ma agli intellettuali di lavorà non gliene va e si perdono dietro al fumus intellettualicus (e poi si lamentano che non contano un tubo).

    grazie per l’attenzione, spero di non aver offeso i sentimenti di nessuno.

    rex ex-ex

  102. QUAL È OGGI L’EQUILIBRIO POSSIBILE FRA INTERESSI PRIVATI E RESPONSABILITÀ COLLETTIVA?
    ————
    In sintesi, l’equilibrio possibile è questo: più redistribuzione della ricchezza prodotta, sia come welfare che come aumenti concreti di salari stipendi e pensioni. Nessuno degli “intellettuali” sopra l’ha detto, così, chiaro e semplice. Quindi diminuzione della ricchezza privata e maggiore redistribuzione.
    Cambiamento del modello economico, che non deve più basarsi sui criteri tragicamente ridicoli e antieconomici di “crescita e competitività” (non sono che articoli di fede di una sciocca religione che tentano di spacciare per “scienza economica”), ma su un nuovo modello basato su un certo grado di collaborazione e “sviluppo sostenibile”.
    ——–
    Non c’è nulla di impossibile in questo, basta chiederlo continuamente a voce alta e prima o poi qualcosa si ottiene, molto si ottiene, tutto si ottiene. Però nessuno degli intellettuali sopra lo ha chiesto, per questo non mi sento rappresentato da nessuno di loro. Fingono di muovere critiche al sistema ma si guardano bene dal dire qualcosa di concreto. Si lagnano, si dichiarano impotenti e vittime. Si rifugiano nelle aree semantiche.
    Alla domanda, secondo me, nessuno di loro ha risposto “effettivamente”.
    Grazie e buona notte.

    rex ex-ex

  103. Perfettamente d’accordo con Rex. Veramente e di cuore. Solo una cosa non ci deve sfuggire, se parliamo di economia: anche il flusso di capitali che in Italia c’era vent’anni fa grazie alle esportazioni ora non c’e’ piu’ per via dell’emergere delle nuove potenze economiche (Cina e India per esempio). Come fare, dunque? I soldi sono di meno perche’ l’Europa e’ calata di ruolo mondiale. Cosa fare, Rex? Dividere con un miliardo di cinesi o trovare un mercato interno europeo che ci metta al riparo, cosi’ dunque mettendo delle forti barriere doganali alle importazioni extraeuropee?
    Anche questa mi par cosa tosta, e infatti te l’ho detta a chiare note.

  104. Francesco, pare che Obama intenda penalizzare fiscalmente le imprese americane che vanno a sfruttare il lavoro dove costa meno per aumentare i profitti. E’ già qualcosa. Poi bisognerebbe aumentare i costi ai capitalisti cinesi, obbligandoli a pagare di più gli operai e imponendo barriere doganali ai prodotti troppo a basso costo, che non possono essere stati prodotti che utilizzando manodopera in stato di semischiavitù. Cioè la civilissima Europa, attenta pure ai diritti civili dei gatti, poi finge di non sapere che i nostri supermercati sono pieni di merci fabbricate da operai cinesi, o indiani, che definire schiavi è un eufemismo. Se ne possono fare di cose! ma avremmo bisogno di intellettuali veri che denuncino le situazini per quello che sono. in Italia non ne abbiamo purtroppo, dobbiamo leggere No logo della Klain, lei non ha problemi di aree semantiche. Ciao.

  105. Caro Rex,
    grazie per la risposta, che e’ chiara e giusta e che dunque condivido in toto: penalizzare gli industriali evasori e paraculi, ossia imporre la Repubblica agli italiani – cosa difficile ma doverosa, oltreche’ in ritardo rispetto alla Germania, per esempio – e ridistribuire oneri ed onori nel Paese (magari anche smettendo di permettere alle aziende e alle Universita’ stesse di far contratti a sei mesi, tenere portaborse e lavoratori in nero, eccetera… come dicevi tu). Pero’, quali effetti aspettarsi, se questi ”intellettuali” di cui parla il post mettiamo, putacaso, la smettessero di tergiversare e proponessero qualcosa di tangibile a noi tutti, cioe’ allo Stato? Bah: niente, ovvio… questo e’ appunto quel che ho ricevuto io di consensi fra i ”poveri” stessi (io dico che intellettuale non mi sento proprio), quando ho provato, sei mesi fa, a proporre in Italia di introdurre una legge sul pagamento obbligatorio, e alla firma del contratto di edizione, di qualsiasi libro o articolo pubblicato. Volevo che ogni autore venisse per legge pagato alla firma del contratto di edizione di una opera del suo ”ingegno”, ma… niente, nothing, nisba, nič. Figurati cose di piu’ ampio respiro.
    Saluti Cari

  106. …Anche la Klein, pero’, non smuove la legge del piu’ forte. Magari sara’ piu’ consigliabile, dunque, agli scrittori, di fare i sognatori su carta, ehh.

  107. ”Poi bisognerebbe aumentare i costi ai capitalisti cinesi, obbligandoli a pagare di più gli operai e imponendo barriere doganali ai prodotti troppo a basso costo, che non possono essere stati prodotti che utilizzando manodopera in stato di semischiavitù”, dici, poi; bene, ma, mi chiedo: e se i cinesi, per ritorsione, dopo smettessero di importare i nostri prodotti?
    L’unica alternativa e’ quella, credo, di creare un mercato europeo interno autosufficiente… ma anche l’URSS ci provo’ e fini’ male…
    Difficile storia, rex.
    Buonanotte

  108. @Sergio….
    in un batter d’ali sinestetico, ove la parola mi evoca la separazione(isole),luce(lampi),dei(invisibile),marmo(materico),onde(liquido);ove la parola chiave, in un campo semantico di cura-affanno, é squarcia. Quanto impegno-energia nel caratterizzare la vita in toto!L’hai pubblicata?Complimenti. lucia arsì

  109. D’accordo con Melania Mazzucco. Sia sul concetto di libertà che di condivisione.
    Lo scrittore è un avventuriero, un ribelle. Un ostinato seguace del proprio demone. La letteratura è gioco, libertà visionaria. E’ il barone di Munchausen che galoppa una palla di cannone. Che nel librarsi in volo sfugge a leggi di gravità. Di ancoraggio alla terra ferma.
    Sembrerebbe quindi che piegare tutto questo a un’ideologia, a una causa, a un dovere, uccida la letteratura.
    E però.
    Mi piace Melania quando parla di condivisione.
    E allora penso.
    Penso che se mettersi al servizio di una causa diventa potenza fantastica, passione, daimon, bellezza, se quella passione si trasforma in vita ( a torto o a ragione) e in parola, allora anche l’impegno può farsi poesia. E che anche il dovere può sfiaccolare da un verso. Gridare. Come un innamorato.
    La letteratura è vita. Raccoglie tutto. Avanzi, amore, dolore , morte. Si nutre dei resti. Degli inganni. Delle verità.
    Conosce l’uomo.Dunque , può raccogliere anche il dovere. Trasfonderlo in forza, in follia, in innamoramento.
    E penso a Dante. Al suo sdegno morale alto quanto la solitudine vorticosa di Paolo e Francesca. Penso a Virgilio che canta l’impero romano come un vecchio amante respinto. Penso a Kipling, a Brecht.
    Ben vengano queste passioni quando somigliano, con la loro fiamma divoratrice, allo struggimento di chi vive in pienezza. E trasforma la vita in parola con la stessa necessità . Con la stessa irrinunciabilità.
    Con la stessa affamata ingordigia di un’anima che cerca altre anime. E che – trovandole – crea bellezza. Quel che dispiace del mondo – oggi – è piuttosto il disincanto. L’eclissi di un innamoramento sia pur sbagliato ,storto, infame, per qualsiasi ideologia o idea.
    Quella pazzia che a volte ci fa perdere la testa per l’uomo sbagliato, o per il sogno sbagliato. Ma che ci fa scendere in campo. Combattere. Trovare il coraggio – e la voglia – di creare anche dai doveri.
    Che i doveri , poi, sono così simili ai sogni….

  110. Provo a rispondere alle domande di Sofia Assirelli.
    ******
    – Per chi ha letto uno o più titoli della collana, cosa ne pensate del progetto editoriale in generale e dei romanzi nello specifico?
    “Non ho letto titoli della collana, ma il progetto editoriale VERDENERO mi pare bellissimo. Ho guardato il sito e comprerò qualche titolo”
    ***
    – In che modo e con quali limiti i romanzi possono parlare dei problemi sociali?
    “Io credo che in un modo o nell’altro qualunque romanzo parli dei problemi sociali. L’unico limite sta nella bravura, che può essere ampia o scadente, del romanziere”
    ***
    – I romanzi possono essere strumenti di comunicazione sociale? Avete qualche esempio da portare?
    “Secondo me, sì. E arrivo a dire che ogni romanzo detiene in sé elementi di comunicazione sociale. Piuttosto ribalterei la domanda relativa agli esempi. Esistono esempi di romanzi che non possono essere strumenti di comunicazione sociale?”

  111. Comunque mi piacerebbe saperne qualcosa in più sul progetto VERDENERO e sul suo futuro.
    Per es., è un progetto editoriale a tempo determinato? Sono previste nuove iniziative?
    Grazie

  112. Rispondo alla domanda di Sofia Assirelli:
    – I romanzi possono essere strumenti di comunicazione sociale? Avete qualche esempio da portare?
    Il romanzo è nato nell’ottocento come mezzo per rappresentare l’epopea della borghesia nascente. Come voce del suo mondo. Ma è stato anche strumento di analisi. Di specchio, attraverso la società, del cuore dell’uomo. Del suo rapporto con la realtà circostante. Delle emozioni che ne derivano.
    Mai come all’inizio di questo genere è stata scandagliata tanto l’antinomia “dentro di sè – fuori di sè”. La simbiosi tra uomo e ambiente.
    In questo senso i grandi romanzi dell’Ottocento sono stati sicuramente veicoli di una società. E nel descriverla hanno comunicato. Ne hanno offerto uno spaccato.
    Dolente , a volte. Tragico. Persino incoerente o vittima di se stesso.
    Il più grande esempio di “romanzo sociale” è la Commedia umana di Balzac. Ma anche il Rosso e il nero di Stendhal. O i Miserabili di Victor Hugo.
    Non a caso il realismo e il verismo affondano le radici nella medesima esigenza. E non comunicano soltanto. Rappresentano. Inscenano e piangono.
    Denunciano.
    Penso ai Malavoglia. E ai Vicerè.
    Alla sintesi meravigliosa tra bellezza e realtà. Tra lirismo e impegno.

  113. Voto ancora per Siti. Ammirazione pura. Per la spaventosa automut(il)azione che si impone come compito, per la radicalità della proposta, per il salto di registro linguistico rispetto alla precedente risposta. Perché traccia un cammino fatto di ponti bruciati alle spalle che non è ammiccamento (e Contagio per me è il libro dell’anno in tal senso). Per la chiusa titanica (in questo Paese, ma non solo) apparentemente dimessa con cui riconcilia scrittore e filosofo, poche righe dopo aver tracciato per i due compiti in apparenza opposti.

  114. Quando nel 1983 Alberto Moravia rifiutò la candidatura al Senato italiano, dichiarò: “Ho sempre pensato che non bisogna mischiare la letteratura con la politica; lo scrittore mira all’assoluto, il politico al relativo; soltanto i dittatori mirano insieme al relativo e all’assoluto.”

    Mi sembra una distinzione fondamentale, a prescindere dal fatto che in seguito Moravia diventò deputato.
    Se lo scrittore mira “all’assoluto” -qualunque cosa esso sia-, eviti di assumere atteggiamenti da intellettuale impegnato. Se assume atteggiamenti da intellettuale impegnato, come nel caso di Scurati, poi si impegni sul serio e non eluda le domande.
    Chiaro che la domanda in questione si riferisce essenzialmente a Berlusconi. Gli scrittori che hanno accettato di rispondere fanno tutti finta di non capirlo e ci parlano del più e del meno. La domanda stessa è posta in modo ingenuamente elusivo. Cioè, è come se la domanda dicesse: sto parlando di Berlusconi ma faccio un bel giro di parole perché tengo famiglia. Però siccome siamo intellettuali dobbiamo comunque parlare del problema, ma lo trasformiamo in questione di carattere generale e di principio.
    Non bisogna appoggiarsi troppo ai principi perché poi si afflosciano, diceva Longanesi. E’ quello che capita agli scrittori sopra.
    ——
    Beninteso io considero Berlusconi l’ultimo dei problemi italiani e del mondo. Berlusconi è un capitalista che ha rotto una regola non scritta del capitalismo, cioè che il capitalista deve comandare da dietro le quinte non esponendosi troppo. Per questo all’inizio è stato osteggiato dai “poteri forti” che in seguito hanno preferito allearsi visto che Berlusconi, con la sua spregiudicatezza di “homo novus” li ha battuti.
    Berlusconi è un falso problema, un problema comunque minimo, a mio avviso. Il problema vero è il capitalismo che sta diventanto sempre più selvaggio e insostenibile. A questo occorre porre un freno, secondo il motto di Olof Palme “il capitalismo è come una pecora, va tosato ma non ucciso”. Sono pienamente d’accordo, tosiamo il capitalismo. Questo è il compito degli intellettuali, spiegarci come e perché il capitalismo va tosato nel suo stesso interesse. Tutto il resto è aria fritta, discorsi generici che personalmente trovo anche un po’ ridicoli, non so voi.
    Perché nessuno obbliga lo scrittore a fare l’intellettuale. Ma se accetta di farlo allora deve farlo come va fatto, prendendo concretamente posizione sulle questioni che gli vengono poste e lasciando le “aree semantiche” al loro mediocre destino.
    rex

  115. Rex, il problema del capitalismo esasperato lasciamo agli economisti e agli esperti in economia politica.
    Per carità, non chiediamo agli scrittori/intellettuali di risolverlo. Non verremmo a capo di nulla. A loro chiediamo solo belle storie.
    Altrimenti sarebbe come chiedere a un meccanico di risolverci i problemi di salute. Vabbè che il corpo umano è una macchina, ma io preferisco rivolgermi al medico anziché al meccanico.
    Indi, citando Sciascia, “a ciascuno il suo”.

  116. @rex,che afferma:considero Berlusconi l’ultimo dei problemi italiani.Non credo proprio.Si evince, da quanto affermi,che Berlusconi é il tuo chiodo fisso e, credimi, chiunque scriva non fa finta di niente: avverte il problema, ne soffre e dice, solo che le parole, quelle semanticamente colorate, evidenziano l’effetto del problema, lasciando agli addetti ai lavori ossia a quanti ci rappresentano nelle opportune sedi istituzionali ogni possibile soluzione. Tu, senechiano,offri il braccio per dissanguarti; altri ,come me, alla maniera di Archiloco, meno coraggiosamente ma più realisticamente, mirano a salvaguardare lo spazio di tempo assegnato e a sé e agli altri, convinti che esiste altro modo e tempo per risolvere i problemi socio-economici e sono quelli che ,nutriti dalla semantica, hanno compreso che Ade e Dioniso sono la stessa cosa(Eraclito),ossia il male é tanto quanto il bene e il significato loro attribuito é relativo, perché”misura di tutte le cose é l’uomo”Così i sofisti. Simpaticamente Lucia.

  117. Mi sembra che Ludovico sia d’accordo con me, se ho ben capito. Anch’io agli scrittori chiedo solo belle storie.
    Alla simpaticissima Lucia non posso che rispondere che ha perfettamante ragione: solo non ho capito bene la faccenda di Archiloco, per cui se me la potessi spiegare meglio te ne sarei grato.
    rex

  118. @ Rex Per dirla con due motti made in USA (così per non passare da classicista, che non lo sono) Archiloco preferiva l’approccio “run away to fight another day” a quello “better dead than red”.
    @ Lucia: unisci come un fulmine l’Oscuro ai sofisti… non so se qui sono disposto a seguirti!

  119. Rex… meglio se scrivi Weltanschauung, così ci impressioniamo meglio…
    E poi, cos’è questa storia dei siciliani? Noi scriviamo di Sicilia perché è questa terra madre e matrigna che ci alimenta e sostiene, odiosamata come poche.
    Maria Lucia Riccioli, stimata blogger che interviene su Letteratitudine.
    🙂
    Un saluto a Paolo Di Stefano…

    Massi, poi rispondo con calma…

  120. Concordo con le risposte di Angelo Ferracuti e Walter Siti. La differenza fra i due consiste nel fatto che il primo disegna su foglio bianco, mentre il secondo, attraverso la tecnica dei contrari ed in maniera eclettica arriva comunque ai contenuti.
    Ed è proprio sul concetto forma-contenuto che desidero soffermarmi, per riuscire a cogliere la loro insofferenza su quanto li circonda, questa mancanza di contenuti profondi caratteristica del tempo in cui viviamo.
    La storia ne fornisca le cause.
    Voglio però traslare l’esempio in pittura, citando pittori come Kandinsky, Klee, lo stesso Picasso, Mondrian, citarli anche in parte diventa impossibile, che, nonostante le guerre mondiali e quanto di più orripilante e devastante non favorisse l’espressione di linguaggi poetici e la loro libertà, ci abbiamo paraddossalmente lasciato quadri indimenticabili per come sono stati dipinti e per quello che hanno voluto esprimere. Al di là del tempo. Eterni nella memoria di chi li conosce o semplicemente visti.
    Responsabilmente allo ricerca dello spirito?
    La collettività li ricorda.
    Saluti

  121. Maria Lucia, fra i miei “dieci assoluti”, diciamo così, c’è Brancati.
    La terra “madre e matrigna che ci alimenta e sostiene, odiosamata come poche”, come tu dici, beh penso che un discorso così funzioni anche con la Groenlandia, non trovi?
    Veniamo tutti da un posto “speciale”, cara Maria Lucia, non mi pare il caso di farci troppo caso.

    rex (pluripremiato forumista di classe A, del forum “leggere e scrivere”)

  122. @ Rex
    A me piacciono anche gli Stones (peraltro Beatles e Stones erano amici)

    Non credo che le domande (e le conseguenti risposte) siano connesse a Berlusconi e a questo governo in particolare.
    Peraltro il citato numero di Nuovi Argomenti è uscito un anno fa. E le risposte sono state consegnate mesi prima della sua uscita.
    Grazie ancora per i commenti.

  123. SE IL GOVERNO ASSUME A TECNICA POLITICA L’ORGANIZZAZIONE CULTURALE, LA PARTECIPAZIONE DI UNO SCRITTORE, IL SUO IMPEGNO, NON SI RIDUCE A UN CONTRIBUTO PIÙ O MENO SIGNIFICATIVO ALLA CREAZIONE DEL CONSENSO?

  124. Il grande “creatore del consenso” oggi non è tanto questo o quel governo, quanto il mercato: tanto è vero che anche in politica ne vengono imitate le tecniche, sostituendo alla persuasione razionale il marketing e la pubblicità. È di questo meccanismo generale che lo scrittore rischia di farsi complice, anzi, in una certa misura forse è addirittura costretto a farsi complice, se non vuole andare incontro all’emarginazione da parte dell’industria culturale.

  125. Credo che uno scrittore debba comunque rimanere sempre indipendente, lontano dal governare, che è ormai un fatto pragmatico, legato molto agli uffici stampa, alla creazione spettacolare del consenso. Oggi, venuti meno gli orizzonti ideologici, la politica è minimalista e governa il condominio.
    Parlo di indipendenza non tanto sul singolo giudizio politico, ma proprio sul modo di percepire e interpretare quello che vede nella società del suo tempo. Lo scrittore è uno che deve anche sputare sul piatto dove mangia, perché solo sputando sul piatto dove mangia fa il proprio dovere e non si assoggetta.

  126. Cosa sarebbe il governo? Parliamo dell’istituzione? Ma lo scrittore devasta l’istituzione – o devasta l’idea stessa del “potere”, a principiare dal rapporto che ha con se stesso e con il suo testo: via dal potere, tarliamo le gambe del trono regale. Il meccanismo della creazione di consenso è identico al bestsellerismo sottoculturale. È come se le movenze dell’arte persuasoria fossero nuovamente fuoriuscite dalla letteratura, campo di sperimentazione della loro vitalità psichica e terapeutica, per produrre, appunto, un discorso: un discorso del potere a se stesso, laddove la parete che fa eco sarebbe la massa sottoposta a consenso. Contro questa situazione, la scrittura deve compiere il passo di un’elaborazione di gesti arcaici e nuovissimi, stracciare il presente che confida nella propria seminfermità come fosse una strategia di intelligenza collettiva. Lo scrittore viene cacciato dai tavoli di discussione, va in esilio (oggi: interiore oltre che sociale), ma scrive. Non esiste letteratura fuori da questo corollario implicito nel fare letterario medesimo.

  127. Non c’è alcun dubbio. Ma perché uno scrittore dovrebbe perdere del tempo a decidere se flirtare o meno con le politiche culturali governative quando ha il suo romanzo da finire?
    Credo che problemi come questo siano l’equivalente del monologo di Amleto per personalità come Alain Elkann.
    Quindi la vera domanda è: perché tarare un questionario letterario proprio sulla shakespearizzazione di Alain Elkann?

  128. Non credo che la tecnica politica possa sostituire il sentimento dell’indignazione o il sentimento etico di una collettività.
    Si può parlare di un linguaggio convenzionale a cui si adegua chi pratica la politica, ma sotto sotto cova il bisogno di verità. Lo vediamo in questi giorni con il rifiuto così diffuso della politica, dei suoi rituali, dei suoi sprechi e dei suoi privilegi. Lo scrittore che fa? Cavalca lo scontento come può fare un politico? Oppure tempera il suo pensiero critico e osserva attentamente ciò che succede vicino a lui e ne fa materia di narrazione?

  129. @ rex:alla rivoluzione gialla o rossa o nera(é evidente che nei grandi conflitti a perderci le penne sono i poveri(ed io lo sono, perché vivo di stipendio)preferisco il dialogo costante, la scrittura profonda che come goccia costante e tenace riesce a bucare (anche le menti più ostiche), e…chissà!!! a trasformare lo status quo.Al modo di Archiloco, lirico greco, vissuto circa 27.000 anni addietro, portatore di una nuova antropologia:meglio vivi che morti”alla malora lo scudo, ne comprerò uno migliore…”.Un approccio con la sua realtà diverso rispetto ai tempi precedenti,allorché dalla battaglia si tornava o carichi di bottino o sopra lo scudo(morti). Ciao lucia

  130. Penso che ogni governo si serva dell’organizzazione culturale per creare consenso. Perciò è evidente che ogni scrittore è consapevole delle conseguenze della propria partecipazione a ogni singolo evento, per quanto minuscolo e poco visibile sia. Io almeno lo sono. Perciò sono sempre dove ho scelto di essere, e dove ho evidentemente ritenuto di investire, donare quel poco che la mia presenza può portare.

  131. Dipende: Carlo Emilio Gadda è stato direttore culturale della Rai. E secondo me qualcosa meglio di Marzullo lo ha fatto.

  132. Può darsi. Del resto l’arte non salva nessuno. Se lo scrittore tende ad assomigliare a uno scienziato, cioè uno che fa tesoro della propria esperienza, allora c’è una via di scampo al consenso.

  133. Credo fermamente che il governo debba occuparsi di strutture portanti della cultura (la scuola, l’urbanistica dei cinematografi, le biblioteche…) senza mai esprimere una propria cultura extra-politica. Non deve decidere quali film fare e quali non fare. In alcune forme di matematica elementare si insegna a non fare confusione di genere, quando si conta. Ci sono generi che non è ragionevole accostare, e le due parole, Scrittore e Governo, non ha senso accostarle. Alla domanda:
    può un essere umano-scrittore che ne abbia competenza esercitare il ruolo di Ministro? Sì, certo, ovvio. A rigore (e per assurdo) Cechov potrebbe andare anche alla sanità… Ma alla domanda: uno scrittore ha “in sé” delle competenze che lo lascino sperare nella poltrona ministeriale? rispondo con un netto No. (Un’appendice maligna e scherzosa: esistono scrittori che venderebbero la madre per soddisfare questa nuova ambizione? Non credo che verrebbe fuori un gran numero se si indagasse. Però alcuni ci sono – grazie al cielo non siamo stinchi di santo – e la mamma la venderebbero anche per meno.)

  134. Anche qui è questione di responsabilità: il fatto di essere uno scrittore non cancella il fatto di essere un cittadino e un individuo con delle convinzioni. Se si è responsabili, condividere un’idea politica e persino partecipare alla sua attuazione non significa necessariamente schierarsi acriticamente con chi la rappresenta in un governo o in un partito o diventarne dei passivi supporter.

  135. Credo che gli scrittori oggi contino pochissimo. Un loro arruolamento al governo, seppure nel settore della cultura, servirebbe come un’operazione di immagine ad indirizzo di alcune fasce elitarie del paese e basta. Lo scrittore non è più percepito come un’autorità, tranne in rare eccezioni (penso a Solzenicyin, non a caso in Russia Putin si è prodigato per incontrarlo pubblicamente).

  136. Sì, è senz’altro così ed è uno dei principali dilemmi che lo scrittore erede di una tradizione di militanza intellettuale si trova oggi a dover affrontare. L’ascesa di una nuova figura politica a leader della sinistra italiana, quella di Veltroni, e il caso di Roma quale modello politico di creazione di consenso attraverso l’organizzazione e la comunicazione culturale – modello che ora si cerca in esportare a livello nazionale – stanno a dimostrarlo. Anche in passato, soprattutto in passato – basti pensare alla storia dei rapporti tra partito comunista e intellettuali – gli scrittori sono stati sistematicamente chiamati a militare in compagini politiche. Allora, però, si trattava di un rapporto organico tra progetto politico e artistico.
    Noi tendiamo a dimenticare che buona parte dell’arte e della letteratura del Secolo Breve è incomprensibile al di fuori dell’orizzonte di attesa rivoluzionaria in cui apparve. Basti pensare che tutto il programma di radicale sperimentazione linguistica acquisiva il suo senso dal progetto rivoluzionario.
    È un fatto macroscopico che troppo spesso viene ignorato.
    Questo ci ricorda che, soprattutto quando organico al partito politico, lo scrittore e l’artista svolgeva più il ruolo del dissenziente che non quello del consenziente. Anzi, il dissenso era il suo “specifico”. A partire dalla metà degli anni ’60 gli scrittori cominciarono a dissentire sistematicamente anche all’interno della parte politica cui appartenevano, ma già prima la loro era una funzione di costruttori di dissenso rispetto all’antagonista politico socialmente egemone e, in modo ancora più radicale, una funzione di negazione estetica della realtà presente in vista di un suo profondo sovvertimento rivoluzionario. Vivevano, scrivevano e militavano al futuro anteriore, in vista di ciò che un giorno il presente sarebbe stato quanto fosse scomparso nell’avvenire. La guerra è stata il paradigma fondamentale dell’esperienza nel XX secolo. In quella cornice lo scrittore militante era in guerra contro qualcuno e qualcosa più che in guerra al fianco di qualcuno o qualcosa. Ciò contro cui erano in guerra più di ogni altra cosa, era il presente: “dire di no ai giorni del presente”, anche in assenza di un domani. Questo verso di Blok riassumeva l’ordine di marcia e di battaglia dello scrittore impegnato. Gli scrittori erano truppa d’assalto (a destra come a sinistra). Dovevano negare e turbare più che acconsentire e piacere. “Non costruiamo noi, noi demoliamo, non annunciamo una nuova rivelazione, disperdiamo bensì la vecchia menzogna”, così scrisse Herzen a metà Ottocento in una commovente pagina dedicatoria al figlio, e questo rimase il programma politico dello scrittore per tutto il secolo successivo.
    Lo slittamento che oggi chiama lo scrittore a dare il proprio placet, a piacere al mondo e a farselo piacere, cambiando il proprio ruolo da quello di guastatore del dissenso a quello di pontiere del consenso, questo slittamento configura un netto cambiamento di rotta. È una situazione nuova, rischiosa ma interessante, da osservare con attenzione e forse anche con un po’ di rinnovata speranza.

  137. Beh, quando uno scrittore “partecipa all’organizzazione culturale” non mi pare che faccia lo scrittore; quando fa seriamente lo scrittore, non dovrebbe riuscire ad organizzare nemmeno se stesso. La scrittura fa emergere proprio ciò che è irriducibile all’organizzazione. Basta vedere l’incompatibilità tra la buona letteratura da una parte e le pagine culturali dei quotidiani dall’altra; intorno alla letteratura “in quanto letteratura” non si crea mai consenso. Chi esalta il libro di Saviano fino a farne un manifesto del Partito Democratico, in realtà non parla del libro di Saviano ma della “moda contenutistica” che si è creata intorno ad esso. Per questo uno scrittore deve stare attento a non farsi ingabbiare dai propri argomenti (per quanto anomali e trasgressivi possano apparire).

  138. Grazie a te, caro Massimo. Mi sembra davvero un bel blog, il tuo, molto ben curato e stimolante (ma fra Beatles e Rolling non c’è proprio storia, mi dispiace ma questo accostamento per me è addirittura SACRILEGO).
    Ciao e alla prossima.

  139. Bene. Ancora una volta vi chiedo di individuare quale risposta (tra le risposte alla terza domanda) è più in linea con il vostro pensiero.
    Non è che cominciate a essere stanchi, eh!
    🙂

  140. Lucia, adesso ho capito (sono anch’io per il dialogo): però per Archiloco 27.000 anni mi sembrano troppi.
    Facciamogli uno sconto, facciamo 2.700. Ci stai? Ciao.

  141. Walter Siti, questa volta sono abbastanza d’accordo con lui. Io trovo che per uno scrittore sia squallido occuparsi del governo, sia pro che contro, Io sono per l’ingovenabilità, i governi migliori sono quelli appena caduti.
    —–
    Scurati come al solito pontifica e non risponde. Traccia una storia universale della questione e conclude che è d’accordo, lo scrittore può essere governativo, io l’ho capita così.
    rex

  142. Nel groviglio di tante definizioni e pareri tra il capitalismo, comunismo, socialismo ecc. perdiamo facilmente il senso vero, perché è l’unico che ci salverebbe, della nostra vita.
    Esso lo troviamo nella ricerca dell’unione collettiva alla quale si oppone fin da troppo tempo l’egoismo del singolo.
    Il singolo afferma facilmente che Caio è un capitalista truffatore, o che Sempronio non riesce a sostenere la sua famiglia, ma in effetti non fa più nulla per contribuire alla mutazione di un sistema che fin dall’inizio dell’era umana, ad eccezione di casi singolari e sporadici, sfrutta il meno abile ed astuto, il buono ed onesto.
    L’ingiustizia è l’opposto della giustizia: due concetti chiari da esprimere, così come sono difficili da unificarli per dare origine a pace ed armonia.
    L’essere umano non riesce a sostenere il senso della giustizia nella solidarietà, l’unico ideale che lo aiuterebbe a rompere le catene che lo tengono fermo alla dimensione delle sue limitatezze, ma anche del suo ambiente.
    Senza le costrizioni pretese da forze a lui superiori, per esempio in forma di calamità ambientali ma anche di processi distruttori della sua identificazione come essere intelligente ed evolvente, egli sarebbe rimasto nello stato primitivo delle sue origini.
    Bisogna allora intendere questa costrizione come programmata da un sistema superiore allo scopo di costringere la forza della sopravvivenza dell’uomo a reagire e cercare la sua salvezza.
    Fino a questo avvenimento discutiamo ed agiamo apparentemente per il bene comune senza cercare una via d’uscita.
    Allora tutte le forme di convivenza sociale sopra accennate si avvicenderanno e detteranno ancora la loro volontà acquisita e da difendere.
    Eppure, il mondo sta diventando paese; diventa impensabile continuare ad amministrarlo con un sistema che si basa unicamente sulla produzione incontrollata di beni che, oltre a rovinare il pianeta che ci ospita, rovina la nostra anima, imponendoci bisogni inutili e dannosi alla nostra formazione di essere sociale e propenso al bene.
    Saluti.
    Lorenzo

  143. @ Melania:é un’opinione che condivido; non é la VERITA’. Ma chi distrugge templi e mozza fiati rendiconterà agli dei, doppi e quindi ingiustamente giusti. Affettuosamente lucia

  144. Cara Lucia Arsi’,
    grazie per l’analisi di ”Isole greche”; si’, questa lirica la pubblicai nel Duemila in un volumetto intitolato ”Oggetti volanti” (vi era l’omonima silloge, segnalata dal Premio Sandro Penna 1999, con Walter Pedulla’ presidente di giuria, insieme ad altre cosette sparse). Quello resta il mio unico volume di poesie pubblicato in Italia. E di effetti sinestetici ve ne sono molti altri, sparsi in quel vecchio papiro, stracolmo di nugae…
    Ciao, cara
    Sergio

  145. “Il romanzo è nato nell’ottocento come mezzo per rappresentare l’epopea della borghesia nascente”.
    Sento il dovere “etico” di contestare questa affermazione di Simona Lo Iacono. Forse il “romanzo borghese” è nato nell’ottocento etc.
    Ma Simona sarà d’accordo che Don Chisciotte -spesso e da molti considerato il più grande romanzo di tutti i tempi-, con l’epopea della borghesia nascente c’entri poco. E il “lazarillo de tormes”? Forse il romanzo nasce in Spagna nel cinque-seicento, e rinasce in Inghilterra nel 700 con Defoe: è d’accordo Simona?
    rex

  146. Mio caro rex,
    già il “Satiricon ” di Petronio è un esempio di romanzo. E anche nel Medioevo (XII-XIII sec.) compaiono in Francia i cosiddetti romanzi “cortesi”, opere narrative in versi e in prosa, ispirate agli amori e alle avventure cavalleresche.
    Nei secoli successivi sono chiamati “romanzi” anche i poemi rinascimentali in versi d’argomento fantastico con le epiche figure dei paladini, genere letterario prediletto dall’aristocrazia del Cinquecento. Tuttavia la nascita del romanzo moderno è legata all’espansione dell’editoria nel Settecento e all’affermazione politico-economica della borghesia, di cui il romanzo rispecchia i gusti e gli interessi. E ciò perchè è un’opera in prosa molto duttile, che si presta a narrare vicende individuali e quotidiane dell’uomo comune e presenta prevalentemente uno scopo morale.
    E’ infatti l’Ottocento il secolo dei grandi romanzi. Il filosofo tedesco Hegel definì il romanzo la “moderna epopea borghese”, proprio perché esso si affermò in Europa come veicolo letterario di diffusione dell’ideologia borghese liberale. In linea generale lo sviluppo di questo genere si afferma prima nei paesi che hanno un’identità nazionale già delineata. Cioè in Inghilterra ( “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe, o “I viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift, per citarne alcuni) e in Francia ( con “Candide” di Voltaire e “La religeuse” di Denis Diderot) . Agli inizi dell’Ottocento fa la sua comparsa anche in Italia, inizialmente in Lombardia, dove il problema nazionale è più avvertito da larghe fasce della borghesia, poi progressivamente nel resto del paese. Pensiamo a Manzoni e ai “Promessi Sposi” dove il genere si presta anche alla sperimetazione linguistica. A un gergo accessibile e strutturalmente complesso. Nel riprodurre la visione del mondo delle nuove classi in ascesa, il romanzo apre una stagione narrativa che si evolverà.
    Fino ad approdare ad oggi….
    Grazie dell’occasione di confronto!

  147. @Sergio: come le immortali nugae catulliane? immagino di sì,considerato il tuo linguaggio.Ad maiora! Lucia

  148. @rex:si tratta di azzerare uno zero !Io ho messo uno zero in più, concedimelo!Berlusconi ne ha messi tanti da far ballare le pupille:zero alla scuola, zero alla magistratura, zero all’evasione fiscale,zero alla dignità del poveraccio,zero alla cultura,e poi quello che ha tolto rigorosamente e puntualmente lo ha versato nelle tasche dei furbetti..ma questo é un altro discorso, ciao e grazie della correzione.lucia

  149. Cara Simona, grazie per avermi risposto. Certo che il Satiricon è già romanzo (menzionerei anche “l’asino d’oro” di Apuleio), e come tu giustamente sottolinei l’importanza del romanzo borghese è indiscussa. –ad esempio Balzac, che come scrisse Engels
    «ci offre nella Comédie humaine una prodigiosa storia realistica della “società” francese, descrivendo in una guisa di cronaca, quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la progressiva irruzione della nascente borghesia nella società nobiliare che, dopo il 1815 si era ricostituita (…). E intorno a questo quadro centrale, raggruppa una storia completa della società francese, dalla quale, persino nei dettagli economici (per esempio il riordinamento dei beni mobili e immobili dopo la rivoluzione), ho imparato di più che da tutti gli storici dichiarati, gli economisti e gli studiosi di statistica di quel periodo messi insieme».

    Cara Simona, e grazie a te per l’occasione di confronto.

  150. Lucia,
    ohibo’! Ho citato Catullo solo per proclamarmi d’accordo con Lui: cosette da poco, nugae… in verita’ la faccenda sta in questa differenziazione: immortale, lui, misero, io.
    Basia mille
    Ciao, cara
    Sergio

  151. non sono d’accordo con Scurati sul”pontiere del consenso”.L’intellettuale non deve suonare il piffero dell’ ” abbracciamoci tutti”; la sazietà dell’intellettuale non glielo consente(per sazietà intendo la totalità del sentire,nel bene e nel male).A me capita di conversare pubblicamente con rappresentanti della chiesa e con disinvoltura rivelo i miei dubbi e formulo domande e spesso li trovo consenzienti(intelligenti!)Forse scorgono gli spasimi della domanda, quella principe, quella che ci fa rodere:vita e morte.Altro che consenso a chi legifera,senza che sappia distinguere fra sacro e leggi sante.Penso che l’autorevolezza(aureola del letterato, congenita e che va arricchendosi tra le trazzere della vita)visceralmente si scontri con l’autorità del politico e naturalmente eviti di dare il destro a intrighi di palazzo.E’ vero!. Siamo umani ed esseri erranti,quindi carichi di errori.Ma voglio convincermi che il quotidiano uso della Ratio spiani la strada migliore per tutti.Il vero attante culturale(non quello che ammazza la madre per arrivare….,come afferma Piersanti)ama la condivisione, il dialogo, sente la compassione, partorisce o tenta il “nuovo”,ma come sappiamo dal racconto di Sileno al re Mida”curiosi di vedere il nuovo gli abitanti dell’isola dei beati se ne scapparono, perché, passate le colonne d’Ercole, trovarono invidia, gelosia, tirannia e sperequazione e se ne tornarono donde erano venuti”. Condivido totalmente le idee di Siti: spazio fiico molto ampio?Non sei un intellettuale, un pensiero errante nei ghirigori del labirinto, eternamente transfuga ed eternamente approdante.Fermo mai. Un caro saluto a tutti.Lucia

  152. Mi permetto di ricordarvi le domandine poste da Sofia Assirelli (guardate il post aggiornato in alto).
    – Per chi ha letto uno o più titoli della collana (VerdeNero), cosa ne pensate del progetto editoriale in generale e dei romanzi nello specifico?
    – In che modo e con quali limiti i romanzi possono parlare dei problemi sociali?
    – I romanzi possono essere strumenti di comunicazione sociale? Avete qualche esempio da portare?

    Chi si sente di rispondere?

  153. Sono andato a visitare il sito, non conoscevo la collana Verde Nero e sono sicuramente temi del massimo interesse. Il progetto editoriale però, così a prima vista, mi sembra troppo di nicchia.

    Romanzi e problemi sociali. Non so, io non mi fido dei romanzi in relazione ai problemi sociali, cerco piuttosto saggi documentati.

    In generale no, caso Saviano a parte. Forse il romanzo-saggio. Ma perché non fare o l’uno o l’altro? per conto mio preferisco decisamente il libro-inchiesta. Al romanzo chiedo di più (e di meno), comunque altro.

    Ho provato a rispondere. rex

  154. Salve a tutti,
    scusate il ritardo con cui intervengo, visto che parte della discussione è stata sollecitata proprio da me.
    Sto seguendo il dibattito su romanzo e impegno politico, ho comprato e letto con grandissimo interesse l’Almanacco Guanda dedicato a questo tema che consiglio a tutti. Prendo spunto proprio da una frase di Bruno Arpaia contenuta in uno degli interventi dell’Almanacco: “lo scrittore non sa. La sua immaginazione risiede soprattutto nell’accostare cose mai prima accostate, raccontando storie, storie inviduali, particolari, che restituiscano un senso collettivo. In questo senso, il romanzo è sempre sociale, e sempre politico (cioè nasce e agisce naturalmente nello spazio della polis) perchè è sempre un Noi che vi parla”.
    Se consideriamo “sociale” e “politico” nei loro significati più estesi essi vengono praticamente a coincidere. Ma affinando lo sguardo possiamo distinguere una certa letteratura engagée, imepgnata politicamente, e una “letteratura socialmente responsabile”, che si carica della responsabilità della rappresentazione simbolica che offre e che va a nutrire l’imamginario collettivo. Sempre secondo Arpaia la letteratura engagée nel senso storico di legame con le avanguardie politiche è tramontata, mentre è forte e sano un coinvolgimento etico/estetico degli scrittori italiani.
    Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate voi. Se il romanzo può fare comunicazione sociale. Non specifico in che senso, perchè mi piacerebbe proprio capire cosa intendete per comunicazione sociale.
    La collana VerdeNero è uno dei rarissimi casi di campagna di sensibilizzazione fatta attraverso romanzi (noir): qualcuno di voi ne ha letti? Hanno scritto nella collana Simona Vinci, Eraldo Baldini, Girolamo De Michele,Avoledo. Da pochissimi giorni è uscito “Navi a perdere” di Carlo Lucarelli. Insomma, conoscete il progetto? Cosa ne pensate?

  155. rispondo a Sofia: il romanzo a mio avviso non può fare una comunicazione sociale efficiente perché il lettore ha sempre il sospetto che in fondo si tratti… di un romanzo.
    Poi il sospetto è anche un altro: che più che di comunicazione sociale si tratti di un’operazione commerciale che cerca di sfruttare la sensibiltà di una parte del pubblico a certi temi. Nulla di male nel voler guadagnare con i romanzi, anzi auguro lauti guadagni a tutti gli scrittori, ma a me piace che l’intento sia dichiarato.
    Per finire, ritengo che allo scopo di fare comunicazione sociale sia molto più idoneo il saggio, il libro-inchiesta, piuttosto che il noir, che comunque -piaccia o meno- a una larga fetta di pubblico continua a sembrare inevitabilmente un genere minore e puramente commerciale. Gentile Sofia, spero di esserle stato utile. rex

  156. Aggiungerei che il noir quasi mai raggiunge livelli letterari apprezzabili. Inoltre, visitando il sito Verde Nero, non mi è piaciuta la dicitura “romanzi socialmente utili”. Un lettore come me ne è respinto all’istante, per una serie di motivi che sarebbe troppo lungo elencare, ma sono facilmente intuibili. E cioè tutti gli editori producono romanzi “socialmente utili”, visto che quasi tutte le case editrici sono società di capitali. Mi dispiace ma il progetto non mi convince, così com’è. Preferisco una casa editrice “generalista”. rex

  157. @Sofia, non ho letto ma leggerò e continuo inoltre a sostenere che al di là delle etichette, delle letteralizzazioni(romanzo-sociale-,romanzo politico etc.)il noir é di estremo interesse e fagocita l’attenzione e fa riflettere e ti trascina nel profondo Ade(quindi funzione vitale, altro che sociale!). Ricordiamoci che NUCS(NOTTE-BUIO),per gli orfici era l’origine.Da lì, dall’uovo fecondato dal Vento uscì EROS, la LUCE, colui che legò madre terra e cielo.Leggerò, sì..presto… lucia arsì

  158. Sofia, il progetto VerdeNero mi pare bello e convincente, nonché utile.
    Secondo me il saggio istruisce, mentre il romanzo consente una com-partecipazione del lettore. Insomma, ti entra dentro. Sono molto d’accordo con quanto scritto da Lucia Arsì qui sopra.

  159. Ho dato un’occhiata al sito… certo, il progetto sembra interessante. L’importante è che non si etichetti come socialmente utile un romanzo perché è basato su un problema specifico, anche se ben documentato, e si bolli la restante letteratura come fiction. Come dice Sofia, anche un romanzo d’amore è politico, perché parla sempre di un rapportoc con il mondo, di uno starci in un certo modo con il mondo…
    Per quanto riguarda le domande di Massimo, voglio rispondere con calma…

  160. Gli esperimenti cinquecenteschi sul romanzo sono storie che riprendono la tradizione cavalleresca parodiandola. Don Chisciotte non è più un eroe ma un personaggio comico perché fuori tempo e fuori luogo: già si sta affermando una nuova specie di personaggio, non più aulico ed eroico ma più prosaico e borghese, diciamo così. Oppure riprende la tradizione picaresca, con le avventure di personaggi più o meno scalcagnati. Ma la vera età dell’oro del romanzo è proprio l’Ottocento, con la sua attenzione alla storia, all’individualità, agli intrecci di race milieu moment (razza, ambiente, momento storico, intesa la prima come i fattori familiari e le eventuali tare…). Nel Cinquecento e Seicento regnano ancora sovrani poemi e tragedie, generi principe…

  161. Gomorra e La Casta, forse i due libri più socialmente incisivi degli ultimi anni, sono usciti con grandi editori generalisti. Un progetto come “Verde Nero” secondo me è destinato a non avere nessun riflesso sociale: auguro all’editore ogni successo, ma un lettore come me, abbastanza attento al mondo dei libri, fino a ieri non era neppure a conoscenza dell’esistenza di “Edizioni ambiente”, e non fossi passato sul letteratitudine probabilmente non ne avrei mai saputo nulla.
    Per questo dico che secondo me il progetto non è destinato a veicolare socialmente granché. Però auspico di cuore che i fatti mi smentiscano.
    rex

  162. Sono d’accordo con Walter Siti: lo scrittore è libero e non ingabbiabile per sua natura, è cosmo che cerca di organizzare il caos dell’esperienza e della storia ma certe tessere disperse rimarranno sempre, altrimenti non avremmo libri ma diktat di partito…

  163. Conosco Verdenero e i libri di Edizione Ambiente. Idea innovativa, più libri di qualità.Bravissimi
    Dietro c’è anche Legambiente, che può dare fastidio a chi se ne frega dei problemi legati all’ambiente………..

  164. dal sito di Verdenero…………
    Di che cosa si tratta. Nella formulazione consolidatasi in questi anni, “Ecomafia” coincide con alcuni grandi fenomeni di illecito ambientale diffuso, che Legambiente ha identificato in: ciclo dei rifiuti (smaltimento illegale, traffici internazionali), ciclo del cemento (e quindi anche mafia degli appalti e abusivismo edilizio), racket degli animali (traffici internazionali ma anche combattimenti e corse illegali), archeomafia e furti d’arte. A queste attività corrisponde un tessuto di “clan dell’ecomafia” che rappresenta un campione significativo della criminalità organizzata. Ma oggi il concetto può essere allargato. Ecomafia può essere intesa anche come la criminalità della porta accanto (quella del funzionario corrotto e del “bravo imprenditore”, per esempio); trova terreno favorevole nell’inefficienza della gestione pubblica, in chi vuole “meno stato” per avere le mani libere, o ancora nella generale vocazione all’illegalità spicciola in un paese con regole inefficaci. È la cultura dell’affermazione invadente dell’interesse privato, che erode il concetto stesso di bene comune. E proprio l’ambiente, più d’ogni altra cosa, rappresenta il bene comune. Se poi intendiamo l’ambiente in senso più ampio – cioè come equilibrio tra processi economici, sociali e ambientali per raggiungere la sostenibilità – esso rappresenta sia il bene comune che le regole per garantirne l’esistenza. E in questa chiave l’Ecomafia si estende virtualmente fino a ogni illecito che sottrae risorse a coloro che ne hanno diritto.
    Il significato. L’iniziativa possiede, sia nelle intenzioni dell’editore sia in quelle degli autori, un’esplicita valenza di impegno sociale e culturale, finalizzata a dare la massima diffusione a temi oggi sottovalutati, caricandoli di una efficacia emotiva preclusa al linguaggio tecnico burocratico con cui normalmente vengono comunicati. La discussione sul tema, attualmente, resta sostanzialmente confinata nell’area degli ambientalisti in senso stretto, e in quella delle forze dell’ordine in quanto “addetti ai lavori”. Il tema “buca” i media solo in casi socialmente clamorosi o in occasione della presentazione del Rapporto annuale, salvo poi rientrare nel rumore di fondo di una coscienza collettiva intorpidita dalla pratica abituale dell’illecito. L’argomento si presta invece ad essere comunicato in una dimensione più ampia, che può coinvolgere altri soggetti, attraverso forme di divulgazione più estese e diversificate. Per questo riteniamo, anche in presenza di un auspicabile mutamento dell’atteggiamento della politica verso questi temi, di porre in atto un programma integrato di comunicazione per la sensibilizzazione sull’ambiente come risorsa collettiva.

    L’occasione editoriale. La possibilità di raccontare, con la libertà e l’immediatezza del linguaggio narrativo, i progetti “ecomafiosi” e i comportamenti sociali che li alimentano, diventa l’occasione per mettere efficacemente in primo piano il significato del patrimonio collettivo e la salvaguardia delle risorse comuni. E diventa l’occasione concreta per lanciare eventi e manifestazioni che diano voce alle componenti sociali più vive, contro l’apatia e contro il silenzio.

    Perché VerdeNero? Il nome è collegato ai colori che tingono lo scenario dell’ecomafia: da una parte il verde (la natura, il bene comune per eccellenza) e dall’altra le trame e le connivenze della malavita organizzata, materia da cronaca giudiziaria, e spesso da cronaca nera. Il Verde e il Nero sono i due mondi che nell’ecomafia vengono a contatto. Ma queste “parole-colore” si estendono simbolicamente fino alle esperienze e ai sentimenti del cittadino comune, che nei fenomeni di ecomafia è quotidianamente implicato, anche quando non sembra percepirlo. Il silenzio dell’omertà, l’inquinamento delle coscienze, l’insidia della violenza sono ben rappresentati dal nero, colore dell’ombra. Mentre, dall’altra parte, resta piena e vitale la voglia di dire, di fare, di rompere i silenzi e dare uno spazio nuovo alla vita di relazione. E anche alla speranza, da sempre illuminata dal colore verde.

  165. d’accordo con verdenero:la geografia ci connota, i luoghi belli abitano la nostra anima bella, l’ambiente naturale sporco e insidioso inculca percezioni e energie deleterie. La natura dal doppio volto se da un lato si prodiga offrendoci la materia per la vita, se non é rispettata , si ribella e diventa madre ostile. non dimentichiamo che i primi sacrifici erano rivolti alla madre terra perché fosse benevola col donare semi ,frutti e acqua. Pasolini docet (nel film Medea).L’abilità artistica é altro. Ricordo che anche la tragedia Edipo re era un giallo alla ricerca di un colpevole. Il risultato é un capolavoro di poesia e di drammaturgia. lucia arsì

  166. Incuriosito dai continui riferimenti classicisti di Lucia Arsì (Archiloco… ho dovuto cercare il volume “lirici greci” dentro uno scatolone in soffitta, però è stato piacevole “riscoprirlo”, chi se ne ricordava più) ho cercato il suo nome su Google e mi pare di aver capito che è una poetessa (oltre che una bellissima donna), nonché insegnante di latino e greco al classico?, non so ipotizzo. Quello che mi colpisce è che per lei il mondo greco è come se fosse faccenda di ieri, davvero insolito. Si trova davvero bella gente sul “letteratitudine” (a parte me)
    rex

  167. Ora devo chiudere.
    Non so se stasera riuscirò a inserire le risposte alla quarta domanda (sono in partenza).
    Se non dovessi farcela vi chiedo la cortesia di pazientare fino a domenica.
    Vi ringrazio.

  168. @rex: credevo che la delicatezza fosse prerogativa solo femminile; mi ravvedo e ti ringrazio. Lucia

  169. No, Lucia, sono io che ti ringrazio. Per la magnifica ora trascorsa sul tuo sito (www.galleriaroma.it) che mi ha molto sorpreso: tu vivi davvero la classicità come contemporanea, questo mi è parso di capire. Quanto entusiasmo autentico! Beati i tuoi studenti che hanno un’occasione unica, che non a tutti gli Dei Immortali concedono (scusa ma sono appena uscito dal sito e… sono sotto la tua influenza): quella di avere un’insegnante che dev’essere formidabile, ce ne fossero come te! Ciao e alla prossima.
    rex

  170. Grazie a tutti quelli che sono intervenuti al dibattito. Siete stati molto utili e considero importantissime le vostre diverse opinioni. Se altri si uniranno al dibattito mi farà molto piacere.

  171. Accidenti…quanta roba! C’è materiale per un convegno, per un saggio collettivo oppure per una chiacchierata tra amici davanti a un grappino.
    Aggiungo una frase di Proust (cito a memoria ma il senso è quello): “Scrivere un libro e mettere la morale troppo in evidenza è come fare un regalo e lasciarvi attaccato il cartellino con il prezzo”
    Condivido ampiamente. Però in ogni opera (anche quella apparentemente più superficiale o d’evasione) l’autore mette un pezzo (o più pezzi) di se stesso, inserendo nel testo la propria visione del mondo.

  172. Uno dei pochi noir che ho apprezzato è stato “né con te né senza di te” (Bompiani), di Paola Calvetti, ma solo perché non è un noir in senzo stretto, ché definirlo tale sarebbe riduttivo (e intanto approfittando della vacanza di Massimo vi parlo della mia scrittrice preferita)
    rex

  173. @luciano/idefix:
    per Proust l’ethos é una conquista personale, un habitus per ogni misura,che perciò non è estensibile a tutti. Ergo, mai imporre diktat. La vera opera d’arte é velata, il lettore ama lo svelamento e perciò acquista il libro( che ritiene intrigante) senza badare al prezzo. Lucia Arsì
    Dimenticavo: nel blog rimandiamo al mittente ogni cartellino con il prezzo, anche se non é salato.

  174. Il nous, la soluzione del problema è tutta lì. Acc.. da quando leggo Lucia mi è tornata la voglia di rileggere i classici greci. Adesso vado in soffitta e li riprendo tutti, ne ho un bel pacco. Platone Plotino Anassagora Anassimene Anassimandro Solone Socrate Sopito… vado in soffitta e li rispolvero, sicuro che lo faccio.
    rex

  175. Caro rex, non é importante leggere i classici quanto tra-durli ossia trans-ducere ossia andare oltre ossia osservarli con sguardo profondo.Faccio un esempio:Afodite é la dea dell’amore, ma quando visita rende tristi, angosciati,sofferenti. Perché?Perché viene accompagnata da Temi, dalle moire,cioé quando ami in profondità ti senti in colpa, compi ingiustizia,emergono le paure,le insicurezze, non ti senti all’altezza della dea.Infatti Afrodite rese zoppo Anchise perché lui, umano, svelò che aveva conosciuto intimamente la dea più bella(Omero). Mai guardare una dea nuda. Si paga e a caro prezzo!
    Di questo ho discusso, invitata a Taormina a leggere Saffo in greco alla presenza di James Hillman, alunno di Jung.Ciao Lucia

  176. Cara Lucia, quello che scrivi è molto interessante. Comprendo l’interpretazione psicoanalitica dei miti classici (mi viene in mente “il disprezzo” di Moravia, se non l’avessi letto mi permetto di consigliartelo, ti interesserà); ma se ti dicessi che la dea nuda io l’ho vista e non ho pagato? Certo, era una Venere pandemia, non la Venere uranica dei filosofi, ma pur sempre di Venere si trattava. Una lettura interessante e “coeva” è il “de natura deorum”, che tu certamente conosci meglio di me: ci sono ben 4 Veneri (io sono un seguace di questa dea, perciò me ne interesso molto), di quale noi stiamo parlando?
    Io sono un adepto della Venere pandemia, che considero molto più nobile dell’altra: Venere, colei che va da tutte le cose. Pandemia, di tutto il popolo (per ora vado a memoria e potrei sbagliare qualcosa). La Callipigia (mia preferita), ebbè questa va guardata rigorosamente nuda, guai a volerla coprire. Sei d’accordo,Lucia, che le Veneri sono tante? ciao, rex

  177. Infatti Afrodite rese zoppo Anchise perché lui, umano, svelò che aveva conosciuto intimamente la dea più bella(Omero). Mai guardare una dea nuda. Si paga e a caro prezzo! — così hai scritto, cara Lucia.
    Però scusami ma colgo una piccola incertezza, nel tuo ragionamento: Afrodite fece benissimo a rendere zoppo Anchise, perché lui non seppe custodire il segreto amoroso. Cosa gravissima, questa, a mio giudizio, Anchise meritò la sua punizione. Tu però concludi: mai guardare una dea nuda. Io completerei dicendo: mai guardare una dea nuda e poi spiattellarlo in giro, si paga (e giustamente) un caro prezzo. Ma nell’intimità e nel segreto io direi che, al contrario, mai lasciare la dea vestita. Si paga un prezzo salatissimo!
    rex

  178. @ rex,carico di enthusiasmòs.La dea, caro rex, é senza orpelli. La bellezza di Afrodite é un insieme di percezioni che ti svegliano, ti invitano ad agire, a gustare la vita. Ella non é bella perché o quando o etc…Va da sé che questa é un’idea, nucleo primigenio che Greci rappresentarono e a cui dettero un nome.La bellezza é una VERITA’ che fa bene (e non si tratta del bonum codificato da norme imposte da misuratori imbelli). Inoltre vedere la dea nuda e divenire zoppo(Anchise)o cieco(Tiresia che vide Pallade bagnarsi) vuole significare l’abisso tra l’umano e il divino, le piccolezze umane e le grandi cose. Il valore della bellezza, dell’amore, della giustizia é altro, é totalizzante e l’uomo deve avere uno sguardo di reverenza.Il mio apprroccio al mito é a 360°.Prediligo l’analisi filologica del testo, lo osservo anche dal punto di vista sociologico,antropologico,religioso.E su questo ho pubblicato parecchio.Ciao. Lucia

  179. Mi sento piuttosto vicina alla definizione di Sanguineti per una lettura catastrofica ma ottimista del presente.

  180. A entrambi. Certo, l’indignazione presuppone la speranza che le cose possano cambiare, e non sempre è facile crederlo, di questi tempi.

  181. Oggi andrei a recuperare quello che proprio Pasolini definiva un “comunista lirico”, e cioè Paolo Volponi, di cui si parla troppo poco. Un autore importantissimo che ha attraversato il ventre della balena capitalista, e ne ha narrato i mali, le crudeltà con spietatezza con grande forza espressiva, cruciale per capire la società italiana del secondo novecento e di conseguenza la nostra. Lo stile di Volponi è grandioso, inimitabile, come è profondo il suo occhio sociologico. Forse lui li incarna entrambi e si può definire un pessimista visionario.
    Servono oggi scrittori di questa fatta, credo.

  182. A nessuna delle due posizioni, con una precisazione finale, dopo avere motivato la distanza dalle posture di questi due padri imprescindibili ed eccellenti. Semplicemente, oggi, e per sempre, l’Italia non esiste e non esisterà. Non ha stile e non sfrutta la potenza del proprio immaginario e, quando certi scrittori italiani (che oggi già a mio avviso surclassano i loro colleghi coetanei francesi, tedeschi, angloamericani) verranno riconosciuti in una simile opera di eiezione di immaginario, ci si renderà conto che lo slittamento dell’oggetto narrativo, nelle forme e nelle visioni, sarà tale da non potere essere più etichettato come italiano. La precisazione finale è questa: è con l’oggetto paradossale “a brulichio” di Pasolini, cioè “Petrolio”, che si indica una strada allo slittamento, alla morfogenesi rinnovata delle forme, dei tempi e delle intime posture di fronte al testo, all’oggetto d’arte. Pasolini, insomma, come già ai suoi tempi Leopardi con lo “Zibaldone di pensieri”, indica una possibile percorrenza. Si dovette attendere Fubini nel 1932 perché lo Zibaldone fosse considerato testo organico. Con “Petrolio” capiterà lo stesso, al di là dell’equivoco che ne ha garantito il successo postumo grazie a interpretazioni che rasentano l’imbecillità.
    Nel frattempo la narrazione prosegue, macina arcaica e nuovissima retorica. Chi avrà gli occhi per vedere vedrà.

  183. Né all’uno né all’altra. Non voglio giudicare, ma raccontare il mio paese. Come cittadino ne sono quotidianamente disgustato, amareggiato, afflitto. Ma da scrittore trovo l’Italia una stupefacente, purulenta, corrotta, inesauribile fonte di ispirazione. Con l’indignazione e con il paternalismo non si va molto lontano nel campo della prosa. E infatti Pasolini è stato grande in tutto, tranne che nei romanzi. Ma poi… lasciamo perdere Pasolini. Se la maggior parte degli scrittori italiani delle generazioni che mi hanno preceduto avessero usato la macchina da scrivere per inventarsi una contea di Yoknapatawpha o uno stato di Cacania anziché un pulpito o uno speaker’s corner, la loro opera sarebbe rimasta e noi tutti saremmo più ricchi.

  184. Resto soprattutto legato a un non-scrittore, a un autentico politico come il primo Pannella, con le sue fondamentali battaglie per il diritto al divorzio e all’aborto.

  185. Mi sento più vicina a Sciascia sinceramente anche se amo lo slancio lirico di Pasolini e le sue visioni aggrondate e apocalittiche.
    Preferisco l’atteggiamento razionale critico a quello emotivo e profetico. Ma un paese vivo ha bisogno di tutti e due: Sciascia che fa anatomia storica e Pasolini che profetizza e graffia.

  186. Considero entrambi due pilastri della cultura italiana del dopoguerra, ammiro i loro scritti, talvolta condivido le loro battaglie politiche o letterarie: ma non sono sicura di potermi riconoscere nella loro posizione. Prediligo il romanziere Leonardo Sciascia, mentre conosco troppo poco lo Sciascia intellettuale.
    Tendenzialmente sarei forse più vicina al viscerale Pasolini e alla sua obliquità rispetto al proprio tempo. Il fatto è che dal punto di vista dei contenuti mi sento su un’altra isola. Non posso condividere, e l’ho anche scritto, la sua nostalgia e il rimpianto per la morte della civiltà contadina travolta dall’industrializzazione.
    Di questa civiltà ho conosciuto, studiato e vissuto direttamente la trasformazione e l’estinzione: una parte della mia famiglia era appunto una famiglia contadina, miserrima e diseredata. Non c’è nulla che quei vecchi assassinati dalla miseria, costretti a seppellire i loro figli, assassinati dall’ignoranza, costretti a lapidare metaforicamente e talvolta letteralmente i diversi, i non-conformi, a emigrare come greggi di pecore, manipolati dalla superstizione atavica, dal primo dittatore che veniva a urlare sotto le loro finestre, debbano rimpiangere.
    E nemmeno noi. Non ho un atteggiamento misoneistico verso il presente o il futuro: non lo disprezzo e cerco di comprenderlo – perché il passato non è mai migliore. Non c’è niente di migliore nel passato che i nostri anni trascorsi, perduti per sempre. Meglio l’ipermercato rigurgitante di merci della fame, meglio l’appartamento in condominio con le finestre di alluminio del tugurio senza finestre. Meglio la televisione con le donne nude della paura dell’Inferno. Per il contadino è meglio la lampadina della lucciola. (Naturalmente, io come Pasolini mi commuovo ancora quando ne vedo una.) Insomma, ciò che ha distrutto l’Italia – che sia un paese distrutto lo dicono le macerie che lo ingombrano – non è la morte della civiltà contadina, né il denaro ma l’ignoranza. La luce, il mare, il paesaggio, il nulla di cui avevano vissuto per secoli, avrebbero potuto essere la ricchezza del contadino e del pescatore, del bracciante e del pastore. Il problema è che chi lo governava non ha mai pensato che mare, costa e paese appartenessero anche a lui – bestia, carne da cannone, cosa, voto – e lo hanno prima espulso e poi recintato, togliendogli anche quello. Questo mi indigna ancora e non smetterà mai di farlo.

  187. Sono due maestri e i maestri non vanno commentati. Né avvicinati. Si possono solo superare.

  188. Pasolini è una figura sempre più dolente nella mia memoria; come se a distanza di tanti anni avvertissi con maggiore nettezza una violenza (una patologia? una ferita?) più profonda di quella che lui stesso sapeva di gestire. Anche nell’appassionato corpo a corpo che ha combattuto contro l’intero paese (parte ormai del patrimonio genetico di quelli della mia generazione, memore di alcune illuminazioni pasoliniane) scorreva un veleno a cui lui stesso non era immunizzato. Alcune radici della sua violenza, della sua delusione, della sua rabbia, affondavano inevitabilmente nelle ideologie che pure lo respingevano come corpo estraneo.
    Un caos di lacerazioni. Pur ammirandolo non ho mai cercato di percorrere la sua strada, riconoscendomi di più in Sciascia, come maestro di passioni quotidiane. Ho smesso di scrivere articoli per i giornali perché mi sfuggiva uno stile troppo “invettivante”, quasi violento, e non mi ci riconoscevo.
    Non c’è niente di più frustrante di un articolo violentissimo che non produce NESSUN effetto. Ci sono giornalisti che ormai sembrano cani alla catena, monotoni nel loro abbaiare alla luna. Il guaio è che sono commentatori, più che giornalisti.
    Mai in Italia un governo è caduto dopo un’inchiesta giornalistica.

  189. Per quanto mi riguarda non mi sento vicina né all’uno né all’altro di fronte ai guai della società italiana: in primo luogo quella di Pasolini e quella di Sciascia era un’altra Italia, con altri guai; inoltre non sono incline né al pragmatismo pessimista né all’indignazione visionaria, preferisco l’analisi e una responsabile attenzione critica.

  190. Dico invece Rocco Scotellaro. Preferisco la sua urgenza di cambiare le cose attraverso la conoscenza e la scrittura in un contesto e in una terra molto difficile, come era la Lucania del dopoguerra.

  191. Pasolini, indubbiamente. Fra l’altro, quella che qui si definisce “indignazione lirica e visionaria” di Pasolini discende da una corrente primaria della tradizione culturale e letteraria italiana, quella che ha la sua fonte nella Commedia dantesca e due formidabili gorghi gemelli nell’Ottocento di Leopardi e Foscolo. Rispetto ad essa il pessimismo di Sciascia è ramo minore.

  192. Più a Sciascia, anche se certe sue forme geometrizzanti mi sembrano una scorciatoia. Alla lirica non ci arrivo, la visionarietà è un limite superiore che tocco di rado. Appartengo alla razza di chi rimane a terra. L’indignazione non me la posso permettere. (E comunque, bisognerebbe avere più rispetto per le perversioni di Pasolini, per il suo dolore cupo e privato.)

  193. @ Angelo Ferracuti
    Sono d’accordo con la tua efficace definizione riguardante Volponi: “Un autore importantissimo che ha attraversato il ventre della balena capitalista”. Bisogna tuttavia fare attenzione a non rinchiudere l’autore urbinate all’interno di alcune definizioni (legate alla sua militanza comunista e all’aspetto sociologico della sua scrittura) che si utilizzano generalmente nei suoi confronti. Ricordo il bellissimo romanzo “Il sipario ducale”: una commovente storia d’amore, un delicato omaggio alla sua Urbino, alle sue dolci colline.

  194. Avevo già risposto sul “leggere e scrivere”. Confermo tutto:

    Pasolini e Sciascia non mi interessano, mi sento lontano da entrambi. Di fronte ai guai della società italiana mi sento più vicino a un Flaiano o Longanesi: penso che una vera satira sia molto più efficace di mille lagne alla Pasolini. Bisogna mostrare all’uomo e alla società l’aspetto ridicolo della propria essenza, è questa la cosa che soprattutto temono.

    rex ex-ex

    Di Stefano Martedì, 02 Dicembre 2008
    (…) Sono d’accordo sulla necessità di puntare sullo smascheramento del ridicolo e sul nome di Flaiano (anche se sare più cauto su Pasolini: pensi a “Petrolio”!). Non dimenticherei mai, in ttto questo discorso, un gande nome: quello di Paolo Volponi.

  195. Gaetano e Rex hanno anticipato il mio invito a leggere e commentare i suddetti interventi. Grazie.
    A tutti gli altri… con quale delle risposte alla quarta domanda vi sentite più in linea?
    (Magari c’è qualche “anima pia” che non si è ancora stancata di questo post e ha voglia di rispondere).

  196. @ Rex
    Ho avuto modo di “sentire” Paolo Di Stefano. È stato molto bello questo “gemellaggio” tra Letteratitudine e Leggere e scrivere.
    Che poi… “Letteratitudine” è un blog d’autore del Gruppo Repubblica/L’Espresso, “Leggere e scrivere” del Corriere della Sera.
    Proprio bello.

  197. Caro Massimo, ultimamente Di Stefano appare un po’… come dire… ingessato, ecco. Sì, ingessato è la parola giusta (chi vuole scoprire in che senso faccia un salto al “leggere e scrivere”).
    Questo gemellaggio è la dimostrazione di come ci si possa confrontare collaborando, con reciproco vantaggio.
    Trovo il tuo blog davvero stimolante, complimenti.
    rex

  198. Carissimi. Sperando di fare cosa gradita vi posto l’inervista a lucarelli fatta in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, edito proprio con Edizioni Ambiente, nella collana VerdeNero di cui abbiamo parlato.

    E.A
    Lei crede nei romanzi socialmente utili? E crede soprattutto che il noir sia un genere socialmente utile?

    C.L.
    Sì. Anzi credo che i romanzi siano tutti socialmente utili quando sono scritti bene e con sincerità. Il noir forse lo è particolarmente. Non è l’unico genere a svolgere questo tipo di funzione, però fisiologicamente lo fa, perché ficca il naso nelle cose che non funzionano e raccontandole le denuncia.

    E.A.
    “Navi a perdere” sembra un testo pensato anche per la televisione. Pensa che in futuro “Blu Notte” seguirà il filone delle ecomafie?

    C.L.
    Blu Notte in parte già lo ha fatto con la puntata che abbiamo dedicato all’amianto. Vogliamo continuare naturalmente con questo filone e potrebbe anche essere che questo sarà un argomento dei nostri. “Navi a perdere” però non è stato scritto pensando alla televisione. Il fatto è che io scrivo sempre nello stesso modo (ndr. Lucarelli sorride), quindi se mi occupo di narrativa la mia sperimentazione è di un tipo e quando racconto cose vere il mio modo di raccontare è quello. Quindi semmai quando scrivo alla televisione penso ai romanzi.

    E.A.
    Da 25 a 100 navi scomparse nel corso di poco più di un decennio in un’area, quella del mar Tirreno prospiciente la Calabria, molto ristretta. Le navi dei veleni sono quindi un dramma sociale?

    C.L.
    Sicuramente sì. Siamo sempre sul piano delle ipotesi. Le navi sono affondate e molti credono che contenessero dei veleni. Questa è la base su cui ragioniamo. E’ sicuro però che sono successe molte cose terribili nel mare. Già solo cento navi che affondano sono un fatto strano e comunque un brutto disastro. Ed è vero che abituati come siamo a pensar male, e molte volte ad aver ragione di farlo, possiamo pensare che nei nostri mari ci sono moltissimi veleni. Bé, questo sì che è un dramma sociale. Quando si comincia ad avvelenare il mare, la terra e l’aria che si respira il problema diventa globale, di tutti.

    E.A.
    In “Navi a perdere” emerge la figura di Comiero, faccendiere impelagato nello smaltimento dei rifiuti radioattivi. E proprio parlando di rifiuti radioattivi nasce un collegamento con il caso Ilaria Alpi. Un altro mistero insoluto del nostro paese…

    C.L.
    L’ingegner Comerio in effetti viene visto e sentito in relazione a tutta una serie di episodi che riguardano queste vicende, quindi anche il caso Ilaria Alpi. Più che altro si ritrovano in casa sua tutta una serie di documenti che parlano di questi fatti. Spetta naturalmente alla magistratura arrivare in fondo a queste vicende. Quello che è certo è che ci sono tante assonanze, tante vicinanze che suonano inquietanti.

    E. A.
    Recentemente Wu Ming 1 ha lanciato un dibattito letterario con la pubblicazione di “New Italian Epic”, un saggio che cerca di individuare un filo conduttore tra diversi scrittori italiani contemporanei. Lei si riconosce in questo filone letterario?

    C.L.
    Assolutamente sì. Credo di far parte di questa nebulosa, di questo arcipelago di scrittori che cercano di scrivere romanzi di ampio respiro che trattino tematiche che abbiano a che fare con la nostra storia contemporanea e con il nostro presente in maniera “epica”. Mi ci riconosco perfettamente.

  199. Grazie ancora, caro Rex.
    In effetti ero a conoscenza della situazione di salute di Paolo Di Stefano.
    Gli faccio tanti auguri di pronta guarigione, anche a nome di tutta Letteratitudine.

  200. Cara Sofia, hai fatto benissimo a inserire questa interessante intervista a Carlo Lucarelli.
    Peraltro Lucarelli era presente alla fiera “Più libri, più liberi” proprio per presentare questo romanzo edito da VerdeNero. Ho avuto modo di salutarlo e complimentarmi con lui per aver aderito all’iniziativa.

  201. Lì a Roma ho incontrato anche Alberto Ibba, che è il direttore di VerdeNero.
    Ci siamo fatti una bella chiacchierata, illustrandomi ulteriormente gli obiettivi della collana e i progetti futuri.
    Spero che Alberto riesca a fare un salto qui.

  202. Sempre da Roma vi segnalo alcuni stralci di un incontro interessantissimo che si è svolto presso iL Caffé Letterario domenica 8 dicembre alla Fiera Più libri, più liberi ha visto protagonisti tra gli altri Carlotto, Abate, Marco Vichi (che presentava un suo libro sempre di VerdeNero)…

    “Si è sempre parlato dell’impegno degli scrittori, ci si è sempre domandati se l’impegno nella letteratura può cambiare o meno il mondo, incidere di fatto sulla realtà. Come lo vivete l’impegno?”

    VICHI
    Quando si cerca di essere onesti si può fare delle operazioni di sensibilizzazione nei confronti del lettore. Il problema dell’inquinamento dell’ambiente e di altri problemi e innanzitutto e prima di tutto un problema culturale, che secondo me si può risolvere solo culturalmente. Chiaramente poi però il mondo non cambia, perché chi crede e chi crede in ciò che legge è comunque una piccola minoranza.

    “I vostri libri fanno davvero paura?”

    CARLOTTO
    C’è una cosa da dire che ancora non è stata detta. Sono i lettori che hanno certe esigenze. C’è una macchina mediatica che racconta magari delitti di grande efferatezza che però non hanno granché a che fare con le nostre vite e nessuno racconta la sofisticazione alimentare che tocca ognuno di noi. Sono i comitati che ci hanno chiesto in molti casi di raccontare quello che stava succedendo. La gente vuole essere informata ma non con i plastici di Porta a Porta. Non so se i libri fanno paura. Noi raccontiamo con gli strumenti della narrazione (siamo comunque dei romanzieri). In questo paese si tace sempre, è già importantissimo informare, e questi romanzi informano. Nelle presentazioni non riusciamo quasi mai a parlare di letteratura, perché le persone vogliono parlare dei contenuti. Soffrono perché non sanno le cose, non sono informate.

  203. Insomma, Sofia Assirelli, oggi l’informazione, a detta di Carlotto, viene a trovarsi piu’ nei libri che nei giornali. Non sara’ il caso di tornare a dare ad ognuno il proprio lavoro: il narratore narri (senza il dovere di cronaca) e il giornalista informi (con il dovere di cronaca)? Altrimenti i libri vanno a sostituire quel che altri mezzi devono fare – e non e’ ribaltando i ruoli che si ottiene il miglioramento complessivo ne’ dell’informazione giornalistica ne’ dell’invenzione romanzesca. Infatti la fantasia fugge sempre piu’ dai libri e la verita’ fugge dai quitidiani.

  204. Risultato: libri che ”durano” tre mesi e quotidiani inaffidabili. Era meglio prima (un secolo fa, intendo).
    Saluti Cari
    Sozi

  205. Intanto ringrazio Sofia e Massimo per aver ospitato all’interno di questo dibattito il nostro “piccolo” progetto editoriale. Rispondo subito ad un quesito che da più parti ci viene posto. VerdeNero non è a termine, anzi. Triplicherà il suo impegno. Non solo continueranno ad uscire i “noir” d’ecomafia, ma nascerà anche una collana di giornalismo d’inchiesta e nel 2010 un’ulteriore variante: abbandoneremo la cornice dell’ecomafia per dar voce a romanzi che affrontino temi sociale dal punto di vista della sostenibilità. Eccoci al punto. Io credo che la narrativa sia di per sè “sociale” ma non penso affatto che tutta la narrativa sia di per sé “socialmente utile”. Credo, viceversa, che ve ne sia un gran bisogno. Non semplice, per carità. Il risultato, tanto per cominciare, si accompagna alla biografia dell’autore. Credo nelle biografie “socialmente interessanti”.
    Se ha certamente ragione Roberto Bui a identificare nella new epic una certa letteratura dell’ultimo decennio, ecco io vorrei dire che oggi è nell’imminenza che si gioca una nuova partita. Ed è su questo piano che abbiamo coinvolto gli autori della “banda” VerdeNero. A me spiace non aver convinto Rex (che invito a prendere in mano però almeno uno dei nostri titoli), ma VerdeNero oggi viene premiata proprio perché convince ed esprime istanze semplici: l’ambiente (meglio la sostenibilità) è LA battaglia del nostro tempo; il romanzo di denuncia da sempre svolge un ruolo fondamentale così come l’inchiesta, quando ti permettono di farla. A noi piace l’idea, presuntuosa, di aver dato a queste due anime un corpo solo. Una che dall’alto ti indica lo schifo e l’altra che ti afferra finchè non ci sbatti il naso.

  206. @ Sergio
    Non sara’ il caso di tornare a dare ad ognuno il proprio lavoro: il narratore narri (senza il dovere di cronaca) e il giornalista informi (con il dovere di cronaca

    – “Cristo si è fermato ad Eboli” è stato scritto da Carlo Levi tra il dicembre del 1943 e il luglio del 1944. Ed è stato pubblicato da Einaudi nel 1945 (che piaccia o no, rimane nella storia della grande letteratura italiana).
    – “Se questo è un uomo” di Primo Levi è stato scritto tra il dicembre 1945 ed il gennaio 1947. Ed è stato pubblicato da Einaudi nel 1958 (che piaccia o no, rimane nella storia della grande letteratura italiana).
    – “Gomorra” di Saviano… (che piaccia o no, rimarrà nella storia della grande letteratura italiana).

    Questo per dirti che, da un certo punto di vista, il fenomeno non è nato oggi. E neppure ieri.
    Ancora una volta la differenta che conta è tra libri buoni e libri scadenti (“fiction” e “faction” che siano).

  207. @ Alberto Ibba
    Grazie mille per essere intervenuto.
    La notizia che “VerdeNero non è a termine, anzi. Triplicherà il suo impegno” mi pare davvero buona.
    In bocca al lupo per le vostre iniziative future.

    P.s. Io sono un grande appassionato del “romanzo sociale”.
    “Furore” di Steinbeck è uno dei miei preferiti…

  208. Cristo si è fermato a Eboli
    Ecco la letteratura in tutta la sua potenza, qui c’è tutto quello che SOLO il romanzo può fare. Un libro che avevo a torto sempre evitato, proprio a causa della critica che lo racconta in molti modi tranne quello giusto. Che per me è di considerarlo una sorta di poema Omerico, non una “semplice” questione meridionale. Non si può leggere un romanzo come questo senza entusiasmarsi alla materia “sublime”: è come se avessi appena finito di leggere L’Iliade, ho la testa piena di immagini, sto a Gagliano e ne parto con rammarico insieme allo scrittore. Non mi dispiacionno nemmeno gli azzardi di Levi, come quando enuncia una teoria “razzista” a proposito di quei contadini che tanto ammira -(questo io penso, non si tratta di amore, ma di partecipazione, di ammirazione nemmeno tanto nascosta. Non per caso egli volle diventare definitivamente uno di loro facendosi seppellire ad Aliano, il paese in questione), la teoria di Levi, dicevo: quei contadini sono i discendenti dei popoli preindoeuropei sconfitti, forse autoctoni, e adorano la “dea madre” originaria tipica delle società matriarcali preindoeuropee, di cui assume le prerogative la Madonna Nera di Viggiano, autentica divinità ctonia.
    E le streghe, gli incantesimi, l’Arciprete misantropo, la dimensione magica di tutte le cose: non lo dimenticherò facilmente questo romanzo, anzi non lo dimenticherò affatto. E per una volta sono d’accordo perfino con Sartre quando nella prefazione parla del coraggio di Levi: il coraggio di rifiutare tutti i realismi in nome della realtà.
    Niente di più vero, proprio l’evidente rifiuto del realismo e la diretta partecipazione emotiva fanno di questo romanzo un capolavoro. Levi parte dal Piemonte industrializzato, precipita in una società arcaica ferma a tremila anni prima e ne sente tutto il “fascino”.
    ——-
    Metto qui un mio vecchio post al leggere e scrivere, su un romanzo che ho molto amato. Di Stefano rispose: un ottimo rex, come lo si vorrebbe sempre.

  209. Caro Ibba, non solo prenderò in mano qualcuno dei vostri titoli, ma probabilmente molti di questi titoli: quando uscirà la collana di giornalismo d’inchiesta, però. Quella di sicuro si rivelerà socialmente utile, se avrà una diffusione adeguata.
    Beninteso tutto il progetto è lodevole, le mie perplessità riguardavano soprattutto la sua efficacia in relazione agli obiettivi che si propone. Gomorra è diventato un libro socialmente utile solo in virtù della sua diffusione eccezionale; è un’analisi questa che come sapete fa lo stesso Saviano, non sto aggiungendo nulla di mio. Mondadori è certamente un editore in grado di garantire un sostegno adeguato a un’opera: può un editore “di nicchia” fare altrettanto? Cioè, Gomorra, pubblicato e diffuso da un piccolo editore avrebbe avuto la stessa “utilità sociale”? Io un po’ ne dubito, potrei sbagliarmi.
    Tutti i temi della collana sono del massimo interesse, ecologia e sostenibiltà sono argomenti che dovrebbero essere quotidianamente posti al centro dell’attenzione generale. C’è di sicuro una enorme lacuna in questo ambito e una grave carenza d’informazione: riuscirà Verde Nero a colmarla, seppure in misura minima? Io ne dubito, però ve lo auguro di cuore. Per conto mio contribuirò con l’aquisto dei libri della collana di giornalismo d’inchiesta, non appena usciranno.
    Grazie e saluti, rex

  210. Ad esempio non vedo l’ora di sapere la verità su quella che è stata definita da alcuni giornali “la più grande discarica abusiva d’Europa”, cioè il caso di Bussi sul Tirino, in Abruzzo. Sarà vero? In effetti solo Verde Nero potrà chiarirci il mistero per intero.
    In ogni caso, grazie al “letteratitudine” ho avuto modo di conoscere la collana e il sito, che ho già collocato fra i “preferiti”. E ci rimarrà.

  211. Caro Rex, proprio vero… “Cristo si è formato ad Eboli” è un gran capolavoro!
    Grazie per la recensione.

    Riguardo “VerdeNero”… certo non può avere la forza di Mondadori, ma è ben distribuita (la trovo persino nelle librerie di Catania!) e si fa “sentire” davvero tanto (ma tanto). Considera, peraltro, che ha Legambiente alle spalle.
    In ogni caso, com’è che si dice?… chi vivrà, vedrà!
    E io voglio proprio vedere!
    😉

  212. Caro Massimo, ti cito in esteso per poterti rispondere:
    ”@ Sergio
    Non sara’ il caso di tornare a dare ad ognuno il proprio lavoro: il narratore narri (senza il dovere di cronaca) e il giornalista informi (con il dovere di cronaca

    – “Cristo si è fermato ad Eboli” è stato scritto da Carlo Levi tra il dicembre del 1943 e il luglio del 1944. Ed è stato pubblicato da Einaudi nel 1945 (che piaccia o no, rimane nella storia della grande letteratura italiana).
    – “Se questo è un uomo” di Primo Levi è stato scritto tra il dicembre 1945 ed il gennaio 1947. Ed è stato pubblicato da Einaudi nel 1958 (che piaccia o no, rimane nella storia della grande letteratura italiana).
    – “Gomorra” di Saviano… (che piaccia o no, rimarrà nella storia della grande letteratura italiana).

    Questo per dirti che, da un certo punto di vista, il fenomeno non è nato oggi. E neppure ieri.
    Ancora una volta la differenta che conta è tra libri buoni e libri scadenti (”fiction” e “faction” che siano).”

    Dunque: bene, tu mi dici che questo esiste. Io ti rispondo che lo sapevo gia’ ma che, anche se e’ pacifico che esista, non vorrei che la Letteratura divenisse mera testimonianza dei fatti di cronaca, ovvero sostituisse, come ho paventato io, i saggi storici e le altre trattazioni aventi finalita’ d’ordine oggettivo, per questo basilare motivo:

    Un romanzo e’ sempre di base soggettivo, pertanto la sua rappresentazione dei fatti non puo’ ricercare ne’ ottenere esaustivamente una qualsiasi oggettivita’ cronachistica senza uscire dal genere romanzesco o affini (generi caratterizzati da sempre da una preponderanza del fattore individuale rispetto al fattore oggettivo-sociale-storico).
    Mi sembra di esser stato chiaro: Manzoni ci fa conoscere si’ la rivolta del pane di Milano nel Seicento, ma non possiamo prendercela con lui se sbaglia la data di una ”grida” del Governatore spagnuolo, no?
    Insomma, Massimo, pur con molte tolleranze, mi ritengo uno di quelli che affermano l’indispensabilita’ di una rigida demarcazione fra la saggistica storica e affini, i giornali e affini, e il romanzo e affini.
    Coai’ la vedo.

    ‘Notte
    Sergio

  213. P.S.
    Infatti questo aspetto mi vede del tutto distante da uno come Vassalli che vuol fare ”tutto bene e con fantasia”. O bene o con fantasia, dico. Gli storici siano esatti e non scherzino col fuoco dei fatti e i romanzieri continuino ad essere imprecisi, salvandio i significati profondi, che sono il loro campo precipuo…

  214. Ultimo P.S. per Maugger:
    nei Levi e in Saviano sarei comunque felice se – sara’ cosi’ senz’altro come hai prospettato tu – rimanesse la loro personale opinione sulla storia nei secoli futuri. Ma sara’ solo la loro personale visione dei fatti, non una cronaca fedele. E’ nell’attitudine del romanziere, la differenza – e Saviano ancora non si e’ capito se sia romanziere o saggista storico o di costuime che e’ uguale. Tu lo hai capito? Io no.

  215. Io dovrei fare un’osservazione super partes, forse, ma mi sento di dire qualcosa a chi ancora non conosce VerdeNero e che forse ancora non abbiamo chiarito in questa sede.

    @ Sergio Sozi: – “Un romanzo e’ sempre di base soggettivo, pertanto la sua rappresentazione dei fatti non puo’ ricercare ne’ ottenere esaustivamente una qualsiasi oggettivita’ cronachistica senza uscire dal genere romanzesco o affini”. E’ giusto. Un romanzo non può raggiungere, non deve e non vuole raggiungere una verità oggettiva, giudiziaria, perché quello è il compito delle indagini e delle inchieste. Ma una verità narrativa. I romanzi di VerdeNero sono (quasi tutti) esplicitamente fiction e dunque rappresentazioni simboliche soggettive e personali, create da un autore. Non si prefiggono di sostituire l’informazione. Ciò che secondo me è ammirevole nel progetto VerdeNero è proprio non mescolare l’aspetto romanzesco e l’aspetto saggistico: i romanzi sono proposti come romanzi, e non hanno assolutamente quel’attitudine pedagogica che possono aspettarsi coloro che non li hanno ancora letti, e proprio per questo secondo me sono forti. Però poi sono seguiti da una scheda redatta da Legambiente che riporta il lettore dalla fiction alla realtà, riportando -lì sì – dati oggettivi con pretesa di oggettività, magari suscitando l’attenzione su problemi reali.
    Secondo me ciò che è interessante sono proprio le due anime, come dice Ibba, unite dal progetto: un’interpretazione soggettiva, coinvolgente e fantasiosa accanto a una scheda dall’oggettività innegabile. Il linguaggio del romanzo e quello tecnico scientifico non si ibridano, non si sostituiscono l’uno all’altro, nè si fondono: collaborano per arrivare, con il loro diversi modi, allo stesso obiettivo. Parlare di temi di cui poco si parla e contribuire, anche se in minima parte a un cambiamento culturale.

    @Rex: è chiaro che questi libri per poter avere un vero e proprio effetto dovrebbero avere tantissimi lettori. VerdeNero si è mossa molto bene ed è molto visibile. Ma sarebbe bello che più persone leggessero questi romanzi. Potrebbero essere utilizzati come laboratori alle superiori…

  216. Proprio così, caro Ibba (un miracolo congiunto -VerdeNero-Letteratitudine:-))
    E mi raccomando, non occupatevi solo dei soliti noti (Campania etc.), ma anche dei meno noti. “La più grande discarica abusiva d’Europa”, cioè il caso di Bussi sul Tirino, in Abruzzo, è tutto da spiegare. Cos’è successo realmente?
    Chi ha colpito al cuore la “regione verde d’Europa?”
    Chi ha appiccato gli incendi che hanno distrutto non so quanti chilometri quadrati di boschi negli ultimi due anni?
    Chi sta tentando di allungare le sue sudicie mani sull’Abruzzo??
    Lo sapremo da VerdeNero, spero.
    rex
    E le scie chimiche? Chi ha ossservato attentamente il fenomeno (è facile, basta alzare gli occhi e stare a guardare per qualche ora: io l’ho fatto e me ne sono convinto, non sono normali scie di condensazione) sa quanto è inquietante: con cosa ci stanno irrorando? E ci farà bene?
    Anche questo lo sapremo da VerdeNero, spero.
    Ciao e buon lavoro.

  217. Cara Sofia Ibba,
    grazie per l’illustrazione della sua Collana VerdeNero. E’ molto interessante e le idee-guida sono chiare. E’ gia’ qualcosa.
    Cordialmente
    Sozi

  218. Caro Sergio, hai confuso Sofia Assirelli con Alberto Ibba. E’ Alberto il responsabile della Collana (Sofia la sta… studiando. Sta conducendo un lavoro a livello universitario).

  219. Caro Sergio, Saviano si considera senz’altro un romanziere…
    Per quanto riguarda il resto ti dico che qualunque tipo di scrittura risente di un personale punto di vista. Succede anche con i libri di storia (mi piace confrontarli… a volte è proprio divertente).
    Come sai amo moltissimo la fantasia pura, e sai bene che Calvino è uno dei miei autori preferiti.
    Secondo me, in libreria, possono convivere benissimo saggi (molto letti in questi ultimi anni) e romanzi di ogni genere.
    L’unica vera differenza che conta, per me, coincide con il significato di una parola: qualità.
    Ma so che in questo sei d’accordissimo con me.

  220. Grazie ancora a Rex, a Alberto Ibba, a Sofia e a tutti gli altri.
    Spero che questa discussione possa continuare.
    In ogni caso, nei prossimi giorni, pubblicherò la seconda parte di questo post… con altre quattro domande sul tema “scrittori e politica” e relative risposte da parte degli scrittori citati.

  221. Chiedo scusa per la confusione, ohibo’, a Sofia Assirelli e al caro Ibba. Pardon: e’ l’eta’!

  222. Però la collana non è “mia”!
    Ho visto che rex ha messo un post su VerdeNero anche su “leggere e scrivere”. Qualcuno mi dà il link? grazie…

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