LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » AUTORI/AUTRICI DA NON DIMENTICARE http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 RICORDANDO CHIARA PALAZZOLO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/10/23/ricordando-chiara-palazzolo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/10/23/ricordando-chiara-palazzolo/#comments Sat, 23 Oct 2021 06:00:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8881 Questa nuova puntata della rubica “Autori/Autrici da non dimenticare“, correlata in questa occasione a “Letteratitudine Cinema“, è dedicata alla figura di Chiara Palazzolo (Catania, 31 ottobre 1961 – Roma, 6 agosto 2012): scrittrice cresciuta a Floridia, nel siracusano.

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In occasione dei sessanta anni della scrittrice Chiara Palazzolo e a nove anni dalla sua scomparsa, le associazioni Urban Center e Cineclub Bergman, in collaborazione con Filmstudio Roma, hanno realizzato  una serata speciale dedicata alla memoria della  scrittrice di origini floridiane che, con la trilogia dei ‘sopramorti’, ha rivisitato sottogeneri quale l’horror, il gotic novel  e il fantasy contaminandoli felicemente  con  la tradizione letteraria ‘alta’.
Oltre ad un convegno dedicato all’opera della scrittrice, grazie al prezioso sostegno di Warner Bros Italia e VivoFilm, sarà proiettato in anteprima il film ‘Non mi uccidere’ (2021), diretto da Andrea De Sica, tratto dal romanzo omonimo della scrittrice che inaugura la trilogia di ‘Mirta-Luna’.
L’omaggio a Chiara Palazzolo si terrà a Floridia domenica 31 ottobre 2021,  alle ore 18.00, presso il Teatro Iris.
Il semiologo e critico letterario Salvo Sequenzia, che parteciperà al convegno e che di Chiara Palazzolo è stato amico, ha tracciato un profilo critico dell’opera della scrittrice.

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[Proponiamo l'ascolto di Chiara Palazzolo in questa breve conversazione con Massimo Maugeri (video su YouTube), dal Salone del Libro di Torino del 2011]

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CHIARA PALAZZOLO: La Sicilia, l’altro e il ‘canone strano’

di Salvo Sequenzia

«La Sicilia è un’isola per modo di dire».
Pensando a Chiara Palazzolo e ai suoi romanzi mi sovviene questa frase che dà il titolo a un fortunatissimo libro di Mario Fillioley (M. Fillioley, La Sicilia è un’isola per modo di dire, minimum fax, 2018).
Chiara Palazzolo sapeva molto bene che la Sicilia, dove la scrittrice era nata nel 1961 e aveva trascorso la sua giovinezza,  è «un’isola per modo di dire».
La Sicilia è ben altro. Questo ‘altro’ Chiara Palazzolo lo ha portato con se a Roma, la città dove ha vissuto e ha lavorato e dove è venuta a mancare nel 2012 interrompendo una felice vicenda letteraria che ha attraversato quella che Gianluigi Simonetti, passando al vaglio una densa e liquida nebulosa di opere, ha definito «la letteratura circostante»: la letteratura italiana ‘ultracontemporanea’ – quella, cioè, pubblicata nei decenni  situati a cavallo tra la fine del Novecento e il Millennio ‘00’ – intesa «come laboratorio di un distacco progressivo e irreversibile dalla tradizione del Novecento» (G. Simonetti, La letteratura circostante, Il Mulino, 2018).
Questo ‘altro’ Chiara Palazzolo lo ha consegnato ai suoi romanzi e ai suoi racconti, alla sua scrittura algida, impietosa, colta e raffinatissima  che si è spinta sino a toccare la waste land dell’anima e ad affondare nel «cuore di tenebra» dell’uomo.
Gruppi di lettura sui social, premi a lei dedicati, approfondimenti sulla sua opera e, recentemente, anche un film ispirato a uno dei suoi romanzi più fortunati (Non mi uccidere, diretto da Andrea De Sica, sceneggiato da Gianni Romoli e dal collettivo Grams e prodotto da Warner Bros Entertainment Italia e Vivo film, 2021) testimoniano l’attenzione e l’affetto che i lettori di ogni generazione, ma, soprattutto, i giovani, continuano a nutrire per la «miglior autrice di letteratura non realistica dei nostri anni» (Loredana Lipperini, “Non mi uccidere”: l’Italia gotica di Chiara Palazzolo, la Repubblica, 6 maggio 2021).
La notorietà di Chiara Palazzolo è legata alla “trilogia di Mirta-Luna” (Non mi uccidere, 2005; Strappami il cuore, 2006;  Ti porterò nel sangue, 2007), un ciclo di romanzi pubblicati dall’editore Piemme (e, recentemente, ripubblicati dal gruppo editoriale SEM) nelle cui pagine l’autrice racconta le vicende dei «sopramorti», creature uscite fuori dal suo immaginario, una sorta di Frankenstein costruito con pezzi di personaggi appartenenti all’enciclopedia horror di ogni tempo:  zombie, vampiri, mutanti e immortali.
I personaggi che popolano i romanzi di Chiara Palazzolo – dai «sopramorti» della ‘trilogia di Mirta-Luna’ alle streghe de Il bosco di Aus (Piemme, 2011), il suo ultimo romanzo ambientato in un bosco abitato da misteriose donne custodi di forze ancestrali, passando per le maschere di una borghesia residuale de La casa della festa (Marsilio, 2000), suo romanzo d’esordio, e i fantasmi della nevrosi de I bambini sono tornati (Piemme, 2003) – li incontriamo, oggi, nel mare magnum dell’immaginario Midcult e nella produzione Masscult contemporanei, disseminati nel cinema, nella letteratura, nel fumetto, nella ‘neofiction’ e nei mondi virtuali del gaming. Chiara Palazzolo, nei suoi romanzi,  ha anticipato i processi di gamification della realtà introdotti dalla cultura dei videogiochi e della tecnologia della ‘realtà aumentata’, una sorta di «reicantamento del mondo» (cfr. Jean Baudrillard, La scomparsa della realtà, Lupetti, 2009) che si dà con l’uccisione del reale, con l’illusione disumana di una eternità ‘ristretta’, soffocata nella prigione della ‘daylity’, la ‘quotidianizzazione’ del mondo secondo una ‘estetica dell’istante’ espressione di una condizione socioculturale ‘FYIN’ -For Your Interest”, nell’interesse della gente ovunque viva nel mondo  -  che rende tutto sincrono e anacronistico al tempo stesso, appiattendo ogni esperienza del vivere in un ‘presente perennis’ che assume i connotati sinistri di un incantesimo malefico (cfr. Carmelo Strano, La riproposta. Ellenismo 3000 e il tempo della  Daytility, in https://www.fyinpaper.com).
Alla luce di una complessa ed originale ‘rimediazione di genere’ i romanzi di Chiara Palazzolo possono essere ascritti a quel «canone strano» (cfr. Carlo Mazza Galanti, Il canone strano, in Not – www.neroeditions.com)  che ha attraversato la nostra letteratura dal  Boccaccio ‘napoletano’ al Baldus di Folengo e al Pentamerone di  Basile, dal Morgante di Pulci alla letteratura ‘nera’ degli Scapigliati, da Capuana e da Pirandello ‘spiritisti’ al visionario poeta Lucio Piccolo; da Buzzati a Landolfi,  da D’Arrigo a Bonaviri, da Calvino a Manganelli.
Chiara Palazzolo, con la sua opera, si inserisce a pieno  titolo  in questo «canone strano» che anticipa le tendenze ‘Weird’ e ‘Eerie’  del New Italian Weird (cfr. M. Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, minimum fax, 2018) e del  Novo Sconcertante Italico (cfr. M. Malvestio, in ‘Il grido’ di Luciano Funetta e i limiti del New Italian Weird – La Balena Bianca ), emergenti  nelle opere di alcuni autori coevi alla Nostra quali Alessandro Raveggi  (Nella vasca dei terribili piranha, 2012), Laura Pugno (Sirene, 2007),  Alcide Pierantozzi  (Uno indiviso, 2007) e Niccolò Amanniti (Branchie, 1994). Una giovane generazione di scrittori ha raccolto l’eredità letteraria di Chiara Palazzolo orientando ed approfondendo la propria scrittura lungo il crinale del ‘Weird and Eerie’. Si tratta di autori giovanissimi quali, fra gli altri, Luca Raimondi (L’isola delle tenebre, a c. di Raimondi, Maresca, 2020), Gregorio Magini (Cometa, 2018), Orazio Labbate (Spirdu,  2021), Veronica Raimo (Miden, 2018 ), Alberto Prunetti (108 metri, 2018) e Antonella Lattanzi (Questo giorno che incombe, 2021), che dimostrano come in Italia l’interesse per tali tematiche sia oggi vivo e fecondo.
A nutrire la pagina di Chiara Palazzolo non  c’erano soltanto il gotic novel e il fantasy, David Lynch e Cormac McCarthy. C’erano anche, e soprattutto, i classici.
Amati e coltivati, insieme alla musica classica, come un vizio di famiglia – il padre di Chiara era un  filosofo e mistico, la madre e le zie erano musiciste e musicofile di rango – la parola dei classici aleggiava nel salotto ovattato della sua dimora floridiana arroccata nel sud più sud della Sicilia, l’isola che per la scrittrice cessava di essere soltanto un’isola per divenire ‘altro’ nella fraternità del sentire e dello scrivere che marchia a fuoco la vera letteratura.

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RICORDANDO ANGELO FIORE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/10/08/ricordando-angelo-fiore/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/10/08/ricordando-angelo-fiore/#comments Fri, 08 Oct 2021 16:03:03 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8866 Visualizza immagine di origineInauguriamo questo nuovo spazio di Letteratitudine, intitolato “Autori/Autrici da non dimenticare“, e destinato a ricordare – per l’appunto – autori e autrici del passato che rischiano, ingiustamente, di finire nell’oblio, con questo servizio dedicato alla figura di Angelo Fiore

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ANGELO FIORE: UN ‘INNOMINATO’ DELLA LETTERATURA DEL NOVECENTO

In un convegno a Siracusa si torna a parlare dell’importanza dello scrittore  palermitano apprezzato da grandi critici del Novecento ma oggi misconosciuto

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di Salvo Sequenzia

Scorrendo il recente saggio di Giuseppe Lupo La Storia senza redenzione (Rubbettino, 2021, pp. 279), dedicato al complesso e travagliato rapporto che la letteratura del Meridione ha avuto con la Storia nazionale dall’Unità ai giorni nostri, non può non balzare agli occhi un’assenza: quella di Angelo Fiore  (1908 –  1986),  lo scrittore palermitano i cui esordi letterari (Un caso di coscienza, Lerici, 1963) furono secondati dal prestigioso parrainage di autorevoli letterati quali Carlo Bo, Mario Luzi e Romano Bilenchi, i quali, intuendone la grandezza, ne propiziarono l’ingresso nel vivace e composito parterre letterario della seconda metà del Novecento, in cui Fiore brillò di viva luce con i suoi romanzi  – ll supplente (Vallecchi, 1964), Il lavoratore (Vallecchi, 1967), L’incarico (Vallecchi, 1970), Domanda di prestito (Vallecchi, 1976) e L’erede del Beato (Rusconi, 1981) – sino, purtroppo,  ad affievolirsi e a spegnersi quasi del tutto, se studiosi quali Sergio Collura, Natale Tedesco, Antonio Di Grado, Melina Mele, Antonio Pane e pochi altri non si fossero assunti il provvido ruolo di ‘vestali’ di una illanguidita superstite fama, pubblicando,  a partire dalla fine anni Ottanta, notevoli contributi esegetici, sollecitando la riedizione dei romanzi e la pubblicazione degli inediti e favorendo la nascita di un Centro Studi e di un Premio a lui dedicati (cfr. www.angelofiore.com).
Estintosi nelle librerie, scomparso nei corsi di studio universitari e nei programmi di insegnamento nelle scuole, sopravvissuto nelle biblioteche e  in qualche datato manuale di letteratura, Angelo Fiore, oggi, può essere considerato  un ‘Innominato’ della letteratura del Novecento.
Sulla grandezza di Fiore e sul suo imbarazzante statuto di ‘scrittore Innominato’ si è  discusso durante un convegno, tenutosi il 24 settembre a Siracusa nella sede dell’associazione “Il Cerchio”, promosso dal Centro Studi “Angelo Fiore” di Bagheria, dal Collegio Siciliano di Filosofia e da “Il Cerchio” in occasione della recente riedizione del romanzo Domanda di prestito (Gattogrigio Editore, 2021, pp.  266) con la cura di  Leonardo Tonini e con una nota critica di Antonio Di Grado.
A conversare sulla vita e sull’opera dello scrittore si sono avvicendate più voci.
Serena Miano, insegnante di lettere ed organizzatrice dell’evento (che su Fiore ha discusso la sua tesi di laurea), ha introdotto i relatori e tracciato un profilo sintetico dell’autore.
Frate Matteo Pugliares, counselor e scrittore, ha dato una lettura ‘attualizzata’ del romanzo fra teologia e sociologia.
Roberto Fai, filosofo e docente universitario, ha contestualizzato l’opera di Fiore situandola nella temperie dei temi ‘forti’ che hanno attraversato  la letteratura e il  pensiero del Novecento, evidenziandone, tra sintonie  e discrasie, l’affinità con alcuni scrittori mittleuropei come Kafka, la peculiarità di contenuti filosofico-concettuali riconducibili alla Krisis che matura in Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento e a temi cogenti quali la perdita di identità, lo sdoppiamento dell’io, la frammentazione delle forme simboliche classiche di rappresentazione del mondo. Fai ha inoltre messo in luce il rapporto tra conoscenza e dolore, facendo particolare riferimento ad autori come Gadda, che, nel 1963, anno in cui esce la prima opera di Fiore, pubblica con Einaudi La cognizione del dolore; e la singolarità della cifra stilistica, le ‘asperità’  formali e linguistiche ed i tratti anticipatori e ‘profetici’ dei temi dell’opera dello scrittore palermitano.
Infine, il critico letterario Sergio Collura ha condotto una sentita e intima analisi di due racconti (Le Voci, La gatta) di Fiore arricchita da una preziosa testimonianza del suo legame con lo scrittore e, soprattutto, con l’’uomo’ Angelo Fiore, che lo studioso ed amico descrive mite, semplice, umanissimo,  apparentemente ruvido e scontroso nei suoi rapporti con il mondo.
Al convegno erano presenti il presidente del Centro Studi “Angelo Fiore”, Pino Pagano, che ha portato ai presenti i saluti del Centro illustrando le attività e i progetti dell’istituzione;  e la moglie Emma Di Giacomo, che ha fatto  dono di una sua pubblicazione, Ricordo dello zio Angelo Fiore (Centro Studi “Angelo Fiore”, 2021) a  un pubblico attento e interessato.

L’importanza del convegno siracusano non consiste soltanto nell’avere riproposto al pubblico, con una iniziativa che si vuole itinerante, la figura e l’opera di Angelo Fiore, sottraendola alla ‘damnatio memoriae’ che, per una sorta di oscura fatalità o di cieca congiura del caso, incombe ormai da decenni sullo scrittore; quanto, piuttosto, nell’avere tratteggiato – e consegnato alla platea più vasta di lettori, di operatori culturali  e di studiosi – un ritratto del Nostro teso e vibrante, colto tra la dimessa intimità del quotidiano e l’enormità della sua statura letteraria europea.
In questo ritratto convergono – conflittualmente ‘aggliommerati’, direbbe Gadda – quel dissidio interiore, quel destino di sconfitta e di resa a un nomos atavico e, insieme, quella «lotta con l’Angelo» (cfr. A. Di Grado, La lotta con l’Angelo, Liguori, 2002) agonisticamente ingaggiata con se stesso e con una natura  ‘bifida’ per rivendicare una promessa di Grazia e di Redenzione inscritte nell’ordo spinoziano dell’universo in quanto prerogativa della creatura umana, che hanno caratterizzato l’esistenza del Nostro e che si sono riverberati ossessivamente sui suoi personaggi, e che fanno di Fiore uno dei grandi scrittori ‘metafisici’ siciliani (insieme a Bonaviri, a D’Arrigo, a Pizzuto), e non soltanto siciliani, se si vuole ‘leggere’ la parabola letteraria che egli ha tracciato attraverso il concetto di «letteratura minore»  (che, tra l’altro, Roberto Fai chiama in causa più volte durante il suo intervento) elaborato da Gilles Deleuze e da Félix Guattari  (cfr. Deleuze e Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, 1975; trad. it., Quodlibet, 2006) a proposito dell’opera di Kafka. Marginalità e «de-territorializzazione» sono, infatti, tratti peculiari della biografia e dell’opera del Nostro.
I piccoli burocrati protagonisti dei romanzi di Fiore sono gli «Employés», gli «impiegati»  che Balzac  descrive ne Les Employés, un lungo racconto ospitato dal 1° al 14 luglio 1837 sulle pagine de «La Presse».
Rabourdin, un impiegato parigino sposato ad una «donna superiore», nel racconto di Balzac non merita alcuna specifica descrizione. I suoi tratti definiscono quasi una  seconda natura, anonima e ‘spettrale’, di «uomo senza più entusiasmo ma non ancora disgustato» dalla vita (cfr. Honoré de Balzac, Gli impiegati, Garzanti, 2001, Milano, pp. 118-119).
Come Rabourdin, Luigi Falchi, il protagonista di Domanda di prestito, o gli altri  protagonisti della “trilogia dell’impiegato” (Il supplente, 1964; Il lavoratore, 1967; L’incarico, 1970)  vivono una dimensione ‘deragliata’ dell’esistenza, a seguito di fallimenti personali o di una irriducibile incompatibilità con la vita. Una condizione questa,  che accomuna i personaggi dell’opera di Fiore a quelli rappresentati nel grande ‘ciclo dell’alienazione’ del romanzo europeo del Novecento (Musil, Svevo, Kafka, Tozzi, fino a Palahniuk e Houellebech).
La «malattia dell’ufficio», per dirla alla Balzac, di cui soffrono gli eroi meschini di Fiore,  si tramuta lentamente in  ‘morte sociale’, che deforma e schiaccia l’uomo, operando in lui una oscena ‘metamorfosi’, come accade per Gregor Samsa, il personaggio protagonista del racconto La metamorfosi di Kafka.
Qualcuno ha scritto che la dote più grande di Fiore è stata quella «di legittimare lo sbandamento di ogni esistenza» (cfr. G. Spagnoletti, Fiore e i suoi personaggi, Tifeo,  1988, p. 27). In effetti, Angelo Fiore, come i personaggi protagonisti dei suoi romanzi,  condusse una vita ‘sbandata’, appartata e schiva che lo portò ad evitare i salotti letterari e le accademie e a ridursi ai margini della società, in un limbo in cui  consumò la sua esistenza impiegatizia di burocrate della pubblica amministrazione e di insegnante di inglese, trascinandosi come un homeless di albergo in albergo con  due valige alle quali aveva affidato i suoi scritti, le poche fortune e le molte sfortune che hanno segnato la sua esistenza.
Angelo Fiore – che  si era laureato in lingue all’Istituto Orientale di Napoli con una tesi su Shakespeare e le  fonti novellistiche italiane  e che aveva  ‘ruminato’  il fior fiore della cultura e del pensiero europei (Dostoevskij, Tolstoj, Proust, Pirandello,  Sant’Agostino, San Tommaso, Schopenhauer, Nietzsche).
Quando, nel 1981, pubblicherà L’erede del Beato, Geno Pampaloni, nella sua nota introduttiva, fissa quella che il critico individua come la nota dominante di tutta la produzione narrativa dello scrittore: la «monocromia» e la «iterazione».
Angelo Fiore è uno scrittore ‘monotono’, nel senso che è ‘una’  soltanto la nota che risuona – o ‘distona’ – dentro la sua scrittura. È  una nota ossessiva, insidiosa, assediante, che si   innerva nel tema dello scacco, del fallimento dell’uomo in quanto ‘essere vivente’, in quanto ‘creatura’ espressione di un progetto divino e in quanto ‘animale sociale’. Per Fiore, l’uomo fallisce nella sua dimensione di ‘zoè’  e di ‘bios’: di ‘programma biologico’ e di ‘programma sociale’.
I personaggi di Fiore (qui accanto in una foto di Letizia Battaglia, n.d.r.), in tal senso, incarnano l’«homo sacer» (cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995), l’individuo punito con l’emarginazione o l’auto-emarginazione, con  l’espulsione dal consesso sociale, cui è stata sottratta qualsiasi ‘forma civilis’ e ‘forma divina’, lasciando un ‘residuo’ costituito da pura biologia (zoè), puro respiro del corpo. Fiore, declinando il motivo del ‘puro/impuro’ che connota i suoi eroi solitari, anticipa in letteratura la  nascita della «biopolitica» inaugurata da Michel  Foucault con la pubblicazione nel 1976, per l’editore Gallimard, de La volonté de savoir (cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, 2006): «Per millenni l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele: un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente». La realtà biologica non è più solo uno sfondo oscuro dominato dalla fatalità, ma funge da referente diretto dei giochi e dei calcoli politici che condizionano il corpo e l’anima con dispositivi pervasivi e annientanti. Nell’opera di Angelo Fiore il ‘dispositivo burocratico’ è una manifestazione della biopolitica ed una ‘estensione’ dello sviluppo del capitalismo, in quanto «inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione».
Quello del corpo è un tema che attraversa tutta l’opera di Fiore, ora ingorgandosi nel greve bramito del sesso pensato, detto, scritto, agito; ora flettendosi nelle devianze e nei disordini legati al cibo  (bulimia, anoressia); ora assumendo i travestimenti delle deformità fisiche,  ora  accentuandosi nei parossismi affettivi e relazionali, divenendo ‘scudo’, corazza, specchio, materia impenetrabile, occulta. In tutti questi casi, il corpo annientato, ‘spettrale’,  rappresenta il corpo soggiogato dal ‘bio-potere’.
Gettati nel mondo, i personaggi di Fiore sono creature senza storia e senza prospettiva di futuro. Uomini  a «una dimensione», si direbbe; schiacciati, quasi condannati, a scontare un ‘eterno presente’ senza via di uscita, slegati dal resto del mondo, irrelati, incendiati dalla fiamma del sacro, che li consuma e li annienta nella «Malagrazia» del vivere:

La vita ci ha distrutti, mi ha distrutto. Non bisogna aver paura della morte. La vita mi ha distrutto, anche se una parte della divinità è dovuta a me. Ma c’è qualcosa che mi supera ed è la vita stessa (S. Collura, Intervista a Fiore, in Un prepotente spirituale. Appendice al Diario di un Vecchio, a cura di C. Cellini, Tifeo edizioni, 1989, p. 37).

In tal senso, la poetica di Angelo Fiore si configura quale exemplum di quella «vocazione» della letteratura meridionale alla «vena di rivolta e di utopia» e in fiera opposizione «all’omologazione dominante della cultura contemporanea» di cui ha scritto, intorno agli anni Settanta Goffredo Fofi (cfr.  Goffredo Fofi (a cura di), Luna nuova. Scrittori del sud, Argo, 1976).
In aperto conflitto con la tradizione letteraria ‘regionale’, Fiore prende le distanze dagli immaginari, dai tipi, dagli archetipi e dai  topoi della letteratura meridionale, situando la sua scrittura a un ‘grado zero’ dello spazio e del tempo, in un ‘crono-topo’ in cui, parafrasando Baudrillard, la ‘mappa non coincide più con il territorio’. Destrutturando lo spazio-tempo in un ‘presente astorico’ di verghiana memoria, il crono-topo di Fiore anticipa i luoghi di vuoti simulacri della nostra contemporaneità, la ‘dissonanza’  e la ‘sordità’ dello spazio e dell’uomo postmoderno.
In questo spazio la «sicilitudine» è assente, così come è assente l’«insularità», in quanto lo scrittore ha azzerato qualsiasi punto di riferimento relazionale fisico, psicologico, teologico, morale, culturale.
Gettati in un  mondo impietosamente fabbricato da un dio che non è mai morto, ma che si cela all’uomo – un ‘deus absconditus’ di spinoziana memoria - divorati dal dubbio, appesi al cappio di una speranza che non si compie,  i personaggi di Fiore, come il loro autore, sono creature irredenti che, passando attraverso la grande notte dell’umanità, penetrano la «sostanza amarissima che vive nel midollo delle cose» (Nicola La Gioia, La ferocia, Einaudi, 2015)  giungendo, infine,  alla catarsi definitiva attraverso l’esperienza del dolore e dell’Attesa.

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