LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » A BOTTA E RISPOSTA (un tandem letterario conversando di libri) http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IL LIBRO SEGRETO DI JULES VERNE di Luca Crovi e Peppo Bianchessi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/12/il-libro-segreto-di-jules-verne-di-luca-crovi-e-peppo-bianchessi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/12/il-libro-segreto-di-jules-verne-di-luca-crovi-e-peppo-bianchessi/#comments Mon, 12 Apr 2021 13:53:05 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8760 La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri)” è dedicata al volume “Il libro segreto di Jules Verne di Luca Crovi e Peppo Bianchessi (Solferino).

Questa è la storia di uno strano volume rilegato in pelle, pieno di pagine bianche. La storia di un cimitero e di una notte di tempesta, di un pescecane e di una balena, di due giri del mondo e di un diavolo in una bottiglia. La storia di un libro segreto che può raccontare a chi lo sfoglia avventure fantastiche che cambieranno per sempre il suo destino. Questo è successo a Jules Verne, Collodi, Edgar Allan Poe, Robert Louis Stevenson, Edmondo De Amicis, Nellie Bly… E accadrà anche a voi lettori.

Un libro che, essendo destinato anche ai giovani lettori, lo colleghiamo pure alla nostra rubrica “Giovanissima Letteratura

Abbiamo invitato Luca Crovi e Peppo Bianchessi a partecipare al “tandem letterario” di Letteratitudine. Li ringraziamo entrambi per la loro adesione all’iniziativa

* * *

Ma come diavolo abbiamo fatto

di Luca Crovi e Peppo Bianchessi

L.C.: “Ma come diavolo ha fatto immaginarsi certe cose?”. Mi sono fatto spesso questa domanda leggendo le storie di Jules Verne, restando ogni volta a bocca aperta davanti alle incredibili invenzioni presenti nel suo immaginario. Poi è arrivato il mio amico Peppo Bianchessi che ho conosciuto qualche anno fa realizzando insieme la riedizione de “Gli uomini in grigio” di Giorgio Scerbanenco. Peppo mi ha sorpreso con due illustrazioni che hanno costituito la suggestione principale de “Il libro segreto di Jules Verne” che abbiamo costruito insieme. Mi puoi raccontare come eri arrivato a realizzarle?

P.B.: Anni fa feci alcune tavole per la mostra degli illustratori a Bologna. Chiamai questa serie “La biblioteca segreta di Jules Verne” perché raffiguravano un lettore alle prese con dei libri “magici” dai quali uscivano personaggi, cose e mostri che coincidevano con molti dei libri di Verne. Alcune di loro le esposi in una delle mie ultime mostre insieme a uno dei miei “Improbabilibri” (sculture/libri molto spesso nati dalle mie collaborazioni con autori): “Il libro Segreto di Jules Verne” dove da un libro aperto emergevano tentacoli e un vascello. Tu sei venuto all’inaugurazione e dopo averlo visto e te ne sei uscito con la battuta: “Ho già in mente la storia. Facciamolo”. Ovviamente ho sperato che fosse solo una boutade e che non mi avresti costretto a disegnare dell’altro.

L.C. Sai che sono insistente vero?

P. B. Sei troppo buono!

L. C. Beh non sei contento del risultato?

P. B. Non sono mai contento del risultato! Se ad un certo punto non si dovesse andare in stampa continuerei a rivedere e aggiustare quello che ho fatto. E poi sono sempre più interessato al prossimo lavoro. Ma sì, al di là delle mie fisse, quando ho ricevuto la prima copia mi son detto: È un libro mica male. E sai che detto da me…

L.C: Tu mi hai costretto a prendere sul serio la nostra sfida letteraria. Mi spieghi cosa ti ha divertito del progetto al di là della fatica?

P.B: Al contrario di quello che si può immaginare, quello serio sei tu: nel senso che hai una conoscenza della materia e una memoria per nomi e fatti che crea una base solida e “rispettabile” dalla quale partire e sulla quale uno si sente al sicuro anche a azzardare. Cioè, sei uno che si può prendere sul serio.
Io, al contrario, sono uno incapace di prendere una cosa senza smontarla, esplorarla e rivederla per capirne le possibilità. Questo non renderebbe facile la collaborazione se anche dall’altra parte non ci fosse la curiosità e la volontà di sperimentare i propri limiti, quelli delle storie che amiamo e dei loro “supporti”, in questo caso i libri. Ma la premessa sulla quale ci siamo intesi fin dall’inizio è stata: in ogni caso ci interessa fare un bel libro, al meglio che possiamo e senza troppi compromessi o preoccupazioni di target, età o altro che spesso spingono gli autori a fare quello che gli altri si aspettano autocensurandosi o limitando il proprio lavoro allo stretto necessario…

L.C: Non è un po’ da masochisti?

P.B: Alle volte sì ma, come dico spesso, certi lavori (in particolare quelli creativi) sono pagati troppo poco (in termini di riconoscimenti e anche economici) per farli male. Sembra un paradosso ma per chi -come noi- ha scelto di fare un lavoro che ama, sentirsi chiedere di farlo in un modo che non è il nostro richiede uno sforzo per il quale sarebbe giusto essere pagati di più. Diciamo che una certa libertà di azione si paga con un sacco di notti insonni!
Essere liberi di fare il proprio lavoro nel miglior modo possibile.
Tutto questo, unito alla consapevolezza di avere abbastanza esperienza per riuscire a fare un libro che piaccia a noi e a chi lo leggerà, ha reso l’esperienza divertente… una specie di Jam Session o di partita a ping-pong a distanza, dove alle scoperte e suggestioni di uno rispondeva l’altro con nuove idee o altre scoperte. È iniziato tra citazioni, ritrovamenti, illuminazioni improvvise e lavoro investigativo, dove si faceva a gara ad unire dei puntini in apparenza lontani ma in pratica affini ed è un gioco che, con l’andare del tempo, si è rivelato solo l’inizio di un progetto più complesso.

L.C.: Nei tuoi libri hai usato stili differenti. Perché hai scelto questo nel caso del nostro libro?

P.B: Molti illustratori hanno un approccio -diciamo- “interpretativo” e qualsiasi cosa fanno diventa “la loro”: ogni libro diventa “alla maniera di”. Hanno uno stile ben definito e riconoscibile. Li invidio: ce ne sono alcuni bravissimi che hanno trovato un segno e lo lasciano impresso su qualsiasi cosa tocchino, rendendola unica. Da lì quel libro verrà classificato come si fa con altre opere legandole agli interpreti migliori o più originali: “Le variazioni Goldberg” di Glenn Gould o “Il Pinocchio” di Carmelo Bene o “L’Amleto” di Gielgud, tanto per fare qualche esempio.
Li invidio perché significa riconoscibilità e di fronte a un nuovo libro magari saprei subito cosa fare ma, essendomi trovato a fare questo mestiere quasi per caso, non ho ancora trovato probabilmente il mio “segno”, allora tento un approccio diverso. Per me un libro è un oggetto complesso e collaborativo che, oltre a contenere una storia a sé, va considerato in tutte le sue parti. Cerco sempre di trovare il modo di creare immagini che ne estendano il senso o che ne diano nuove interpretazioni.
Conoscere qualche nuova tecnica o trucco è una delle parti divertenti di ogni lavoro nuovo e non mi sento sminuito: se voglio esprimere me stesso come artista lo faccio nei quadri e nelle mie installazioni. Nel caso dei libri, spesso si tratta di fare un passo indietro, se serve a far funzionare meglio la storia. Ma questa è tutta teoria!
Nello specifico, da una parte ho ripreso lo stile delle stampe d’epoca e il gusto per la decorazione delle edizioni di Hetzel, dall’altra ho voluto richiamare Karel Zeman,

L.C: Mi ricordo i suoi film in bianco e nero proiettati sulla TV Svizzera quando ero bambino.

P.B: Questo regista Ceco fece diversi film tratti o ispirati da romanzi di Verne facendo muovere gli attori in scenografie dipinte come le stampe d’epoca di Riou e Benett che illustravano i primi libri di Verne (consiglio a tutti di visitare il suo museo a Praga!) dando un effetto spiazzante.

L.C.: E dopo Zeman?

P.B. Per dare credibilità a quello che avevi scritto o meglio, per immergerlo nell’atmosfera giusta, ho passato giornate recuperando dai ritagli di giornali alle biografie d’epoca, dalle foto di casa Verne ai manuali di nautica e infine ho giocato mischiando elementi reali ad altri dettagli funzionali al racconto cercando di restituire quel senso di meraviglia che ho provato quando ho letto per la prima volta certi racconti. E che continuo a provare quando leggo.
Alla fine ho fatto un pastiche. Diciamo che tutti e due abbiamo giocato sul limite, sull’ambiguità di ciò che è vero e quello che sembra vero ma potrebbe non esserlo…
Dopotutto la “sospensione dell’incredulità” è il requisito necessario affinché un racconto funzioni e noi ci occupiamo della “messa in scena”. Se alla fine il lettore si diverte vuol dire che il trucco è riuscito; se poi gli viene qualche dubbio e volesse andare a controllare la veridicità di alcuni passaggi, meglio ancora: significa che lo abbiamo incuriosito e sicuramente scoprirà un sacco di cose nuove.
Quello che mi ha impressionato, è stato piuttosto vedere che tu sia riuscito a trovare collegamenti tra diversi autori reali legandoli a un libro immaginario e misterioso…

L.C: In realtà sono state le tue immagini a scatenare tutto. Sto parlando delle due illustrazioni che aprono e chiudono “Il libro segreto di Jules Verne” e che mostrano lo scrittore francese mentre tiene in mano un fantastico volume dal quale emergono creature marine e persino un simpatico cagnolino. Guardando quei disegni mi sono chiesto: è se fosse questo il segreto di Jules Verne? Se avesse posseduto un libro speciale capace di suggerirgli le storie forse il suo incredibile talento avrebbe una spiegazione. Così, suggestionato dalle tue immagini ho cominciato a pensare a dove avesse potuto trovare quel libro e chi avrebbe potuto averlo nelle mani. Visto che Jules Verne scrisse il seguito de “Le avventure di Gordon Pym” intitolandolo “La sfinge dei ghiacci” e firmò dopo Charles Baudelaire la seconda biografia ufficiale di Edgar Allan Poe mi è venuto facile partire da lì. I testi della poesia “Alone” e i ricordi d’infanzia in Inghilterra inserirti nel racconto “William Wilson” di Poe hanno fatto il resto. Per davvero il piccolo Jules Verne, innamorato della sua cuginetta, scappò di casa nella speranza di regalarle una collana di coralli e appuntò i suoi ricordi legati alla passione per i fiumi e il mare in un testo biografico che non pubblicò in vita e che lasciò interrotto. Ed Edmondo De Amicis incontrò Verne di persona passando del tempo a casa sua per scoprire i suoi segreti.

P. B: Ancora mi chiedo perché mi hai trasformato in professore nella storia… probabilmente sono l’unica parte di finzione. Non vorrei diventare il tuo alter-ego.

L.C: In realtà stavo solo spiegando la genesi della storia. Guarda che potrei anche raccontare dove sei andato a prendere le immagini…

P.B: Lo confesso: ho scavato tra i libri, esplorando biblioteche e archivi online in cerca di immagini (fuori copyright: solo i fantasmi dovrebbero venire a lamentarsi!). Ma più che altro si tratta di citazioni, di un tributo a un’epoca di grafici, illustratori e tipografi straordinari. Un pastiche e spesso un pasticcio che nasconde un profondo amore e ammirazione.
E poi è stato è stato un insieme di coincidenze strambe: prima i miei due vecchi disegni, poi tu ti sei messo a lavorarci e, contemporaneamente, ho passato i primi mesi di lockdown a fare copertine per una quarantina di Ebook della collana “Voyage Extraordinaires” per diversi bravi autori di Book On a Tree di Baccalario che erano “incorniciate” da finte decorazioni d’epoca. La ricerca legata a questo ha aggiunto materiale a una libreria digitale sterminata di cornici, decorazioni e illustrazioni che raccolgo da anni, soprattutto di edizioni uscite tra ‘800 e ‘900 dove a mio parere illustratori e stampatori hanno dato sfogo a tutta la loro creatività nella confezione di libri strabilianti e preziosi (Le edizioni dei libri di Verne di Hetzel -di recente ristampati e distribuiti in edicola ne sono un esempio).

L.C. E la mia storia ti ha suggestionato?

P.B.: Direi che il lavoro più faticoso sia stato tenere a bada la tua frenesia enciclopedica. A parte i limiti nel numero di pagine del libro, ogni volta che mi hai tirato fuori un nuovo aneddoto, con quell’entusiasmo alla Indiana Jones, ti ho amabilmente odiato: gli scrittori sono spesso irresponsabili e ti buttano addosso continuamente input che nella testa di un illustratore si trasformano in assenza di sonno per starci dietro.

L.C: Beh, ma Nelly Bly me la hai suggerita tu e io sono andato a scoprirmela poco a poco.

P.B.: Ho pensato che avessi fatto apposta a dimenticarti del suo giorno del mondo in 72 giorni e speravo di vendicarmi facendotela illustrare ma non ha funzionato: altre notti insonni.

L.C: A un certo punto gli incastri sono diventati talmente tanti che il libro avrebbe potuto anche essere più lungo. Non mi sarei mai immaginato che impaginando il libro avremmo aggiunto altri elementi.

P.B.: L’altro giorno mi è venuta in mente un’immagine, in risposta a una domanda di un giornalista: la letteratura è vasta e i nostri amori letterari e artistici ci spingono sui fondali della letteratura a trovare perle. Mi sono messo a ridere, pensando che abbiamo proprio “le Phisique du role” dei pescatori di perle… Però ammetto che mi hai fatto far pace con Guido Gozzano, quando hai scoperto che il poeta, triste per la scomparsa di Jules Verne, gli dedicò una lirica che incarnò il sentimento di tutti i suoi lettori.

L.C.: E tu mi hai stupito scoprendo che qualche settimana dopo quell’evento iniziò a vivere le sue avventure a fumetti Little Nemo, in qualche modo erede dei viaggi straordinari di Jules Verne.

P.B.: In realtà, in quel momento, è riemerso il mio spirito di animatore: avevo trovato una foto di Verne sul letto di morte e il libro sarebbe potuto finire lì. Inutile dire che quello è un finale che più si addice alla vita reale… invece il meccanismo che abbiamo innescato con il libro, virtualmente, lascia aperte molte possibilità…

L.C.: Shhhh. Non fare spoiler abbiamo detto già troppo.

P.B.: Quello che intendevo è che, avendo trovato nuovi elementi da inserire, mi piaceva l’idea di rappresentare visivamente -visto che molti definiscono “immortali” gli scrittori attraverso le loro opere- il perpetuarsi dell’arte, dell’immaginazione in autori e forme diverse, da qui il finale “doppio”.

L.C.: Visto che sei un Professore!

P.B.: Sul serio: quando tu pensi di aver fatto una cosa semplicemente divertente e divertendoti, ti accorgi che invece è una specie di riflessione sulla creatività, sull’ispirazione e -ogni tanto- sulla maledizione che spinge gli artisti a fare quello che fanno.
La differenza -ed è qui che mi convinco che sia un buon lavoro- è che, dove un altro scriverebbe un saggio specialistico, tu sia riuscito a scrivere una storia divertente e coinvolgente, che può essere letta a vari livelli e in modo diverso a seconda del lettore, della sua età e delle sue esperienze: mi ricorda il Libro Segreto…

L.C.: O il segreto dei libri.

P.B.: Qual è?

L.C.: È un segreto.

P.B.: Cosa?

L.C.: Il Segreto.

P.B.: Ah, già. Non vedo l’ora di vedere il seguito…

L.C.: Shhh… È un segreto!

* * *

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Abbiamo invitato i due coautori del romanzo (qui di seguito ritratti in una foto “datata”) a partecipare al “tandem letterario” di Letteratitudine.

* * *

IL TANDEM LETTERARIO TRA JADEL ANDREETTO E GUGLIELMO PISPISA su “Tutta quella brava gente” di Marco Felder (Rizzoli)

Jadel: Come siamo finiti a scrivere un giallo?

Guglielmo: Mi verrebbe da dire perché volevamo sfruttare i meccanismi del genere oggi di maggior successo in modo da poter raccontare anche altro e che dunque il nostro non è solo un giallo e bla bla bla… ma sarebbe una gran bugia. Siamo finiti a scrivere un giallo perché avevamo voglia di scrivere un giallo. E possibilmente di scriverne uno buono. Chissà se ci siamo riusciti? Tu che dici?

Jadel: Be’, le cose sono sempre più complesse di quanto non si pensi perché è un giallo sfumato di noir, con qualche elemento thriller e una bizzarra vena comica. In ballo ci sono anche politica, storia, filosofia morale e due personaggi che hanno sorpreso me per primo… Per cui a me pare buono, molto buono, ma non so se è quello che ci aspettavamo… ma Karl e Tanino ti hanno colto alla sprovvista come hanno fatto con me?

Guglielmo: Porcamiseria e io che pensavo di avere scritto solo un giallo! Riguardo all’interazione dei nostri due sbirri, devo ammettere che mi aspettavo un rapporto movimentato ma l’alchimia ha stupito anche me. Il giochetto della “strana coppia” è un classico e non lo abbiamo certo inventato noi, ma credo che abbiamo alzato l’asticella. Si parte dagli stereotipi sulle differenze nord-sud, ma poi si arriva a zone irrisolte e rimosse della personalità di entrambi, nodi che è bene vengano al pettine. Ma così mi pare che ce la suoniamo e ce la cantiamo da soli e non va bene, per cui proseguo con una domanda non “embedded”: Perché questo romanzo è ambientato a Bolzano? Anche noi ci siamo piegati alla moda del giallo “local”?

Jadel: In effetti sembra che il Sudtirolo sia di gran moda tra gli scrittori di genere. I gialli e i thriller ambientati da quelle parti sono sempre di più, ma, nella maggior parte dei casi, usano lo scenario montano come qualcosa di esotico. Se facciamo due calcoli questa storia era nei nostri cassetti da molti anni, molto prima che l’Alto Adige diventasse la Scandinavia d’Italia, ma ci siamo decisi a finirla solo di recente. Con la differenza che abbiamo fin da subito scelto di ambientarlo in città e non tra le vette, i boschi e le valli. Le ragioni sono molte, ma al primo posto metterei il fatto che si tratta di una città bifronte. Bella, ordinata e pulita, ma con un passato recente fatto di serial killer e terroristi… Chi, come me, è nato negli anni Settanta ed è cresciuto a Bolzano, ricorda ancora il terrore seminato in città e nei dintorni da una serie efferata di omicidi o cosa significhi svegliarsi nel cuore della notte al suono di palazzi fatti saltare in aria col tritolo. Nell’immaginario collettivo, Bolzano è la città dove si vive meglio, quella del welfare, delle ciclabili, dell’attenzione all’ambiente e del benessere. In realtà è una città operaia destrorsa, dove apollineo e dionisiaco si affastellano senza soluzione di continuità, dove le tensioni etniche non sono ancora state risolte del tutto e la pace sociale soffoca ogni guizzo di creatività… e Messina che c’entra?

Guglielmo: Messina è la città natale dell’agente Tanino Barcellona, uno dei due protagonisti, nonché la mia città. La porta della Sicilia, ma paradossalmente anche la meno tipica delle città siciliane, quella dove Storia e Architettura si vedono meno, perché distrutte dal terremoto del 1908. Un dato che ha influito sulle caratteristiche dei messinesi che hanno un imprinting meno forte dei palermitani o dei catanesi e dunque, forse, anche una maggiore disponibilità a ibridarsi. Un messinese proiettato in una città come Bolzano, un luogo fin troppo caratterizzato da connotati identitari, sembrava perfetto. Uno Zelig che agisce in una condizione costante di stupore e curiosità verso una realtà con la quale deve confrontarsi ma che non sempre capisce. Cos’è invece che non capisce l’altro protagonista, Karl Rottensteiner?

Jadel: Karl non capisce quale sia il suo posto nel mondo e non lo capisce da molto, troppo tempo. Di padre tedesco e madre italiana è cresciuto in un luogo ‘binario’ in cui devi essere o l’uno o l’altro… o sei 0 o sei 1, ma è solo la prima delle tante contraddizioni di un uomo tormentato da un passato faticoso e da una dipendenza che lo ha portato alle soglie, e pure oltre, della malattia mentale. C’è molto da dire su K, come lo chiamiamo nei nostri scambi, ma se lo facessi, poi chi leggerebbe il libro? Lasciami solo aggiungere che Tanino è stato l’uomo giusto al momento giusto, anche se non ha ancora compreso giusto per cosa… Ma senti, in ‘sto cavolo di giallo scritto da due maschi,  i personaggi femminili secondo te funzionano? Dovremmo chiederlo alle lettrici, lo so, ma per ora ho solo te a cui domandare…

Guglielmo: In effetti per due scrittori esponenti del sesso stupido, cioè noi, il pericolo di scivolare nello stereotipo della sbirra femmina era alto, ma dovevamo provare, non potevamo certo popolare la questura di Bolzano solo di maschi. Abbiamo evitato sia il genere bonazza con la pistola, sia il genere madre coraggio. L’idea, per tutti i personaggi, uomini e donne, era quella di tratteggiare persone con sentimenti e cervello e spero che questo sia servito anche alle nostre Giulia, Angelica e Barbara, ma saranno le lettrici a giudicarci (speriamo senza massacrarci troppo). Tu prima hai parlato anche di un lato comico, che c’entra il comico nel giallo?

Jadel: Niente… eppure eccolo lì. Certo, non è un giallo comico o una parodia del genere. È che la vita è comica nella sua tragedia e viceversa e la letteratura, anche se di genere, a mio modestissimo avviso deve fare i conti con questo aspetto dell’esistenza. Aggiungo anche che il giallo è il genere che porta ordine nel caos, mentre il comico fa l’esatto contrario, quindi la combinazione, se ben dosata, può rivelarsi interessante. Ai lettori l’ardua sentenza. In Tutta quella brava gente, di conti però ne facciamo anche altri… con il male soprattutto e come in tutti i romanzi dei : Kai Zen :. Sbaglio? Esagero?

Guglielmo: Effetto ce la cantiamo e ce la suoniamo di nuovo! Comunque no, non sbagli, il male, come il comico e gli spigoli al buio a piedi nudi fanno parte della vita ed è giusto farci i conti. L’importante è non semplificare, non dimostrarsi manichei, perché nessuno è del tutto candido e nessuno del tutto oscuro. Però eviterei anche la tirata sulle sfumature di grigio. Diciamo che il nostro è un romanzo bordò. E adesso mi pare il momento di chiudere con la domanda da un milione di dollari. Solo che non mi viene.

Jadel: Ce la cantiamo e ce la suoniamo tra noi perché non c’è nessun altro a farlo, questi di Letteratitudine non hanno voglia di lavorare… Cosa direbbero Karl e Tanino al nostro posto? Il primo credo wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen, il secondo qualcosa in siciliano che non capirei mai…

Guglielmo: Senza google neanch’io avrei capito il tuo tedesco, comunque. Tanino invece immagino che direbbe: ‘Ttacca u sceccu unni voli u patruni.

Jadel: Ah, senti qual è il tuo personaggio secondario preferito?

Guglielmo: Ma che domanda è? I lettori ancora manco conoscono i protagonisti!

Jadel: È che non te l’ho mai chiesto…

Guglielmo: Se tralasciamo i poliziotti, direi il notaio Achmueller, sia la figlia che il padre. Personaggi dalle ottime potenzialità.

Jadel: Avrei detto il Faina…

Guglielmo: A parte i poliziotti, appunto. Se no era troppo facile. Grande Faina!

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La scheda del libro: “Tutta quella brava gente” di Marco Felder

Tutta quella brava gente - Marco Felder - copertinaPer un poliziotto siciliano da troppi anni a Roma, desideroso solo di tornare a casa, non c’è niente di peggio dell’attendere un trasferimento che non arriva. Anzi, una cosa c’è: un trasferimento punitivo con decorrenza immediata. A Bolzano. Tanino Barcellona avrebbe fatto meglio a non inimicarsi certi superiori. Adesso che è in esilio tra le montagne, circondato da gente che parla tedesco, con la colonnina di mercurio inchiodata allo zero, non ha nemmeno il tempo di pentirsi degli errori commessi. Un assassino è all’opera: soffoca le sue vittime e non lascia traccia. Il caso è da prima pagina, l’inchiesta delicatissima. E Tanino è costretto ad affiancare nell’indagine Karl Rottensteiner, un veterano della Mobile che assomiglia a Serpico. I due formano una coppia esplosiva: tanto è schietto, impulsivo coi guastafeste e galante con le donne il siciliano, quanto è laconico, indecifrabile e tormentato il collega. Se poi ci si mette Giulia Tinebra, agente scelto dai capelli rossi con la passione per le moto di grossa cilindrata, allora i fuochi d’artificio sono assicurati. Tra vecchie birrerie, strade ghiacciate e baite nel fitto dei boschi, i poliziotti dovranno risolvere un mistero che affonda nel passato – ancora aperto – di una terra contesa, dove le guerre, i vessilli del nazionalismo e il boato del tritolo non sono mai stati dimenticati. Qui le ferite non si rimarginano, qui i cuori covano odi antichi. Alternando i toni della commedia alla durezza del noir, Tutta quella brava gente riapre una delle pagine più controverse della storia d’Italia e racconta dal bordo di un confine gli incubi collettivi di ieri e di oggi.

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NUVOLE BAROCCHE di Antonio Paolacci e Paola Ronco http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/13/nuvole-barocche-di-antonio-paolacci-e-paola-ronco/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/13/nuvole-barocche-di-antonio-paolacci-e-paola-ronco/#comments Sat, 13 Apr 2019 06:00:34 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8134 La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) è dedicata al romanzo “Nuvole barocche” di Antonio Paolacci e Paola Ronco (Piemme).

I due coautori del romanzo hanno scelto di interpretare il “tandem letterario” di Letteratitudine utilizzando la forma del racconto (rigorosamente scritto a quattro mani). Un racconto che ha come obiettivo… l’incontro con il loro personaggio principale…

Antonio Paolacci (Maratea, 1974) e Paola Ronco (Torino, 1976) vivono a Genova e sono compagni di vita. Entrambi hanno già all’attivo diverse pubblicazioni, ma “Nuvole barocche“, che inaugura la serie di Paolo Nigra, è il loro primo romanzo scritto a quattro mani.

Una Genova particolarmente fredda, l’omicidio di un ragazzo, un vicequestore aggiunto pronto a indagare nel caos…

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Il tandem letterario di Antonio Paolacci e Paola Ronco dedicato a “Nuvole barocche” (Piemme)

«A dottò, ce stanno due, de là».
Il vicequestore aggiunto Nigra sollevò lo sguardo dalle abominevoli carte su cui stava lavorando malvolentieri, un’imprecazione sommessa per ogni firma. L’assistente capo Marta Santamaria gli stava davanti, i capelli biondi raccolti nella coda d’ordinanza, la pipa in tasca.
«Mi sono dimenticato che aspettavo qualcuno?»
«No, dottò. È che vorrebbero vederla».
«E fagli vedere una foto», sbuffò in risposta.
C’erano alcune cose in grado di mettere Nigra di cattivo umore, tra le principali sicuramente la compilazione delle scartoffie, le visite inattese e la carenza di zuccheri. In quel preciso istante, troppo distante dalla colazione e non ancora abbastanza vicino al pranzo, la combinazione dei tre fattori rendeva pericolosa qualsiasi interazione con lui.
«A dottò».
«Santamaria, mi dici perché vogliono vedermi o devo indovinarlo io?»
«Oh, io non c’entro niente, sia chiaro», si affrettò a giustificarsi lei. «Questi sono, come dire», Marta Santamaria spostò il peso da un piede all’altro, finendo per preoccupare del tutto il suo superiore, che afferrò il portatabacco, pronto a cercare una via di fuga. «Insomma, dottò. Vorrebbero chiederle un po’ di cose sulla vita vera della polizia, sa».
«Uhm. Cioè sono giornalisti?»
«No, dottò. Sono due che…»
«Santamaria?»
«Due scrittori, ecco, l’ho detto».
Nigra la fissò per un istante con la sua consueta faccia da poker. «Scrittori».
«De gialli», aggravò la situazione l’assistente capo.
«Siccome non ce n’erano già abbastanza».
«Eh».
«E che gli devo dire io, della vita vera della polizia?»
«Ma sa, le solite cose. Le procedure, quelle robe lì. Sono pure carucci, eh, tanto gentili. Dice che vorrebbero farsi un’idea precisa su come funziona un’indagine».
«Porco Giuda, proprio quello che ci voleva stamattina», Nigra sollevò gli occhi al cielo e cominciò in automatico ad arrotolarsi una sigaretta. «Vabbè, ma il lavoro investigativo nella vita reale è una delle cose più noiose del mondo. Dovrei dire questo? Cioè che per il novantotto per cento delle mie giornate sto qui a firmare cartacce?»
«Vabbè, che esagerato, dottò», ridacchiò la Santamaria. «Qualche omicidio l’amo pure risolto, no? Lei je racconti quelli, che ne so. Anche perché questi, siccome dice che scrivono roba ambientata a Genova, vorrebbero anche farsi un’idea del territorio, dice, delle problematiche».
«Le problematiche. Che poi, se almeno questa gente arrivasse con dei cioccolatini, qualcosa. Capace che invece ti portano pure i loro libri in regalo. E perché sono in due?»
«Perché, com’è che se dice? Scrivono a quattro mani».
«Pure. E sono famosi?»
«E chi l’ha mai sentiti, dottò. Comunque so’ pure ’na coppia de loro, nel senso, stanno assieme tra de loro, un uomo e una donna, sulla quarantina».
«Giallisti genovesi coniugi eterosessuali. Senti, Santamaria, dì che non ci sono. Lasciali a Caccialepori e andiamo a fumare».
«Magari, dottò. Ci ho provato, ma l’ispettore è andato a casa. Ci aveva mal di testa».
«Certo. Scemo io a chiedere», Nigra sbuffò di nuovo e tamburellò con le dita sulla scrivania. «Ma di solito queste cose non se le accolla Virdis? È lui il primo dirigente, no?»
Marta Santamaria scosse il capo. «Virdis ha detto frasi in sardo che me parevano irripetibili, co’ rispetto parlando. Poi comunque ha detto di mandarli da lei, dottò, perché dice che lei è più sensibile, ci ha più, com’è che ha detto, la vena artistica».
«La vena artistica», ripeté Nigra, senza bisogno di cambiare espressione. «Guarda, lasciamo perdere. Dalli a Musso e se poi scriveranno un romanzo di fantascienza, pazienza. Non sarebbe il primo. Mi dispiace per loro, ma non ho tempo».
«Ecco, dottò, ho provato pure quello», sogghignò la Santamaria. «Ma Musso deve finire il rapporto sulla rissa allo stadio. Ci ha fatto pure un gioco de parole, rissa-Marassi, davanti a quei due, poracci».
«Porco Giuda», soffiò Nigra, aprì e chiuse senza ragione un cassetto, guardò fuori dalla finestra. «Com’è che si chiamano?»
L’assistente capo si strinse nelle spalle e controllò il post-it che teneva ripiegato nel pugno. «Paolacci e Ronco, dottò. Mo vai a capì chi dei due è Paolacci e chi Ronco, ma comunque».
«Non credo che possa cambiare qualcosa, Santamaria. E va bene, falli entrare», sospirò alla fine, rassegnato al suo destino.
Marta Santamaria fece per aprire la porta e uscire, poi si voltò, come colta da un pensiero improvviso. «A dottò, c’ho un’idea. Magari può raccontare del fidanzato suo. Insomma, je dice che sta con un uomo, no? Ha visto mai che magari se scandalizzano e se ne vanno subito. Così ha risolto».
Il vicequestore aggiunto Nigra la fissò, minacciosamente inespressivo. «Santamaria».
«Era giusto un suggerimento, dottò».
«Santamaria».
«Vabbè. Li vado a chiamare, sì?»
«Ancora qua stai?»
L’assistente capo aprì la porta di corsa. «Vado».

(Riproduzione riservata)

© Letteratitudine / Antonio Paolacci e Paola Ronco

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La scheda del libro

Nuvole barocche - Antonio Paolacci,Paola Ronco - copertinaUn protagonista dal fascino spiazzante, una città seducente e inquieta. Un giallo intrigante e sorprendente. La prima indagine del vicequestore aggiunto Paolo Nigra.

È sabato mattina e Genova si sta risvegliando da una notte di tempesta gelida. La pioggia ha smesso di cadere e il vento che soffia da est inizia a diradare le nubi lasciando intravedere i colori dell’aurora. Ma non è il cielo ad attirare l’attenzione di un uomo in tenuta da jogging, quanto piuttosto un cumulo di stracci che giace sulla passeggiata a qualche decina di metri da lui. 
Mezz’ora dopo, il Porto Antico è invaso da poliziotti e agenti della Scientifica. Il ragazzo è riverso a terra, il volto tumefatto, indosso un cappotto rosa shocking con cui, la sera prima, non era passato inosservato alla festa che si teneva lì vicino a sostegno delle unioni civili. Si tratta di Andrea Pittaluga, studente universitario della Genova bene e nipote di un famoso architetto. Quando arriva sul posto in sella alla sua Guzzi, il vicequestore aggiunto Paolo Nigra ha già detto addio alla sua giornata di riposo e messo su la proverbiale faccia da poker che lo rende imperscrutabile anche ai suoi più stretti collaboratori. Quarant’anni, gay dichiarato, nel constatare il feroce accanimento sulla vittima Nigra fatica a non pensare a un’aggressione omofoba. Negli ultimi tempi non sono mancati episodi preoccupanti, da questo punto di vista. I primi sospettati, però, hanno un alibi e la polizia arranca nel tentativo di trovare altre piste. Nigra è a mani vuote, una condizione che non gli dà pace. Lo sa bene Rocco, il suo compagno, che ne sconta il malumore, sentendosi rinfacciare per l’ennesima volta la scelta di tenere nascosta la loro relazione. Il rischio che, questa volta, la giustizia debba rimanere senza un colpevole è reale. A meno di sospendere il giudizio e accettare il fatto che a dominare il destino degli uomini non sia altro che il caos.

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IL SANGUE MACCHIA, SIR di Costanza Durante e Giovanni Di Giamberardino http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/08/04/il-sangue-macchia-sir-di-costanza-durante-e-giovanni-di-giamberardino/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/08/04/il-sangue-macchia-sir-di-costanza-durante-e-giovanni-di-giamberardino/#comments Sat, 04 Aug 2018 14:28:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7893 La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) è dedicata al romanzo “Il sangue macchia, Sir” di Costanza Durante e Giovanni Di Giamberardino (Neri Pozza).

Giovanni Di Giamberardino è sceneggiatore, autore televisivo (Il Boss delle Cerimonie, Il Castello delle Cerimonie) e critico per la rivista Rolling Stone. Ha pubblicato il romanzo La marcatura della regina, Edizioni Socrates, e non si è mai mosso da Roma.

Costanza Durante nasce a Milano nel 1990, cresce a Napoli e vive a Roma. Nel 2013 si diploma in Sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia. Vincitrice della Borsa Sbarigia al premio Solinas 2016, lavora come sceneggiatrice per varie produzioni.

Entrambi formano un’affiatata coppia letteraria che ha dato origine a due romanzi, entrambi pubblicati da Neri Pozza: “Giallo banana” e – per l’appunto – Il sangue macchia, Sir

A proposito di “Giallo banana” non sono mancate autorevoli e prestigiose dichiarazioni di stima (che riportiamo qui di seguito):

«Brillante come un collier, frizzante come lo champagne, urticante come il vetriolo. Il colore del crimine nei salotti buoni è Giallo Banana».
Maurizio de Giovanni

«Il primo investigatore a sangue blu della narrativa italiana, decaduto quanto basta da coltivare un insospettato fiuto per il crimine».
Diego De Silva

«Di Giamberardino e Durante… Sono loro i nipotini di Fruttero e Lucentini? Un romanzo delizioso, vivacissimo, ottimamente costruito».
Antonio D’Orrico, Sette

Le storie di Costanza e Giovanni hanno come protagonista un personaggio molto peculiare. Si tratta di Vittorio Maria Canton di Sant’Andrea (altresì noto come il principe di Sant’Andrea): quarant’anni, un metro e novanta per centodieci chili. In “Giallo banana” il principe di Sant’Andrea ha indossato i panni di un originale, ma brillante, investigatore… che ritroviamo anche in “Il sangue macchia, Sir“. Sono trascorsi solo pochi mesi dal primo caso di omicidio risolto da Vittorio Maria Canton di Sant’Andrea. È finita qui? Naturalmente no. E, per certi versi, è una fortuna… perché il nostro protagonista si ritrova solo e annoiato. A scuoterlo dalla noia, arriva un vecchio caso che ci riporta all’anno 1997. C’è un padre assassino, scomparso nel nulla, e una figlia che vuole assolutamente riabilitarne l’immagine. Il soggetto in questione è Pietro Saba, il killer dell’Aventino.

Ripartiamo da qui, dunque… con il Principe Investigatore che si ri-tuffa in una nuova avventura investigativa supportato dal maggiordomo sovietico Gelasio e della Tavor-dipendente zia Magda.

Abbiamo invitato Giovanni e Costanza a mettere alla prova le loro belle bene e a cimentarsi in un loro personalissimo “tandem letterario” finalizzato a farci conoscere qualcosa di più di “Il sangue macchia, Sir” e dei personaggi letterari che popolano il romanzo.

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Il sangue macchia, Sir” (Neri Pozza): il “tandem letterario” di Costanza Durante e Giovanni Di Giamberardino

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Risultati immagini per Costanza Durante e Giovanni Di GiamberardinoG: Prego, prima le donne. Sono un gentiluomo.
C: Gentilissimo, grazie! Inizierei con una domanda sul personaggio, il conte Vittorio Maria Canton di Sant’Andrea. Sarei curiosa di sentire secondo te qual è il suo miglior pregio e il suo peggior difetto.

G: Credo che il peggior difetto di Vittorio sia la sua costante ricerca di approvazione da parte degli altri, chiunque altro. Il suo bisogno di sentirsi dire “Bravo, non sei troppo male, alla fine”, che lo riduce a fare le cose più patetiche immaginabili. Il suo miglior pregio invece è la sua risolutezza, il non mollare mai fin quando non raggiunge l’obiettivo, cioè quasi mai. Eppure ci prova lo stesso e non demorde. Vorrei avere anche io questo atteggiamento, glielo invidio molto.
A te invece chiedo in quale ambiente sociale non vedresti mai investigare Vittorio. Lo abbiamo visto nella Roma cafonal e in quella intellettuale. Dove invece non metterebbe mai piede?
C: Penso che non esista un contesto in cui Vittorio non si infilerebbe anche solo per ficcare il naso. È una persona curiosa e la sua sete di rivalsa potrebbe portarlo in capo al mondo, perfino nel Polesine, anche se non sa dov’è. In fondo gli basterebbe il look giusto per sentirsi a proprio agio in ogni ambiente, magari ecco, gli prenoterei una stanza di lusso in caso di lunghi spostamenti.
Voglio chiederti cosa secondo te è cambiato dal primo al secondo romanzo.

G: A parte che noi siamo diventati più bravi e più belli? Direi che principalmente i personaggi sono cresciuti di più. In Giallo Banana il nostro focus principale, a parte l’indagine, era descrivere e ironizzare su un ambiente ben preciso, la Roma dei nobili e dei rotocalchi e di Dagospia, mentre ne Il sangue macchia, sir tutto ha guadagnato profondità, a partire dai protagonisti della serie (Vittorio, il maggiordomo Gelasio e l’arcigna zia Magda) fino ai protagonisti del giallo. Insomma, penso che nel secondo romanzo l’universo narrativo abbia assunto un nuovo spessore e i personaggi abbiano ottenuto una dignità che non passa solo per la commedia, ma anche per un percorso di crescita personale.
A proposito di personaggi, escluso Vittorio, tu a chi pensi di assomigliare di più?
C: L’anno scorso ho scoperto di avere una deformazione al piede – alluce valgo – per curare la quale avrei avuto bisogno del tutore che ho deliberatamente deciso di non indossare. In quel momento mi sono sentita molto vicina a zia Magda, che probabilmente è da intendersi come una cartolina dal futuro per quanto mi riguarda – o almeno lo spero. Ad oggi mi piacerebbe molto somigliare a Gino de Mariniis, il grande amore di Vittorio, ma sono sicura che sia una dichiarazione presuntuosa da parte mia.
Ma ora basta parlare di me. Tu ti fidanzeresti più con Vittorio o con Gino?

G: Hai mirato al cuore, il  mio! Beh, conoscendo ahimé fin troppo bene la mia sfortuna in amore e il mio debole per pazzi egomaniaci, direi che è più probabile che possa prendere una sbandata per Vittorio. Gino è un personaggio più quadrato, nonostante sembri più freddo e schivo, lui ha già ben capito cosa vuole dalla vita ed è pronto a impegnarsi sul serio, qualità preziosa per una relazione a lungo termine. Vittorio invece è un bambino capriccioso e concentrato solo su se stesso, ma cavolo quando ci si diverte insieme a lui. Mi innamorerei subito!
Visto che non vuoi parlare più di te, adesso parliamo di me. Quale colore pensi mi doni di più, mi valorizzi?
C: A me piaci molto nei toni del beige ma solo se sotto hai qualcosa di più vivace come ad esempio il rosa. Per assurdo non ti consiglierei mai un total black, che è da poveracci con qualcosa da nascondere, mentre il total white è da vedova milionaria, situazione sentimentale in cui ti auguro di ritrovarti tra qualche anno.

G: Sei davvero molto cara, oltre che simpatica e bellissima.
C: Grazie!

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La scheda del libro

Il sangue macchia, sirSono trascorsi pochi mesi dalla soluzione del suo primo caso (l’assassinio di Polly Castaldi Cestelli), eppure la vita del conte Vittorio Maria Canton di Sant’Andrea non sembra essere cambiata affatto, se non in peggio. Abbandonato dal suo partner Gino, in pessimi rapporti con il maggiordomo Gelasio e afflitto dai problemi di convivenza con la caustica zia Magda, il Principe Investigatore affoga nel gelato al triplo cioccolato le proprie frustrazioni, con la «Settimana Enigmistica» alla mano e la speranza che il telefono squilli per richiamarlo all’avventura. Cosa che, miracolosamente, accade.
Diana Palladio ha soltanto diciassette anni, ma un obiettivo ben preciso: riscattare il nome di suo padre Pietro Saba, scomparso quasi vent’anni prima e accusato del terribile, efferato delitto passato alla storia come Omicidio dell’Aventino, protagonista assoluto dei salotti televisivi nel 1997. Ma se la verità fosse un’altra e il vero killer si trovasse ancora in circolazione, impunito e contento?
Con le sue discutibili doti deduttive e animato da un’incredibile determinazione, il conte dovrà immergersi in un mondo a lui sconosciuto, quello dell’arte contemporanea, nel cui firmamento la giovane Diana sta per essere lanciata. Tra un vernissage e una tartina, Vittorio si perderà nel labirinto della borghesia intellettuale, che la polvere preferisce nasconderla sotto il tappeto, possibilmente birmano. In quel mondo, dove impera il conformismo dell’anticonformismo, Vittorio si ritroverà immerso «come una bustina di Twining’s nell’acqua bollente».
Sostituendo botox e chihuahua con pennelli e opere d’arte, la seconda avventura del Principe Investigatore si sposta dunque dai palazzi nobiliari del centro di Roma agli open space di Trastevere ricavati dalle ex fabbriche che continuano a chiamarsi «opifici» sebbene vendano birra. Cambia insomma lo scenario, non il punto di vista di Vittorio, ancora una volta impegnato nel lungo e periglioso cammino per diventare un vero detective.

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LA FORTEZZA DEL CASTIGO di Pierpaolo Brunoldi e Antonio Santoro http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/04/05/la-fortezza-del-castigo-di-pierpaolo-brunoldi-e-antonio-santoro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/04/05/la-fortezza-del-castigo-di-pierpaolo-brunoldi-e-antonio-santoro/#comments Thu, 05 Apr 2018 15:44:29 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7759 La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) è dedicata al romanzo “La fortezza del castigo” di Pierpaolo Brunoldi e Antonio Santoro (Newton Compton).

Un avvincente thriller storico ambientato tra la Francia e l’Italia del XIII secolo e che si sviluppa partendo dalla seguente domanda (riportata anche sulla copertina): può veramente un manoscritto cambiare il corso della storia?

Di seguito: il “tandem letterario” offerto dai due co-autori in forma di racconto (dove loro stessi diventano personaggi).

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undefinedLa fortezza del castigo (Newton Compton): il “tandem letterario” di Pierpaolo Brunoldi e Antonio Santoro

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Fuori dai finestrini diluviava. Brunoldi e Santoro erano sui sedili posteriori, mentre il taxi scivolava tra le auto che, come sempre nei giorni bagnati, ingolfavano il lungo Tevere. Ogni tanto alle loro orecchie arrivava qualche imprecazione dalle macchine vicine, che il loro conducente superava spericolato.
«Perché credi ci abbiano convocati?», chiese Brunoldi, mentre Santoro stava controllando, con una certa apprensione, che il tassista non mettesse sotto qualcuno e prendesse la strada giusta.
Il giorno prima avevano ricevuto una telefonata dal segretario del cardinale Simoni, che li invitava a recarsi presso gli uffici del Vaticano per comunicazioni urgenti.
«Vorranno complimentarsi per il romanzo. Che altro?», rispose Santoro.
«Conosci forse qualcuno in Vaticano? Io no», disse Brunoldi.
«Nemmeno io. Quindi sarà per il romanzo. Pensaci, c’è Francesco, c’è una reliquia, gli eretici. Vorranno congratularsi con noi per il lavoro svolto», ribadì Santoro.
«Sarebbe fantastico allora. Sai quante copie ci farà vendere in più?!».
Il tassista fermò l’auto.
«Eccoci qua, Piazza del Sant’Uffizio».
I due autori uscirono dalla vettura proprio quando smise di piovere e il sole fece timidamente capolino tra un manto di nubi nere e spesse. In quel mentre, da dietro il finestrino mezzo abbassato, il conducente si sporse, facendo l’occhiolino.
«Dotto’, fate attenzione lì dentro, non ci si può fidare di nessuno», disse, prima di scomparire nell’abitacolo.
Dopo i controlli di rito, percorsero un lungo corridoio, fino a che la guardia li consegnò nelle mani di un pretino secco e gobbo, che in silenzio li condusse fino a una grande porta di legno, sulla quale stava scritto: congregazione per la dottrina della fede.
«Complimentarsi, dicevi?», disse Brunoldi, entrando.
Erano in due. Cardinali. Uno alto e grosso, vestito come un sacerdote, con la camicia che sembrava esplodere per la pancia prominente e le mani grandi e forti. A un dito indossava l’anello che ne rivelava il ruolo. Era pelato, col pizzetto, e una smorfia come di dolore sulle labbra serrate. L’altro era basso, con folti capelli neri e occhiali a fondo di bottiglia. Vestiva la lunga tunica porpora dei principi della Chiesa. Quest’ultimo era magro come la lupa descritta da Dante nell’Inferno. Il cardinale con la smorfia sollevò gli occhi dal libro, e lo chiuse, mostrando la copertina.
«Quindi sareste voi Brunoldi e Santoro, gli autori de’ La fortezza del castigo?»
«Sì», risposero gli autori all’unisono.
«Bene. Prima di iniziare il processo, avete qualcosa da dire a vostra discolpa?».
I due autori si guardarono negli occhi, poi Santoro deglutì, e rispose.
«Eminenza, noi, a dire il vero, ignoriamo la ragione per cui ci avete convocato».
«Ne siete così sicuri?», disse il cardinale grosso e pelato, avvicinandosi a entrambi e tenendo le mani dietro la schiena, con la pancia protesa verso di loro.
«Pensavamo aveste solo qualche curiosità in merito», disse Brunoldi.
«Questo romanzo desta più di una curiosità», sibilò il piccoletto, tirando fuori anche lui a sorpresa, da dietro la schiena, una copia della fortezza.
«Vi è piaciuto, dunque?», domandò Santoro, con un sorriso poco convinto. Il cardinale lo zittì con lo sguardo.
«Qui c’è scritto “un libro segreto che minaccia di scuotere le fondamenta della Chiesa”».
«È finzione, Eminenza», si affrettò a rispondere Santoro.
«Finzione, certo, è quello che dicono tutti quando vogliono lavarsene le mani. E così avete scomodato il nostro Bonaventura da Iseo per inscenare la vostra storia».
«Storia, appunto Eminenza, è esattamente quello che è, una storia», disse con ritrovato coraggio Brunoldi.
L’altro cardinale, assai più inquietante, li aveva scrutati da capo a piedi, da dietro le sue lenti spesse, senza muovere un muscolo all’infuori degli occhietti piccoli e indagatori. Ora prese la parola. «Vedete, la cosa strana è che quella che voi chiamate finzione, la fantasia, presente qui dentro», disse sfogliando le pagine, «mostra delle somiglianze assai inusuali, per non dire sospette, con alcune circostanze storiche che la Chiesa si è ben guardata dal divulgare».
«Perdoni, Eminenza», continuò Santoro, «ma se ciò è accaduto è stato in assoluta buona fede. Certo, abbiamo reso il tessuto storico, l’ambientazione, al meglio delle nostre possibilità, volevamo che i nostri personaggi prendessero vita non in un acquario, ma in un mare che li facesse nuotare a loro agio. È per questo che i luoghi sono veri, le pietre delle chiese si possono toccare, gli odori immaginare, i sap…».
«…avete messo in bocca al nostro papa Innocenzo parole vostre. Parole come pietre», lo interruppe l’altro cardinale.
«Se permette, era necessario. Come le diceva il collega», sentenziò Brunoldi, «la cornice degli eventi è stata riempita con personaggi storici autentici e altri di fantasia, ma calati in un contesto realistico».
«Non dimenticare anche quelli a metà tra fantasia e realtà», aggiunse Santoro. «Insomma abbiamo seguito l’esempio di illustri maestri di genere, Eco, Poe, Follett e molti altri».
«Eco e Poe?».
«Ovvio, Guglielmo da Baskerville e Auguste Dupin sono stati dei modelli per il nostro Bonaventura», precisò Brunoldi.
«Il “vostro” Bonaventura è un personaggio storico, però».
«Sì, ma dalla biografia lacunosa. Così ci siamo permessi di riempire gli spazi bianchi della sua vita con la nostra fantasia», disse Santoro.
«Certo collega, Bonaventura da Iseo è stato creato proprio così», aggiunse colpo su colpo Brunoldi. «Sapevamo di lui poche cose. Scarni dati biografici, e neppure certi. Anche la sua data di nascita è avvolta dal mistero. E poi, ovviamente, c’era il Liber Compostella. Uno dei primi trattati alchemici redatti in Italia. In quel secolo ci fu l’incontro scontro tra la civiltà occidentale e quella araba, da esso scaturirono guerre, ma anche proficui scambi di sapienze che si credevano perdute. Bonaventura, in un certo senso, rappresenta un’epoca di grandi riscoperte, filosofiche, scientifiche e tecnologiche».
«Inoltre, se permettete», si intromise Santoro, con una punta di orgoglio nella voce, «riteniamo di aver anche reso, a nostro modo, un servigio alla Chiesa e ai suoi fedeli».
undefined«Davvero?», chiese il cardinale basso e segaligno, con una punta di ironia nella voce.
«Be’ sì, converrete con noi», aggiunse Brunoldi a dar manforte, «che Francesco è un vessillo della cristianità e mi sembra di poter dire che venga fuori bene dalla nostra storia».
«Fuori bene?», lo interruppe il cardinale sempre più accigliato.
«Nel senso, che, viste le fonti anche non sempre concordi», rispose Santoro, «abbiamo optato per un ritratto che ne restituisse un’immagine in grado di coglierne gli elementi essenziali di uomo e di religioso: un vero e fervente seguace di Cristo, un uomo del dialogo, che cercò di portare la parola di Cristo anche a coloro che venivano con disprezzo chiamati eretici, vale a dire i catari. La parola e non la spada, è un fulgido esempio, direi».
«Santoro, non vorrà forse mettersi a discutere di teologia con noi?»
«Lo perdoni, Eminenza», disse Brunoldi fulminando con lo sguardo il collega. «Quello che voleva dire è che noi siamo solo due umili cantastorie. Entrambi, pur dovendo tenere in un difficile equilibrio finzione e verità storica, abbiamo cercato di non tradire mai l’essenza di quest’ultima».
«Ne siete certi?», continuò il cardinale dubbioso. «Questa assai volatile essenza cosa dice a proposito del libro segreto del viaggio di Francesco verso Santiago? Quali sono state le vostre fonti?»
«Eminenza, non vorrei sembrare irrispettoso, ma il viaggio di Francesco in Spagna, secondo le cronache ufficiali, si è interrotto per una malattia, presumibilmente la febbre quartana, ovvero la malaria, ma, nell’incertezza delle fonti, noi ci siamo incuneati per fornire una versione dei fatti, diciamo, alternativa», disse Santoro.
«E il libro segreto, quello se mi consente», disse Brunoldi, «è un dato di pura finzione».
«Ciononostante, Eminenza, una finzione plausibile», aggiunse Santoro. «Sappiamo che nel capitolo di Mantes fu ordinata la distruzione di tutte le testimonianze sulla vita del poverello di Assisi, quindi…».
«Quindi cosa?», lo rimbrottò il cardinale corpulento.
«Quindi niente… niente, è solo finzione, come diceva Brunoldi».
«Certo, come lo sono anche gli altri personaggi», aggiunse quest’ultimo. «Fleur, Rolando, Davide, Luca e molti altri sono frutto della nostra fantasia, come la maggior parte delle vicende narrate. L’ordine oscuro è una nostra finzione eppure…».
«Eppure?», chiese il cardinale grosso e panciuto, stringendo le palpebre dell’occhio destro, come se dovesse aguzzare la vista.
«Eppure», intervenne Santoro, «in tanta finzione abbiamo voluto che le vicende dei nostri personaggi risultassero vere, vive e palpitanti per i lettori come emozionante è stato per noi scriverle. I personaggi sono sì di finzione, ma rappresentano le diverse condizioni sociali: ci sono quelli che pregano, quelli che combattono e quelli che lavorano, gli umili e i nobili, i frati e le donne, e tutti incarnano le contraddizioni e i chiaroscuri di un periodo di grandi cambiamenti».
«Esatto», aggiunse Brunoldi, «volevamo che lo spettatore si identificasse nelle vicende del protagonista e dei suoi compagni lungo il loro cammino alla ricerca di verità e giustizia, non è forse quello che vogliono tutti, Eminenza, non è forse quello che persegue anche la santa madre Chiesa?».
«Niente altro che questo, certo», disse Santoro, «è l’eterna battaglia tra luce e tenebre, tra bene e male. Gli archetipi, Eminenza, gli archetipi!».
«Attendete qui un attimo, disse il piccoletto», tirando via per la camicia il grosso.
I due alti prelati si allontanarono, sparendo dietro la vetrata di un ampio studio all’interno del quale erano stati accolti. Potevano scorgerne le ombre: quello grosso e pelato si sbracciava come un ossesso, mentre il piccoletto sembrava impassibile e mansueto. L’atteggiamento che a Brunoldi e Santoro era sembrato di cogliere oltre la vetrata, veniva del resto confermato dal diverso tono delle voci, la cui eco arrivava sino a loro.
Quando furono di ritorno, sembrava che il fare mellifluo e pacato del piccoletto avesse conquistato anche l’orso brontolone. I suoi tratti del viso erano distesi, fin troppo.
Il piccoletto, alzatosi sulle punte dei piedi, allungò le dita ossute fino a sfiorare le guance di Brunoldi. Mentre l’orso assestò due pacche pesantissime sulla schiena di Santoro, che rimbombò come un tamburo.
«Abbiamo discusso a lungo e animatamente e si siamo giunti alla conclusione…».
«Alla conclusione?», fecero i due autori, in trepidante attesa.
«Alla conclusione che non vi è nulla nel vostro libro che si possa considerare offensivo per l’autentico sentimento religioso. Quindi non abbiamo null’altro da chiedervi».
«Null’altro?», chiese Brunoldi, che si sentiva alleggerito.
«No. Andate in pace».
Brunoldi e Santoro avevano quasi varcato l’uscio quando furono fermati dalla voce di uno dei due. «Solo un’ultima cosa, prego», disse il piccoletto, che stringeva tra le mani la sua copia della fortezza del castigo.
«Sì Eminenza?», chiese Brunoldi.
«Mi autografereste la mia copia?»
«Sì, anche la mia, cortesemente», fece l’altro.
Santoro e Brunoldi iniziarono a vergare le copie con le loro firme.
«Ditemi, ma Bonaventura, che ha dismesso il saio di frate, avrà finalmente una relazione con l’indomita Fleur?»
«Ah Eminenza», fecero i due con una sola voce, «per questo dovrete attendere il seguito della storia».

(Riproduzione riservata)

© Pierpaolo BrunoldiAntonio Santoro

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La scheda del libro

1266. Francia, convento di Mantes. L’inquisitore Marcus attende nell’ombra l’arrivo di un frate. È deciso a strappargli a ogni costo la verità su un libro segreto che minaccia di scuotere le fondamenta della Chiesa…
1214. Italia, Altopascio, dimora dei Cavalieri del Tau. Il francescano Bonaventura da Iseo, esperto nelle arti alchemiche, apprende con sgomento la notizia della scomparsa del suo mentore, Francesco d’Assisi, e riceve, dalle mani grondanti sangue di un confratello, un misterioso manoscritto che dovrà custodire anche a costo della propria vita. Determinato a trovare e liberare Francesco, Bonaventura decide di mettersi in viaggio: tra bui conventi e infidi manieri, scoprirà che il maestro aveva con sé l’unica reliquia in grado di sconfiggere le forze del male e impedire l’avvento dell’Anticristo. Sulle tracce del frate d’Assisi, il monaco e i suoi compagni di avventura arriveranno fino alla rocca maledetta di Montségur, fortezza inespugnabile degli eretici catari…

* * *

Pierpaolo Brunoldi: dopo la laurea in Veterinaria, ha studiato recitazione e conseguito un master specialistico in sceneggiatura. Ha scritto opere drammaturgiche selezionate in concorsi nazionali, sceneggiature per la TV e il cinema, vari racconti pubblicati in diverse antologie, e collaborato con testate web.

Antonio Santoro: regista, attore e drammaturgo, è nato a Cava de’ Tirreni nel 1973. Diplomatosi presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, ha diretto numerosi spettacoli e scritto diversi testi per il teatro. Si è laureato al DAMS, e ha due master in sceneggiatura.

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© Letteratitudine

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LO CHIAMAVANO GLADIATORE di Andrea Frediani e Massimo Lugli http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/03/16/lo-chiamavano-gladiatore-di-andrea-frediani-e-massimo-lugli/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/03/16/lo-chiamavano-gladiatore-di-andrea-frediani-e-massimo-lugli/#comments Fri, 16 Mar 2018 15:36:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7744 La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) è dedicata al romanzo “Lo chiamavano Gladiatore” di  Andrea Frediani e Massimo Lugli (Newton Compton).

Due bestselleristi del romanzo storico (Andrea Frediani) e del noir (Massimo Lugli) uniscono le loro penne per dare luce a una storia particolarissima ambientata tra la Roma del I secolo d.C., sotto l’imperatore Tito e la Roma dei nostri giorni

Di seguito: il “tandem letterario” tra i due co-autori del romanzo… che ringrazio per aver aderito all’iniziativa.

Massimo Maugeri

* * *

Lo chiamavano Gladiatore“: il “tandem letterario” tra  Andrea Frediani e Massimo Lugli

undefinedANDREA: Tu hai già scritto libri a quattro mani, mentre per me era la prima volta. In cosa hai trovato differente questo lavoro rispetto ai precedenti?

MASSIMO: Scrivere un libro a quattro mani è sempre un cimento anche perché bisogna confrontarsi con uno stile, un metodo di lavoro, un’inventiva completamente diversa dalla propria. E non ti nascondo che inizialmente ero molto in soggezione dato che, come sai, sei un mio autore di culto. Ho affrontato la sfida con la mia solita caparbietà e incoscienza e credo che il risultato mi abbia premiato: la fortuna arride agli audaci. In passato avevo firmato un saggio e, successivamente, scritto un romanzo con l’ex funzionario di polizia Antonio Del Greco, mio carissimo amico da 30 anni ma in questo caso i ruoli erano ben definiti fin dall’inizio: lui ci mette esperienza e fantasia, io quel minimo di creatività che ho e le parole. Insomma: parlavamo a lungo, io scrivevo, gli mandavo il testo e facevamo insieme qualche correzione. Lo stesso metodo che sto seguendo attualmente visto che stiamo lavorando a un altro libro, il terzo della nostra collaborazione.

Per “Lo chiamavano Gladiatore” è stato completamente diverso. Dopo aver delineato a spanne la trama, ognuno di noi ha scritto un capitolo alla volta ma, fino alla conclusione, nessuno dei due ha inviato il testo all’altro. Ho letto la tua parte solamente alla conclusione e l’ho fatto con grande trepidazione. Sono rimasto incantato dalla trama e dalla prosa ma anche basito vedendo tante assonanze, tanti parallelismi di cui neanche avevamo discusso durante le nostre periodiche conversazioni. Spesso ho pensato che si fosse instaurato una sorta di collegamento telepatico.

Nella mia ignoranza, penso che sia stato un esperimento letterario assolutamente inedito perchè le vicende si intrecciano di continuo ma, al tempo stesso, restano separate e le due forme stilistiche, oltre che ai tempi narrativi, sono radicalmente differenti. Non ho mai letto una cosa del genere e, credimi, io leggo parecchio. Aggiungo una cosa: credo di essere un autore che scrive velocemente, una particolarità classica di chi, come noi due, viene dal giornalismo. Beh, in questo caso ammetto che ho fatto una gran fatica a stare al passo con te. Della serie: per quanto tu possa crederti tosto, ci sarà sempre uno più tosto di te. Ecco, io l’ho incontrato. Eppure, noir e romanzo storico sono generi letterari molto diversi. Spesso lo sono anche i lettori. I tuoi ti seguono da anni, sia come saggista che come romanziere e li immagino abbastanza tradizionalisti. Non hai avuto paura che la contaminazione potesse deluderli o addirittura allontanarli?

ANDREA: Non solo non ho avuto affatto paura, ma mi sono sentito talmente sicuro di non “uscire dal seminato” che punto a fregarti i lettori! Scherzi a parte, per quanto diversi siano i nostri stili, i contesti in cui agiscono i nostri personaggi, sono convinto che sia un romanzo omogeneo, che interesserà nella sua totalità sia i tuoi che i miei lettori, perché il registro è simile, il ritmo è simile, il pathos è simile. Per fortuna, il proliferare di serie televisive e film in costume, negli ultimi anni, ha sdoganato il genere storico dalla fiction di genere e l’ha reso più universale, fruibile anche per il grande pubblico, il che ha reso più omogenei i gusti degli utenti. Esiste un modo di raccontare la storia, oggi, che è molto più attuale di qualche decennio fa, quando le descrizioni prevalevano sull’azione. I nostri due protagonisti, poi, agiscono in un mondo di violenza e di sfide, di caduta e redenzione, di fallimento e formazione, che investe temi universali, sempre attuali. Infine, io non ho scritto sempre “romanzi storici” tout court, ma più spesso romanzi “di ambientazione storica”, ovvero romanzi “normali” ambientati in un’epoca storica lontana dalla nostra, ma anch’essi, fondamentalmente, noir e thriller. E questo è un altro elemento che ci avvicina… Ma dimmi, piuttosto: siamo due autori che mettono quasi sempre qualcosa di sé nei romanzi che scrivono. Tu cos’hai messo, stavolta, al di là dell’interesse per le arti marziali, di cui chiunque ti conosca come autore è già consapevole?

MASSIMO: Effetti, passione per le discipline da combattimento a parte, in Valerio Mattei ho voluto descrivere qualcosa che (purtroppo) mi appartiene: quella sorta di cupio dissolvi che può portare all’autodistruzione, la caduta, il lasciarsi andare a una passione divorante e impossibile, a un amore sbagliato che, fin dall’inizio, sai già che ti porterà fuori strada e da cui non potrà venire niente di bello, niente di costruttivo. Lo sai eppure non riesci a sganciarti, segui i tuoi sentimenti, per quanto folli, fino alle estreme conseguenze e, alla fine, tutto questo ti presenta un conto salatissimo. Mi è successo più volte e spero solo di aver acquisito, a quasi 63 anni, quella saggezza che mi impedirà di caderci ancora… Ma non ne sono affatto sicuro… Il corpo invecchia, la mente resta quella di un ragazzo incosciente. E adesso parliamo di Clovia. Femme fatale, dark lady di grandi appetiti e di pochi scrupoli da cui, però, in qualche modo Aurelio è affascinato. Ho trovato spesso personaggi femminili simili nei tuoi bellissimi romanzi (ribadisco di essere un lettore irriducibile di Andrea Frediani). Domanda da un milione di dollari: è un topos letterario o c’è qualcos’altro? Magari qualcun’altra? Qualcuna che esiste o è esistita nella tua vita?

ANDREA: Decisamente entrambe le cose! Sono, credo, il maggior collezionista italiano di film noir anni ‘50, quelli in cui agivano le dark ladies come la Lana Turner de Il postino suona sempre due volte, la Barbara Stanwick de La fiamma del peccato, la Rita Hayworth di Gilda… e così via. Era inevitabile che le trasferissi anche nei miei romanzi, come strumento di dannazione dei miei eroi… Ma è pur vero che ne ho incontrata almeno una anche nella vita… o me la sono cercata. E le dark ladies si dividono in due categorie: quelle consapevoli, le streghe che ammaliano un uomo per costringerlo a fare quello che vogliono, e le inconsapevoli, le sirene che sono votate all’autodistruzione e che non possono fare a meno di trascinare con sé l’uomo che ha la sventura di innamorarsi di loro…. E sai che non ho mai capito a quale delle due categorie appartenesse la mia? Forse a entrambe… Ma veniamo a te: spesso sono rimasto molto colpito dalle vicende che ho letto nei tuoi romanzi, che mi hanno appassionato come pochi altri thriller che ho letto. Mi hanno insegnato a guardare con altri occhi la realtà che mi circonda… Ma le storie più terribili che hai raccontato sono quelle che hai inventato nei tuoi romanzi, oppure la realtà che hai affrontato da cronista è stata capace di superare la fantasia?

MASSIMO: Ottima domanda: sono sicuro che la realtà batta la fantasia 10 a zero. In 40 anni di cronaca nera ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare… Scherzi a parte, credo che la mia esperienza di cronista di strada mi abbia permesso di raccogliere esperienze e materiale che potrebbe bastare per 50 libri. Alcune sul filo del sovrannaturale come la mamma che sogna il figlio morto che le dice: vengo a prendere mio fratello perchè mi sento solo. La mattina dopo il bambino (due mesi) è morto senza alcuna causa apparente. Credimi, l’ho vista e vissuta di persona, i poliziotti piangevano di dolore e costernazione. Molti dei miei romanzi prendono spunto dalla realtà, una realtà così incredibile che se la proponessi come trama al nostro amato editore mi consiglierebbe di cambiare spacciatore di sicuro. La collaborazione con Del Greco nasce proprio da questo: rielaboriamo in forma di romanzo vicende come il Canaro o la fantastica storia del colpo da 30 miliardi a Marbella, nel 1984 e le trasformiamo in fiction letteraria. Perchè inventarsi una trama se ne hai tante belle e pronte a disposizione? E ora una domanda più tecnica per te: come decidi in quale periodo dell’Antica Roma o di altre fasi storiche ambientare i tuoi romanzi? E ne aggiungo un’altra: c’è qualche personaggio storico che ti affascina particolarmente? La saga dei Cesariani, a mio parere, aveva una forte componente emotiva. Ho capito che per una volta ti eri schierato. E’ vero?

ANDREA: Tu sai bene che il nostro editore, che il cielo lo benedica per la sua lungimiranza, fiuta spesso il vento e ci fornisce un input… Ma altre volte mi sento “chiamato” da una storia o da un personaggio che voglio assolutamente raccontare a tutti, per trasmetterne il fascino. Per esempio, il mio prossimo romanzo, La spia dei Borgia, in uscita a fine aprile, sarà ambientato nella Roma rinascimentale perché c’era un cold case molto celebre, visto anche in serie televisive, di cui volevo dare la mia versione… Sono attirato, in particolar modo, dai periodi di passaggio e di declino, in cui tutto è confuso, il che offre notevoli spunti per creare o approfondire la psicologia di personaggi ambiziosi e tormentati. Mi attira scoprire le motivazioni che hanno alimentato le imprese dei personaggi che hanno cambiato la storia del mondo, da Cesare ad Augusto, a Costantino. Nel caso della saga de Gli invincibili, mi attirava l’idea di descrivere come un ragazzino malaticcio e vigliacco come Ottaviano poi Augusto sia riuscito in 15 anni a sgominare un’agguerrita concorrenza e a creare un impero che, nonostante tutti gli incapaci che gli si sono succeduti, è rimasto in piedi per un altro millennio e mezzo. E se mi sono un po’ schierato, è perché se non fossero stati i cesariani a vincere, di sicuro Roma sarebbe implosa definitivamente, dopo tanti anni di guerre civili, e ora non staremmo qui a parlare della sua straordinaria civiltà. Ma tu piuttosto: cosa stai preparando? Dopo tanti romanzi tratti dalle tue esperienze di vita e di lavoro, non ti viene mai la voglia di scrivere qualcosa di totalmente diverso? Che so, un legal thriller, un romanzo rosa, uno di fantapolitica, di fantascienza, fantasy, intimista, perfino storico, e chi più ne ha più ne metta… Io talvolta ne sentirei la necessità, anche come sfida personale, anche se non è detto che il nostro editore sia d’accordo…

MASSIMO: Parte della tua ultima risposta la immaginavo. Quando si segue un autore per anni si finisce per entrarci in sintonia. Quanto al mio povero lavoro, sto scrivendo, proprio con Del Greco, una storia che parte da un clamoroso furto in un caveau (quello a Marbella di cui parlavo prima) ma tenta di ricostruire quel convulso periodo della nostra storia recente che abbraccia terrorismo, ascesa e caduta (a proposito di quello che dicevi prima) della Gang della Magliana e il formarsi della malavita autoctona di Ostia. Ci riusciremo, inshallah? L’essenziale è che il lavoro ci sta appassionando. Per me, come per te, scrivere è soprattutto un’esigenza dello spirito. E, sì, capita che voglia cambiare genere. Ho una vera fissa per la battaglia di Crecy, 24 agosto 1346, la prima volta che un esercito plebeo di arcieri sbaraglia l’invincibile cavalleria francese composta dal fiore della nobiltà. Da polemologo quale sei sai bene di cosa sto parlando. Il romanzo storico è il mio genere preferito ma mi sento totalmente impreparato ad affrontarlo. Non riesco a capire come riusciate ad unire ricerca, inventiva, documentazione e fantasia. Beati voi. Comunque, visto che quell’episodio mi ossessiona da quando avevo 16 anni ci ho ambientato un racconto, “L’ultima freccia” che è uscito su una rivista letteraria. Meglio che niente. Confesso, come in una seduta di psicoanalisi, che sogno di scrivere un romanzo d’amore… ma sotto falso nome. Scrivo anche stornelli e versi in romanesco che tengo per me… Ora a te: hai due grandi passioni nella vita, letteratura e batteria. Visto che in entrambe sei bravissimo (ti ho sentito suonare e non è piaggeria) come riesci a conciliarle visto che entrambe richiedono impegno, dedizione, emozioni e un sacco di lavoro? Facciamo un gioco: se dovessi rinunciare a una delle due cose per l’altra quale sceglieresti?

ANDREA: E’ vero, io sono queste due cose, storia e musica, scrittura e batteria: due passioni tali che non mi limito a esserne fruitore passivo, ma anche artefice attivo. Vedo ancora tanti concerti dei miei gruppi preferiti e compro una mole inimmaginabile di cd, ma amo anche suonare e fare concerti io stesso. Così come, per la storia, amavo a tal punto leggerla che ho iniziato a scriverne. Non ricordo più neanche quale passione sia nata prima, ma sono assolutamente consapevole che, se nella scrittura un certo talento ce l’ho, nella batteria sono solo un onesto mestierante. E poiché mi piace stare a casa tra le mie passioni, scrivere sarebbe la scelta più spontanea… con una batteria accanto, anzi sei, che sono quelle che mi circondano nel mio studio quando scrivo, con la musica costante di sottofondo e la tv in mute sintonizzata su sci o tennis, i due sport che ho praticato e pratico con quasi altrettanta passione… A proposito… Dico sempre che se si prendono 100 scrittori, avranno 100 modi diversi di lavorare ai loro testi. Ho appena descritto il mio. Il tuo qual è?

MASSIMO: In genere un non metodo. Un grande scrittore diceva: le prime tre righe sono un dono degli Dei, il resto devi inventartelo tu. Io non faccio scalette ne elenchi dei personaggi. Ho una vaga idea dell’inizio e della fine di un romanzo, mi siedo al pc e lascio che venga fuori da solo. Spesso tutto prende una piega che, inizialmente, non avevo neanche immaginato. Per finire il primo romanzo ho impiegato 5 anni, il secondo uno e adesso la media è quattro o cinque mesi, segno che almeno in velocità sono migliorato. Ma sono estremamente rigoroso nella disciplina: almeno due ore al giorno di lavoro con pochissime eccezioni, una costanza che sicuramente mi viene dalla pratica quotidiana del Tai Ki Kung. Scrivere a quattro mani è stata un’esperienza innovativa, in questo senso, perchè mi ha costretto, per forza di cose, ha essere più organizzato, più ordinato e delineare, anche per sommi casi, il seguito di ogni capitolo per rapportarmi a un altro autore. Ho un’ultima curiosità e riguarda anche me. Pensi che si possa scrivere per tutta la vita? Ci sarà un momento in cui uno capisce che ha dato tutto quello che aveva dentro ed è ora di attaccare il pc al chiodo e ritirarsi? Io me lo domando spesso e grazie a Dio mi sento ancora lontano ma… Che ne dici?

ANDREA: Ho sentito parlare tante volte del blocco dello scrittore e ho conosciuto anche qualcuno che lo ha vissuto. Io, francamente, non l’ho ancora avuto. Anzi, più scrivo e più idee mi vengono; più scrivo e più mi viene facile scrivere; più scrivo, più si trasforma nella mia attività preferita. Ci sono delle volte in cui, pur stanco dopo una giornata di lavoro, la sera preferisco scrivere piuttosto che, per esempio, vedermi una serie televisiva o uscire, semplicemente perché quell’atmosfera, me al computer con la musica di sottofondo, nella penombra, circondato dalle mie passioni, è ciò che preferisco… Se e quando mi verrà il blocco dello scrittore, mi porrò il problema. Ma non credo che mi sentirò mai appagato: forse un giorno lontano mi troveranno riverso con la testa sul tavolo, senza vita, le bacchette per terra, la musica e la tv accese… e un testo lasciato a metà sullo schermo del computer. Nel caso dovesse accadere, ti pregherei di terminarlo tu!

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Lo chiamavano Gladiatore” di  Andrea Frediani e Massimo Lugli (Newton Compton)

Andrea Frediani e Massimo Lugli, due maestri della narrazione, firmano insieme un romanzo che lega inscindibilmente il destino dei due protagonisti, a distanza di duemila anni.

Roma, I secolo d.C., sotto l’imperatore Tito. Aurelio fa fallire l’impresa che gli ha lasciato il padre e, minacciato dagli strozzini, è costretto a farsi schiavo per i troppi debiti. Finisce così in una scuola di gladiatori: ha talento nell’arena, ma deve fronteggiare la rivalità dei compagni. Un aiuto gli arriva da Clovia, una donna senza scrupoli che, grazie a un misterioso unguento, ha trovato il modo per potenziare le doti atletiche dei combattenti su cui scommette.

Roma, giorni nostri. Valerio si è innamorato di una prostituta ed è determinato a liberarla dai suoi protettori. Da quando è finito sul lastrico, rovinato dal suo socio in affari, però, non ha più un soldo e l’unica sua fonte di guadagno sono i combattimenti clandestini di arti marziali. Per sopravvivere in quel mondo spietato, sarà costretto a ricorrere a soluzioni più estreme.

E questo, per quanto strano possa apparire, legherà il destino di Valerio a quello di Aurelio, vissuto duemila anni prima.

* * *

Andrea Frediani è nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma anticaI grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Le grandi battaglie di Alessandro MagnoL’ultima battaglia dell’impero romano, Le grandi battaglie tra Greci e RomaniLe grandi battaglie del Medioevo, La storia del mondo in 1001 battaglie) e romanzi storici: JerusalemUn eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di CesareIl nemico di Cesare Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); MarathonLa dinastiaIl tiranno di Roma300 guerrieri, 300. Nascita di un impero I 300 di Roma. Ha firmato la serie Gli invincibili, una quadrilogia dedicata ad Augusto (Alla conquista del potereLa battaglia della vendettaGuerra sui mari, Sfida per l’impero). L’ultimo pretorianoL’ultimo Cesare inaugurano la serie Roma Caput Mundi. Il romanzo del nuovo impero, incentrata sulla controversa figura di Costantino. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue. Il suo sito è www.andreafrediani.it

Massimo Lugli, Giornalista di «la Repubblica», si è occupato di cronaca nera come inviato speciale per 40 anni. Ha scritto Roma Maledetta e per la Newton Compton La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo, finalista al Premio Strega, Il CarezzevoleL’adeptoIl guardianoGioco perverso, Ossessione proibitaLa strada dei delittiNelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitaleStazione omicidi. Vittima numero 1, Vittima numero 2 Vittima numero 3, e nella collana LIVE La lama del rasoio. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie Estate in gialloGiallo NataleDelitti di FerragostoDelitti di CapodannoDelitti in vacanza. Cintura nera di karate e istruttore di tai ki kung, pratica fin da bambino le arti marziali di cui parla nei suoi romanzi.

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NON STANCARTI DI ANDARE di Teresa Radice (ai testi) e Stefano Turconi (ai disegni) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/03/07/non-stancarti-di-andare-di-teresa-radice-e-stefano-turconi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/03/07/non-stancarti-di-andare-di-teresa-radice-e-stefano-turconi/#comments Wed, 07 Mar 2018 14:30:57 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7731 graphic-novel-e-fumettiQuesto post unisce due rubriche di Letteratitudine: A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) e “Graphic Novel e Fumetti“.

L’occasione ci viene offerta dalla pubblicazione di un ottimo graphic novel pubblicato da BAO Publishing e realizzato da Teresa Radice (ai testi) e Stefano Turconi (ai disegni). Il volume si intitola: Non stancarti di andare. Di Teresa Radice e Stefano Turconi ci eravamo già occupati con riferimento a “Viola Giramondo” (Tunué) (qui la recensione di Furio Detti).

Non stancarti di andare è un romanzo grafico intenso sul senso dell’esistenza e della distanza, che attraversa più generazioni. Una storia per distruggere le barriere, per imparare ad amare senza riserve.

I protagonisti sono Iris e Ismail.

Iris inizia a mettersi comoda nella casa di Verezzi, in Liguria, mentre il suo amato Ismail torna a Damasco per sistemare le ultime faccende prima di trasferirsi definitivamente con lei. Separati da un destino violento e imprevisto, Iris si scopre incinta mentre Ismail lotta per tornare in Italia, bloccato dalla grave situazione in Siria, dove alla lotta tra milizie governative e forze ribelli si affianca l’avanzata dei gruppi fondamentalisti.

Di seguito, il tandem letterario tra i due autori (che ringrazio di cuore per la disponibilità e l’entusiasmo con cui hanno accettato il mio invito).

Massimo Maugeri

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Teresa Radice: Eccoci qua. “Non stancarti di andare”, edito da BAO Publishing, è in libreria da tre mesi, è stato un viaggio lungo cominciato oltre dieci anni fa in Siria e non ancora terminato, perché questo è il momento degli incontri coi lettori, delle chiacchierate sulla storia, dei perché e dei percome. In tanti ci hanno chiesto da dove è venuto questo libro, spingendoci spesso a parlare del passato ma, ora che ci penso, nessuno ci ha mai domandato di quel che resta in noi ora che il libro ha preso la sua strada. Di quel che di questa storia ci è rimasto addosso e dentro, ecco. A distanza di 3 mesi dall’uscita (e per te a soli quattro mesi dal termine della lavorazione ai disegni – io, con la sceneggiatura, avevo finito un po’ prima), c’è un personaggio che ti è rimasto più appiccicato di altri? Qualcuno per cui provi particolare nostalgia?

Stefano Turconi: Un po’ tutti, credo.  Dopo così tanto tempo passato assieme è difficile separarsene. Anche se, in realtà, da disegnatore non ti stacchi mai davvero da un personaggio: ogni volta che fai una dedica su un libro disegni uno di loro, quindi, a conti fatti, mi sa che ho disegnato molte più volte Iris e Ismail da quando il libro è finito che non prima, nelle tavole. In ogni caso i personaggi che mi mancano di più credo siano Iris e Maite, per un motivo banale in realtà: lo sapevo già prima, ma lavorando a questo libro mi sono accorto di quanto sia stimolante disegnare la “quotidianità”, un dialogo tra due persone in auto, o su una veranda una sera d’estate. Il fumare una sigaretta, o bere una birra, cose semplici che si fanno tutti i giorni, gesti banali, ma che, da disegnatore, devi rendere “interessanti”, giocando con i gesti o le inquadrature. Per molti aspetti è più facile disegnare una scena d’azione che non una scena in cui due persone prendono un caffè al bar parlando del tempo. Tu, invece, cosa mi dici in proposito?

Tere: Io, con le storie “grandi” (cioè quelle che ci occupano per anni, che sono vere e proprie navigazioni che assorbono ogni cosa che facciamo, che si tratti di pesare la frutta al supermercato o portare i bimbi a scuola) faccio sempre parecchia fatica a “staccarmi”. Tre mesi sono troppo pochi per aver cambiato completamente orizzonte… anche se parte di me già respira le atmosfere del progetto nuovo e il mio cuore ha riconosciuto nei compagni di strada del prossimo romanzo grafico una consonanza di battiti. Complice il fatto che in tanti ci stanno chiamando a raccontare “Non stancarti di andare”, sento Iris, Ismail, Maite, Tiz, Lucio e Saul ancora tutti attorno a me. E forse quello da cui faccio più fatica a separarmi è proprio Saul, che poi è il cardine del libro, colui dal quale tutto è partito, dal quale la storia di tutti gli altri è scaturita, come i cerchi nell’acqua quando getti un sasso. E’ per raccontare Saul che questo fumetto è nato, è l’essere stati toccati da Saul – e dalla realtà da lui creata al Monastero – che in un modo o nell’altro ha cambiato la vita delle persone del libro… e ha cambiato la nostra. Le vicende di tutti gli altri continuano idealmente oltre l’ultima pagina, il lettore può immaginarsele come vuole, ma quella di Saul ci rimane addosso nelle sue parole, nei suoi gesti, sospesa nell’attesa. E nella speranza. “Le ribellioni si fondano sulla speranza”, dicono in Star Wars. E come pulsa forte la ribellione al Monastero, che rende affollato il deserto e fa parlare tra loro persone di lingue diversissime, azzerando le distanze pur mantenendo le diversità!
A proposito, ricordo quanto ti sei basato sulle nostre foto per ricostruire quegli ambienti e tutto il lavoro di documentazione fatto sulla calligrafia araba. E siccome so quanto sei pignolo e maniaco delle verosimiglianze e ho ancora in mente le vele cancellate e rifatte mille volte per il nostro graphic novel precedente, “Il Porto Proibito”, uscito nel 2015 sempre per BAO, ti chiedo: a libro finito, c’è qualcosa su cui oggi rimetteresti mano?

Ste: Un sacco di cose! Sono ancora totalmente convinto di tutte le scelte di colorazione, di atmosfere, di inquadrature, non si tratta di questo. Si tratta dei “refusi”, degli errori nel disegno: un collo troppo lungo, una sproporzione tra le persone e le auto (le auto sono la mia “bestia nera”, non le so disegnare e sono cosciente che non imparerò mai!) un braccio storto, una testa troppo grande o troppo piccola, le classiche cose di cui ti accorgi quando è troppo tardi… Non sono molte, per fortuna, e in ogni caso non rivelerò mai pubblicamente in quali vignette si trovano…
E io invece ti chiedo: c’è stata una scena o un dialogo che hai scritto e riscritto più volte? Qualcosa di cui non eri mai soddisfatta? Qual è stata la parte del libro più difficile da scrivere?

Tere: Oh, ce ne sono state tante! Ma ricordo di aver cancellato almeno una decina di volte il dialogo tra Iris e Ismail a Istanbul, quando discutono di religione: c’erano cose che Iris sentiva fortemente il bisogno di dire, concetti che desiderava condividere con Ismail per costruire con lui un ponte che azzerasse le distanze, per trovare un comune modo di sentire che li avvicinasse al di là delle differenze. Ma le parole le scappavano, erano sempre troppo rozze o inadatte o approssimative. O rischiavano di ferire, di offendere, di scandalizzare… eppure quelle cose scalpitavano per essere dette. A essere onesta, temevo che qualcuno se la prendesse per quel suo discorso sconsolato su “forse il male sta nelle religioni…”, e invece un sacco di lettori hanno trovato echi di loro difficoltà in quelle di Iris e, al posto di schiaffi, abbiamo ricevuto abbracci.
E poi c’è la lettera finale del libro, quella al nostro bimbo, che in realtà aveva lo scopo di raccontare al lettore il perché di questa storia e il perché proprio ora: ci ho messo sei mesi a scriverla, lo sai. Dal giorno del suo quinto compleanno alla consegna del materiale per la stampa. Ci stavo proprio male, su quelle righe: cercavo il modo di spiegargli, quando si fosse imbattuto nel libro da grande, quello che provavo in quel momento di grida e muri. E quello su cui desideravo che lui e sua sorella posassero gli occhi, invece. Volevo farlo “dal lato illuminato della strada”, come avrebbero cantato i Pogues, ma di colpo attorno era tutto buio e non faceva che peggiorare e faticavo a trovare appigli: “Potrete mai assolvere, amore minuscolo, questi adulti che tanto faticano ad essere all’altezza del futuro che vorrebbero per voi?”. Che strazio è stato!
Ma visto che parliamo di figli, di speranze, di sogni… facciamo un gioco, dai. Si dice spesso in giro, di noi due, che siamo “i fumettisti a zonzo”: quelli che girano il mondo e che dai viaggi tornano con carnet zeppi d’immagini e parole (questo è vero!) e poi, da quelle immagini e parole, con tempi e modi ogni volta diversi, ecco che scaturiscono storie.

Ste: E a volte i lettori ci hanno addirittura attribuito viaggi che in realtà non avevamo mai fatto: è successo con l’India di “Topinadh Tandoori”, o con gli Stati Uniti, o con Istanbul…

Tere: Vero! Succede anche con le citazioni: capita che i lettori colgano, tra le nostre vignette, omaggi a film o libri che in realtà magari non conosciamo affatto! Però, tornando ai viaggi, in effetti praticamente tutte le nostre storie più importanti vengono da incontri con luoghi e realtà più o meno lontane, vissute insieme. Allora ti chiedo: quali posti metteresti in cima a una lista di luoghi da esplorare per ambientarci nuove storie? Il mio top della lista lo sai: l’Uzbekistan. Samarcanda prima di morire. Non so che razza di storia potrebbe venire da lì… ma sono sicura che ce ne sia già almeno una che sonnecchia in attesa di essere scovata…;-)

Ste: Difficile dare delle priorità, quindi via con la lista: Mongolia (sogno di andarci da sempre, da quando vidi “Marco Polo”, lo sceneggiato della RAI, negli anni ‘80), e poi il Sudafrica, la Patagonia, le Svalbard! Tutti posti facili da raggiungere, economici.;-) … Ma forse al primo posto metterei (dando un indizio a chi cerca informazioni sul prossimo libro) la Russia. In Carelia ci siamo già stati, ma mi piacerebbe tanto vedere Mosca, e Jasnaja Poliana (la tenuta di Tolstoj) e magari arrivare a Vladivostok sulla Transiberiana. Lì di storie ne troveremmo parecchie, secondo me. Tanto sognare non costa niente…

* * *

Teresa Radice e Stefano Turconi nascono entrambi nella Grande Pianura, a metà degli anni ’70… ma s’incontrano solo nel 2004, grazie a un topo dalle orecchie a padella e a una pistola spara-ventose. Lei, per vivere, scrive storie; lui le disegna. Si piacciono subito, si sposano l’anno seguente. Scoprendosi a vicenda viaggiatori curiosi, lettori onnivori e sognatori indomabili, partono alla scoperta di un bel po’ di mondo, zaino e scarponi. Dal camminare insieme al raccontare insieme il passo è breve. Le prime avventure a quattro mani sono per le pagine del settimanale Disney “Topolino”: arrivano decine di storie, tra le quali la serie anni ’30 in 15 episodi Pippo Reporter (2009-2015), Topolino e il grande mare di sabbia (2011), Zio Paperone e l’isola senza prezzo (2012), Topinadh Tandoori e la rosa del Rajasthan (2014) e l’adattamento topesco de L’Isola del Tesoro di R.L.Stevenson (2015). Nel 2011 si stabiliscono nella Casa Senza Nord – a 10 minuti di bici dalle Fattorie, a 20 minuti a piedi dal Bosco, a mezz’ora di treno dal Lago – e piantano i loro primi alberi. Nel loro Covo Creativo, i cassetti senza fondo straripano di progetti: cose da fare, posti da vedere, facce da incontrare. Nel 2013 esce Viola Giramondo (Tipitondi Tunué, Premio Boscarato 2014 come miglior fumetto per bambini/ragazzi, pubblicato in Francia da Dargaud). I frutti più originali della loro ormai decennale collaborazione hanno gli occhi grandi e la testa già piena di storie. I loro nomi sono Viola e Michele.

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SLEEPING BEAUTIES di Stephen King / Owen King http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/01/12/sleeping-beauties-di-stephen-king-owen-king/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/01/12/sleeping-beauties-di-stephen-king-owen-king/#comments Fri, 12 Jan 2018 14:15:01 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7698 La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) è dedicata al romanzo Sleeping Beauties” di  Stephen King / Owen King (Sperling & Kupfer – traduzione di Giovanni Arduino).

Di seguito: un articolo, il “tandem letterario” tra i due co-autori e un video.

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Sleeping Beauties: un “tandem letterario” in casa King

di Massimo Maugeri

Non è la prima volta che Stephen King aderisce a un progetto di scrittura a quattro mani. Già nel 1983 il Re pubblicò “Il talismano”, scritto insieme al collega Peter Straub. Di recente è uscito un nuovo romanzo di King scritto a quattro mani con un altro autore. Stavolta il collega scrittore è anche un suo parente e porta il suo stesso cognome: si chiama Owen ed è suo figlio (anch’egli romanziere, come Tabitha, moglie di Stephen e madre di Owen, e Joe – l’altro figlio di Stephen e Tabitha – che utilizza lo pseudonimo di Joe Hill). Il romanzo si intitola “Sleeping Beauties” e anche nella versione italiana (pubblicata da Sperling & Kupfer e ben tradotta da Giovanni Arduino) mantiene il titolo in originale. Il “sopratitolo” invece (una sorta di avvertimento… anzi, un vero e proprio monito) è tradotto in lingua italiana e recita così: “Non svegliare le belle addormentate”.
La storia è ambientata a Dooling, piccola città del West Virginia. Un luogo che riteniamo sia immaginario (come Castle Rock e Derry, celebri luoghi kinghiani), anche se – per la verità – negli Stati Uniti un piccolo centro che si chiama Dooling esiste davvero; solo che si trova nello Stato della Georgia, nella Contea di Dooly (e non in West Virginia): un piccolissimo centro di appena 154 abitanti (dati del 2010).
La Dooling di “Sleeping Beauties” ospita un carcere femminile: luogo che occupa un ruolo centrale nello sviluppo delle vicende del romanzo. Accade che, a un certo punto, una sorta di virus che pare aver avuto origine in Australia comincia a diffondersi un po’ ovunque. Il virus in questione viene battezzato con il nome Aurora (riferimento alla nota principessa della fiaba “La bella addormentata”), giacché colpisce solo le donne inducendole a un sonno improvviso e profondo. Ma l’addormentamento è solo una delle componenti della malattia. Le donne colpite, infatti, vengono ricoperte da una specie di membrana biancastra, di natura organica, ed è bene non risvegliarle… altrimenti la loro reazione è violenta e letale. L’epidemia si diffonde anche all’interno del carcere femminile di Dooling e per il dottor Norcross, lo psichiatra della prigione, e per sua moglie Lila, lo sceriffo, si prospettano tempi difficili (giusto per usare un eufemismo).
Il duo King (Stephen / Owen), prendendo spunto dalla mitica fiaba de “La bella addormentata”, offre al pubblico dei lettori un romanzo gotico che – pur non rientrando nel mio personale elenco dei magnifici cinque di King padre (in ordine di preferenza: “It”, “L’ombra dello scorpione”, “Misery”, “Shining”, “22/11/’63″) – mantiene un buon ritmo e tiene il lettore avvinghiato alla storia nonostante la presenza di un foltissimo numero di personaggi (se ne contano una settantina, elencati sulle prime pagine del libro). Su tutti si erge la figura della misteriosa e terribile Evie Black, una bella e giovane donna (intorno alla quale svolazzano strane falene marroni) che, sin dall’inizio della storia (viene arrestata per aver assassinato brutalmente due uomini), pare essere collegata alla sindrome del sonno e alle sue devastanti conseguenze.

Sleeping Beauties” (libro dell’anno 2017 per Goodreads) è destinato a essere trasposto sul piccolo schermo, dato che Anonymous Content (casa di produzione di True Detective e Mr. Robot in TV e di Revenant e Spotlight al cinema) si è assicurata i diritti per farne una serie con la collaborazione di Stephen e Owen King.

Può essere interessante conoscere qualcosa sulle origini del romanzo, per cui… ecco qui di seguito il “tandem letterario” del duo King: padre e figlio.

* * *

Owen: L’idea di “Sleeping beauties” è arrivata per caso. E siccome ci piace scambiarci idee, quando ci ho pensato gli ho chiesto: “Che cosa te ne pare di una storia in cui tutte le donne si addormentano?”. E papà l’ha trovata un’idea fantastica. Allora gli ho detto: “Grande! Scrivila!”. E papà mi ha risposto che avrei dovuto scriverla io. E alla fine abbiamo deciso di farlo insieme.

Stephen: Mi ricordo quando venne a raccontarmi la storia, non so se al telefono o via sms, e mi chiese cosa pensassi dell’idea che tutte le donne si addormentassero. Ho immaginato subito tutte le ramificazioni possibili e gli ho risposto: “Dobbiamo proprio scriverla!”. Poi mi ha proposto una serie TV: tipo, nove o dieci episodi. E così abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura. Anzi, un Pilot.

Owen: Sì, abbiamo cominciato così. Abbiamo scritto anche il secondo episodio.

Stephen: Poi Owen si è fermato un attimo e mi ha chiesto di scrivere un romanzo.

Owen: Era una serie TV davvero bella, ma lavorando sui personaggi mi sembrava – in un’ora per puntata – di non svilupparli adeguatamente… mentre volevo dare loro più peso. La soluzione era scrivere un romanzo.

Stephen: Adesso, leggendo il libro, è difficile ricordare chi ha scritto cosa. Owen ha riscritto me e io ho riscritto Owen. Il bello è che quando abbiamo finito questo lavoro siamo rimasti amici. Abbiamo continuato ad andare d’accordo e a rispondere alle telefonate l’uno dell’altro. È meraviglioso collaborare con tuo figlio. Quello che non sapevo è quanto sarebbe stato buono il risultato, la miscela unica della sua sensibilità con la mia.

Owen: Sì, scrivendoci l’un l’altro abbiamo ottenuto una terza voce. La voce di entrambi.

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E adesso, se vi va, potete ascoltare le voci del duo nell’ambito di questo video…

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La scheda del libro

Dooling è una piccola città fortunata del West Virginia, con una splendida vista sui monti Appalachi e lavoro per tutti. È a Dooling, infatti, che qualche anno fa è stato costruito un carcere all’avanguardia destinato solo alle donne, che siano prostitute o spacciatrici, ladre o assassine, o ancora tutte queste cose insieme. Ed è una di loro, in una notte agitata, ad annunciare l’arrivo della Regina Nera. Per il dottor Norcross, lo psichiatra della prigione, è routine, un sedativo dovrebbe sistemare tutto. Per sua moglie Lila, lo sceriffo di Dooling, poteva essere un presagio. Perché poche ore dopo, da una collina lì vicina, arriva una chiamata al 911, ed è una ragazza sconvolta a urlare nel telefono che una donna mai vista ha ammazzato i suoi due amici, con una forza sovrumana. Il suo nome è Evie Black. Intorno a lei svolazzano strane falene marroni e sembra venire da un altro mondo. Lo stesso, forse, dove le donne a poco a poco finiscono, addormentate da un’inquietante malattia del sonno che le sottrae agli uomini. Un sonno dal quale è meglio non svegliarle.
Sleeping Beauties è una favola nera gloriosamente ricca di storie, idee, eventi e personaggi memorabili, che inizia con un C’era una volta a Dooling e termina con un finale degno dei King. Potente, provocatorio, sorprendente.

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STEPHEN KING vive e lavora nel Maine con la moglie Tabitha. Le sue storie sono clamorosi bestseller che hanno venduto centinaia di milioni di copie in tutto il mondo e hanno ispirato registi famosi come Brian De Palma, Stanley Kubrick, Rob Reiner e Frank Darabont. Accanto ai grandi film, innumerevoli gli adattamenti televisivi tratti dalle sue opere. King, oggi seguitissimo anche sui social media, è stato insignito della National Medal of Arts dal presidente Barack Obama.

OWEN PHILIP KING, nato a Bangor nel 1977, è il figlio minore di Stephen King. Autore di due raccolte di racconti (la prima delle quali pubblicata da Frassinelli con il titolo Siamo tutti nella stessa barca) e di un romanzo, ha ricevuto diversi premi letterari per il suo lavoro. È sposato con la scrittrice Kelly Braffet.

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I DUBBI DI SALAÌ: Manzoni intervista Monaldi & Sorti http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/09/22/i-dubbi-di-salai/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/09/22/i-dubbi-di-salai/#comments Fri, 22 Sep 2017 15:19:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7618 La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) è dedicata al nuovo romanzo di Rita Monaldi e Francesco Sorti: “I dubbi di Salai” (Baldini&Castoldi). Per l’occasione, la nota coppia letteraria ha chiamato in causa il grande Alessandro Manzoni, che si è generosamente prestato a intervistarli.

Pubblico l’intervista qui di seguito ringraziando Rita Monaldi, Francesco Sorti… e, naturalmente, Alessandro Manzoni.

Massimo Maugeri

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IN ESCLUSIVA PER

LETTERATITUDINE

Rita Monaldi e Francesco Sorti

intervistati sul romanzo storico da

Alessandro Manzoni

Risultati immagini per alessandro manzoniMANZONI – Ho accettato con molto piacere l’invito di condurre con voi un colloquio sul romanzo storico. C’è stato un po’ di confusione all’inizio, quando lo staff di Letteratitudine si è reso conto che non ho un agente, ma poi con Maugeri ci siamo intesi benissimo. Gli ho solo confessato di aver seguito un po` poco le tendenze letterarie italiane degli ultimi 200 anni. I modernissimi, tipo Pirandello, non li ho ancora letti. Ma veniamo a noi, cari autori, e partiamo dall’ultimo vostro libro, I dubbi di Salaì, appena uscito con Baldini&Castoldi. Poi andiamo a ritroso, fino ai vostri inizi e all’idea stessa di scrivere romanzi storici. Un tema che come sapete mi sta molto a cuore.

MONALDI & SORTI – Innanzitutto grazie, cavalier Manzoni, per l’onore che ci fa con questa intervista! Postiamo subito un selfie su Twitter, i nostri compagni di liceo saranno verdi d’invidia. I dubbi di Salaì apre una trilogia che ha per protagonista un personaggio realmente esistito: sciupafemmine, mangione, zotico e testadura, il bel Salaì racconta in una serie di 68 lettere (falsissime, e quindi verosimili) la sorprendente avventura vissuta a Roma nel 1501 col suo patrigno, uno squattrinato artista un po` frustrato e con la testa sempre fra le nuvole, tale Leonardo da Vinci. I Dubbi di Salaì è il primo esempio di giallo storico-satirico. La satira è rivolta contro le falsificazioni storiche più sfacciate, le fake news – come le chiamiamo oggi – che meritano di essere disinnescate con l’arma del ridicolo. È un romanzo in cui si ride, e anche parecchio, ma su cose tremendamente serie.

MANZONI – Falsificazioni che durano da secoli, avete detto? Io di secoli, se mi consentite, ne ho visti più di voi… Non vi pare un’idea un po’ azzardata?

MONALDI & SORTI – Tutt’altro. Primo esempio: la leggenda nera dei Borgia. Assassinii, incesti, orge. È un caso clamoroso di fake news vecchio di cinque secoli. Papa Borgia non è un mostro. È stato diffamato per motivi politici.

MANZONI – E i mandanti della diffamazione chi sarebbero?

MONALDI & SORTI – I prìncipi tedeschi, vogliosi di avviare la Riforma per staccare la loro terra dal controllo del clero di Roma. E poi i vari principati italiani, gelosi della loro indipendenza e insofferenti verso il tentativo dei Borgia (spagnoli, quindi intrusi) di riunire la penisola sotto la loro egemonia. Papa Borgia aveva inoltre avviato una grande riforma della Chiesa, che avrebbe disinnescato la rivolta luterana. Ma a bloccarlo arrivarono puntualmente guerre, invasioni turche, divisioni politiche e infine l’improvvisa morte. Fu un Papa dalla notevole visione politica. E tutt’altro che vizioso.

MANZONI – Quindi i Borgia virtuosi, anziché lascivi e assetati di sangue? Potete immaginare la mia sorpresa! Io stesso, per scrivere i Promessi sposi, mi sono servito del lavoro degli storici. Possibile che nessuno di loro si sia accorto di una tale manipolazione?

Monaldi Rita e Sorti FrancescoMONALDI & SORTI – Egregio cavalier Manzoni, ma certo che se ne erano accorti! Il più grande e approfondito studio documentale sui Borgia, pubblicato dallo statunitense Peter De Roo nel 1925 in cinque volumi e migliaia di pagine, smonta o contraddice efficacemente tutte le leggende antiborgiane. Ma è stato sistematicamente passato sotto silenzio dal mainstream accademico. Perfino l’ottima Maria Bellonci, fondatrice del premio Strega, nella sua biografia di Lucrezia Borgia fa orecchio da mercante. Le copie dell’opera di De Roo sono sparite dalla circolazione. In Italia ne sopravvivono solo quattro.

MANZONI – Sa di complottismo, come lo chiamate oggi. So che non è più di moda, ma io ho uno spiccato senso della Provvidenza, e non riesco a conciliarlo con quanto mi state dicendo.

MONALDI & SORTI – Allora le aggiungiamo una nostra scoperta, anche questa contenuta ne I dubbi di Salaì. Il famoso Diario del cerimoniere pontificio Giovanni Burcardo, contemporaneo dei Borgia, è la più pesante prova a carico del papa e della sua cerchia: racconta tra l’altro i festini disgustosi che si sarebbero svolti in quegli anni alla loro corte. Ebbene, abbiamo dimostrato che Burcardo plagia bellamente il Decameron del Boccaccio. Inoltre in patria (proveniva da Strasburgo) era stato condannato per furto e falsificazione di documenti. Per finire, dopo la sua morte il Diario è stato manipolato: qualcuno ha inserito l’histoire scandaleuse dei Borgia nel manoscritto originale del Diario. Che quindi è in ogni caso una sonora patacca.

MANZONI – Non vi paiono giudizi un po’ impertinenti? I testi universitari continuano a citarlo, quel Diario. E anche le vostre, come si chiamano… ah sì, fiction TV.

MONALDI & SORTI – Se è per questo si continua a leggere anche la Germania di Tacito. Un altro caso di fake news.

MANZONI – Che c’entra Tacito con I dubbi di Salaì?  Il vostro romanzo non si svolge al tempo dei Romani.

I dubbi di SalaìMONALDI & SORTI – È presto detto. Insieme al Diario di Burcardo, la Germania di Tacito è stata un’altra grande arma propagandistica frutto di mistificazione. La Germania viene alla luce giusto all’alba della Riforma protestante, creando il mito degli antichi tedeschi virtuosi e incorrotti, e soprattutto di razza pura. Un mito sfruttato a mani basse anche dal nazionalismo bismarckiano e poi dai nazisti. Ebbene, la Germania è stata giustamente sospettata di essere un falso. L’unica copia spuntò dal nulla per opera di un certo Poggio Bracciolini, famoso cacciatore di manoscritti che sosteneva di trovare i suoi tesori nei conventi – e che poi, appena ricopiati, diceva di aver smarrito. Restavano così solo le sue copie. E Poggio si arricchiva rivendendole.

MANZONI – Insomma, volete dire che tutto il passato è una falsificazione?

MONALDI & SORTI – No, intendiamo solo dire che esistono documenti, funzionali a ideologie come quella nazista, che hanno un’origine assai dubbia. E che degli studiosi hanno già sospettato di non essere genuini. Purtroppo, alcune di queste pericolose frottole hanno resistito per secoli.

MANZONI – E Leonardo da Vinci? È una gloria del genio italico. Ancora, come si dice… fake news?

MONALDI & SORTI – In parte sì. Alcuni romanzi trash degli ultimi anni hanno fatto di Leonardo un tenebroso esoterista. E certi divulgatori lo hanno presentato come una sorta di profeta, che anticipa telepaticamente le invenzioni future.

MANZONI – Invece?

MONALDI & SORTI – Leonardo era semplicemente un eccellente artista, e uno scienziato di grande levatura. Ma, secondo alcuni storici della scienza, aveva ereditato il ricchissimo patrimonio scientifico e tecnologico dell’antica Grecia senza comprenderlo davvero. Da Vinci infatti ignorava entrambe le lingue dotte del suo tempo, latino e greco. Non a caso molte delle sue invenzioni, se messe alla prova, fanno sonoramente cilecca. Inoltre era ritardatario, scombinato, bislacco, squattrinato e in perenne lite con quel monellaccio di Salaì, che gli fregava i soldi dalle tasche e se li andava a spendere in caramelle e frittelle. Il mito di Leonardo, insomma, aveva bisogno di essere rimesso a posto con un po` di sano umorismo.

MANZONI – A me, che sono stato un cittadino responsabile, addolora intravedere falsi e bugie dappertutto. Non è che per caso vi anima uno spirito sovversivo? Vedo che avete scritto ben cinque romanzi ambientati nel mondo della diplomazia barocca. Imprimatur, Secretum, Veritas, Mysterium, Dissimulatio

MONALDI & SORTI – Lei ha elencato cinque nostri romanzi con in totale 3500 pagine,  ovviamente non possiamo riassumerli in due parole. Ad ogni modo, in ogni tappa di questa serie in sette volumi (gli ultimi due li stiamo scrivendo) abbiamo individuato un luogo, un evento e un momento decisivo nella storia d’Europa, uno Knackpunkt in cui il corso delle cose umane è stato deviato artificialmente, e per sempre. Ogni volta, scavando nei documenti, abbiamo trovato che la deviazione è stata ottenuta con raggiri ed artifici. Abbiamo quindi provato a smontare la falsificazione, e a suggerire il “colpevole”.

MANZONI – Scusate, ma mi sento a disagio. Il romanzo storico dovrebbe formare le coscienze.

MONALDI & SORTI – Appunto. E, per parafrasare il profeta Ezechiele, non si può edificare se prima non si abbatte. In politica, come in diplomazia, prevale spesso la dimensione segreta e fraudolenta. A Milano, qualche mese fa, abbiamo organizzato un dibattito pubblico sul nostro romanzo Dissimulatio, in cui un terrorista pentito e un famoso magistrato che ha a lungo indagato sull’eversione concordavano sul fatto che i colpi di Stato, a volte, non sono altro che una farsa. E poi, nella storia degli untori e della peste a Milano, che Lei ha illuminato meglio di chiunque altro, non c’è forse il dilemma del divorzio tra Storia e Verità?

MANZONI – Touché. Ma allora perché scrivete romanzi e non saggi? Non vi converrebbe concentrarvi sui fatti, senza avventurarvi in una narrazione? Rischiate di deludere sia gli amanti della poesia che della verità storica. Voi lo sapete: dopo aver pubblicato il mio romanzo, ho avuto dubbi e ripensamenti non da poco. Lo confesso: di Renzo e Lucia mi sono quasi vergognato. Anche perché certe osservazioni un po’ acide di Goethe mi avevano preso in contropiede.

MONALDI & SORTI – Capiamo benissimo. Ma sin dall’inizio volevamo condividere coi lettori il senso di sorpresa, rifiuto e talvolta sdegno che provavamo durante le nostre scoperte. E condividere un’emozione è possibile solo raccontando una storia. Le grandi religioni, per parlare anche ai più semplici, ci hanno tramandato racconti e non trattati di teologia.

MANZONI – L’idea è interessante, ci devo riflettere. Scusate ma è ora che io rientri. Signor Maugeri, mi passa il mantello? Le mando il testo domani per mail. E non si preoccupi se sullo schermo resterà invisibile l’indirizzo da cui arriva: sono le regole di Lassù. Gentili autori, mi firmate una copia del vostro libro?

MONALDI & SORTI – Ci mancherebbe, cavaliere carissimo, è un onore! Visto che ci rivedremo chissà quando, ci firma anche lei una copia dei Promessi Sposi?

MANZONI – Spiacente, Lassù me lo hanno proibito. Sia per ragioni morali che per evitare speculazioni. Non per vantarmi, ma sapete quanto vale sul mercato una mia dedica autografa? Infine, prima di lasciarvi, quasi non ho il coraggio di chiederlo… Insomma, secondo voi si continuerà a leggere il mio romanzo nelle scuole?

MONALDI & SORTI – Ma certo, non si preoccupi! Almeno finché ci saranno docenti che insegnano a scavare nei fatti con pazienza e a non bersi le fake news.

MANZONI – Grazie di questo colloquio. Mi avete tranquillizzato. Sapete, sono un tipo un po’ ottocentesco… Addio Monaldi e Sorti! Addio Maugeri!

MONALDI & SORTI e MAUGERI – Addio, cavalier Manzoni!

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La scheda del libro

I dubbi di Salaì

Il nuovo genere letterario ideato da Monaldi & Sorti: il giallo storico-satirico!

Roma, primavera 1501.
Salaì, apprendista pittore, scapestrato e sciupafemmine, scrive a un ignoto destinatario lo sgrammaticato resoconto del suo viaggio nell’Urbe. Il giovane è arrivato da Firenze al seguito del patrigno, un vecchio frustrato e squattrinato dalla testa zeppa di strane invenzioni che non funzionano mai: Leonardo da Vinci. Ufficialmente Leonardo è venuto nella Città Santa per studiare dal vivo l’antica architettura romana. In realtà è stato chiamato per un’indagine delicatissima: dovrà scoprire chi sta spargendo voci calunniose e infamanti sul pontefice, Alessandro VI Borgia. Il bel Salaì, rozzo ma dal cervello fino, a sua volta ha ricevuto dalle autorità fi orentine l’incarico di spiare il patrigno: Da Vinci, che è anche ingegnere militare, è sospettato dai suoi concittadini di cospirare con potenze straniere.
Durante la caccia ai calunniatori di papa Borgia, Leonardo e Salaì s’imbattono in un brutale assassinio: uno scrivano pontificio è stato massacrato a colpi d’ascia nel suo letto. L’omicidio conduce a una lobby di tedeschi residenti a Roma: fi nanzieri, artisti, prelati e letterati, tra cui i potenti banchieri Fugger e il capo del cerimoniale vaticano, Giovanni Burcardo. Con una serie di peripezie esilaranti e inquietanti, dove delitti e suspense si mescolano a roventi avventure amorose e fughe rocambolesche, Leonardo e Salaì risaliranno dalla morte dell’anonimo scrivano fi no a una colossale frode, destinata a cambiare il mondo.
Perché anche dietro ai piccoli misteri c’è una grande bugia, e per salvare la pelle, come insegna Salaì, bisogna sempre chiamare le cose con il loro nome.
Ancora una volta Monaldi & Sorti ci conducono per mano nei meandri della Storia, costruendo sulle fonti storiche originali un racconto dallo humour scintillante, di straordinaria originalità stilistica e che – come sempre – ci parla del nostro presente.

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Monaldi Rita e Sorti FrancescoRita Monaldi e Francesco Sorti sono in assoluto il duo di autori che conta il maggior numero di imitatori in Italia e all’estero.
Moglie e marito nella vita, vivono con i loro figli a Vienna e sono autori di dieci bestseller internazionali, di cui cinque con protagonista Atto Melani: Imprimatur, Secretum, Veritas, Mysterium e Dissimulatio.
Gli ultimi due titoli della serie, Unicum e Opus, sono in preparazione.
Nel loro curriculum c’è anche la scoperta a Parigi di un manoscritto inedito di Atto Melani, pubblicato da Baldini&Castoldi col titolo Gli intrighi dei Cardinali.
Hanno inoltre ideato il genere letterario del giallo storico-satirico con una trilogia picaresca dedicata a Salaì, figlio adottivo di Leonardo da Vinci: I Dubbi di Salaì, L’Uovo di Salaì e La Riforma di Salaì. I loro libri sono tradotti in 26 lingue e 60 Paesi.
Le note vicende politico-editoriali legate alla prima edizione di Imprimatur hanno tenuto lontano per molti anni dal nostro Paese le opere di Monaldi & Sorti. Solo ora vengono fi nalmente presentate in Italia da Baldini&Castoldi, che di Monaldi & Sorti ha pubblicato in anteprima mondiale anche il romanzo Malaparte – Morte Come Me, accolto dal plauso unanime della critica, semifinalista al Premio Strega 2017.

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La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) è dedicata al romanzo Amiche di penna di Marosella Di Francia e Daniela Mastrocinque (Mondadori); un romanzo epistolare che vede come amiche di penna due celebri personaggi letterari: Anna Karénina e Emma Bovary.

Ecco, di seguito, il tandem letterario offerto dalle due autrici (che ringrazio e a cui dò il benvenuto).

In coda al post, un estratto del libro.

Massimo Maugeri

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AMICHE DI PENNA: il tandem letterario di Marosella Di Francia e Daniela Mastrocinque

Marosella – Tra i quattro personaggi di Amiche di penna, mi riferisco non solo alle due protagoniste,  Anna ed Emma, ma anche a Odette e Rossella che si inseriscono in un secondo momento, a quale ti senti più vicina?

Daniela – Forse a Emma, per il suo essere una sognatrice, per il suo affetto  sincero per Anna. Non le perdono però la debolezza per le spese insensate. Oggi potrebbe essere la protagonista di un romanzo  come “I love shopping”. E tu a quale ti senti più vicina?

Marosella – Difficile rispondere, perché se ci pensi bene siamo  tutte un po’  Emma, quando crede fino in fondo all’amore di Rodolphe che giura che la porterà via con sé, siamo Anna, quando creiamo fantasmi di gelosia, o Rossella, quando per ostinazione e orgoglio diventiamo autolesioniste, e a volte siamo Odette se ci serviamo degli uomini per tornaconto.

Daniela – La nostra è stata una collaborazione ricca di confronti e discussioni, ma poi abbiamo sempre trovato una soluzione su cui eravamo entrambi d’accordo. Dimmi la verità, a romanzo pubblicato, ti sei pentita di essere stata qualche volta troppo accondiscendente?

Marosella – No, perché non sono stata sempre io a cedere, ma spesso anche tu hai messo da parte la tua opinione e sei venuta sulle mie posizioni. E poi, a ben rifletterci, e  sono sicura che sei d’accordo con me, non è stata mai la tua o la mia idea a prevalere, ma ne è venuta fuori una terza, nata dalle nostre discussioni, anche molto accese, che ha avuto la meglio e si è rivelata poi quella più giusta.

Daniela – Sì, è vero, anzi vorrei aggiungere che questo dover rendere conto all’altro della propria idea ci ha costretto ad andare più a fondo nei personaggi per poter creare una relazione credibile tra loro.

Marosella – Certo, anche perché non bastava fare incontrare Anna ed Emma, sia pure solo attraverso le lettere, ma bisognava dare una motivazione al comune bisogno di approfondire quella che era iniziata solo come una conoscenza fortuita.
L’infinita solitudine delle due donne si è manifestata così in tutta la sua drammaticità.
Anche tu, come Emma talvolta riempi la solitudine con la lettura?

Daniela – No, riempio la mia vita con la lettura e se lo vuoi sapere “Madame Bovary c’est moi”, in quanto anche io mi faccio influenzare dalle letture.
E’ così che forse da lettrice mi sono trasformata in autrice.
A proposito della lettura, secondo te i giovani oggi possono essere ancora attratti da storie ambientate nell’Ottocento?

Marosella – Penso proprio di sì perché mi sembra di cogliere, in un’epoca in cui il futuro appare quanto mai incerto, un’esigenza diffusa di ricercare indietro nel tempo un mondo facilmente riconoscibile. Penso per esempio al successo di tante serie televisive ambientate nel passato.
Ma adesso, dimmi un’ultima cosa: dopo aver sperimentato già due volte la scrittura a quattro mani, prima nella sceneggiatura “Gli amanti di Parigi” e poi nel romanzo epistolare “Amiche di penna” pensi che potremmo cimentarci in un romanzo di stampo classico?

Daniela – Perché no, dipende da te. Io sono pronta.

* * *

AMICHE DI PENNA: di Marosella Di Francia e Daniela Mastrocinque – (Mondadori)

Un estratto del libro

Venezia, 1° luglio

Gentile signora,
le sembrerà strano ricevere da Venezia una richiesta di corrispondenza da una signora russa che vive a Pietroburgo e parla francese dalla nascita. È già da un mese che sono in viaggio e sono appena giunta in Italia dove il francese – almeno così mi è stato detto – è poco conosciuto, se non addirittura osteggiato, come le altre lingue straniere. A volte – non credete anche voi? – non mettiamo in conto quanto ci si senta spersi lontano dal proprio Paese, dove si usa un’altra lingua e le parole ci dividono dagli altri. E io, anche se sono in un momento felice, anzi felicissimo della mia vita, ho nostalgia della mia lingua materna, la lingua della mia infanzia.
Me ne sono accorta tutto a un tratto, quando una sera un medico francese che risiedeva nel nostro stesso albergo è accorso d’urgenza al capezzale della nostra bambina ma- lata. Quando gli ho chiesto di dov’era, mi ha risposto, parlando con quella inflessione che ben conosco, di essere di Rouen. E ciò mi ha riportato indietro nel tempo, al ricordo della mia infanzia, alla cara Mademoiselle Charlotte, la mia prima istitutrice ormai morta, che era originaria di quelle parti e che con me è stata affettuosa come una madre. Così, d’istinto, gli ho consegnato questa lettera, ora nelle vostre mani, incaricandolo di trovarmi una gentile signora del luogo desiderosa di corrispondere con una sconosciuta di nome Anna Karénina.

* * *

Yonville, 15 dicembre

Cara Anna,
il vostro francese è perfetto. Sì, è vero, qualche termine,
per lo meno dove vivo io, non è più tanto usato, ma il vostro linguaggio mi piace molto, assomiglia a quello dei romanzi. Non so, cara amica, se dipende dalle parole che scegliete o dalle cose che raccontate. Voi dovete essere una donna proprio affascinante. Come vorrei somigliarvi!
Anch’io, come voi, sono madre di una femminuccia. La bambina però non vive qui da noi, è ancora a balia, in campagna.
Quanto alla vostra riluttanza a parlare delle tristi vicende che vi hanno afflitto, vi comprendo bene, ma mi dite che ora siete felice con il vostro… amante, se mi permettete di chiamarlo così. Quindi voi, mi par di capire, avete avuto la forza di abbandonare gli agi e le sicurezze della vostra vita di moglie e madre rispettata da tutti, per affrontare i rischi di una passione che, come vedo, vi riempie l’esistenza.
Scusatemi, non era mia intenzione riportarvi con la mente a momenti che vi hanno fatto soffrire e che forse preferite dimenticare, ma non posso non confessarvi tutta la mia ammirazione per esservi saputa ribellare a quelle regole fisse e immutabili che costringono noi donne all’obbedienza assoluta. Apprezzo il vostro coraggio. Io non lo posseggo e quindi non mi rimane che rifugiarmi nei libri e nelle gran- di storie d’amore solo lette e mai vissute.
Certo la vostra vita adesso deve essere meravigliosa, voi e il vostro conte in giro per l’Italia a visitare quei luoghi bellissimi, e poi i teatri! Come mi piacerebbe vederne qualcuno e magari assistere anche alla rappresentazione di un’opera! È un privilegio che a me non è ancora mai toccato.
A Rouen, la città più vicina al nostro paese, c’è un teatro, ma mio marito, indaffarato com’è, non mi ci ha mai por- tato. In verità sono quasi sicura che sia una scusa, perché penso che a lui l’opera non interessi affatto. L’altro giorno, dopo aver ricevuto la vostra lettera, mi ero talmente calata nello scenario che descrivevate che mi sono immaginata anch’io lì con voi, vestita magnificamente, in un palco, tra quelle luci, quei velluti e quegli stucchi, ed ero così eccitata che sono corsa da mio marito a pregarlo di portarmi al più presto al teatro di Rouen. Lui mi ha risposto in maniera sbrigativa:
«Poi si vedrà, magari il mese prossimo, quando sarò più libero dagli impegni.»
Mi è bastata questa promessa e mi sono subito data da fare: ho ordinato per posta un abito che da tempo avevo adocchiato su “L’Illustration”, un abito di colore verde-nilo con il bustino ricamato di jais, molto di moda ora a Parigi. Bene, forse ho sbagliato, ma appena è arrivato l’ho indossato per un piccolo ricevimento che si teneva a casa del notaio del nostro paese. Non ci crederete, ma la signora Hommais, la moglie del farmacista, quando mi ha vi- sto ha esclamato:
«Ma cara, cosa ti sei messa indosso… quel colore! E poi mi pare corto, ti si vedono le caviglie!»
Era un modello di una grande sartoria che, scusate se appaio prosaica, costava anche un bel po’. Sono stata costretta a tornare a casa per togliermelo, perché poi è sopraggiunto mio marito che, suggestionato dalle affermazioni della signora, mi ha dolcemente consigliato di cambiare abito.
Vedete, anche Bovary, che pure è uno stimato medico, vive bene così, non ha ambizioni. Lui è contento delle sue visite quotidiane nel circondario; non pensa che forse, studiando e sperimentando, potrebbe emergere dal suo anonimato e migliorare così la sua posizione sociale e quindi anche la mia.
Mi dispiace, Anna cara, parlarvi di queste piccole meschinità di un paese di provincia, ma è la mia vita e, per quanto io con la fantasia e l’immaginazione cerchi di evadere, sempre più spesso la realtà riesce ad afferrarmi per i piedi e a riportarmi giù in terra.
Io, comunque, non rinuncio alle mie letture, che sono la mia via di fuga da questo piccolo mondo limitato, e sono contenta che leggerete l’epistolario di cui vi ho parlato. Eloisa vi piacerà, ne sono sicura. È una donna così coraggio- sa e così innamorata che arriva al punto di volere ciò che vuole il suo Abelardo, uniformando completamente la sua volontà a quella dell’amato. Un po’ come voi con il conte quando dite di vedere con i suoi occhi. Questi sentimenti così intensi, così profondi, io, Anna, non li ho mai provati, ma li ho tanto sognati!
Scrivetemi presto, cara, attendo con impazienza le vostre lettere che per me sono come raggi di sole nel grigiore, anzi nel buio della mia esistenza. Con voi sento di poter parlare di tutto, sento di poter squarciare questa specie di velo che mi avvolge, mi opprime, che mi dà la sensazione di imprigionarmi e m’impedisce di essere quello che sono o che per lo meno vorrei essere.

La vostra devota Emma

* * *

Parigi, 7 agosto

Cara Emma,
devo dirvi innanzitutto che sono rimasta sbalordita dal vostro repentino cambiamento.
Sembravate così sicura di voi e della vostra fede in Dio, così lontana e indifferente a quanto vi raccontavo di me e di Parigi che pensavo vi sareste addirittura chiusa in un monastero e io vi avrei persa completamente, amica mia.
Invece, siete tornata quella di sempre e, anche se un po’ disorientata, non posso che rallegrarmene: ho ritrovato la mia Emma.
Ma torniamo a quanto mi scrivete.
Mi fa piacere sentire che vi svagate un po’ e che avete fatto delle nuove conoscenze. Io non ho mai avuto occasione di ascoltare il tenore di cui parlate, anche se mi è noto per fama. So che con la sua voce ha incantato tutte le platee e probabilmente ora che vivrò a Parigi avrò la possibilità di ascoltarlo. Vrónskij, infatti, si sta già muovendo per trovare un buon palco all’Opéra per la prossima stagione.
Quegli americani che avete conosciuto a teatro sembrano persone interessanti e, a dire la verità, anche un po’ originali. Vedete, è il destino che ve li ha fatti incontrare perché ha qualcosa in serbo per voi. Assecondatelo, non lasciate- vi sfuggire quella che potrebbe essere una buona occasione per evadere da quel mondo che trovate così limitato.
Quanto a noi, come potete ben comprendere, siamo molto indaffarati nella ricerca di un appartamento che ci soddisfi. Fino a ora non ne abbiamo trovato nessuno adatto a noi; Vrónskij è molto esigente e respinge qualsiasi proposta ci venga presentata. In verità siamo un po’ delusi, pensavamo che Parigi potesse offrirci di più e invece per il momento abbiamo visitato solo case troppo malridotte. Domani andremo a vedere un appartamento situato a place Vendôme che dicono sia bellissimo.
Per il resto Vrónskij è entusiasta e ha ritrovato il gusto della vita mondana. Siamo infatti ricevuti con grande affabilità in tutti i salotti senza che nessuno faccia caso alla nostra condizione, come ci aveva anticipato l’ambasciatore.
Qualche sera fa siamo andati insieme a Natàl’ja e suo marito a un ricevimento a casa di una mia quasi cugina, la principessa Oriane Guermantes. Disse una volta mio zio: «A un certo livello, tutti sono parenti di tutti».
Mentre salivamo le scale del palazzo, Natàl’ja si è premurata di informarmi che in quel salotto è di rigore essere originali; non manca mai un colpo di scena e bisogna saper- lo, perché altrimenti si rischia di essere tagliati fuori dalla conversazione e di sentirsi fuori posto. Quindi paradossi, allusioni sottili, divertissements per tutta la sera.
La conversazione però si è fatta più seria quando un signore dai capelli rossi, un certo Swann che fino ad allora era rimasto in silenzio a fumare, è tutto a un tratto intervenuto nel discorso e, non so più a che proposito, ha cominciato a parlare di Jan Vermeer, un pittore olandese a me sconosciuto, che lui sta studiando.
Con parole che dimostravano grande cultura e profonda sensibilità ci ha raccontato che Vermeer ha raffigurato di frequente nei suoi quadri donne che ricevono, leggono o scrivono lettere. Ci ha chiesto cosa, secondo noi, avesse spinto l’artista a quel tipo di rappresentazione. Nessuno dei presenti riusciva a dargli una spiegazione che lo soddisfacesse e allora mi sono fatta avanti io. Ho detto che, per quanto mi riguardava, traevo grande piacere dal comunicare attraverso le lettere; anzi, per il loro tramite, riuscivo a dire cose che nel colloquio vis-à-vis non avrei magari mai detto e che quindi la scrittura di una lettera forse era in grado di mettere la persona in un più profondo contatto con se stessa e con qualcosa di altrimenti inconfessabile.
Il signor Swann ha dimostrato di apprezzare molto la mia osservazione e, appena è stato possibile, mi si è avvicinato per continuare la conversazione. Mi è sembrato un uomo raffinato e affascinante che aveva il dono di saper ascoltare. Mi ha detto che sì, forse queste donne di Vermeer rappresentavano il contatto di quel tranquillo e operoso mondo femminile con il mistero.
C’è qualcosa di misterioso, secondo voi Emma, in noi donne? Qualcosa d’inaccessibile forse anche a noi stesse?
Allora anche le lettere che si scrivevano Abelardo ed Eloisa ci dicono e ci svelano profondità inesplorate?
Tutto ciò mi fa paura, ma nello stesso tempo mi affascina.
Ho detto a Swann che stavo leggendo quell’epistolario e lui si è mostrato molto interessato. Mi ha chiesto come mai mi ero avvicinata a una tale lettura e io gli ho spiegato la strana circostanza. Ho poi aggiunto che non sapevo quasi nulla di Abelardo ed Eloisa e mi interrogavo se le lettere fossero autentiche o frutto di fantasia. Allora lui mi ha stupito con questa frase:
«Ma cosa importa, Madame. Forse che le pene d’amore di Didone sono meno vere perché lei non è mai esistita?»
E ciò, devo dire la verità, mi ha colpito tanto che sono rimasta per un po’ in silenzio, come turbata.
Dopo un po’ Swann ha aggiunto:
«Madame, se permettete, vorrei farvi una sorpresa; vorrei mostrarvi qualcosa che sono sicuro vi interesserà. Se avrete la cortesia di dedicarmi un po’ del vostro tempo, domani o un altro giorno, potremmo incontrarci, naturalmente anche con il conte Vrónskij, in boulevard de Ménilmontant. Vi porterò in un posto particolare, molto particolare, e non vi pentirete, sono sicuro, del tempo che mi avrete dedicato.»
Ho acconsentito d’impulso, senza nemmeno chiedere a Vrónskij se voleva accompagnarmi.
Sono molto curiosa, cara Emma. Nella prossima lettera vi racconterò tutto.

La vostra Anna

(Riproduzione riservata)

copyright

© 2016 Mondadori Libri S.p.A., Milano

I edizione settembre 2016

* * *

La scheda del libro

Mentre è in viaggio in Italia con il suo amante Vrónskij, Anna Karénina avvia quasi per caso una corrispondenza con Emma Bovary, una signora francese che abita in provincia. Per sfuggire alla monotonia della propria vita, Emma cerca rifugio nei piaceri della letteratura e quindi non esita a consigliare ad Anna di leggere L’epistolario di Abelardo ed Eloisa, che l’ha conquistata. Anche sulla spinta di questa comune passione, le due donne iniziano a scriversi con assiduità e a scambiarsi racconti, chiacchiere e considerazioni sulle rispettive esistenze, che in parte ricalcano la trama dei romanzi di cui sono protagoniste, in parte la reinterpretano o la reinventano. Mentre la corrispondenza tra Anna ed Emma si fa sempre più intima e disinibita, a una festa in casa Guermantes Anna incontra Charles Swann, che la introduce nei fascinosi ambienti di una Parigi a lei sconosciuta, l’accompagna al Père-Lachaise sulla tomba di Abelardo ed Eloisa, all’atelier di Degas, ai caffè degli impressionisti e soprattutto le presenta la sua amante, la cocotte Odette de Crécy. Nel frattempo, a Rouen, Emma incontra a teatro Rossella O’Hara e Rhett Butler: prigioniera delle sue passioni e ostinata nel desiderio di evadere dal meschino orizzonte borghese, progetta di partire per l’America con la sua nuova ed effervescente amica… Lettera dopo lettera prende dunque forma una galleria di personaggi femminili indimenticabili: donne romantiche, appassionate e sognatrici oppure irrisolte, ciniche, disincantate. Anna ed Emma, specchiandosi l’una nell’altra, mettono a confronto con sempre maggiore intensità le rispettive concezioni dell’amore, si confidano, s’ingannano, s’inseguono, si sfiorano senza mai incontrarsi. Riusciranno a cambiare il proprio destino? Con sapienza e delicatezza, Marosella Di Francia e Daniela Mastrocinque intrecciano i percorsi delle eroine più amate della narrativa ottocentesca, dando vita a un originalissimo “spin-off” di due romanzi di culto

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Marosella Di Francia, napoletana, ha insegnato italiano e storia nelle scuole superiori. Ha pubblicato, insieme a Valerio Caprara, … E ci vediamo sotto alla funicolare (Napoli, Massa editore, 2004). Con Daniela Mastrocinque ha scritto la sceneggiatura Gli amanti di Parigi (Napoli, Esa, 2013) e questo è il loro primo romanzo.

Daniela Mastrocinque, napoletana, ha insegnato italiano e storia nelle scuole superiori. È autrice di racconti comparsi in varie raccolte antologiche, tra cui Caffè ‘ Alla ricerca del tempo perduto. Con Marostella Di Francia ha scritto la sceneggiatura Gli amanti di Parigi (Napoli, Esa, 2013) e questo è il loro primo romanzo.

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La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) è dedicata al romanzo Una volta l’estate di Ilaria Palomba e Luigi Annibaldi (Meridiano Zero).

Ecco, di seguito, il tandem letterario offerto dai due autori.

Massimo Maugeri

* * *

UNA VOLTA L’ESTATE: 1 +1 + il loro incontro

il tandem letterario di Ilaria Palomba e Luigi Annibaldi

Una volta l'estateIlaria: Luigi, tu sei uno scrittore di racconti fantareali brevissimi, come ti sei trovato a scrivere un romanzo, quindi un testo lungo, che non è propriamente fantastico come genere, anzi piuttosto thriller psicologico, direi?

Luigi: Era impensabile per me scrivere romanzi, per via della pigrizia. Grazie a te ci sono riuscito. Anche se abbiamo usato una metodologia da racconto, l’idea iniziale era: scrivere tanti incipit, come piccoli pezzi di un puzzle che alla fine vanno a formare una visione più grande. A livello di scrittura l’ho vissuta come tanti racconti incastonati uno nell’altro, anche perché era l’unico modo per scrivere in due, due persone che stanno insieme e che sono molto diverse. C’era anche il rischio di arrivare troppo in profondità e sfasciare qualcosa, come mi sembra abbiamo fatto noi. Tirare fuori delle verità che magari neanche riveli a te stesso, ma quando scrivi devi farlo, devi rivelare l’irrivelabile, è stato duro, faticoso, ma anche elettrizzante.

Considerando che sono molto pigro e tu invece sei molto prolifica, hai scritto già diversi romanzi anche in tempi abbastanza brevi, uno dopo l’altro, come ti sei trovata a scrivere con un pigro?

Ilaria: C’è da dire che quando vai molto veloce nella scrittura c’è sempre il rischio di una caduta di stile, infatti tra i miei primi libri c’è un po’ di differenza, Fatti male l’ho scritto in quattro mesi, Homo homini virus in tre anni quindi, ecco, chi li ha letti entrambi avrà notato che in HHV la tenuta stilistica è molto più accurata. Devo dire che nel nostro, Una volta l’estate, a parte l’ansia per la tua lentezza, l’attesa ha fatto tantissimo. La mia idea iniziale era di fare un guazzabuglio di frammenti, una cosa sperimentalissima, senza punti e virgole (maledetto Joyce letto troppo presto!), in cui ci avrei capito qualcosa solo io. Devo dire che la lentezza cui mi hai costretto mi ha insegnato a fare ordine, prima di tutto a pesare ogni singola parola. Poi, diciamolo, alla drammaturgia e all’intreccio ci hai lavorato soprattutto tu. Non era facile rendere Una volta l’estate comprensibile

Luigi: Ricordi? Avevamo inizialmente l’idea di fare una sorta di romanzo che si poteva cominciare da qualsiasi punto del libro. Abbiamo lavorato leggendo classici moderni dopo pranzo e per esercitarci e divertirci facevamo un esercizio in cui leggevamo Joyce, Virginia Woolf, Carver, e ci davamo venti minuti di scrittura sulla base delle suggestioni del racconto. Per diversi mesi ogni giorno abbiamo fatto questa cosa. E man mano venivano fuori dei personaggi che avevano a che fare l’uno con l’altro. Abbiamo iniziato a notare delle somiglianze di storie, di trame, in alcuni dei nostri esercizi di scrittura. Lì ci è venuta l’idea del romanzo scritto insieme. Continuando questo gioco, ma pensando a un romanzo vero, la storia è venuta dopo. C’erano tanti flash che piano piano costruivano da soli una drammaturgia e abbiamo capito solo dopo quale fosse la storia: una postina ruba il figlio appena nato di una coppia in crisi. Lei è un’ex artista formattata dal rigore di suo marito militare che si trova in missione all’estero. Nel romanzo è descritta la vita parallela di queste due persone, Maya ed Edoardo, e poi diverse altre. Quanti personaggi erano e quanti ne abbiamo portati avanti, eh?

Ilaria: Ne abbiamo uccisi parecchi… si sono salvati (forse) il Professor Curci, medico curante, che è il personaggio buffo e grottesco della situazione perché parla solo con termini medici e scientifici e ha sempre bisogno di confermare quanto si dice. C’è lo psichiatra lacaniano, il dottor Traversi, che cerca di trovare il bandolo della matassa. C’è la madre di Maya, una disperate housewife. C’è Maya che vede il mondo come un dipinto. C’è Edoardo che, dal suo punto di vista marziale, crede che Maya cerchi nell’arte degli alibi per non confrontarsi con la vita vera. C’è Anya, la postina, personaggio molto misterioso. È la chiave di volta, lei è l’incidente scatenante, porta la lettera del comando militare che annuncia l’imminente missione di Edoardo. C’è Di Girolamo che è una specie di sergente Hartman di Full metal Jacket, devo dire che, seppur nella tragedia, alle volte ci siamo proprio divertiti a creare situazioni grottesche. C’è anche un personaggio molto comico che stempera la tragicità della guerra in cui Edoardo si trova immerso: il sottufficiale Salicetti, una specie di Groucho Marx militare, che non prende sul serio neanche le bombe all’uranio impoverito.

Che dici, prima o poi qualcuno ci chiederà cosa abbiamo a che fare noi con la guerra?

Luigi: Be’, non parliamo certo di guerra tra stati, ma di guerra tra uomini! Questa la conosciamo bene: c’interessa la guerra che c’è tra le persone che hanno la stessa appartenenza e vivono insieme. La guerra, il disagio, il disastro, si percepisce ma fa da sfondo perché la cosa fondamentale, nella mia parte di romanzo, è la guerra tra Edoardo e l’aiutante Di Girolamo che lo metterà sotto torchio, perché è il comandante della sua stazione e ha qualcosa per cui risentirsi. Quindi gli farà fare delle cose molto umilianti per vendicarsi del fatto che Edoardo, in passato, avesse cantato su un furto in caserma. Mi interessa questa guerra tra persone della stessa squadra. Poi nel macrocosmo abbiamo quello che sta succedendo ora e come risultato il terrorismo. Qui c’entra anche il discorso sull’assoggettamento, la prevaricazione, la dimostrazione di potere. Anche Edoardo fa una cosa del  genere con Maya una volta che se la mette in casa. Vuole cambiarla, disciplinarla. L’idea per me base del romanzo è: se ti sei innamorato di una persona per quello che era, perché poi la vuoi cambiare?

Certo, ora che ci penso, questo è il mio tema portante del romanzo. Quando si scrive un romanzo di solito ogni autore ha un suo tema, ma quando si scrive in due non è detto sia lo stesso, qual è il tuo tema per Una volta l’estate?

Ilaria: Anche per me è quello dell’assoggettamento e della libertà. Il personaggio in cui mi sono più immedesimata è chiaramente Maya, la protagonista. Lei ha un passato pesante. Ha perso il padre da bambina in una circostanza che ha del surreale, per cui si è sempre in qualche modo sentita in colpa.  Ah! Mi ero dimenticata di Arturo, il misteriosissimo padre di Maya…

Luigi: Non te lo sei dimenticata, è che l’abbiamo messo tra i personaggi morti…

Ilaria: Tornando al mio tema, c’è molto il discorso delle costellazioni famigliari, ciò che è successo ai genitori può succedere ai figli. C’è anche il tema della mancanza e del non sentirsi adatti a gestire la vita.

Luigi: Una volta l’estate ha cambiato il modo di vedermi?

Ilaria: Parto da quel che io stessa ho compreso scrivendolo. L’amore non è nell’imposizione, nelle convenzioni, nella coppia, ma è nell’intensità, deleuzianamente parlando, e nella libertà reciproca di essere fino in fondo ma anche e soprattutto di divenire. E per divenire, per fluire con la vita, per essere pienamente immanenti, non si può consegnare la propria esistenza, il proprio corpo, a una persona. L’amore esiste solo fuori dalla coppia, fuori dal matrimonio, fuori dalle convenzioni. E così è cambiato il mio modo di vederti, non ti concepisco più come mio.

Luigi: Me stai a dì che mi ami così tanto che mi doni al mondo?

Ilaria: Scemo. Voglio dire quello che abbiamo scritto nel romanzo: che 1 + 1 non fa 2, ma fa 1 + 1 + il loro incontro.

* * *

Il libro
Una volta l'estateMaya cerca nell’arte un sentire lontano dalle convenzioni. Edoardo parte per una feroce missione in Medio Oriente lasciando sola sua moglie incinta. Mentre una postina ribalta ogni cosa, uno psichiatra lacaniano tenta di ricomporre il caleidoscopio. L’estate dell’umanità scompare. Ma c’è ancora qualcosa che Maya ed Edoardo possono fare per salvarsi.

* * *

Ilaria Palomba è scrittrice e collaboratrice della Scuola Omero. Ha pubblicato i romanzi Fatti male (Gaffi), tradotto in tedesco per Aufbau-verlag, Homo homini virus (Meridiano Zero), vincitore del Premio Carver e terzo al Premio Nabokov e il saggio Io sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art (Dal sud). Alcuni suoi racconti sono tradotti in francese e inglese. Ha curato l’antologia di racconti e disegni Streghe Postmoderne (AlterEgo).

Luigi Annibaldi è scrittore, editor e docente della Scuola Omero. I suoi racconti sono stati pubblicati dalle riviste Linus e Les Cahiers européens de l’imaginaire. Da un suo racconto è stato tratto il cortometraggio Sushi pin-up, vincitore del premio Miglior Film al festival di cortometraggi “Campo Lungo” di Roma. Sushi pin-up è anche la sua opera prima pubblicata da Omero Editore. Conduce corsi di narrativa in diverse scuole e biblioteche di Roma.

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LA FELICITÀ ERA, FORSE, IL MALE MINORE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/06/30/la-felicita-era-forse-il-male-minore/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/06/30/la-felicita-era-forse-il-male-minore/#comments Thu, 30 Jun 2016 17:26:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7199 La prima puntata della nuova rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) è dedicata al volume La felicità era, forse, il male minore di Marinella Fiume e Santino Mirabella (A & B edizioni).
Ecco, di seguito, il tandem letterario offerto dai due autori.

Massimo Maugeri

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LA FELICITÀ ERA, FORSE, IL MALE MINORE (A & B edizioni)

Una volta su un muro lessi una frase, scritta da chissà chi: “Se non ci metti troppo, ti aspetto tutta la vita”. Ecco, credo che questo debba essere il nostro atteggiamento verso la felicità: disposti a battagliare tutta la vita per ottenerla, sì, ma lei deve darci un indizio di sé, rendersi seducente, non esagerare nel lasciarci con il dito schiacciato sul citofono… E se mai dovessi, da morto, ricordare la mia vita, vorrei non aver vissuto temendo d’essere felice, non aver trascurato la felicità pensando ad altro. Vorrei non dover mai dire che la felicità era, in fondo, il male minore.


di Marinella Fiume e Santino Mirabella


Marinella- Santino, ma con il lavoro stressante che fai tutti i giorni, con le attuali contingenze che non sono certo il massimo per garantire neanche un minimo di serenità all’universo mondo, come ti salta in mente di invitarmi a scrivere con te un dialogo proprio sulla felicità? E poi, che argomento! Senza essere neanche un filosofo o un maitre à penser… dopo i fiumi di inchiostro versati dai Grandi… Platone, Socrate, Aristotele…. Non ti avrà mica dato di volta il cervello?

Santino- Ma vedi, Marinella, dovrei dirti, come si fa in questi casi, che ti ringrazio della domanda. Però non posso farlo perché già troppo diretta…. Mi parli di quel che passa per il cervello… Non ti so dire, so però che, in fondo, nel cervello ci sono tanti angoli oscuri a noi ignoti e aver la voglia di passeggiarvi, per vedere cosa si nasconde dietro ognuno di essi, è stato uno stimolo non da poco. E su questi argomenti, poi, ogni anfratto del cervello urla attenzione: la parte emotiva, la parte razionale… La paura i sogni la logica la disattenzione coltivata. E cosa vi era di meglio di indirizzare ogni delirio che mi emergeva in superficie ad una interlocutrice come te? Cosa può essere più appetibile che aspettare, dopo ogni mio intermezzo, una tua risposta? Cercavamo la felicità e forse la abbiamo sfiorata nell’idea stessa del cercarla. Tu che ne pensi?

Marinella – Il danno è che quando parlo con te prima parto in quarta poi ben presto mi disarmi, con la tua logica a fil di lama, con la tua poesia dolceamara, con la tua umana comprensione. Sai farmi leggere dentro, è questa la tua dote precipua, quella virtù che ti accomuna alla madre di Socrate che di mestiere faceva la levatrice. E così almeno risparmio i salati conti degli psicoterapeuti senza nemmeno sdraiarmi nel lettino! Ma non ero partita nel nostro dialogo a dire che io e la felicità eravamo due grandezze incommensurabili, un ossimoro? Allora perché sono stata poi quella che ti ha invitato ad unirsi a lei nella sua crociata antishopenaueriana contro quella cultura del dolore che ci ha reso controllabili, schiavi, vittime… ? E chi è vittima fa vittime, vero, Santino?

Santino - …oppure capisce cosa vuol dire esserlo e riesce a prevenire. Se dalla cultura del dolore possiamo emanciparci, o provare a farlo, facciamolo anche dal rischio di ripercorrere strade immaginabili. Forse che, con il nostro libro, non abbiamo accettato di volare senza paracadute, accettando il punto di impatto che il vento e altre imponderabilità han scelto? E con quanti colpi di reni siamo riusciti ad avvicinarci comunque al bersaglio del nostro immaginario?
Lanciàti, come foglia pensante che accarezza il vento, lo accoglie, ma lo indirizza inerpicandosi con il suo furbo picciòlo. Cara Marinella, sarà più brutto ora lanciarsi ancora, ma da soli. O forse non lo saremo più, al momento di scrivere, perché l’eco dell’altro sarà per sempre in punta di penna.

Marinella - Beh, scrivere a quattro mani è un’avventura che si somma all’avventura – già impervia di suo – dello scrivere… interrogandoci sulla felicità è forse anche su questa possibilità di scrittura che ci siamo interrogati e sulla gioia che è scaturita dal gioco bello e rischioso di rimbalzarci i file ognuno dei quali non poteva sottrarsi al compito di legarsi al filo del discorso o della provocazione offerta dall’altro… di parlare alla sua anima nuda rispondendo a pezzetti d’anima con pezzetti d’anima. E come sarebbe stato possibile mentire, mascherarsi, dribblare? Altra cosa è la scrittura cooperativa in tanti, noti meno noti sconosciuti, dove la difficoltà è rappresentata solo dal dover scrivere pezzi coerenti e consequenziali all’ordito della trama senza che nessuno offra l’anima agli altri, a tutti gli altri.
Quanto ci ha cambiati questa scrittura? L’eco dell’altro in punta di penna da ora in poi? Te l’ho sentito dichiarare anche nel corso di una presentazione e mi sono sentita tremare le vene e i polsi. Ti giro ora coraggiosamente la domanda, nuda, cruda, esplicita, senza fronzoli…, al mio solito.

Santino - Scriver nel silenzio rimbombante del nostro animo è un esercizio di amore e passione, ma scrivere a quattro mani significa coordinarle, misurarle nel loro intersecarsi. E se due mani a volte paion molte, quattro mani possono esser musica. Oppure dipingersi come fossero fotogrammi: quattro fotogrammi di una sola mano in movimento. E come faremo ora, come farò ora senza le tue? Anche questa è stata felicità.

Marinella - Felicità, parola altisonante e ambigua, eterno dilemma, pietra di ogni scandalo, paradosso su cui ci siamo interrogati io e te nel nostro dialogo dal titolo: La felicità era, forse, il male minore.
Anche per i miei amati classici eudaimonìa (beatitudo per i Latini), composta da bene (eu) e demone (dai­mon), “genio”, “spirito guida”, “coscienza” – e perciò col significato di “essere in compagnia di un buon demo­ne”-  è ambigua parola,  oscillante tra la felicità di chi possiede dovizia di beni materiali e quella di chi, invece, può godere di uno stato interiore e spirituale di serenità…
Ma quando l’umanità ha finito di arrovellarcisi sopra anche se, con assidua alternanza, l’oggetto – mai sopito alla coscienza e al desiderio – si ripresenta?
Forse quando, senza che se ne accorgessero, si è fatta strada, nelle coscienze degli esseri umani, la consapevolezza d’essere mortali che ha inferto un duro colpo al suo prometeico delirio d’on­nipotenza, l’accettazione di una vita libera dall’obbligo d’esser felici, di raggiungere la felicità a tutti i costi?

Santino - E pensi che l’abbiamo veramente colta, nei suoi contorni ondivaghi? O ne abbiamo solo sentito il profumo a forza di pronunciarne il nome? C’è stata una formula magica per noi? O ce n’è una in generale?

Marinella - Non conosco la formula magica per conseguirla la felicità, ma credo di capire che non cozza con il dolore e che invece cozza con il desiderio di re­stare eternamente giovani, di tornare indietro col tem­po, di diventare immortali.
Allo stesso tempo si fa strada oggi per tutti la necessità – il desiderio – di liberarsi da una cultura del dolore che ha finito per rendere essa stessa uomini e donne creature infelici e ha formato per secoli l’immaginario collettivo, insieme anche all’idea della felicità come “attimo fuggente”, frutto di casualità e fortuna.
Ma una chiave qualche illuminato sembra intravvedere all’orizzonte: “regredire” (lato sensu), rallentare, esaltare l’interiorità, non abbandonarsi alle sirene del mercato, dei consumi inutili e nocivi, servire il Bene, affidarsi alla femminilità che è in tutti, anche negli uomini, puntare sulla tenerezza, custodire la bellezza, confidare nella poesia, perché, non c’è dubbio, Bellezza e Felicità vanno molto d’accordo. E Peppino Impastato diceva: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”.

Santino - Ci abituiamo purtroppo a ben altro che non siano i nostri palazzoni. Ci abituiamo ai grattacieli della indifferenza e dell’arrivismo, del carrierismo e della invidia. Ci abituiamo, ho detto? Beh, credo che grazie a Dio io e te non ci abitueremo e cercheremo la felicità anche oltre questo nostro libro, a ricercar non solo essa, o la bellezza, ma quella che chiamiamo ‘libertà’. C’è un verso di una bella canzone di Stefano Rosso, ‘Reichiana’: “Lascerei ai bambini tutto il mondo, non quella che chiamiamo libertà; l’educazione è un sintomo fascista, è un grosso cancro per l’umanità. Lascerei ai bambini il loro tempo e non mille inventate verità: la sicurezza, il posto e la conquista son grossi cancri per l’umanità.”

Marinella - Impariamo allora a riconoscerla la felicità, che non è impre­sa facile, senza aver paura di soffrire, senza opporsi alla piena del dolore, ma insistendo sull’ironia e l’autoironia; sbarazzandoci l’anima; dichiarando coraggiosamente di aver bisogno di tenerez­za; frequentando persone e spazi individuali e sociali dove riconoscere il nostro benessere; riappropriandoci persino di grossi concetti fondamentali come l’etica, l’utopia, la felicità, appunto, di cui siamo stati deprivati sia nella no­stra dimensione individuale che sociale, per essere cacciati nei regni tenebrosi della noia e dell’infelicità. Una rivoluzione dentro di noi che è l’unica rivoluzione possibile. Non credi?

Santino - L’unica. Ma non l’ultima!

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Conversare di propri libri con uno scambio dialogico “a botta e risposta” in una sorta di tandem letterario che – sullo sfondo della traccia narrativa offerta da storie e personaggi – crei un nuovo percorso di idee, pensieri, suggestioni e immagini.
È un nuovo spazio di Letteratitudine pensato per accogliere coppie di scrittori, appositamente invitate per discutere di un libro scritto a quattro mani (o anche di libri diversi che si desidera legare tra loro), nell’ambito di un dialogo letterario condiviso con il pubblico dei lettori.

Massimo Maugeri

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