LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » BABELIT, incontri con autori non italiani http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 NON LASCIAR MAI CHE TI VEDANO PIANGERE, di Amir Valle http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/10/17/non-lasciar-mai-che-ti-vedano-piangere-di-amir-valle/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/10/17/non-lasciar-mai-che-ti-vedano-piangere-di-amir-valle/#comments Wed, 17 Oct 2012 15:43:24 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4505 Nuovo appuntamento con Babelit: lo spazio di Letteratitudine dedicato all’incontro con autori non italiani nell’ambito di un dibattito bilingue. In questa nuova puntata di Babelit incontreremo lo scrittore, saggista, critico letterario e giornalista cubano Amir Valle (Cuba, 1967), il quale ha ottenuto importanti riconoscimenti in paesi come: Colombia, Repubblica Domenicana, Germania e Spagna per saggi, racconti e romanzi. Ha pubblicato più di una ventina di libri, ma in questa occasione discuteremo del suo primo romanzo pubblicato in Italia: “Non lasciar mai che ti vedano piangere” (edito da Anordest, nella collana Célebres Inéditos diretta da Gordiano Lupi; la traduzione del libro è di Giovanni Agnoloni). Si tratta di un romanzo (pubblicato contemporaneamente in Italia, Spagna, Germania, Francia e Stati Uniti) che ha già beneficiato di ottimi riscontri a livello internazionale: una storia coinvolgente e dai ritmi molto serrati, basata su una serie di coincidenze che hanno “incrociato” le vicende di personaggi celebri del calibro di Charles Chaplin, Marylin Monroe e Joe Dimaggio.
Vi riporto, di seguito, la scheda del libro:

Un romanzo d’impatto, che intreccia tra loro i destini di personaggi che hanno segnato il Novecento. Su tutti, Charles Chaplin, al centro di intrighi politici e sconcertanti coincidenze storiche: un rapimento ordinato da Hitler nel 1941, dopo aver visto “Il grande dittatore”; un tentato sequestro dell’attore insieme a Marylin Monroe e Joe Dimaggio, ordito da Ernesto Guevara nel 1952; il trafugamento del cadavere di Chaplin da parte di un gruppo di estrema destra, nel 1978.
Tre storie che convergono nelle parole di una neonazista pentita, vittima di indicibili violenze e salvata dall’orrore proprio dal ricordo dei film di Chaplin.
Le sue memorie dolorose collegano tutte le vicende narrate, che toccano alcuni tra i massimi drammi del Novecento: da una parte, la seconda guerra mondiale, i campi di sterminio e Berlino distrutta e poi lacerata dal Muro; dall’altra, il Sudamerica segnato dalla povertà e il sogno di un’utopica rivoluzione. E’ una storia di intrighi legati allo stesso personaggio storico, il che ne fa un romanzo noir con una particolare connotazione storica.

Amir Valle (Cuba)Discuteremo di questo libro, e delle tematiche da esso trattate , direttamente con Amir Valle, l’autore del romanzo (foto accanto). Parteciperà alla discussione anche il già citato Giovanni Agnoloni, che svolgerà il ruolo di traduttore “simultaneo” online (grazie, Giovanni!). Vi invito a rivolgervi direttamente ad Amir, per porgli domande sul suo libro (ma anche, in generale, sulla sua attività di scrittore).
Come sempre, per favorire la discussione, proverò a formulare qualche domanda concentrandomi in modo particolare su uno dei “protagonisti” di questo libro: Charlie Chaplin (figura centrale nel romanzo di Valle).

1. Avete mai visto un film di Chaplin? Qual è il vostro preferito?

2. E “Il grande dittatore”? Nel caso in cui l’aveste visto… che ricordo conservate di questo film?

3. Che tipo di contributo ha dato Chaplin allo sviluppo dell’arte del Novecento e del cinema in particolare?

4. Che impatto ha avuto l’opera di Chaplin sulla storia della seconda metà del XX secolo?

5. In che modo un personaggio celebre può proteggersi dal “potere politico” che cerca di soggiogarlo?

Vi ringrazio in anticipo per la partecipazione.

Massimo Maugeri

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IL VIAGGIO (CREATIVO) di Catherine Dunne e di altri artisti irlandesi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/04/26/il-viaggio-creativo-di-catherine-dunne/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/04/26/il-viaggio-creativo-di-catherine-dunne/#comments Wed, 25 Apr 2012 22:11:22 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4052 babelit2Sono molto felice di aprire una nuova pagina dedicata a BABELIT”, lo spazio di Letteratitudine destinato all’incontro con autori non italiani e a dibattiti plurilingue. Nella fattispecie avremo modo di cimentarci in una discussione in lingua italiana e in lingua inglese con il coinvolgimento di scrittori e artisti irlandesi: prima fra tutti, la scrittrice Catherine Dunne (in Italia pubblicata da Guanda).
Ciò sarà possibile soprattutto grazie alla preziosa collaborazione di Barbara Gozzi, e Federica Sgaggio (le ho elencate per ordine di nome)… anime della seconda edizione del festival letterario italo-irlandese assieme a Luigi Grimaldi, tra i soci fondatori dell’associazione ònoma, Teresa Arcelloni, Paola Francia, Fabio Bussotti e Massimo Giuliani (citati in ordine sparso: maggiori informazioni su ciascuno dei citati, sono disponibili qui).
E grazie anche alla collaborazione di Valeria Lo Forte per la traduzione di alcuni interventi di seguito proposti e per la partecipazione all’organizzazione del festival con il Circolo dei Lettori di Verona e scuolAleph.
Peraltro ho già avuto modo di incontrare Barbara e Federica nell’ambito della puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” del 13 aprile 2012, dove abbiamo avuto modo di discutere del festival (a tal proposito – per ulteriori informazioni – ci tengo a segnalare questo articolo, dal blog di Niamh Mac Alister, una delle partecipanti irlandesi).

Il tema di questo post è incentrato sul concetto di “viaggio”, inteso soprattutto come “percorso creativo” (ma non solo).
Catherine Dunne, in particolare, ci propone una stimolante riflessione sul “viaggio creativo”… ovvero quel percorso bellissimo e irto, al tempo stesso, che deve intraprendere uno scrittore nel momento in cui si cimenta con la scrittura della propria storia. Catherine prende come esempio il suo nono romanzo (da poco terminato e ancora inedito) intitolato «The things we know now» («Le cose che sappiamo adesso»).
Alla discussione parteciperanno anche: Lia Mills (intervento tradotto da Federica Sgaggio), Niamh MacAlister (traduzione di Barbara Gozzi e Federica Sgaggio), Celia de Frèine (traduzione di Valeria Lo Forte), Anthony Glavin (traduzione di Valeria Lo Forte).
Per leggere i contributi inviatici dai nostri amici irlandesi, incentrati sul tema del viaggio (inteso come “percorso creativo”, ma anche come “viaggio nella memoria”) basta cliccare sui loro nomi (in tal mondo si apriranno le pagine con i relativi interventi).

Ne approfitto per porgervi alcune domande, ispirate dal pezzo di Catherine Dunne, volte a favorire il dibattito:

1. Qual è il problema principale che sorge all’inizio di un “viaggio creativo”?

2. Quali, tra questi elementi, possono contribuire di più ad avviare il processo creativo di una storia? Una visione, un incipit, il ricordo evanescente di un sogno? O cos’altro?

3. Quali altre domande, oltre al «what if?» («cosa accadrebbe se?») potrebbe accompagnare lo scrittore nella prosecuzione del suo viaggio creativo?

4. Quali sono i principali ostacoli che deve affrontare uno scrittore nella prosecuzione del suo itinerario creativo?

Di seguito vi propongo il contributo di Catherine Dunne in lingua originale (rilasciato appositamente per Letteratitudine) e la traduzione dell’ottima Federica Sgaggio (che, insieme a Barbara Gozzi, darà una mano nello svolgimento di un servizio di traduzione simultanea online dall’italiano all’inglese e viceversa).
Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno la possibilità di partecipare alla discussione.

Massimo Maugeri

* * *

The Creative Journey by Catherine Dunne

I read somewhere recently that ‘every creative journey begins with a problem’. It seemed such a statement of the obvious that at first, I was puzzled by its impact. The sentence fairly leapt off the page. Seven such seemingly innocent words: how come they were such a revelation?
Received wisdom has it that each creative journey begins with a moment of inspiration: that single, singular moment when a vision, or an opening sentence, or the gauzy remnants of a dream appear and settle into a silent, internal space. A space which is already prepared, waiting to germinate the seeds of a new story.
But the ‘problem’, and the ‘moment of inspiration’ are, I am beginning to believe, inseparable: two halves of the same whole. The writer’s constant companion, the ‘What if?’ that accompanies each new creative journey, is an expression of that duality.
What is she talking about, I hear you say. Let me explain.
I have recently finished my ninth novel, entitled ‘the things we know now’. This novel began its life – my creative journey – with a picture. A sudden, mental snapshot of a young boy, a fourteen-year-old, cycling towards home, fuelled with a sense of deadly purpose. I didn’t know then what his purpose was: I just knew it was both brutal and inevitable. That moment was, for want of a better term, my ‘inspiration’: everything I wrote subsequently was the result – however loosely-linked, tangential or oblique a result – of that one, singular moment of absolute clarity. The boy on his bike; the tangible sense of purpose.
But then the ‘problem’ arose. Who is he? Why is he cycling home in such a frenzy? (And it was always towards home: that was never in doubt.) What is the purpose that fuels him? I began to frame all of those questions with the novelist’s ‘What if?’ Grappling with one of those ‘what ifs’ can occupy whole months at a stretch – and each one of them did. Eventually, I knew that I needed to settle on just one, central question: What if this boy is about to change – in one moment – his own life and the lives of his parents and his family forever?
Now I had my starting point. I began my journey back in time with this young boy, Daniel, and we learned together about the forces that had driven him to despair.
It has to get easier, someone said to me recently. Surely, after all those books, you know the process by now? Well, yes and no. I know the process, but it is a process that shifts and changes with each new story. And it doesn’t get any easier. It gets harder. As a writer, you want to do more, to do better, to do something different from before. You want to raise the bar, to rise to the challenge, to push the boundaries of language and voice and character in ways that you haven’t dared until now.
And it is also a process which is not entirely within the writer’s control. That is both the exhilaration, the joy, and the sheer terror of embarking on each new journey. With ‘the things we know now’, once I had begun to get to know Daniel, I needed to know his parents. I felt that I already knew his mother: I identified with her concerns, her hopes and dreams, her devotion to her son. Her motherness. She became the next companion on my journey: and we got on well enough. I think we liked each other, we had similar views of the world, we were easy in each other’s company.
That was the problem.
The mother was too familiar, too cosy, too easy for me to read – and to write. There was no spark of conflict between us. We took a significant part of the journey together – but then we parted company. Sadly.
I had to redraw the map.
Then the father exploded onto the scene. There is no other way to describe it. Patrick’s arrival was stormy, tumultuous: he threw all the pieces of my story into the air and laughed as they landed, scattering shards of language everywhere. This is my story, he kept insisting. Don’t even think of writing it without me.
So I didn’t: I couldn’t, by then, think of writing it without him. Patrick became my companion for the new creative journey, and together, we planned a different route, neither of us knowing where we were going, neither of us sure of our destination. We stepped into the unknown together.
And that is how each creative journey is: similar only in its differences. The initial leap off the cliff; the territory of the unknown; the answer, eventually, to the ‘What if?’ that started the whole thing off.
The joy of language. The elation of story. The making of narrative out of chaos. That’s the creative journey.

* * *

Il viaggio creativo di Catherine Dunne
(Traduzione di Federica Sgaggio)

Ho letto da qualche parte, di recente, che «ogni viaggio creativo comincia con un “problema”». Mi è sembrata la formalizzazione di una tale ovvietà che in un primo momento la sua forza mi ha lasciato disorientata. Per poco la frase non ha fatto un balzo giù dalla pagina. Sette parole così apparentemente inoffensive: come potevano essere una tale rivelazione?
Il tradizionale buon senso vuole che qualunque viaggio creativo abbia inizio con un istante di ispirazione: quel momento singolo e unico in cui una visione, o un incipit, o il ricordo evanescente di un sogno si manifesta e si sistema in un silenzioso spazio interiore. Uno spazio già arato, che attende di far germogliare i semi di una nuova storia.
Io, però, comincio a credere che il «problema» e l’«istante di ispirazione» siano inseparabili: le due metà della mela. Il compagno fedele dello scrittore, quel «cosa accadrebbe se?» che accompagna ogni nuovo viaggio creativo, è un’espressione di quella duplicità.
«Cosa intende dire?», vi potreste domandare. Ci arrivo.
Ho da poco concluso il mio nono romanzo, intitolato «The things we know now», «Le cose che sappiamo adesso». Questo romanzo ha cominciato la sua vita – e io il mio viaggio creativo – con un’immagine. Un’istantanea che, all’improvviso, ha materializzato davanti ai miei occhi un quattordicenne che pedalava verso casa, mosso dal propellente di un proposito che aveva a che fare con la morte. Non sapevo, in quel momento, che tipo di proposito fosse: sapevo soltanto che era allo stesso tempo violento e inevitabile. Quel momento è stato, in mancanza di un termine migliore, la mia «ispirazione»: qualunque cosa io abbia scritto dopo è il risultato – non importa quanto indiretto, tangenziale oppure obliquo – di quel momento singolo e unico di assoluta chiarezza. Il ragazzino in bicicletta; la percezione quasi «materiale» del suo proposito.
Ma in quel momento è sorto «il problema». Chi è? Perché pedala verso casa con tutta quella furia? (E non c’era nessun dubbio che era certamente verso casa che lui stava pedalando). Qual è il proposito che gli fa da propellente? Ho cominciato a inquadrare tutte queste domande nel «cosa accadrebbe se?» dello scrittore. Vedersela con uno di quei «cosa accadrebbe se?» può impegnare lunghi mesi di fila; e per ciascuno di quei «what if?» c’è voluto un sacco di tempo. Alla fine, ho capito che avevo solo bisogno di dare un assestamento a una questione centrale: «Cosa accadrebbe se questo ragazzino fosse sul punto di cambiare per sempre – in un istante – la propria vita, la vita dei suoi genitori e quella di tutta la famiglia?».
In quel momento avevo un punto di partenza. Ho cominciato il mio viaggio all’indietro nel tempo insieme a questo ragazzino, Daniel, e insieme abbiamo scoperto quali fossero state le forze che l’avevano condotto alla disperazione.
«Dovrebbe diventare più facile», mi ha detto qualcuno poco tempo fa. «Dopo tutti quei libri di sicuro padroneggi il processo».
Eh. Sì e no. Ho la padronanza del processo – sì – ma è un processo che slitta e si modifica con ciascuna nuova storia. E non diventa affatto più facile: diventa più difficile, invece. Come scrittore, vuoi fare di più, meglio e in modo diverso. Vuoi alzare la posta, essere all’altezza della nuova sfida, spingere un po’ più in là la frontiera della lingua, e della voce, e del personaggio, in un modo che fino ad allora non avevi mai osato affrontare.
E il processo, per giunta, non è interamente sotto il controllo dello scrittore: cosa che è tanto motivo di euforia e gioia quanto di puro terrore.
Con «Le cose che sappiamo ora», una volta entrata in confidenza con Daniel, ho avvertito il bisogno di conoscere i suoi genitori. La madre mi sembrava di conoscerla già: mi identificavo con le sue preoccupazioni, le sue speranze e i suoi sogni; con la sua adorazione per il figlio. Con la sua «madrità».
È diventata per me il secondo compagno di viaggio: e andavamo abbastanza d’accordo. Penso che ognuna di noi due piacesse all’altra; avevamo visioni del mondo simili, e stavamo a nostro agio l’una in compagnia dell’altra.
Questo era il problema.
Per me, la madre era troppo familiare, troppo comoda e facile da leggere. E da scrivere, anche. Fra di noi mancava la scintilla del conflitto. Abbiamo percorso insieme una parte importante del viaggio, ma poi abbiamo spezzato l’alleanza. Con tristezza.
E ho dovuto ri-tracciare la mappa.
A quel punto sulla scena è esploso il padre. Non c’è altro modo di descrivere la situazione. L’arrivo di Patrick è stato turbolento e tumultuoso: ha buttato all’aria tutti i pezzi della mia storia, e si è messo a ridere mentre ricadevano a terra come frammenti di linguaggio dispersi per ogni dove. «Questa è la mia storia», continuava a ripetere. «Non provare nemmeno, a scrivere senza di me».
Non l’ho fatto: da quel momento, non ho più potuto concepire l’idea di scrivere senza di lui. Patrick è diventato il mio compagno per il nuovo viaggio creativo, e insieme abbiamo progettato un itinerario differente. Nessuno dei due aveva idea del luogo verso il quale stavamo andando né era sicuro di quale fosse il punto d’arrivo. Ci siamo messi a camminare insieme nell’ignoto.
Tutti i viaggi creativi funzionano in questo modo: simili solo nelle loro differenze. Il balzo iniziale giù dalla scogliera; il territorio dell’ignoto; la risposta, alla fine, al «cosa accadrebbe se?» che ha dato l’avvio a tutto quanto.
La gioia per la lingua: l’esaltazione per la storia; la costruzione e l’estrazione dal caos di un filo narrativo coerente: il viaggio creativo è questa cosa qua.

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NASCE BABELIT. Incontro con Birgit Vanderbeke http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/01/nasce-babelit-incontro-con-birgit-vanderbeke/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/01/nasce-babelit-incontro-con-birgit-vanderbeke/#comments Fri, 01 May 2009 19:27:34 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/01/nasce-babelit-incontro-con-birgit-vanderbeke/ babelit.jpgSono molto lieto di annunciare la nascita di una nuova specialissima rubrica che sancisce l’internazionalizzazione di Letteratitudine. Si chiama BABELIT. Il titolo è un acronimo che deriva da due parole inglesi: babel e literature.
E in effetti BABELIT è destinata a diventare una vera e propria babele letteraria, dal momento che ospiterà autori stranieri che ci parleranno dei loro libri e dei temi da essi trattati. La particolarità della rubrica è la seguente. I dibattiti che vi proporrò saranno condotti in due lingue: in italiano (naturalmente) e nella lingua d’origine dell’autore/autrice di volta in volta invitato/a. Nel farlo, mi avvarrò del supporto di interpreti. Insomma, come ben capite si tratta di un esperimento…

Il primo incontro di BABELIT è con la scrittrice tedesca Birgit Vanderbeke.
La Vanderbeke è nata nel 1956 a Dehme, allora Repubblica Democratica Tedesca e cresciuta nella Repubblica Federale, in cui la famiglia si trasferì nel 1961. Laureata in giurisprudenza e letterature romanze ha lavorato per alcuni anni in un istituto di ricerche sociali. Nel 1990 ha ricevuto il prestigioso premio Ingeborg Bachmann per la sua opera prima, “La cena della cozze”, pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1993. Dopo aver vissuto un anno a Berlino poco dopo la riunificazione, nel 1993 ha scelto di trasferirsi a St. Quentin-la-Poterie, in Linguadoca, dove vive tutt’ora. Nel 1997 le è stato conferito il Kranichsteiner Literaturpreis per la sua produzione letteraria e nel 2002 il premio Hans Fallada. In Italia sono stati pubblicati da Marsilio “Alberta riceve un amante” (1999) e “Vedo una cosa che tu non vedi” (2001), da “Le vespe Abbastanza bene” (2000).
In questo post discuteremo con la Vanderbeke del suo romanzo edito da Del Vecchio: Sweet Sixteen. Mi affiancheranno (per un supproto linguistico) Paola Del Zoppo, traduttrice italiana del libro, e Michele Piroli.
Sweet Sixteen è un romanzo breve dal tono satirico e coinvolgente il cui punto focale coincide con l’arrivo di una nuova tendenza fra i giovani: in molte parti della Germania, vari teenager scompaiono in occasione del loro sedicesimo compleanno.
Così leggiamo dalla scheda del libro: “Quando vengono riportati i primi casi, la polizia non se ne preoccupa più di tanto. La fuga degli adolescenti ribelli, del resto, è un luogo comune e in genere i rientri si verificano entro una settimana. Ma dopo la scomparsa del rampollo Justus Hanssen, figlio della famosa presentatrice televisiva Conny Hanssen, e con l’accentuarsi del fenomeno, la polizia e l’opinione pubblica e le famiglie cambiano atteggiamento. Si eliminano i computer dalle stanze dei ragazzi, si approntano sistemi elettronici di rilevazione che consentono di sorvegliare i ragazzi, Infine un invalido autore di canzoni per adolescenti viene indicato come causa delle fughe. Naturalmente con il tempo si svelano le reali cause del fenomeno, di cui la principale è il pessimo rapporto dei ragazzi con i genitori e si scopre l’esistenza di un “movimento” di sedicenni che si ribella alle repressioni messe in atto dai genitori”.
I temi affrontati dal libro sono molteplici:
- le forzature dei media
- la questione della privacy e della sicurezza pubblica
- l’influenza dei media sui giovani e la reazione di questi ultimi alla mercificazione della vita
- il conflitto generazionale in questo primo decennio del nuovo millennio .

Per favorire il dibattito, pongo alcune domande… a voi e a Birgit.

Le nuove generazioni sono più o meno in crisi di quelle dei decenni precedenti?

Il conflitto generazionale è più aspro oggi rispetto al passato?

Le madri e i padri del nuovo millennio hanno maggiore o minore difficoltà a comprendere i sedicenni rispetto ai genitori di venti, trenta, quarant’anni fa?

Quali sono i pro e i contro della crescente ingerenza dei media nei drammi personali?

Rispetto alle domande precedenti… che differenza c’è tra l’Italia e la Germania?

Di seguito potrete leggere la postfazione firmata da Paola Del Zoppo, che – come accennato – è anche la traduttrice del romanzo.
Massimo Maugeri


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Dalla Postfazione di Paola Del Zoppo

Sweet Sixteen, opera che sfugge volontariamente alle classificazioni di genere, è romanzo breve, racconto lungo, thriller, romanzo a sfondo sociale, parodia, satira. Il giorno esatto del loro sedicesimo compleanno alcuni ragazzi spariscono dalle proprie case apparentemente senza alcun segnale. Inizialmente non si riconoscono i collegamenti tra i casi. I ragazzi abitano in luoghi diversi della Germania, in città diverse, provengono dalla città come dalla provincia, da famiglie “tradizionali”, così come da famiglie patchwork o famiglie separate. Sono figli di madri single a carico dell’assistenza sociale come rampolli di madri in vista con eccellenti situazioni economiche. L’unica cosa che li accomuna è la sparizione il giorno del loro sedicesimo compleanno e l’apparente volontà di far perdere le proprie tracce. Quello che invece accomuna i genitori è l’assoluta incapacità di entrare in contatto con il mondo dei figli. Nello svolgersi delle indagini entrano a far parte del racconto tematiche di grande attualità: le esagerazioni dei media che fanno spettacolo dei drammi personali, celando le verità scomode, la questione della privacy, i veri scopi delle manovre di sicurezza pubblica e l’incapacità della classe politica di comprendere i reali bisogni della società.

Birgit Vanderbeke distribuisce i ruoli con estrema intelligenza. Sceglie un narratore di sesso maschile, di cui non conosciamo il nome, ma sappiamo che è sulla soglia dei cinquanta anni. Lavora in un’agenzia che si occupa di ricerche sulle mode e le tendenze giovanili. Con lui collaborano Roman e Saskia, che con i loro quaranta e trenta anni, coprono due diversi ambiti generazionali. L’oggetto principale delle loro preoccupazioni e indagini è Josha, il fratello più giovane di Saskia, che sta per compiere sedici anni, e che diventa il pretesto per approfondire le motivazioni del fenomeno delle sparizioni. Del narratore si sa poco, ha una sorella che vive una vita molto più inserita nelle convenzioni della sua, e da ragazzo non si è mai lasciato travolgere da nessuna tendenza o ideologia. Arrivava sempre tardi, dice. Ma si può concludere che abbia sempre voluto agire secondo scelte proprie, il che lo ha portato a non “saltare il fosso”.

Anche in Sweet sixteen il linguaggio è uno strumento che focalizza e dona profondità ai punti nodali del romanzo. Il testo è ricco di parole straniere: americane, giapponesi, termini perlopiù intraducibili, che accomunano l’estremo oriente all’estremo occidente e definiscono una sottocultura più che diffusa, quella del mondo dei fumetti e della realtà virtuale. Espressioni tipicamente tedesche e riferimenti culturali popolari, proverbi e “Pippi Calzelunghe”, che si accostano a espressioni italiane entrate nell’uso comune anche in Germania e a riferimenti alle teorie anticonsumistiche degli intellettuali degli anni Sessanta e Settanta.

La comprensione in profondità del libro è subordinata a una conoscenza critica, non passiva, della realtà in cui si muovono i protagonisti della storia. Per chi riesce a cogliere il fondo brillante dell’ironia sottesa a tutto il racconto, la critica sociale è lampante. Pochi lettori sanno cosa vuol dire Otaku, o chi lo è, cosa è un geek o cosa voglia dire white trash. Ma c’è realmente bisogno di saperlo? Noi avevamo Marlon Brando, loro hanno Brad Pitt e Edward Norton, fa presente il narratore nella scena chiave del racconto. La frase si offre a diversi livelli di analisi. La questione vera non è se Edward Norton e Brad Pitt, con la loro ribellione sfrenata e patologica contro il consumismo, siano al livello di un Marlon Brando. Marlon Brando ed Ed Norton non occupano posti diversi su una scala di valori. Occupano luoghi temporali diversi, ma ambiti ideali affini. Sono modelli di ribellione, che diventano riferimenti esistenziali; quasi a colmare un gap culturale tra generazioni che, seppur lontane tra loro, sono accomunate dall’assenza-oppressione di figure genitoriali solide. Fight Club, ricorda Josha, non basta vederlo una volta, il messaggio non è così diretto.

In questo senso è illuminante l’idea che a conoscere il film siano il narratore cinquantenne e il giovanissimo Josha, mentre le generazioni “di mezzo” sembrano aver “perso il colpo”. Generazioni di cui fa parte anche il giornalista che, in un articolo che sfiora il nonsense attribuisce alla tensione alla libertà instillata da genitori a figli (tramite la possibilità di rifiutarsi di assolvere a degli obblighi) la crisi della società contemporanea. Ma gli ambiti del senso e del nonsenso, l’arte, la scienza e il pensiero si rinnovano anche e soprattutto grazie alla dirompente carica innovativa dei giovani. I continui riferimenti al passato, alle esperienze degli anni Sessanta, a Pasolini, suggeriscono che forse la giusta interpretazione delle fughe sia da rintracciare in un mancato sviluppo sociale, nel sostanziale fallimento della generazione dei genitori, dovuto principalmente alla paura della scomparsa di piccoli rassicuranti mondi di ieri; ma questo sospetto viene del tutto rifiutato dagli elementi sociali messi in discussione. È una sorta di processo di rimozione, che sopprime nelle menti la considerazione logica che il futuro si possa annullare se chi ha trovato una sua dimensione di sopravvivenza sceglie di appiattirsi sul presente, come i “depressi” e i “regressi”. Questi ultimi, nostalgici di un mondo perduto senza che neanche esistesse, o di un benessere intravisto e mai raggiunto, preferiscono alleggerirsi la coscienza accusando di plagio un autore di canzonette per bambini che inneggiano alla ribellione alla scuola e ai genitori, che ha l’unico difetto di leggere dei libri ed esaltare agli ideali della Rivoluzione Francese, libertà, fraternità uguaglianza, talmente trascurati da essere bollati come superati e circoscritti ad un ambito storico limitato.

Nell’immagine finale, l’unica che ci venga presentata esattamente identica nel corso dell’intera narrazione, il simbolo dell’azione e dell’unità si scioglie nel tono satirico della retorica della ripetizione.  Il narratore, in spiaggia, guarda lontano, e lontano vede una massa di ragazzi con le tavole da surf che si preparano ad affrontare l’onda. Non sappiamo quanti di loro verranno travolti dal “pensiero unico” e quanti riusciranno a cavalcare l’onda e giungere indenni, e un po’ più forti sulla terraferma, per poi disperdersi, “soli, ma non da soli”. E il cerchio sembra chiudersi, ma, ancora una volta, Birgit Vanderbeke non dà ricette, e quindi preferisce non annodare tutti i fili della vicenda. Questo pare sia un compito lasciato ai lettori.

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