LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » IL SOTTOSUOLO (di Ferdinando Camon) http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 Pasolini, l’omosessualità, la psicanalisi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/09/pasolini-lomosessualita-la-psicanalisi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/09/pasolini-lomosessualita-la-psicanalisi/#comments Mon, 09 Nov 2015 15:00:11 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6952 La nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon è dedicata a Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975) in occasione del quarantesimo anniversario della morte.

Abbiamo ricordato la ricorrenza nel’ambito di questo post.

(Massimo Maugeri)

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Pasolini, l’omosessualità, la psicanalisi

ferdinando-camondi Ferdinando Camon

Pasolini è morto quarant’anni fa. Sono convinto che si può parlare con i morti. I morti non sono morti. «Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale…?» cominciava Leopardi: le chiede se si ricorda di quand’era viva, ma possono ricordare qualcosa i morti? e possono rispondere a una domanda? La risposta, per Leopardi, è “sì”. Per questo scrive quella poesia. Per questo è nata la poesia. La prima poesia fu nelle parole che la prima madre rivolse al figlio appena morto. La poesia è il dialogo fra il di qua e l’aldilà. Lorenz racconta di una scimmia a cui era morto il figlioletto appena nato, e lei non lo abbandonò, ma continuò a trascinarselo dietro per due giorni e due notti. Non conosciamo i suoni che la scimmia-madre pronunciava in quei giorni, ma se li avessimo, quelli sono poesia. Nel giorno dei morti i figli vanno a parlare con i padri. Anch’io. Anche con il padre letterario, che fu Pier Paolo Pasolini. Vado a Casarsa della Delizia, che è qui vicino a casa mia, e sto una ventina di minuti davanti alla “tomba coniugale”, che mette insieme Pier Paolo e sua madre. L’idea di metterli insieme fu di Alberto Moravia ed Enzo Siciliano. Idea giusta. La coppia era quella. Pier Paolo lo dice con chiarezza in una poesia bellissima, intitolata “A mia madre”, dice che il suo vero unico amore è la madre, ma la madre è sacra, lui non può toccarla, e per estensione non può toccare nessuna donna, per lui è un tabù. Pier Paolo, e questo è un dato che le sue biografie ignorano commettendo una grave colpa, andò in analisi da Cesare Musatti. Me lo raccontò Musatti stesso. Musatti da vecchio parlava troppo. Mi raccontò che Pasolini dopo 7-8 sedute non si presentò più. Perché era saltata fuori l’omosessualità, e Pier Paolo diceva: «Non ne parlerò, perché è natura». Musatti rispondeva: «Ne parlerà comunque, anche senza volerlo».
Musatti aveva un’idea dell’analisi come guerra civile: l’uomo che va in analisi è in guerra con se stesso, come uno Stato in cui scoppia una guerra civile e s’infesta di ribelli. Lo Stato non può dire: «Li combatterò a Milano, Genova e Torino, ma non a Venezia e Trieste», perché se dice così, tutti i guerriglieri si trasferiranno a Venezia e a Trieste, e quelle città, che lo Stato voleva preservare intatte, dovrà raderle al suolo. Così tu non puoi dire, in analisi: «Parlerò di tutto, ma non della mia omosessualità», perché tutti i tuoi sintomi si concentreranno sulla tua omosessualità, e non potrai parlare che di quella. Se vai in analisi e continui, vuol dire che senti un vantaggio nel finirla. Se la interrompi, senti un vantaggio nell’interromperla. Per te è meno doloroso interromperla, e continuare a patire la tua angoscia per tutta la vita, che non concentrare tutta l’angoscia della vita nei pochi anni dell’analisi, affrontarla e liquidarla o tenerla a bada. Pasolini scelse di non affrontarla ma tenersela, così com’era. È morto per questo. Che cosa angosciava Pier Paolo, nella sua omosessualità? Forse (e questo i giornali lo ignorano, ma è qui il vero problema) la ricerca di minorenni? Tutti gli amici lo rimproveravano per questo: «Lascia stare i minorenni». Ogni volta che si riparla di Pasolini, saltano sempre fuori (anche stavolta) nuovi sospetti (mai prove) su una morte diversa, e cioè il complotto fascista. Pasolini ha lasciato dei “figli”, scrittori che lui ha scoperto e lanciato. Lanciò Dario Bellezza scrivendo nella prefazione: «Ecco il più grande poeta della nuova generazione». Con simili parole tu fai grande uno sconosciuto. Lanciò il mio primo romanzo scrivendo una prefazione in cui citava (chiedo scusa) Dante, Boccaccio e Verga. La lessi dritto in piedi in uno stanzino della casa Garzanti mentre i dirigenti, seduti in cerchio, mi scrutavano. Mi vergognavo. Troppa generosità. È dunque mio padre. Ma non sento il bisogno di negare che sia morto nello scontro con un minorenne: significa negare la verità, non accettare che sia morto com’è morto. Non gli faccio questo oltraggio. La sua fu una “morte lunga”, e cominciò quando smise l’analisi. L’avesse continuata e terminata, avrebbe vissuto trent’anni di più. Glielo dico, quando vado a trovarlo. E so che lui capisce.

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[Articolo pubblicato suli quotidiano "Avvenire"]

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MIGRANTI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/03/migranti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/03/migranti/#comments Thu, 03 Sep 2015 17:00:25 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6874 La nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon è dedicata alla sconvolgente e attualissima problematica legata al fenomeno dei cosiddetti “migranti” (in questi giorni c’è, in particolare, questa notizia orribile sta facendo il giro del mondo).

Di seguito, due articoli dal titolo molto indicativo: “Migranti marchiati come animali“, “Selezione dei migranti, chi vive e chi muore“.

(Massimo Maugeri)

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MIGRANTI

di Ferdinando Camon

ferdinando-camon1. Migranti marchiati come animali

È al lavoro in Europa, con poteri direzionali, una generazione nata meno di 60 anni fa, che non sa niente di storia. L’altro giorno funzionari di Auschwitz hanno aperto nell’ex campo di sterminio una fila di docce, per rinfrescare i turisti accaldati. Evidentemente non sapevano cosa le docce significano ad Auschwitz. Le proteste d’Israele si son levate altissime, le docce sono state portate via, ma mi domando perché non sono stati rimossi su due piedi anche quegli impiegati. Ieri la polizia ceca, non sapendo come identificare i profughi, adulti e bambini, ha pensato di contrassegnarli con un numero, indelebile, sul braccio. Non sapendo che anche questo sistema era usato ad Auschwitz, e che i sopravvissuti dei Lager si son portati quel numero fino alla morte e oltre. Ad Auschwitz il numero era tatuato sulla carne, mentre la polizia ceca lo scrive su un braccialetto di plastica. Il risultato però è lo stesso: uomini ridotti a numeri, e chiamati con quel numero. Non più persone, ma “pezzi”. A monte di queste operazioni, ci sta una concezione di razza: i migranti sono di razza inferiore. Animali. O cose.
La massa di migranti che preme su Budapest e da lì sulla Germania spaventa tutti. Sono troppi. Hanno bisogno di tutto. Accoglierli è un disastro. Respingerli è una colpa. Che si fa?
Rispondere alzando i muri è una risposta vecchia, razzista, fallita e indegna dell’uomo europeo. I muri sono in contraddizione con lo spirito della Comunità di Stati che si chiama Europa. Al presidente dell’Ungheria, che con la costruzione di un muro lungo quasi 200 chilometri pensa di risolvere il problema dell’immigrazione, viene attribuita una frase orrenda: “Le masse d’immigranti vengono per imbastardire la nostra razza”. Anche in Italia qualcuno parlò così, usando la parola “imbastardire”. Chi usa una parola del genere, dovrebb’essere escluso non dal partito ma dalla politica. La politica è l’arte della relazione con gli altri. Se tu pensi che tu sei puro (o civile) e gli altri sono impuri (o incivili o barbari), e che il contatto con loro ti imbastardisce, non puoi fare politica, puoi fare soltanto guerra. E infatti i muri sono uno strumento di guerra. I muri li costruiva l’Unione Sovietica (la cortina di ferro) o la Germania est (il muro di Berlino), e adesso l’Ungheria, la Bulgaria, e fra poco l’Estonia. Chi si chiude dentro un muro protegge il proprio bene e tiene fuori gli altri, sentiti come un male. Protegge come? “Per ora, i nostri soldati non hanno l’ordine di sparare”, dice il presidente dell’Ungheria, intendendo che possono fare tutto il resto, lanciare gas lacrimogeni, picchiare col manganello, arrestare. O chiudere le stazioni, in modo che non possano partire. È appena successo. Migliaia d’immigrati bloccati nella stazione di Budapest volevano salire sui treni per Vienna e Berlino, ma venivano bloccati. La stazione è stata occupata dai migranti, poi evacuata a forza dalla polizia, poi rioccupata…: è il caos. Da italiano, avrei piacere che questa massa arrivasse a Berlino, per vedere cosa fa la Merkel. Perché la signora Merkel, finché i migranti sbarcavano a migliaia in Italia, ripeteva come un mantra che “il primo paese che toccano se li deve tenere”. Adesso che arrivano in Germania, cambia slogan: “L’ospitalità va divisa fra tutti”. La Merkel non ragiona da europea, ma da tedesca. Io farei notare questa contraddizione, se fossi al posto di Renzi. La farei notare non a lei, ma al mondo.
Che succederà quando gli stati che costruiscono i muri, metteranno sotto il filo spinato le mine? Ci saranno migranti che muoiono? È europeo tutto questo? Noi europei siamo “assassini di affamati”?
Si dice: chi scappa dalla guerra ben venga, chi scappa dalla fame no. E perché? I nostri migranti partivano per fame. Anche la fame è una guerra. Noi occidentali siamo protesi a migliorare il nostro benessere economico, senza pause. Consideriamo il governo che ci guida in questa corsa un buon governo. I disperati che vengono in casa nostra sono un problema, ci rallentano la corsa, ma dobbiamo accettarlo. L’altra scelta è lasciarli morire. Dobbiamo considerare un buon governo quello che non li lascia morire.

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2. Selezione dei migranti, chi vive e chi muore

È in atto una selezione crudele tra i migranti, al momento dell’imbarco sulle coste africane, e poi nella pericolosa traversata fino ai nostri territori. Una parte si salva e sbarca in Europa e vivrà, una parte muore e finisce in tombe senza nome. In un barcone di 500 viaggiatori ci sono spesso, nella stiva, una cinquantina di cadaveri. È una selezione di razza, tra i neri (una volta eran detti “negri”) e i magrebini? Tra i più colti e gl’ignoranti? Tra i più integrabili e i meno integrabili? Tra chi sa lavorare e chi non sa? No. Anche da noi, che stiamo attraversando una crisi che non finisce mai, è in atto una selezione, tra chi ne uscirà bene e starà meglio di prima, e chi ne uscirà male e starà peggio. Ma la distinzione avviene tra chi ha soldi e chi non ne ha. È una selezione classista, non razzista. Certo, anche le classi sono razziali, e nei barconi i magrebini del Nord Africa urlano ai “neri-neri”, i “black-black”, di andar giù, nella stiva. Dove li chiudono a chiave, e se la nave affonda non gli aprono. Anche tra gli immigranti la vita ha prezzi diversi. Loro credono (i magrebini, specialmente gli egiziani) che i neri-neri siano semi-umani o semi-animali, sempre in procinto di diventare prede del demonio, e credono che quando muoiono, giù nella stiva, sia perché il diavolo s’è impossessato dei loro corpi. Mostrano, quando entrano nei nostri porti, i morti nella stiva, che hanno mani e piedi legati. Glieli hanno legati loro, quelli che viaggiano in coperta, perché scendendo a controllare quelli della stiva li vedevano che muovevano collo e testa a scatti, come se dentro di loro ci fosse uno spirito maligno, che li dominava. In realtà quelle sono le convulsioni dell’asfissia. Privo di ossigeno, il cervello scatena questi scatti involontari, e poi si spegne. È il destino di molti neri-neri, maliani, gambiani, senegalesi, sudanesi, ivoriani. Che possono pagare meno della metà il prezzo del viaggio rispetto a siriani, tunisini, egiziani. Anche l’Africa ha un Nord e un Sud, e il Sud è povero. Non è razzismo, o, se è razzismo, è fondato sulla ricchezza. I mezzi della traversata sono distinti per classe, come da noi i treni: ci sono i treni locali per i pendolari e le Frecce per gli uomini d’affari. Così per i migranti c’è la distinzione tra i barconi e i gommoni. I gommoni sono molto più rischiosi. Si sgonfiano facilmente. Hanno un motorino debole. Avanzano a pelo d’acqua. Alle prime ondate, imbarcano acqua e vanno giù. Costano poco, ma quel che compri è la morte. Comunque “compri”, cioè paghi. Non parliamo dunque di “tratta degli schiavi”. Qui non ci sono schiavi venduti da un padrone e costretti a entrare nella barca a colpi di frusta. Questa è gente che paga per entrare.
L’Europa non li vuole ma non perché sono neri o marroni o musulmani. Non li vuole perché sono poveri, non hanno soldi e non producono soldi, non sanno fare niente. Adesso a maltrattarli più degli altri sono tedeschi e ungheresi, guarda caso due popoli uniti nell’ultima guerra mondiale da un razzismo estremista. Gli ungheresi lo dicono: “Portano fame, miseria, bisogno di assistenza, problemi per la Sanità”. I tedeschi bruciano i ricoveri degli immigrati, sperando che loro siano dentro, non fanno dichiarazioni ma si fanno fotografare con le teste rasate e la svastica tatuata sulla nuca. La Germania è il paese più ricco d’Europa, ma se questi migranti ci entrano a centinaia di migliaia rischia di diventare povero. Da qui la cacciata dei migranti, con una certa benevolenza per i siriani, non a caso i più istruiti. Tatuandosi una svastica sulla nuca, i neonazisti rivelano che anche il precedente razzismo, quello dello Sterminio, aveva un movente economico. A venti chilometri da casa mia c’è un paesetto, si chiama Vo’, nel quale in una villa venivano radunati gli ebrei. Il parroco andò a trovarli. “Ma cosa vogliono da noi?”, gli domandarono. E lui rispose: “Vogliono i vostri beni”.

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[I suddetti articoli sono stati pubblicati sui quotidiani locali del Gruppo "Espresso-Repubblica"]

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PAURA DI VOLARE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/08/08/paura-di-volare/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/08/08/paura-di-volare/#comments Sat, 08 Aug 2015 09:30:39 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6778 La nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon è dedicata alla… paura di volare (legata, nella fattispecie, a un evento letterario).

La paura di volare è molto diffusa… e quando capitano eventi tragici legati al “volo” (dagli attentati terroristici dell’11 settembre al recente noto disastro del  “Germanwings“) è inevitabilmente destinata ad aumentare.

Volete sapere come l’ha superata Ferdinando Camon? Leggete il pezzo!

(Massimo Maugeri)

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Paura di volare

di Ferdinando Camon

ferdinando-camonOgni volta che c’è un disastro aereo, ripenso al mio Tupolev in volo da Mosca a Leningrado, risento lo schiocco che porta via la corrente, rivedo i due sposini russi in viaggio di nozze seduti davanti a me che si carezzano le guance ripetendosi: “Addio caro”, “Addio cara”. No, non dimenticherò mai quel volo. E pensare che doveva essere un viaggio-premio: quel volo, da Milano a Mosca e da Mosca a Leningrado, era il mio premio Viareggio. Il premio non dava soldi, non ne ha mai avuti. Dava quadri, statuette, regali vari. Quell’anno il regalo più prezioso era un viaggio aereo a Mosca e Leningrado. Veramente, in origine doveva essere una crociera, su una nave russa. Domanderete: perché Mosca, perché Leningrado, perché una nave russa? Beh, il premio era organizzato da una regione rossa, che nell’area russa otteneva aiuti e favori, inimmaginabili altrove. Non ho mai capito se ero ospite della regione italiana o della Grande Madre Russia. La crociera saltò perché la nave, che si chiamava Ivan Franko, nel viaggio precedente al mio urtò contro gli scogli e storse le eliche. Evidentemente, c’era qualche Schettino anche allora. Rimase in porto per la riparazione. Il viaggio per mare fu commutato in volo aereo. Bell’aereo, il Tupolev. Passeggeri caotici, i sovietici. Si sedevano alla rinfusa. Piloti sbrigativi, i russi. Bruschi nel decollo, bruschi nell’atterraggio. Il volo in linea era monotono, e nessuno si aspettava sorprese. D’improvviso uno schiocco (non uno scoppio, ma uno schiocco sonoro), il buio immediato e totale, come una coperta nera sulle nostre teste. Grida dei viaggiatori, strilli delle hostess. Erano soprattutto questi a terrorizzare i passeggeri: gli strilli delle hostess. Sul bracciolo del sedile c’era anche un pulsante per chiamare una hostess in caso di bisogno, e il suo nome era, in caratteri cirillici, ”stewardessa”. Volare nel buio e col personale di servizio spaventato è un’esperienza terrificante. Non sai cos’è successo, il tuo cervello (il mio, almeno) chiede: “Siamo morti?”. Non ti viene la risposta, non sai niente di che cos’è essere morti. Non sai se passano i secondi o i minuti. È una situazione che il cervello non riesce ad accettare. Perciò la rifiuta. Io non so, non ho mai capito, cosa sia successo in quei momenti e quanto siano durati: il mio cervello s’era bloccato. Nel film “Salvate il soldato Ryan”, Tom Hanks avanza nel terrore, tutti sparano intorno a lui, è un inferno di scoppi, e lui rifiuta di sentire, si chiude nel silenzio. Poi, di colpo, tornano i suoni. Così, di colpo, intorno a me, sulle teste urlanti, tornò la luce, non so dopo quanto tempo. Le hostess passavano veloci ma in silenzio. Davanti a me, gli sposi in viaggio di nozze smettevano di carezzarsi e si abbracciavano. M’è sembrata una resurrezione. Ricordo che avevo pensato: “Ma come, finisce così?”, intendendo la vita. Non ero preparato alla fine. Non lo sarò mai, neanche fra 150 anni. Leningrado era vicina, appena sceso dalla scaletta mi son chinato a toccare la Terra con ambedue le mani. Come fanno i Papi.
Un anno dopo mi telefonano i russi. Ricorre un anniversario della liberazione di Mosca dall’assedio nazista. Grande festa, m’invitano. Con la morte nel cuore rifiuto, gli confesso che ho paura di volare. Protestano che i loro aerei sono più sicuri dei nostri. A telefonarmi è Gheorghj Brejtburd, mio traduttore, responsabile delle relazioni culturali dell’Urss con l’Italia. Si scandalizza per il rifiuto. Poi telefona a Goffredo Parise, ma Parise in quel tempo entrava e usciva dagli ospedali, e in quel momento era dentro. Morale: alla festa per la liberazione di Mosca dall’assedio nazista non ci andò nessuno scrittore italiano. Quando penso che io non ci sono andato per la paura di volare, mi vergogno ancor oggi.
L’anno dopo tre scrittori sovietici vengono in Italia, mi chiedono se possiamo vederci. Ci diamo appuntamento a Venezia, in un ristorante vicino a San Marco. Sono Gheorgi Brejtburd, Yuri Bondarev e Cingiz Ajtmatov. Quest’ultimo era il più grande dei tre, i suoi romanzi eran tradotti anche in italiano, da Mursia. Kirghiso. Al ristorante si presenta con un enorme foruncolo rosso fiammante sul naso, in piena esplosione. Brejtburd mi spiega che aveva “paura di volare” e perciò eran venuti tutti in treno: due giorni e due notti in vagone-letto, mangiando panini e bevendo vodka. Secondo me, tutte le paure di Ajtmatov gli eran venute nel carcere della Lubianka, dove il partito l’aveva rinchiuso. Ho sempre pensato la paura di volare come parente stretta della claustrofobia. Avevano già i biglietti ferroviari per il ritorno, altri giorni e altre notti in vagone letto, per evitare l’aereo. Cercavano un equivalente italiano della vodka, e secondo loro era la grappa.
Con la paura di volare non puoi più vivere, perdi il mondo. In me (come, credo, in tutti) la “paura di volare” si concentrava soprattutto in un momento, il decollo. Il distacco dalla terra. Cioè, dalla Madre Terra. Se fossi riuscito ad avere un distacco felice, uno solo, il cerchio si sarebbe rotto. Bastava uno. “Ci penso io”, mi fa un’amica. Era una psicoterapeuta, lavorava a guarire i drogati. “E come fai?” le chiesi. “Tu pagami un volo Venezia-Milano, e un pranzo a Milano”. Combiniamo. Il volo Venezia-Milano dura venti minuti, è solo salita e solo discesa. Non c’è altro. Per chi ha paura di volare, è tutto terrore. Siamo seduti affiancati, l’aereo è per tre quarti vuoto. Rulla e si stacca. “Ecco – dico -, ora si scatena l’angoscia”, la sento attaccata alle viscere con le unghie come un gatto. La signora (molto graziosa, ma sposata con un uomo assai più bello di me) sblocca il suo sedile, inclina lo schienale, butta le gambe in aria, fa svettare le caviglie ed esclama: ”Ma non ho delle belle gambe?”. I passeggeri tedeschi strabuzzano gli occhi. Io mi spavento e le tiro giù le gambe: “Ma che fai?, sei matta?”. Intanto l’aereo è arrivato in quota e fila in orizzontale. Il gatto stacca le unghie dalle mie viscere e se ne va. A Milano compro un libro e lo regalo alla signora con una dedica: “A Emma [si chiama così], che m’ha fatto volare”. Ho saputo poi che la signora fa girare il libro fra le amiche, e tutte son convinte che “m’ha fatto volare” alluda a chissà quale pratica erotica. Non è vero. Non c’è stato niente di niente a Milano, fra me e quella signora. Lo giuro.

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[articolo pubblicato su "Panorama"]

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LIVIO GARZANTI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/17/livio-garzanti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/17/livio-garzanti/#comments Tue, 17 Feb 2015 18:20:51 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6684 http://i.res.24o.it/images2010/Editrice/ILSOLE24ORE/DOMENICA/2015/02/14/Domenica/ImmaginiWeb/Ritagli/livio-garzanti-fotogramma-k8aH--258x258@IlSole24Ore-Web.jpg?uuid=70182f56-b36c-11e4-b167-8b06339738a7La nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon è dedicata alla recente scomparsa di Livio Garzanti (avvenuta il 13 febbraio 2015)

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In morte di Livio Garzanti

di Ferdinando Camon

Aveva creato un grande catalogo, c’erano Gadda, Fenoglio, Pasolini, Volponi, Luzi…: molti di noi esordienti puntavano a entrare lì. Ma non era una casa editrice, con direttore e redattori, era un editore: lui. Se un libro gli piaceva, “doveva” andar bene. Siccome non aveva né un giornale né un settimanale né una tv né una radio, ad ogni libro che pubblicava inventava un lancio su misura. Aveva una straordinaria capacità in questo. Direi, una genialità. Vero, grande editore. È così che dovrebbe fare un editore, pensare i suoi libri uno per uno, non in massa. Del mio primo libro che gli piacque veramente, fece in tre giorni un’edizione fuori commercio, rilegata in tela rossa, che non ho mai vista, e ne regalò una copia a ciascun commesso di libreria, in giro per l’Italia: in modo che un mese dopo, ricevendo l’edizione venale, ogni libreria sapesse di cosa si trattava.
ferdinando-camonGli chiesi un incontro. Mi fu risposto che non erano gli autori a poter chiedere un incontro con lui, era lui che prima o poi chiedeva d’incontrare qualche autore. Aveva fatto così con Pasolini, passando per Roma. Pasolini scelse la stazione Termini. Garzanti (me lo raccontò lui stesso) pronunciò poche parole, Pasolini nessuna. Stimava Pasolini, lo considerava un genio assoluto, ma lo temeva: Pasolini era votato allo scandalo, lo scandalo non era un incidente nella vita dei suoi libri, era il suo mezzo di comunicazione, e Garzanti aveva repulsione per gli scandali. Non andò mai veramente d’accordo con Gadda né con Pasolini né con Parise né con Volponi, alla fine tutti ruppero, ma lui soffrì per ciascuna di queste rotture, e avrebbe voluto ricucire con tutti. Anche Volponi, io lo so, soffriva. Passavamo per via della Spiga, sede della Garzanti, e Volponi chinava la testa mormorando: “Garzanti – è un passo avanti”. La rottura più aspra fu quella con Parise. Parise fece un ritratto grottesco di Garzanti: aveva lavorato in casa editrice e uscito di lì fece una descrizione fumettistica del padrone, descrivendolo come un folle che vuol trasmettere la follia ai dipendenti, per rinascere in loro e impossessarsi delle loro anime. In casa editrice tutti patirono quel libro, “Il padrone”, come un oltraggio personale all’editore, aggravato dal fatto che Natalino Sapegno, autore Garzanti, aveva fatto avere al libro il premio Viareggio. Pasolini gli spiegava: “Guardi che quel libro è un atto d’amore”. Alla fine Livio l’ha capito. Passando per Treviso, quando già Parise stava morendo (girava con una fascia rossa al polso, per far capire a tutti che era in dialisi), andò a trovarlo, e tornò annunciando che Parise gli aveva promesso il libro successivo. Credo fosse vero. Dei libri che stampava e a cui teneva particolarmente, seguiva anche l’impianto grafico. Se una bozza non gli piaceva, gli veniva una crisi e doveva sdraiarsi su un divano. Nessun altro editore ha altrettanta passione. La Gina Lagorio si spaventava. Se un libro in cui credeva non andava bene, pensava fosse colpa sua, e creava una consolazione per l’autore. Le sconfitte non dovevano riguardarlo, come la morte non doveva toccare il Faraone. Se un suo autore concorreva allo Strega, lui ci andava ma si nascondeva nei paraggi, e soltanto alla fine dello scrutinio, e soltanto in caso di vittoria, saltava fuori. Con me si accostò a mia moglie, e le mostrò due biglietti: “Sono una crociera in Sudamerica, per lei e suo marito, in caso di sconfitta”. Mia moglie corse a dirmi: “Era meglio perdere”.

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[articolo pubblicato su "La Stampa" del 14 febbraio 2015]

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CON I QUADERNI E LE PENNE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/01/10/con-i-quaderni-e-le-penne/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/01/10/con-i-quaderni-e-le-penne/#comments Sat, 10 Jan 2015 09:37:01 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6644 notinmynameLa nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon è dedicata a un’ampia e approfondita riflessione che si innesta nell’ambito del dibattito su quanto è accaduto nei giorni scorsi in Francia… a partire dal massacro della redazione parigina della rivista satirica Charlie Hebdo.

Ne approfitto per ribadire quanto ho scritto nei giorni scorsi sui social network: “Il modo migliore per potenziare una voce è tentare di soffocarla con la violenza e spegnerla con la morte. Solidarietà ai vignettisti francesi, a Parigi e a tutte le donne e uomini liberi.
Ovunque essi si trovino”.

Il titolo del post l’ho scelto io e coincide con una delle frasi di chiusura che troverete negli articoli di Camon pubblicati di seguito. L’immagine sopra riprende l’hashtag #notinmyname (non nel mio nome) con cui giovani appartenenti all’Islam moderato hanno condannato la strage di Parigi.

Massimo Maugeri

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ferdinando-camon

di Ferdinando Camon

Scontro di civiltà?

Un’inquietante discussione gira per l’Europa: siamo in uno scontro di civiltà che sta per concludersi con la vittoria dell’Islam? Ci sono storici e politici i quali vedono l’Is come un’evoluzione potenziatrice di Al Qaeda, che punta a realizzarne lo stesso scopo (l’imposizione dell’Islam) unendo alle cellule terroristiche sparse per il mondo la forza di uno Stato unitario dotato di esercito. La lotta all’Is è una guerra tra Is e Usa. E non la sta vincendo l’America. L’Is ha impostato lo scontro su diverse fasi, che vanno dal risveglio della coscienza di appartenenza all’Islam alla creazione del Califfato, progettato per espandersi fino a tutto il Medio Oriente, Palestina compresa. Il Califfato usa i suoi mezzi per diffondere l’idea dell’invincibilità e per fare proselitismo, e questi mezzi sono i proclami via internet, i filmati delle decapitazioni, gli spot propagandistici sulla vita libera e felice nella capitale Mosul. L’America risponde con i suoi mezzi, che sono i servizi giornalistici, le riprese dei raids, e i tanti film sulle guerre contro i talebani, ultimo e migliore di tutti il film di Clint Eastwood uscito in questi giorni. C’è un parallelismo preciso tra le scene di onnipotenza dei boia dell’Is, che stanno in primo piano per interi quarti d’ora per tagliare un millimetro alla volta la gola dei prigionieri, e le scene di onnipotenza del cecchino di Eastwood, che tiene nel mirino per interi minuti il terrorista da eliminare prima di decidere se premere o non premere il grilletto. Vedendo le decapitazioni dell’Is c’è sempre una frangia di potenziali terroristi islamici che corrono sul posto e s’arruolano, per far parte di quella potenza. Il film di Eastwood suscita la stessa reazione sul fronte opposto, in chi s’identifica con lo sparatore che ha nel mirino anche donne e bambini con la bomba in mano, pronti a far saltare una squadra di steals americani. In questa guerra è svanita la distinzione tra soldato e assassino: il soldato “deve” eliminare anche vecchi, ragazzini, bambine. Ci domandiamo se Eastwood aderisca eticamente ai valori che racconta, perché allora salterebbe fuori in lui una forma di cripto-fascismo da sempre latente. È evidente il dis-valore che il film attribuisce al nemico, sempre sentito come disumano, identificabile col diavolo. Il nemico non è nostro nemico di guerra, ma di civiltà. È nemico nostro e dei nostri padri, della nostra Costituzione, delle nostre famiglie. È robaccia. Più ne uccidi, meglio è.
In Europa, un nuovo libro di Houellebecq già uscito in Francia e il 15 in Italia, lancia la previsione di una vittoria “democratica” dell’Islam, attraverso una diffusione capillare della nuova civiltà mussulmana alla quale i figli della vecchia civiltà cristiana finiscono per sottomettersi. Islam significa appunto “sottomissione”. L’autore immagina questo sconquasso in un futuro imminente, quando Marine Le Pen guiderà il partito della salvezza occidentale. L’Europa perderà perché non sa più difendersi. È finita. Non preserva famiglia, scuola, giustizia, democrazia. Tanto meno Cristianesimo. È soltanto un agglomerato di mercati. Qualcuno ipotizza una fusione tra civiltà cristiana morente e civiltà islamica crescente, una fusione come alla fine dell’impero romano fu quella tra civiltà pagana morente e civiltà cristiana nascente: nella fusione, sopravvive il meglio dell’una e dell’altra. Confronto seducente ma insostenibile: allora la civiltà cristiana portava la fine della schiavitù, la libertà di coscienza, i premi e i castighi per tutti. Adesso da una parte c’è l’uomo che vale più della donna, il credente più del non-credente, la teocrazia più della democrazia, e dall’altra un’Europa dove i soldi sono tutto e un’Italia dove cultura, scuola e merito non sono niente. Il problema non è che l’Italia in Europa e l’Europa nel mondo contino poco. Il problema è che non meritano di più.

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L’Islam e noi

L’Islam si evolve troppo lentamente, perché gli mancano due spinte: quella dei moderati e quella delle donne. Non si fanno sentire, non influiscono sullo sviluppo della loro società. Quando s’impostava qui in Occidente la linea d’accoglienza degli immigranti, qualcuno, dal mondo cattolico, avvertiva che c’erano aree del pianeta compatibili con la nostra civiltà, per esempio il Sudamerica o l’Est europeo, e aree molto meno integrabili, per esempio l’immenso territorio islamico. I politici non hanno dato importanza a questo avvertimento, nella convinzione che le radici religiose non avrebbero avuto poi grande influenza sulla vita sociale dei nuovi arrivati. Questi avevano bisogno anzitutto di una possibilità di vita, perché nei paesi da cui venivano non l’avevano, neanche minima. Avrebbero lavorato e vissuto con noi, mandato i figli nelle nostre scuole, vissuto nei nostri quartieri, e pregato tra loro, nelle loro moschee, magari in capannoni riadattati. Si diceva allora: benvenuti i migranti che vengono per vivere in mezzo a noi, e quelli che vengono per vivere a fianco di noi. Quando alcuni imam, a Torino, Milano e Genova, si misero a predicare che qui i perfetti islamici dovevano combattere la nostra vita, e trattarci da infedeli, e stare separati da noi, comprendemmo che il problema era più complesso: emigravano ma si consideravano portatori di una civiltà superiore. Volevano per i loro figli classi separate. Venivano per lavorare, guadagnare e vivere, ma non integrarsi. Stavano separati. Non hanno mai manifestato in massa contro le Due Torri. Adesso ci sono sindaci che chiedono agli islamici delle loro città di condannare pubblicamente la strage parigina, altrimenti se ne possono anche andare. Ma le pubbliche condanne di massa non arrivano. L’Islam moderato non cresce, non fa storia. La storia islamica continua ad essere fatta dagli jihadisti, ed è una storia terribile. C’è stata la breve esplosione delle primavere arabe, pareva che da lì partisse il rivendicazionismo delle donne, che sono la vera frangia sociale oppressa dall’Islam, ma così non è. Non hanno neanche il diritto di guidare l’auto. Non c’è Islam moderato. E allora? E allora bisogna crearlo qui: è qui, nelle nostre scuole, che i figli e le figlie degli islamici possono sentire il gusto della cultura, dell’emancipazione e della libertà. Ogni nozione in più che imparano è un pregiudizio in meno che conservano. Loro, che studiano nelle nostre classi, ma anche i nostri figli, che studiano con loro. Non si decide niente con le bombe e i mitra, ma tutto con i quaderni e le penne.

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Libertà di parola e blasfemia

Sugli islamici offesi dai disegni blasfemi dei vignettisti francesi le opinioni nel mondo stanno cambiando. “Financial Times”, “New York Times”, “Telegraph”, NBC News” e un’altra dozzina di testate ripetono che la satira dev’essere libera, ma non può oltraggiare i sentimenti religiosi. Concordo. Se un filosofo, per esempio Immanuel Kant, vuol dimostrare che Dio non c’è e scrive la “Critica della Ragion Pura”, io leggo quel libro interrogandomi su ogni parola. E alla fine, consentendo o dissentendo, resto grato all’autore. Ma se uno, per dimostrare che Dio non c’è, gira per le strade bestemmiando come un turco, e a qualcuno dà fastidio e questo qualcuno lo denuncia, io penso che questo qualcuno esercita un diritto e il bestemmiatore no: libertà di parola non significa libertà di bestemmia. Se uno sostiene che Cristo era un uomo, nient’altro, e come tale è morto e non è resuscitato, e aveva tutte le pulsioni dell’uomo, fame sete sonno, e i Vangeli che parlano di lui parlano di un grande uomo che dalla Terra si alza verso il cielo e non di un Dio che dal cielo scende sulla Terra, insomma parla di Cristo restando ateo, come ha fatto Pasolini col film “Il Vangelo secondo Matteo”, io lo ascolto e non lo dimentico e conserverò verso di lui gratitudine. Ma se un regista, per dimostrare che Cristo era soltanto un uomo, lo fa convivere con una puttana che si chiama Maddalena, e inizia il suo film con Maddalena che esercita il suo mestiere in una stanza da letto e riceve i clienti, e nella stessa stanza Cristo la osserva seduto per fare il voyeur, questo regista, anche se si chiama Martin Scorsese, mi disturba e mi ripugna: un conto è narrare una storia sacra da non credente, altro conto è sputare su chi crede. Non ditemi: “Ma tu paghi il biglietto per vedere quelle scene”, perché non è vero: le foto e le scene finiscono sulle copertine dei settimanali, negli spot pubblicitari e ti seguono per le strade. Se un grande regista, come Buñuel, per presentarci uno che recita una preghiera senza fede, ci mostra San Simeone che si gratta la barba perché non la ricorda più, io ammiro regista e attore e scena. Ma se un altro regista, per la stessa ragione, ci mostra Isabelle Huppert che recita “Ave Maria, piena di m…”, provo ripugnanza, e penso che quel regista sostituisce con la bestemmia la mancanza d’ispirazione. Gli islamici credono che il Corano sia Dio, credono cioè nel “Dio incartato”: la peggior tortura che gli americani gl’infliggevano a Guantanamo era buttare per terra il Corano e pisciarci sopra. Era una tortura, fuori dalla legge. Ma i vignettisti parigini disegnano sulla copertina una raffica di mitra che trapassa il Corano e colpisce il petto di un imam che esclama: “Il Corano non ferma le pallottole, è una merda”. Quella copertina parla dalle edicole a tutti i parigini, islamici compresi. Che dunque sono sotto tortura. Moravia diceva: “Chi ragiona così è un fobico, e un fobico non può governare la società”. È vero. Chi crede in qualcosa di sacro e non vuole che sia violato, è un fobico. Ma chi lo vìola per professione e per divertimento è un sadico, può un sadico governare la società? Siamo tutti malati di storia e d’ideologia, non possiamo cercare una convivenza? Noi non sentiamo la sacralità di Maometto: è un nostro diritto. Ma ci sono popoli che la sentono: è un loro diritto. Se io visito una moschea, non prego Allah ma mi levo le scarpe. Ciò detto, una cultura deve portare l’uomo a rispettare gli altri, se lo porta ad offenderli è sbagliata. E una religione deve portare l’uomo ad amare gli altri, se lo porta a ucciderli è sbagliata.

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LA NON-BANALITÀ DEL MALE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/09/26/la-non-banalita-del-male/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/09/26/la-non-banalita-del-male/#comments Fri, 26 Sep 2014 15:40:20 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6438 La nuova puntata de “Il sottosuolo”di Ferdinando Camon è dedicata a una contestazione della formula “banalità del male” usata dalla filosofa e scrittrice tedesca Hannah Arendt (nella foto a sinistra) con riferimento al gerarca nazista Adolf Eichmann.

Massimo Maugeri

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LA NON-BANALITÀ DEL MALE

di Ferdinando Camon

ferdinando-camonAlcuni di noi (mi ci metto in mezzo) hanno sempre avuto qualche riserva sulla formula “banalità del male”, con cui Hannah Arendt definiva il sistema etico-culturale che guidava il lavoro di Adolf Eichmann. Ci sembrava una formula riduttiva. La “banalità del male” banalizza il male. Lo riduce. Toglie a quel male le dimensioni epocali che ne fanno un unicum nella storia. Si è discusso sul concetto di unicum, qualcuno ha osservato che ci sono stati altri grandi massacri. Sì, ma non come questo: questo voleva eliminare una “razza”, cioè modificare la composizione dell’umanità. Hannah Arendt ha coniato quella formula studiando Eichmann al processo, e osservandolo da vicino. Imperturbabile e pignolo. Un automa. Un ottuso. Che ha l’aria di non capire quello che ha fatto. Eppure, ha visto le gasazioni in atto, e (dice nel processo) non gli son piaciute, ma (nella vita) ha continuato come prima. Per inerzia. Atonia morale. La Arendt mandava gli appunti del processo al giornale che l’aveva inviata (“The New Yorker”), e “la banalità del male” fu la formula riassuntiva sull’imputato, il suo cervello, il suo sistema. Da noi quello è il titolo (da Feltrinelli) del libro della Arendt.
Adesso quella tesi viene contestata da un altro libro, appena uscito negli Stati Uniti. Poiché il titolo originale del libro della Arendt è “Eichmann in Jerusalem”, Eichmann al processo, l’autrice tedesca Bettina Stangneth intitola il suo libro di risposta “Eichmann before Jerusalem”, com’era Eichmann prima del processo. In Italia ne dà notizia il “Foglio”. Sono titoli che dicono tutto. Eichmann catturato e portato in processo era un uomo dimesso, dalle risposte flebili, dallo sguardo braccato, dagli occhietti sfuggenti, spaventato dalla prospettiva dell’impiccagione, ineluttabile fin dall’inizio. Ha tutto l’interesse a presentarsi come “stupido”. Ma questo non è l’Eichmann che “ha fatto la storia”. È l’Eichmann che “esce dalla storia”. Esce banalmente, cercando una scappatoia che non c’è. Ma quando ha fatto la storia non era così.
Per vedere bene Eichmann e tutti gli altri che han lavorato con lui o sopra di lui (lui era solo un tenente colonnello) non bisogna collocarli sullo sfondo di un tribunale dove sono imputati. Loro non c’entrano con quello sfondo. Sono lì per errore, fallimento, sconfitta. Contro la loro volontà. La loro storia, la loro vita, la loro volontà li colloca su un altro sfondo, ed è da questo che ricevono la giusta luce per essere osservati e capiti. Tutti noi che abbiamo visto questo sfondo, vi abbiamo immaginato loro. Basta aver visto, nella sala del comando di un lager, le pareti piene di simboli, stella gialla, rettangolo rosso, rettangolo nero…, che i prigionieri portavano sul petto. Rivelano la vastità dell’impero, e delle “razze” che lo componevano. Guardandoli capisci che chi comandava l’impero, che fosse lì o a Berlino, doveva essere un artefice intelligente e attivo del meccanismo, non un esecutore ottuso. Se un meccanismo così gigantesco fosse stato gestito da funzionari ottusi, come vuol apparire Eichmann, atoni inintelligenti carrieristi, non avrebbe funzionato. C’è intelligenza, in quel funzionamento. Maligna, diabolica, ma c’è. Guardiamo su una carta il reticolare intrico dei binari che portavano là… Il numero dei campi sparsi per l’Europa… I numeri delle vittime, milioni dal Sud Europa, milioni dall’Est… I reparti che facevano quelle cose, i volontari che s’arruolavano in massa, la fedeltà che mantenevano fino all’ultimo… “Quel che ci vien chiesto è di essere sovrumanamente inumani” spiegava Himmler. Quelli che gli hanno obbedito cercano poi, nei processi (Eichmann non è il solo) di nascondere la “sovrumana inumanità” sotto un’apparente stupidità. È la loro ultima astuzia.

(“Avvenire” 21 settembre 2014)

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VIVERE SIGNIFICA AMMAZZARE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/07/30/vivere-significa-ammazzare/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/07/30/vivere-significa-ammazzare/#comments Wed, 30 Jul 2014 15:00:01 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6335 La nuova puntata de “Il sottosuolo”di Ferdinando Camon è dedicata ai seguenti volumi di Ernst Jünger

- La battaglia come esperienza interiore, trad. Simone Buttazzi, Piano B edizioni, 2014, pagg. 140, euro 13

- Nelle tempeste d’acciaio, introd. Giorgio Zampa, trad. Giorgio Zampaglione, Guanda, ristampa 2014

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ferdinando-camonVIVERE SIGNIFICA AMMAZZARE

di Ferdinando Camon

L’oscena bestemmia sta a pagina 57 e spande una luce lugubre sul resto del libro e sugli altri libri di questo grande autore. Suona così: “Vivere significa ammazzare”. Se non ammazzi non vivi. La gioia dell’esistenza si ha nel corpo-a-corpo col nemico, quando lo infilzi con la baionetta o gli tagli la gola o lo sbricioli con una bomba a mano. La gioia del soldato sta nel “vedere” il nemico mentre muore, o nel contemplare il suo corpo appena morto. Non devi odiarlo per questo. L’odio è umano, ma il soldato che uccide è super-umano, è un dio. Quando il nemico esce di notte dalla sua trincea e protetto dal buio striscia fin sotto i tuoi reticolati, e con la pinza li taglia facendo quel rumore secco, clic clic, che pare un topo che rode, i tuoi soldati si stringono intorno a te e godono di sentire quegli scricchiolii come il gatto gode nel sentire i topi a portata di unghie. D’improvviso tutti sparano sul rumore, fucili mitragliatrici e bombe a mano, tu ami le bombe a mano perché sono un prolungamento del tuo pugno, e dopo la sparatoria è bello esaminare i morti sbrindellati, tu controlli i loro stivali, se qualcuno ha gli stivali eleganti e puliti quello è un ufficiale, e la tua gioia raddoppia. Fai delle scoperte. A volte un proiettile s’infila tra i sacchetti di sabbia e trapassa un cranio, dal cranio esce sangue all’infinito, come mai? Ci sono così tante vene nella testa? La guerra è l’habitat del vero uomo, e nella guerra il momento-clou è l’assalto. Se l’assalto è lungo 100 metri, in quei 100 metri succede questo: “Corriamo. I colpi si fondono l’uno con l’altro sempre più in fretta, sempre più furiosi, affondando in un ruggito crescente. Il terreno ondeggia, l’aria soffocante impregnata di gas e putrefazione ci arriva in faccia a ondate. Zolle di terra si schiantano contro gli elmi, le schegge risuonano contro le armi. Si ode forte e chiaro ogni volta che un pezzo di ferro stacca un trancio di carne umana. Ai nostri piedi, ai bordi del sentiero giacciono i morti, spettrali bambole di cera nella luce fioca, gli arti stranamente slogati. Una cassa toracica affonda, tenera come un mantice, sotto il mio stivale chiodato”. Tu non uccidi perché eseguì un ordine, ma perché sei nato per uccidere. La pace camuffava il tuo istinto, la guerra lo rivela. La pace è menzogna, la guerra è verità. Dalla tua trincea, spii e ascolti la trincea nemica, è la tua ossessione, prenderla e sterminarla: “Nelle notti silenziose il vento ci portava voci, colpi di tosse, battiti, martellate e un lontano, sconnesso rumore di ruote. Al che ci coglieva un sentimento singolare, tristo e bramoso, come quello di un cacciatore che, in una radura della giungla, fa la posta a una bestia oscena ed enigmatica”. Finalmente tradotto in italiano, da un piccolo meritevole editore, questo smilzo libretto di meditazioni rivela il lato profondo e oscuro di Jünger, ammirabile ma disamabile. Per lui non è importante “perché” si combatte, ma “come” si combatte. La guerra è nostra madre e nostra figlia. Ci forgia come vuole, e noi la forgiamo come vogliamo. Guardando i soldati che scavano fosse senza far rumore, sincronizzano gli orologi fosforescenti, individuano i punti cardinali dalla posizione degli astri, pensi: “È questo l’uomo nuovo, il pioniere della tempesta, il fior fiore della Mitteleuropa”. Nato per vincere, anzi per trionfare. Per segnare un’epoca. Dominarla. A cominciare dalla Grande Vittoria in questa Grande Guerra.
Noi italiani leggiamo questo libro, grandioso e terribile, sentendoci prede. In quanto latini, come i gallici, stiamo per essere sbranati dall’autore germanico. Il libro si chiude con la preparazione di un assalto nel 1918: i tedeschi stanno per saltar fuori dalla trincea e piombarci addosso. È la fine. Non avranno pietà, sarebbe viltà. Non odiano nessuno di noi, vogliono soltanto ammazzarci tutti.
Domanda: come mai non è andata così? Come mai hanno perso? Di fronte avevano popoli che non godevano ad ammazzare, ma a non essere ammazzati. Forse conta qualcosa anche il perché si combatte? Forse la battaglia non è soltanto un’esperienza interiore, ma ha a che fare anche col tuo paese, la tua casa, la tua famiglia, la tua libertà?
La battaglia come istinto (mangi il nemico perché hai fame) Jünger l’aveva appena raccontata in uno dei capolavori assoluti della letteratura di guerra: “Nelle tempeste d’acciaio”, che ora Guanda ripropone. Noi abbiamo un nostro capolavoro da contrapporgli, “Un anno sull’Altipiano” di Emilio Lussu. In Lussu la guerra è il martirio dell’obbedienza, in Junger è la volontà di potenza. Lussu sta nelle trincee, Junger nei bunker. In Lussu ci piovono addosso ondate di assaltatori, in Jünger bordate d’artiglieria. C’è una pagina lirica-grottesca qui nell’”Esperienza interiore”, racconta soldati tedeschi che irrompono in una casa francese sventrata e in quel momento scatta un carillon. Ascoltando inebetiti il dolcissimo e ridicolo suono, i soldati si domandano: ma dunque è esistito un tempo che si chiamava pace? Nelle “Tempeste d’acciaio” il protagonista cammina da solo in piena notte sul campo dove s’è combattuta una battaglia, e sente da ogni parte rumoreggiare i corpi dei morti da cui la putrefazione libera il gas. Ascolta la macabra sinfonia. Che lui perdesse, non era interesse degli altri, ma anche suo. Dell’umanità. Scrivendo l”Esperienza interiore” vien da pensare che Junger lanciasse all’umanità un avvertimento: abbiamo perso ma non ri-perderemo, preparatevi alla sottomissione. Han riperso. Grandioso, terribile e indimenticabile, ma sbagliato nella sua essenza il sistema di Jünger: vivere non significa ammazzare, perché ammazzare significa ammazzarsi.

(“La Stampa-Tuttolibri” – 12 luglio 2014)

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DRIEU LA ROCHELLE, grande scrittore, grande canaglia http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/05/31/drieu-la-rochelle-grande-scrittore-grande-canaglia/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/05/31/drieu-la-rochelle-grande-scrittore-grande-canaglia/#comments Sat, 31 May 2014 09:16:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6167 La nuova puntata de “Il sottosuolo”di Ferdinando Camon è dedicata al volume La commedia di Charleroi di Pierre Drieu La Rochelle (Fazi editore).

“Sono partito, non sono più ritornato, questa volta”. Così chiude l’ultimo racconto di questa raccolta, scritta nel 1934, che ci svela il senso della guerra per Drieu La Rochelle: l’impossibilità di fare ritorno alle commedie della vita civile dopo aver provato il disgusto e l’ebbrezza del grande conflitto del ‘14-’18, che la tecnica ha reso ancor più disumano. Eroismo e viltà, esaltazione e disincanto, ideologia e cinismo si confondono nei personaggi della “Commedia, che narrano la loro esperienza sapendo di non poter essere creduti da chi nella pace è ansioso di ritrovare soprattutto le proprie illusioni. Come la signora Pragen, la borghese arricchita del primo racconto, che cerca le tracce del figlio sul campo di Charleroi, ma fugge la realtà di una guerra che, nei massacri di massa, ha perso anche le sue retoriche e le sue finzioni romantiche. E gli uomini che hanno vissuto il furore delle trincee sono già quelli che, incapaci di abbracciare una condizione diversa dallo stato d’eccezione, andranno a popolare le grandi mobilitazioni totalitarie del Novecento. In questo senso “La commedia di Charleroi”, con la sua lingua intensa, oscillante tra lucidità e follia, è emblematica di uno scrittore che, al di là di ogni etichetta politica, ha fatto della propria opera e della propria sofferenza la testimonianza tragica del disagio di un’intera generazione. Introduzione di Attilio Scarpellini.

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ferdinando-camonDRIEU LA ROCHELLE, grande scrittore, grande canaglia

di Ferdinando Camon

Ora che l’ho letto, il libro è zeppo di note a matita, a bordo pagina, che dicono: “Acuto”, “Sincero”, ma anche: “Canaglia”, con riferimento all’autore. Chi mi legge vorrà sapere subito quand’è che dico “canaglia”. Beh, spesso. Questo è un libro sulla guerra, la prima guerra mondiale, testimonianze, rievocazioni, ragionamenti. Le testimonianze sono grandiose e inobliabili: l’autore è un testimone personale, ha visto tutto, a Charleroi, in Belgio, quando noi italiani non eravamo ancora entrati in guerra, e a Verdun, che sta alla prima guerra mondiale come Stalingrado sta alla seconda. Ha visto le carneficine preannunciate dai colpi di obice, poi meticolosamente realizzate quando i reparti andavano all’assalto scoperti e venivano centrati dalle due armi-regine: i cannoni e le mitragliatrici. Ha camminato sulle trincee coperte di pezzi di soldati, braccia, gambe, teste. Dunque, “sa” cos’è la guerra. Non la guerra teorizzata dagli Alti Comandi sulle carte topografiche, o quella sterile e asettica dei bollettini: no, lui sa, per averla vista e toccata, cos’è la guerra di prima linea, lo sbranamento dei reparti, il vegliare-dormire-morire con l’incubo di non sapere mai in quale dei tre stadi ti trovi. E allora dà ribrezzo sentirlo dire che lui “ama la guerra”, che “l’uomo è fatto per la guerra”, che “l’uomo ha bisogno della guerra come di una donna”, “l’uomo non può fare a meno della guerra, più di quanto possa fare a meno dell’amore”, “una persona civile mostra il suo amore per la civiltà aderendo a tutto il contenuto di questa espressione, aderendo allo stato di guerra permanente, se si accetta la patria si accetta la guerra, chi ama la patria ama la guerra”. È vero, c’è guerra e guerra. L’autore ama la guerra, ma non quella che sta combattendo, e quella che sarebbe venuta dopo. Non ama le guerre “meccaniche”, dove la vittoria non dipende dai soldati e dalla loro volontà di andare fino in fondo, ma dalle industrie e dalla loro capacità si sfornare cannoni e mitragliatrici. Ama la guerra degli eroi, non la guerra delle economie. Ma c’è qualcosa di fascista, in questo amore. Qualcosa di nazista. Molto più tardi, come tutti sapete, finita la seconda guerra mondiale, l’autore morirà suicida, mentre si preparavano a processarlo per adesione al nazismo. Ma il suicidio era una subliminale tentazione perenne in lui. È suo Fuoco fatuo, racconto di un suicidio come gesto che dà un senso retroattivo alla vita, libro-capolavoro da cui Luis Malle trasse il film-capolavoro omonimo.
Questa Commedia di Charleroi ci ricorda molte cose che non sapevamo. Credevamo di saper tutto, della prima guerra mondiale, ma abbiano perduto la cosa più importante: il clima, l’atmosfera, le ideologie, le motivazioni culturali, morali, spirituali, filosofiche che la sostenevano. Anche quel clima la rendeva inevitabile. La Rochelle ci fa capire non “perché quella guerra è scoppiata” (questo ce lo dicono gli storici), ma “perché non poteva non scoppiare, e, una volta scoppiata, non poteva non durare a lungo”. La vecchia Europa era un corpaccio pieno di sangue marcio, doveva dissanguarsi fino all’ultima goccia, perché nelle sue vene s’immettesse sangue nuovo. La struttura a cui La Rochelle appende i suoi ragionamenti è elementare. Il libro è tutto in prima persona. Comincia con l’io narrante che accompagna come segretario sui campi di battaglia di Charleroi una madre, la signora Pragen,  che vi ha perduto il figlio, Claude, e vuol ritrovare il suo corpo. Prosegue rievocando altri incontri e dialoghi, tra cui memorabile quello con un disertore, esatto opposto di La Rochelle, in quanto sostiene che bisogna scappare dai luoghi dove si muore, non c’è niente per cui valga la pena di morire. Quando il narratore rievoca le battaglie e le stragi, quella di Charleroi e quella di Verdun, non si capisce mai se in quelle battaglie ci sono colpe o errori. Forse, e questo a tratti è anche il pensiero di La Rochelle, colpa o errore è la battaglia in sé. Noi italiani, quando pensiamo ad attacchi assurdi dal punto di vista militare e criminosi dal punto di vista giuridico, pensiamo agli attacchi “da sotto in su” ordinati da Cadorna, petti nudi contro le mitragliatrici: condanne a morte di interi reparti. Drieu La Rochelle ha qualcosa di analogo da testimoniare, ed è “la testuggine”. Ascoltatelo: “I nostri favolosi generali avevano escogitato una stupefacente buffonata: la testuggine. Quell’invenzione costituiva il singolare tentativo di difendersi dai flagelli moderni con i metodi dell’antica Roma. Ci si stringeva gli uni agli altri, in quaranta o cinquanta (mia nota: un plotone), inarcando le schiene. E tutti i nostri zaini, fianco a fianco, creavano una sorta di pavimentazione a prova di scheggia. Ma non di granata. Con questo sistema, i tedeschi potevano fare quaranta o cinquanta vittime con un colpo solo”. No, non c’è niente da salvare, in questa guerra. Bravo, acuto, sincero Drieu La Rochelle. Ma, con la sua snobistica esaltazione del “male”, che canaglia!

(“La Stampa-Tuttolibri” – 24 maggio 2014)

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ROMA SPROFONDA IN ITALIA, MA VINCE NEL MONDO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/03/04/roma-sprofonda-in-italia-ma-vince-nel-mondo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/03/04/roma-sprofonda-in-italia-ma-vince-nel-mondo/#comments Tue, 04 Mar 2014 18:38:01 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5949 La nuova puntata de “Il sottosuolo”di Ferdinando Camon riguarda il film “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, fresco vincitore dell’Oscar come miglior film straniero (qui, l’omaggio di Letteratitudine) e…
…la città di Roma.

Di seguito, l’opinione di Camon.

Massimo Maugeri

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ferdinando-camonROMA SPROFONDA IN ITALIA, MA VINCE NEL MONDO

di Ferdinando Camon

Romano-napoletano al 100 per 100, “La Grande Bellezza” ha vinto il più mondiale dei premi, l’Oscar, e adesso tutti quelli che non l’han visto correranno a vederlo. E questa è decadenza, ignoranza artistica, mancanza di autonomia culturale, di cervello. Proprio quello che il film denuncia. Non si va a vedere un film perché ha vinto un premio, ma perché è un grande film o tratta un grande tema. “La Grande Bellezza” non è un grande film, ma tratta un grande tema, e il grande tema è Roma. Non è il film che ha vinto l’Oscar, è Roma. La capitale più gloriosa e corrotta, splendida e lurida, mistica e postribolare, piena di storia e di miseria ad ogni metro. Esci dalla stazione Termini e dopo 80 metri t’imbatti nelle mura di Tarquinio e Servio, sei secoli prima di Cristo, ma se non stai attento sbatti le scarpe sulla testa dei barboni insaccati dentro i cartoni, gli sbucci il cranio e loro non protestano, non sanno neanche se sono vivi o morti. L’umanità variopinta che incontri dalla stazione Termini al Colosseo o a San Pietro riunisce tutto il peggio e una particella del meglio dell’umanità. Ricchi sfondati che non hanno mai lavorato per nessuno e hanno sempre fregato tutti, puttane moleste che si offrono di sera e di mattina, politici che sono razzialmente diversi dagli umani, lavoratori dei ministeri e delle partecipate, dipendenti o impiegati che non hanno mai visto un padrone, una fabbrica, un orario, un cartellino da timbrare. Per questa umanità che sembra discesa pari pari dalla decadenza di un impero mondiale morto 1500 anni fa, tutto ciò per cui il resto dell’umanità vive soffre o gode è diverso, da Dio al sesso, dal denaro alla morte, dalla santità al puttanesimo. La vita è “dolce” se è senza etica, senza Dio, senza valori, se tu uomo animato vivi come un animale senz’anima: lo sapeva Fellini e la sua “Dolce vita” è un film disperato e straziante, un pianto o un urlo, lo sa Sorrentino e la sua “Grande Bellezza” è un film cinico e irridente, ateo e miscredente, bello di una bellezza di plastica, che oggi è l’unica vera natura. Perfino Sabrina Ferilli sembra di plastica, come una bambola gonfiabile, dalle misure standard. Per non parlare del protagonista Jep Gambardella, che approda a Roma a ventisei anni, stessa età in cui vi giunse Fellini, solo che Fellini era un provinciale e imparava tutto, mentre Jep sa già tutto. Fellini veniva da Rimini, più a Nord, Jep viene dal Vomero e da Posillipo, più a Sud, ed è un dandy, che è il Superuomo nell’incarnazione della decadenza italiana. Lezioso, danaroso, viveur da salotti e terrazze, che a Roma significa vista sul Colosseo. Sotto la vista del Colosseo, dove venti secoli ti guardano, si gode, che non significa più si scopa ma si sniffa, la dea che ti porta sulle sue ali dalla vita mondana alla super-vita extra-sensoriale è la cocaina, tu la tiri su per il naso e lei ti tira su nel mondo dove sei quel che vuoi. La terrazza con vista sul Colosseo è un incrocio di vite, da qualunque parte vengano i protagonisti minori passano di lì. Verdone buffo e sbruffone più del solito, il guru del botulino sempre con la siringa in mano, la missionaria santa, che ti domandi se è vera o falsa, e non sai quale scegliere, la girandola di artisti che vanno a Roma per sentirsi artisti, i prelati di cui Roma è piena, e per cui è la Città Santa ma querelata dai tribunali di mezzo mondo. Si ballano balli frenetici dal ritmo duro, stordenti come un’altra droga, per cui la folla degli ospiti ondeggia su e giù come sugheri sul mare. Lo scopo della vita è “la festa”, per cui si vive se si va alla festa, ma si super-vive se si è padroni della festa: Jep dichiara “volevo il potere di fare le feste e farle fallire”, che è come dire godere e rovinare il godimento agli altri. Quando dalla terrazza s’inquadra il Colosseo, non capisci se la Grande Bellezza è quella di venti secoli fa o questa di oggi, o il trapasso da quella a questa, o la convivenza delle due. A Los Angeles i premi più importanti per il cinema, i produttori, i registi, gli attori si assegnano nel teatro più kitsch e nella strada più pacchiana del mondo. Si vince se si ha la “forza” di vincere, forza mediatica, mitica, strategica. Roma ha questa forza. Abbiamo vinto per merito di Roma. Una capitale che all’estero esercita un fascino immenso che noi non sentiamo più perché siamo depressi, smemorati, drogati di nullismo. Le città che nel mondo hanno un decimo dell’arte che ha Roma, richiamano turisti dieci volte più di Roma. E lo stesso vale per Napoli, Amalfi, Pompei, Agrigento, Firenze, Venezia… Il nostro Paese è zavorrato di problemi che lo fanno sprofondare. Ma la colpa non è del paese. È nostra.

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DOVE SEPPELLIRE PRIEBKE? http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/10/16/dove-seppellire-priebke/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/10/16/dove-seppellire-priebke/#comments Wed, 16 Oct 2013 15:50:20 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5542 La nuova puntata deIl sottosuolodi Ferdinando Camon riguarda la attualissima e scottante “questione Priekbe” e le problematiche a essa collegate.

Di seguito, l’opinione di Camon.

Massimo Maugeri

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DOVE SEPPELLIRE PRIEBKE?

ferdinando-camondi Ferdinando Camon

Su Priebke corrono molti equivoci, ed è bene chiarirli subito. Non era un soldato. Le SS non erano soldati, erano una milizia del nazismo. Che il nazismo nascesse con intenti criminali, era chiaro prima che nascesse, perché prima di prendere il potere Hitler aveva pubblicato in un libro il suo programma. Nel libro c’è tutto. Distruzione degli ebrei, divisione dell’umanità in razze, soppressione delle razze inferiori, guerra all’est, cancellazione del Cristianesimo e del suo amore per i deboli e i perdenti, imposizione del diritto del più forte… Tutto. Priebke lo sapeva? Ma certo. Priebke fu tra i primissimi a iscriversi al neonato partito nazista. Faceva il cameriere a Rapallo quando sentì nascere il partito nazista, mollò tutto e corse in Germania a iscriversi. Fu un iscritto della primissima ora. Come mai in tanti anni diventò soltanto capitano? Per chi non lo sa, capitano è un grado bassissimo, appena sopra il tenente. Evidentemente, Priekbe era stupido. La sua qualità era l’obbedienza. Ma che cos’è l’obbedienza? È la dote di chi rispetta gli ordini? Tutti dicono così, ma non è così. Un tribunale italiano ha perfino assolto (o scarcerato) Priebke su questa base, ma ha sbagliato. La perfetta obbedienza sta nel condividere l’ordine prima che venga impartito, e nell’eseguirlo con volontarietà, non recalcitrando. Priebke era così ben disposto a massacrare i prigionieri delle Ardeatine, che doveva ammazzarne 330 e arrivò a 335. Lui ripeteva: “Personalmente, non ho ucciso nessuno”. È falso. Anche se non fosse falso, sarebbe inaccettabile lo stesso, perché dare l’ordine di uccidere significa uccidere. Ma poi dentro le Fosse successe questo: molti soldati tedeschi, al momento di sparare in testa ai prigionieri legati col fil di ferro e urlanti, vomitavano o tremavano o svenivano. Bisognava che l’ufficiale desse l’esempio e sparasse lui. Priebke lo fece. Visto l’esempio del loro capitano, i soldati prendevano coraggio e ammazzavano per alcuni minuti. Poi di nuovo tremavano e vomitavano. Bisognava ridare l’esempio. Il capitano Priebke lo ridiede. Quante volte? Lui dice: “Solo due”. Con ogni probabilità furono molte di più. Ma che importanza ha? Chi dava gli ordini, era un assassino di prigionieri. E chi entrava volontariamente nelle SS, dichiarava la propria disponibilità ad eseguire gli ordini che avrebbe ricevuto in futuro, tutti gli ordini, senza eccezione. Non si deve dire: “Gli ordini di Hitler erano mostruosi, ma le SS non potevano che obbedire”. Il discorso va capovolto: le SS erano pronte a obbedire, perciò arrivavano ordini mostruosi. Il motto della SS (la sigla vuol dire “staffette di sicurezza”) era: “Il suo onore si chiama fedeltà”. Se impicca o fucila o brucia per fedeltà al Capo, conserva il suo onore. Che una società, una cultura, un’ideologia abbiano costruito un uomo intorno a questa etica, l’obbedienza al Male come se fosse il Bene, è un immenso problema storico, non risolto. Per cinquant’anni si è creduto che fosse tutta colpa del Führer. Il Führer scuoteva il Popolo come la tempesta scuote il mare. Ma non è vero. Il caso Priebke lo dimostra. Il Führer è morto da settant’anni, il nazismo è scomparso con lui, ma Priebke è ancora un perfetto nazista, non si è mai pentito, nel testamento ripete che quel che ha fatto lo rifarebbe. Coloro che l’ammirano, che gli lasciano scritte di devozione sulla casa, che se vien sepolto a Roma vanno al funerale cantando e piangendo, non è che “chiudano un occhio” sulla strage, è che “approvano” quella strage. A suo tempo l’avrebbero eseguita. Se si ripete oggi, sono pronti ad eseguirla. Eppure la lezione della Storia è stata durissima, se non l’hanno capita non capiranno mai niente. Sono chiusi in un mondo separato. Il cadavere di Priebke fa parte del loro mondo, se lo seppelliscano tra di loro, non tra noi. Roma non vuole il funerale, e ha diritto di non volerlo: tutta Roma fu insanguinata dalla strage che lui ha compiuto. La Chiesa Cattolica non vuole la salma, e ha il diritto di non volerla, in nessun luogo sacro. C’è un cimitero di guerra tedesco a Pomezia, dove ci sono altri criminali di guerra, ma il sindaco di Pomezia non vuole il cadavere di Priebke, evidentemente il sindaco ritiene che la criminosità di Priebke supera il livello ammissibile. È un suon diritto. E allora, a chi consegnare il corpo di Priebke? Chi resta? Ma la madre, naturalmente. La Grande Madre Germania. È lei che l’ha partorito, l’ha allattato, l’ha educato, l’ha fatto capitano. Sia restituito in grembo alla Grande Madre. Se neanche lei lo vuole, allora sia bruciato, ridotto in cenere e sparso nei mari. Nei mari incontrerà il caro camerata Eichmann. Tra loro s’intenderanno.

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[articolo pubblicato sui quotidiani locali del Gruppo "Espresso-Repubblica"]

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SUICIDIO DI LIZZANI. A 90 ANNI È MEGLIO MORIRE? http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/10/07/suicidio-di-lizzani/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/10/07/suicidio-di-lizzani/#comments Mon, 07 Oct 2013 17:59:55 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5488 La nuova puntata deIl sottosuolodi Ferdinando Camon riguarda la recente scomparsa del regista Carlo Lizzani (morto il 6 ottobre) e affronta tematiche forti… sul vivere e sul morire.

Massimo Maugeri

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SUICIDIO DI LIZZANI. A 90 ANNI È MEGLIO MORIRE?

ferdinando-camondi Ferdinando Camon

Carlo Lizzani s’è buttato dal terzo piano ed è morto. Non sopportava più la vita? Ma aveva 91 anni, quanta vita aveva ancora da vivere? Pochissima. Ma anche quella pochissima ha voluto rifiutarla, non ce la faceva più. La stessa cosa è capitata a Mario Monicelli, per restare nel cinema. Monicelli aveva 95 anni quando si buttò dalle finestre della clinica dov’era ricoverato, aveva un cancro ed era appena stato operato. Malato, ultravecchio, non autosufficiente, comunista e ateo dichiarato, cosa gl’impediva di uccidersi? Niente. Ma Lizzani era con me tra gli ospiti di Ratzinger, i 250 artisti che il Papa aveva chiamato da tutto il mondo per incontrarli. Non è detto che fossero (che fossimo) tutti cristiani credenti, ma eravamo intellettuali (registi, attori, cantanti, scrittori…) che, se sentiamo parlare la Chiesa, non ci turiamo le orecchie. E tra le cose che abbiamo sentito, e che han segnato la nostra cultura, c’è la gravità del suicidio: gesto estremo, col quale “rifiuti di esistere”, ti sottrai alla famiglia, agli amici, all’umanità. Prima di farlo, t’interroghi migliaia di volte: cosa perdi? cosa guadagni?
A novant’anni non è che quel che può ancora darti la vita sia poco o niente, cioè un valore positivo prossimo allo zero, o lo zero addirittura. No, per gli uomini della quinta età (oltre i novanta), quel che la vita riserva è un valore negativo. Sotto lo zero. Soltanto sofferenze e umiliazioni. Hai bisogno di tutto e di tutti e non puoi più dare niente a nessuno. Se sei stato un grande (Lizzani è stato un grande, Monicelli è stato un grande), il ricordo della passata grandezza diventa un dolore lancinante quando ti accorgi che gli altri cominciano a dimenticarti. Si dice: la storia cambia e la vita si rinnova. Sì, ma mai come adesso. Adesso s’affaccia una nuova generazione di scrittori registi pittori, insomma artisti, ogni dieci anni. Sono feroci: vogliono prendere il tuo posto e seppellirti. Fanno cose diverse dalle tue, non capiscono le tue e tu non capisci le loro. Chi decide tra i due? Il pubblico e i media. Pubblico e media stanno sempre col nuovo, perché il nuovo è il loro cibo. Se ne nutrono e poi lo scartano, perché vanno alla ricerca di nuove novità. Cosa può confortare un artista che invecchia e aiutarlo a tirare avanti? Che le sue opere lo seguano. Se trent’anni prima ha scritto un grande libro, che il libro si ristampi ancora. Se ha diretto un grande film, che il film si proietti ancora, magari per gli studenti. Per l’artista che invecchia, non conta il successo di una volta, ma la durata attuale delle sue opere. Questa è il massimo che può avere. Dovrebbe bastare. Se a Monicelli e a Lizzani non è bastata, vuol dire che le amarezze della quinta età sono così mostruose, che prima di entrarci non possiamo neanche immaginarle. Ormai prolunghiamo troppo la vita. Rischiamo che l’ultimo tratto non sia più vivibile.

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[articolo pubblicato sul quotidiano "La Stampa"]

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AMARSI TRA PROFESSORI E STUDENTESSE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/09/16/amarsi-tra-professori-e-studentesse/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/09/16/amarsi-tra-professori-e-studentesse/#comments Mon, 16 Sep 2013 14:41:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5423 ferdinando-camonLa nuova puntata deIl sottosuolodi Ferdinando Camon è in qualche modo legata allo spazio di Letteratitudine dedicato alla scuola: Letteratitudine chiama scuola. Il tema è piuttosto delicato: “amarsi tra professori e studentesse”.

Massimo Maugeri

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AMARSI TRA PROFESSORI E STUDENTESSE

di Ferdinando Camon

Le famiglie pensano che nelle classi c’è di tutto, tranne amori e innamoramenti: e invece è tutta una rete intricata di relazioni felici o infelici, gelosie, sospiri, sogni. Sedendosi in cattedra, il professore guarda la classe e pensa: Questa è innamorata di quello, che però ama quell’altra, che di lui non vuol saperne. Per noi insegnanti, la cosa più importante dell’anno è lo svolgimento del programma. Per gli studenti, la cosa più importante è questa rete segreta di relazioni, come nascono, come c’intrecciano, come cambiano. È questa rete che li segna per la vita. Non si pensa mai a possibili relazioni tra studentesse e professori, perché, se ci sono, devono restare virtuali. Ora si scopre che a Saluzzo un professore di scuola media superiore aveva relazioni sessuali con un paio di studentesse. E si sta cercando di ricostruire il passaggio dal rapporto didattico, tra professore che consegna il mondo e studentesse che lo ricevono, a un rapporto erotico, lui che le ama e loro che lo amano. Pare una distanza infinita. Ma non lo è. Per la studentessa, provare sentimenti di attrazione e attaccamento verso il professore è un fenomeno di crescita. La studentessa che studia Dante o Petrarca o Leopardi li studia di più se ama chi glieli insegna. Fin qui, credo che il lettore mi segua. Dove temo che mi abbandoni è un passo dopo: quando dico che il rapporto insegnante-allievo non è molto dissimile dal rapporto psicanalista-paziente. Certo, l’allievo non è un paziente, ma neanche chi va in analisi lo è. È semplicemente uno che vuole capirsi e, se possibile, cambiarsi, migliorarsi. Si crede sempre che questo risultato si ottenga con l’intelligenza, col ragionamento, in un lavoro d’interpretazione in gara con l’analista. Anche Freud, per molti anni, lo credeva. A un certo punto si accorse che nelle analisi che lui conduceva saltava fuori sempre una sorpresa: la donna in analisi s’innamorava di lui, cioè sviluppava per lui quel sentimento di attrazione, sudditanza, sommissione, amore che si chiama “transfert”. Una passione fortissima, che assorbe e annulla ogni altro sentimento. Per anni Freud considerò il transfert un ostacolo, una “resistenza”. Credeva che bisognasse distruggere la resistenza. Sbagliava. La donna che s’innamora dell’analista non va rimproverata o scacciata, e naturalmente non va sposata, ma studiata e capìta. L’innamoramento della paziente per l’analista è un formidabile strumento di comprensione. Colui che va in analisi ricrea nel transfert i sentimenti di dipendenza e di sudditanza (verso la madre, il padre, il capo, il padrone…) che hanno segnato la sua vita, e analizzando il transfert in realtà si analizza la sua vita. Se l’analista cede all’innamoramento della paziente e la sposa, l’analisi muore. E così la studentessa che s’innamora del professore: mostra un bisogno e una volontà di crescita, di maturazione, di valorizzazione, è il suo modo di diventare donna, e il professore dovrebbe guidare questa crescita, non approfittarne. C’è una distanza tra la poltrona dell’analista e il lettino della paziente. Su quella distanza poggia l’analisi. C’è una distanza tra banco e cattedra. Su quella distanza poggia l’insegnamento. Se distruggi quella distanza, distruggi l’insegnamento. Le studentesse “devono” innamorarsi del professore, il professore di cui le studentesse non s’innamorano è un cattivo professore, ma il professore non deve innamorarsi delle studentesse, se s’innamora delle studentesse è un cattivo professore.

[articolo pubblicato sul quotidiano "La Stampa"]

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MUNCH URLA E KIRKEGAARD TREMA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/06/04/munch-urla-e-kirkegaard-trema/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/06/04/munch-urla-e-kirkegaard-trema/#comments Tue, 04 Jun 2013 21:18:28 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5259 ferdinando-camonLa nuova puntata deIl sottosuolo di Ferdinando Camon… tra Munch e Kirkegaard .

Massimo Maugeri

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MUNCH URLA E KIRKEGAARD TREMA

di Ferdinando Camon

In questi giorni si apre in Europa una serie di mostre delle opere di Edvard Munch, in Norvegia (dove il pittore nacque 150 anni fa), in Svezia, Svizzera, Italia (Venezia e Genova). Rivedremo più volte sui giornali le varie versioni dell’“Urlo”, il suo quadro più famoso. Rivedremo “La Disperazione”, “La fanciulla malata”, “Il Vampiro”, gli autoritratti. Sarà un’immersione nell’angoscia. Perché tanta angoscia? Perché così spesso la morte e la disperazione? Cosa c’è nel suo mondo? E cosa manca?
“L’Urlo” è del 1893. Epoca cruciale nella cultura europea, la fine dell’Ottocento, perché sono gli anni in cui Freud pensava alla presenza nell’uomo di parti che l’uomo non conosce e non controlla. L’uomo non è tutto Io, cioè tutto coscienza. Compito dell’uomo è farsi coscienza, “dov’era l’Es, deve diventare l’Io”. L’uomo dell’”Urlo” ha visto qualcosa che lo spaventa. Visto, o intravisto. L’urlo non è rabbia o follia, ma spavento. L’uomo che urla è solo. Ci sono due figure alle sue spalle, due uomini che sembrano parlarsi, in ogni caso non han visto ciò che ha visto l’uomo urlante. Non c’è rapporto tra questo e quelli, non si forma gruppo, non c’è umanità. L’autore ha coscienza e memoria di come questo quadro gli è nato nella mente, e lo racconta, parlando di una visione: “Camminavo per la strada con due amici, il sole tramontava e il cielo si tinse di rosso sangue, mi fermai, mi appoggiai sfinito a un recinto, sul fiordo nerazzurro e sulla città schizzarono sangue e lingue di fuoco, i miei amici continuavano a camminare e io tremavo di paura e sentivo un grande urlo infinito nella natura”. L’uomo urlante ha appena visto la dissoluzione del mondo, la fine cosmica, la morte di tutto. Se è possibile, e io credo che sia possibile, una lettura in chiave fideistica dell’Urlo, l’Urlo è l’uomo che non ha nessuno, sta su un ponte, sotto di lui l’abisso, non vede salvezza. È possibile intendere l’urlo come un’invocazione. Un urlo per l’assenza di Dio e un’invocazione perché si presenti. Dico queste cose, e mi s’affacciano al cervello altre letture fideistiche di autori sedicenti atei: Moravia, per esempio, e Pasolini. Pasolini come cattolico che combatteva dalla parte avversa, per ragioni che Freud avrebbe potuto spiegargli. E lui ci andò, in analisi freudiana, ma quando “la cosa oscura” risaliva alla superficie ebbe paura e scappò. Per tutta la vita Moravia ha scritto di una borghesia senza-valori, quindi senza-Dio. Una vita buia, senza luce, puro istinto, sesso, denaro, e la morte come fine di tutto. Ma alla fine s’è accorto che la sua descrizione di un mondo vuoto era un’invocazione, e ha concluso dicendo (dicendomi, l’ho messo in un libretto, quando lui era ancora vivo): “Il Nulla dopo la morte non mi sta bene, mi sta bene il dubbio”. Il vuoto come richiamo, l’assenza come supplica. Forse è una mia stortura, ma ho sempre sentito questa invocazione anche nell’Urlo di Munch. L’uomo che urla è Munch stesso, urla perché ha paura della morte, urla perché è già morto, ha la testa che è un teschio, il corpo è molle e filamentoso, non è un corpo ma uno spirito, il centro pittorico del quadro è la bocca spalancata, da quella bocca escono le onde sonore dell’urlo che deformano ondularmente il paesaggio, come fanno in uno stagno le onde concentriche prodotte dal tonfo di una pietra. Si tende sempre a collegare Munch con Kirkegaard, e si fa di Kirkegaard il padre dell’Esistenzialismo. Ma nel suo pieno sviluppo l’Esistenzialismo era ateo, mentre il sistema di Kirkegaard è una sequenza di “timori e tremori” (titolo di un suo libro) che sono le onde irradiate da un Dio che dev’essere lì anche se lì non lo si vede. Munch non lo sente e urla, Kirkegaard lo sente e trema.

[articolo pubblicato su "Avvenire" del 4 giugno 2013]

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NOI OGGI CAMPIAMO TROPPO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/05/21/noi-oggi-campiamo-troppo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/05/21/noi-oggi-campiamo-troppo/#comments Tue, 21 May 2013 17:12:48 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5223 ferdinando-camonLa nuova puntata deIl sottosuolo di Ferdinando Camon… tra Carducci e “tempo-vita”.
Massimo Maugeri

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NOI OGGI CAMPIAMO TROPPO

di Ferdinando Camon

Sono nato lo stesso anno del Carducci, ma un secolo dopo: lui nel 1835, io nel 1935. Alla mia età lui era morto da un po’ di anni e questo significa che noi oggi campiamo molto. Troppo.
Da studente di liceo e d’università, e poi da insegnante, costruivo la mia vita su quella del Carducci: a tot anni lui pubblicava la prima opera, attenzione che il tempo s’avvicina, non lasciamoci sorpassare. L’addio alla poesia lui l’ha dato nel ‘96, quando pubblicò l’ultimo stornello, brevissimo, questo:

Fior tricolore,
tramontano le stelle in mezzo al mare,
e si spengono i canti entro il mio cuore.

Aveva 61 anni, e si sentiva spento. Oggi ci sono novantenni lucidi come i ventenni, e anche di più. Come mai però i nati nell’Ottocento ci sembrano tutti “grandi”, e i nati nel Novecento tutti piccoli? Perché gli scrittori nati nell’Ottocento nascevano crescevano e morivano nella stessa civiltà, le loro opere formavano un blocco coerente. Noi nati nel Novecento (e peggio ancora sarà per i nati nel Duemila) attraversiamo una civiltà dopo l’altra. Carducci è sempre lo stesso monocorde poeta, da Juvenilia a Rime e ritmi. È grande. Noi del Novecento siamo spezzettati in tante brevi esperienze, non possiamo essere grandi. Non abbiamo percorso una lunga strada dritta, ma tanti segmenti separati. Di conseguenza non siamo andati lontano. Carducci è nato col mito dell’Unità ed è morto con la monarchia, noi siamo nati con la monarchia e il fascismo, li abbiamo visti imperare e morire, abbiamo attraversato l’Italia della distruzione e della miseria, con un forte Cattolicesimo e un forte Comunismo, per decenni abbiamo pensato (sperato o temuto) che il Comunismo s’instaurasse anche in casa nostra, abbiamo visto il Sud e le Venezie svuotarsi per l’emigrazione verso il Triangolo Torino-Milano-Genova, Fiat e Olivetti guidare l’industrializzazione dell’Italia, il terrorismo minacciare la democrazia, il Partito Cattolico dominare e scomparire, sul Comunismo mondiale spegnersi la luce di Mosca. Il fondamentalismo, marxista o cattolico, ci copriva come una corazza. S’è squamato lasciandoci nudi come larve, mal protette da una peluria di psicanalisi. Carducci è nato, cresciuto e morto nel mito di Roma. Noi siamo stati sbalzati dall’Italia all’Europa. C’è entrato in casa l’Islam, che per il Carducci era un lontano folclore. Adesso alza moschee nelle nostre piazze. Avevamo in testa un sistema per cui, se uno era cattolico, non dialogava né col marxismo né con l’Islam: dialogare voleva dire tradire. Ora il buon cattolico, Papa in testa, dialoga con tutti. Pensavamo di lasciare ai nostri figli un mondo diviso in due parti, una con gli Stati Uniti e una con l’Unione Sovietica. Per il Carducci, Roma era ancora la Città Eterna, carica della gloria repubblicana-imperiale. Tra noi c’era chi pensava che Mosca fosse la seconda Roma, nuova luce del mondo, liberatrice dell’umanità. La seconda Roma è caduta in silenzio, da sola, e la Terza Roma, New York, sta per cadere. C’è chi va a Pechino e torna dicendo di aver visto la Quarta Roma. Da giovani avevamo poche idee ma solide, formavano un sistema, con quel sistema abbiamo vissuto per mezzo secolo.
Ci sentivamo sicuri, ci pareva di stringere in mano la “verità”. A settanta-ottant’anni abbiamo tante idee scollegate, non formano un sistema. Sappiamo di più, ma siamo più insicuri. Da giovani ci pareva che il senso del vivere stesse nel vivere per un valore, da anziani ci pare che il senso del vivere stia nel vivere e basta. Chi vive di meno, ha di meno. Carducci nel 1899 fu colpito da paralisi: la sua vita finisce lì. Nel 1906 ha vinto il Nobel e nel 1907 è morto. Fino al Duemila mi sembrava una vita invidiabile: vincere il Nobel nel 2006 e morire nel 2007. L’anno del mio Nobel, il 2006, è passato e non l’ho vinto. Ho dunque perduto? Devo invidiarlo? Piano: è passato anche il 2007, e non sono morto. A cambiare la mia vita con quella del Carducci non ci tengo più.

[articolo pubblicato su "La Stampa" - 18 maggio 2013]

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COCAINA MOTORE DEL MONDO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/05/01/cocaina-motore-del-mondo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/05/01/cocaina-motore-del-mondo/#comments Wed, 01 May 2013 11:45:57 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5181 ferdinando-camonLa nuova puntata deIl sottosuolo di Ferdinando Camon è dedicata al nuovo libro di Roberto Saviano: ZeroZeroZero (Feltrinelli).

Massimo Maugeri

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COCAINA MOTORE DEL MONDO

di Ferdinando Camon

Siamo immersi nella cocaina, la cocaina è la malattia del mondo e la spiegazione del mondo. Ricchezze, fortune, poteri, dinastie, carriere sono costruite sulla cocaina. Carriere nell’arte, nello spettacolo, nella medicina, nella politica. Ministri, governatori. Guardiamoci intorno: il medico che ci cura e ha centinaia di clienti di troppo, il chirurgo che ci opera e fa ore d’interventi in più, perfino il postino che suona alla porta, la prostituta che tira l’alba, il magnaccia che la protegge, il cliente che vuol trasformare la disperazione di lei nel proprio piacere, tutto va avanti a forza di cocaina. La cocaina è il motore del mondo e della storia, costruisce le miserabili vite che contengono le nostre miserabili esistenze, ma anche le storie dei potenti, che contengono le vite dei popoli. La cocaina ci salva nelle crisi, con la forza d’ala di un angelo. La cocaina ci distrugge tutti, con la maligna spietatezza di un demonio. I popoli la chiamano con nomi di paradiso e nomi d’interno. La cocaina fonda e mantiene imperi, gl’imperi multi-continentali dell’epoca che viviamo. I padroni della cocaina sono i padroni del mondo. Hanno oggi il potere che una volta avevano i Cesari, i Kaiser, gli Zar. È un potere basato sul denaro e sul delitto. La facilità che hanno i boss della droga nel costruirsi un impero è la facilità che hanno ad uccidere. Gli sgherri che tengono a servizio sono addestrati a uccidere per una sola ragione, punire chi sgarra. Ma anche per nessuna ragione, come animali o automi. Il delitto si autogiustifica: tu ammazzi, e non devi sapere perché. La cocaina spappola il cervello, ma lo beatifica. Spappolandolo e beatificandolo, lo stacca dal mondo e dalla vita. E questo spiega tutto: stiamo attraversando un’epoca in cui ciò che soprattutto desideriamo, ciò di cui abbiamo bisogno, è distruggere il collegamento con tutto e tutti, moglie figli casa lavoro città leggi e Dio, abbiamo bisogno di non pensare a nessuno, di essere una microscopica particella gaudente e incosciente. Questo fa la cocaina.
zerozerozeroChi la prende la prima volta, non la dimentica più. Ci pensa anche dormendo, lavorando, facendo sesso. È la nostalgia, dolcissima e straziante, di una felicità assoluta, e assoluta vuol dire sciolta da tutto. Perciò la cocaina è un bene. Saviano dice, in questo libro potente, vasto, brulicante, costruito come un delta ramificato in cento fiumi separati (ZeroZeroZero, Feltrinelli)), che la cocaina è “il bene”, in senso psicologico, antropologico, morale ed economico. Essendo un bene, ha un mercato. Avendo un mercato, ha una produzione. Essendo un bene-prodotto-venduto, ha un centro di produzione e i boss della produzione e dello smercio. Capire la cocaina vuol dire capire questo. Capire la cocaina vuol dire capire il Messico (Saviano lo sviscera in tutti i suoi traffici), e viceversa. Capire la criminalità messicana, guatemalteca (la più crudele, che uccide per godere), russa, e via scorrendo sulla superficie del mondo, ma anche, e soprattutto, italiana. La ‘ndrangheta. Saviano fa un quadro “epico” della ‘ndrangheta e dei suoi codici. Per i quali gli affiliati sono addestrati a uccidere e a morire per qualcosa che li scavalca: noi identifichiamo questo qualcosa con il male, ma loro ci vedono il test dell’essere uomini. Tu devi guardarti da tutti. Chi ha mangiato il pane con te ti ucciderà, fosse pure tua moglie o tuo figlio. Se non sei pronto a ucciderli tu per primo, non sarai mai un capo. C’è una grandezza maligna e funerea in tutto questo, ma è pur sempre grandezza. E la grandezza esercita un fascino. Saviano lo sente e (non so se sarà contento di sentirselo dire) lo trasmette. Usciamo dal libro barcollando, come drogati.

[articolo pubblicato sui quotidiani locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 11 aprile 2013]

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VUOI ESSERE UN UOMO? AMMAZZA UN ORSO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/04/15/vuoi-essere-un-uomo-ammazza-un-orso/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/04/15/vuoi-essere-un-uomo-ammazza-un-orso/#comments Mon, 15 Apr 2013 21:20:54 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5136 ferdinando-camonLa nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon abbraccia un argomento legato al romanzo “La pelle dell’orso” di Matteo Righetto (Guanda). Da domani, su LetteratitudineNews, sarà disponibile uno stralcio tratto da questo libro.
Massimo Maugeri

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Vuoi essere un uomo? Ammazza un orso

di Ferdinando Camon

Son tornate le linci, le volpi, le aquile, i lupi, e gli orsi. Prima 5-6 coppie di Orso Bruno liberate nei boschi del Bellunese e del Trentino, a ridosso dell’Austria; adesso si calcola che ce ne siano alcune decine. Vai per i sentieri della Val Zoldana, e sai che a destra e a sinistra ce n’è qualcuno: tu non vedi lui, ma lui vede te. Andar per monti non è più come vent’anni fa. Allora eri padrone dispotico, potevi perderti in un bosco e dormire tranquillo sotto gli alberi, sapevi che tutto ciò che si muoveva e respirava intorno a te aveva paura di te: intorno a te si stendeva il creato, così com’era uscito dalla mani del Creatore, e tu eri il re del creato. Beh, non lo sei più. Prendiamo proprio la Val Zoldana: esci dall’autostrada, arrivi a Forno, e lì un orso ha sbranato un asino; arrivi a Dont, e lì s’aggira un orso piccolo, chiamato perciò “orsetto”. Un altro, sopra Trento, ha tagliato la strada statale e ha sbattuto contro un’Alfa Romeo. Danni all’Alfa, ma lui è morto. La Val Zoldana è vicina all’area che il mondo conosce per la catastrofe del Vajont: la catastrofe avvenne di notte, al mattino i giornali nazionali non avevano la notizia, il “Gazzettino” sì, a caratteri mastodontici, mai visti caratteri così grandi, sembravano tagliati con lo scalpello. In stazione, all’alba presto, era un via-vai di lettori che correvano in edicola a cambiare i loro giornali nazionali col “Gazzettino”. Passo spesso di lì, e ogni volta mi domando: nascerà un nuovo scrittore, capace di raccontare la nuova Natura, la paura dell’uomo detronizzato, la grandezza del piccolo uomo che affronta la Grande Bestia? E la dolcezza materna di questi monti e di queste valli, dove ci sono uomini che parlano con i cani in lingua tedesca? Cani che sono lupi, allevati da piccoli.
D’improvviso, in silenzio, eccolo il romanzo della nuova Natura, delle bestie selvagge, degli orsi e specialmente del Grande Orso, soprannominato El Diàol. Il centro del racconto sta a Colle Santa Lucia, uno di quei paesi bellissimi che però t’ispirano un senso di allarme: visiti il cimitero, delizioso, e dalle epigrafi capisci che le due guerre mondiali per loro non sono cominciate nel ‘15 e nel ’40, ma nel ’14 e ’39. Nel ’15 erano i nostri nemici. È un’oasi di lingua ladina. L’orso Diàol sta nel cuore del bosco, assalta caprioli e nella furia di sbranarli li scaraventa tra i rami degli abeti. Il romanzo ha un impianto apparentemente hemingwayano, padre e figlio che vanno a uccidere il Diàol per intascare una maxi-scommessa, ma in realtà Hemingway sta troppo in superficie, qui il testo scende più in profondità, non lo senti derivare da qualcuno dei “Quarantanove racconti” di Ernest, ma dalla “Linea d’ombra” di Conrad. La “linea d’ombra” segna l’uscita dell’uomo dall’età dell’innocenza e l’entrata nelle grandi sfide, la furia dell’oceano, i mostri della natura e dello spirito, fuori di te e dentro di te. Oltrepassi quella linea, e non sei più lo stesso. Qui la grande sfida sta nel cercare, trovare e uccidere il Grande Orso, El Diàol. La scommessa l’ha lanciata il padre, ma se a uccidere l’orso fosse il padre, sarebbe uno dei tanti racconti d’avventura a quota simbolica zero. Qui la quota simbolica è alta: è il figlio, 12 anni, che uccide la Bestia, su quella linea d’ombra avviene il passaggio delle consegne, il figlio è un vincente che vince la vita, il padre esce dalla vittoria e dalla vita. Lo scontro avviene nel cuore del bosco dove il padre, quand’era ragazzo, aveva una capanna segreta, per sé e per la sua ragazza. Il figlio studia bene il posto. Diventerà il suo posto segreto. Righetto sposta indietro la vicenda, al tempo della catastrofe del Vajont, ma la spinta a scrivere gli viene oggi dal ritorno delle bestie feroci. È da queste che è eccitato. Un tempo avremmo detto “ispirato”.

(“La Stampa-Tuttolibri” 6 aprile 2013)

Matteo Righetto, La pelle dell’orso, romanzo, Guanda ed., 2013, pagg. 160, euro 14,00

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PAPA FRANCESCO PORTA TRE RIVOLUZIONI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/03/19/papa-francesco-porta-tre-rivoluzioni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/03/19/papa-francesco-porta-tre-rivoluzioni/#comments Tue, 19 Mar 2013 21:14:22 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5071 ferdinando-camonQuesta nuova puntata de “Il sottosuolo” di Ferdinando Camon punta verso il Cielo… con un articolo dedicato a Papa Francesco.
Massimo Maugeri

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PAPA FRANCESCO PORTA TRE RIVOLUZIONI

di Ferdinando Camon

Il primo impatto rivela tutto: fu così con Wojtyla, con Ratzinger, è così con Bertoglio. La fumata è bianca da tanti minuti, nessuno viene al balcone a presentare l’eletto, i maligni sospettano che s’attenda l’ora del tg. Poi la tenda oscilla, ecco il drappello, l’annunciatore dice: “… habemus papam, … Jorge (chi?) Marium (ma quale papabile si chiama così) Bergoglio”. La folla non capisce e non applaude, cerca di raccapezzarsi. Noi, in teleascolto, pure. Abbiamo in mano i nostri giornali, i papabili ci son tutti, e questo non c’è. Dunque lo Spirito Santo non legge la stampa? Poi il cervello qualcosa si ricorda: è un argentino, Argentina e Brasile hanno la più alta quantità di cattolici nel mondo, se votassero direttamente i cattolici continente per continente avrebbero votato questo. “Qui sibi nomen imposuit Franciscum”: s’è dato il nome di Francesco. Ci sono tre novità inaudite in questa elezione. Il prescelto è un latinoamericano, è un gesuita, vuol chiamarsi Francesco. Tre rivoluzioni. Eccolo, appare, altissimo, imponente, autorevole. Esordisce: “Fratelli e sorelle…”. Non dici “figli”, usa il linguaggio francescano, infatti è un francescano. Breve pausa, sta cercando la parola memorabile? Storica? Eterna? L’ha trovata: “Buonasera”. Si presenta come un ospite che viene a trovarci. Per prima cosa, come ogni ospite, parla del viaggio: “I miei fratelli cardinali dovevano scegliere un nuovo vescovo di Roma, e l’han scelto dall’altra parte del mondo”. Dunque un viaggio lungo, viene con altre esperienze, altra vita, altri insegnamenti. La mattina dopo si reca in Santa Maria Maggiore, e si avvicina alla Madonna portando in mano una ciotola di fiori, come si fa con la padrona di casa. Wojtyla e Ratzinger non hanno mai fatto così. Neanche Wojtyla era tra i papabili previsti, e anche per il suo nome (Uo-tì-ua) la folla in San Pietro ammutolì, disorientata, e qualcuno sussurrò: “Un negro!”. Ma il corrispondente dell’”Unità”, che lo conosceva, esclamò: “Il peggiore!”. Ratzinger non stupì nessuno, neanche l’autore di queste righe: i votanti eran quasi tutti cardinali di fresca nomina, quand’eran stati fatti cardinali nella curia c’era Ratzinger, ogni lettera da Roma era firmata Ratzinger, le esequie di Wojtyla eran guidate da Ratzinger, al momento di votare non avevano altri nomi in testa che quello. Era una scelta obbligata. Bergoglio è una scelta spiazzante.
Bergoglio è arrivato in San Pietro in pulmino, e il giorno dopo l’elezione s’è spostato in un’auto senza insegne. Appena proclamato Papa, s’è mostrato al mondo ostentando sul petto una croce che non è d’oro. Non splende, non luccica, è opaca. La Chiesa Cattolica è nota nel mondo come “chiesa trionfante”. Le nostre cattedrali sono vaste e potenti, ostentano solennità e ricchezza. È l’impianto papale. Le chiese gotiche mostrano supplica, paura e soggezione. È l’impianto luterano. È presto per dirlo, ma al primo impatto questo Papa porta all’impianto cattolico una correzione drastica, mostra in tv una croce povera, non osa benedire la folla ma prega la folla di pregare Dio che benedica lui, appena eletto riceve l’omaggio dei cardinali non seduto sulla poltrona papale ma restando in piedi, finita la cerimonia saluta tutti con “Buonanotte e buon riposo”. Perché “buona notte” a quest’ora? Perché a quest’ora lui va a letto, per alzarsi poi alle 4. Arrivando a Roma, aveva consegnato i bagagli alla Casa di Paolo VI, ritirandoli paga il conto. Ha scelto di chiamarsi Francesco, cosa che nessun altro papabile avrebbe fatto. Francesco visse all’epoca della nascente borghesia, quando tutti i valori cominciavano a ridursi a uno solo, i soldi, suo padre era un ricco mercante, lui per farsi frate rinunciò a tutto, compresi i vestiti, li consegnò a suo padre che voleva trattenerlo e gli disse: “Non ti chiamerò più padre”. Frate Francesco è il primo contestatore dei falsi valori borghesi. Papa Francesco è l’ultimo.

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CONVERSAZIONE CON PRIMO LEVI – di Ferdinando Camon http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/03/18/conversazione-con-primo-levi-di-ferdinando-camon/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/03/18/conversazione-con-primo-levi-di-ferdinando-camon/#comments Mon, 18 Mar 2013 18:59:36 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5064 Conversazione con Primo LeviPubblico l’intervista a Ferdinando Camon, curata da Renzo Montagnoli, in merito al volume “Conversazione con Primo Levi” (Guanda).

Su LetteratitudineNews è disponibile una recensione firmata dallo stesso Montagnoli.

Massimo Maugeri

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INTERVISTA A FERDINANDO CAMON (su “Conversazione con Primo Levi“)

a cura di Renzo Montagnoli

- La Sua è un’intervista realizzata in un arco di tempo piuttosto lungo e in più incontri; considerato che all’epoca (all’incirca nella prima metà degli anni ’80) non esisteva ancora Internet e quindi non era possibile effettuare il tutto con uno scambio di messaggi elettronici, Lei ricorse a incontri diretti con lo scrittore nella sua città natale (Torino), a scambi di telefonate e raramente in via epistolare. Fu indubbiamente un impegno non trascurabile, anche se ne valeva la pena. Che cosa la spinse però a contattare Primo Levi per intervistarlo?
Mi spinse un complesso di colpa. Come ho scritto da qualche parte, andare a parlare con Primo Levi per me significava andare a Canossa. C’è nel libretto, se uno lo legge bene, un punto di attrito tra Levi e me, che mi fu ascritto a colpa dalla stampa tedesca e francese di destra. Levi sosteneva che la colpa dello Sterminio era del personaggio che dominava la Storia, e cioè Hitler. Levi aveva un’idea eroica della Storia. La Storia la fanno  Grandi, i dominatori, gli domi eroi. Costoro sono il vento che scuote il mare, sul quale i popoli galleggiano come sugheri. Lui aveva un’idea ristretta della Grande Colpa. Io sostenevo allora (cioè: mi aggregavo a chi sosteneva) una colpa collettiva, la responsabilità di massa. Che non vuol dire di ogni tedesco, singolarmente preso. Ma del popolo tedesco, nel suo insieme. Questa tesi ha finito poi per scalzare la tesi di Levi: Hillberg e Goldhagen e tanti altri parlano sempre e solo di una “responsabilità di massa” dei tedeschi per lo Sterminio. E pongono, Hillberg specialmente, la tesi che lo Sterminio fu l’ultima fase di un’opera di espulsione ed esclusione durata molti secoli. Dapprima fu detto agli ebrei: “Potete vivere in mezzo a noi, a patto che diventiate come noi. Convertitevi”. Fu l’epoca delle conversioni coatte. Poi fu detto: “Non siete diventati come noi, andate a vivere da un’altra parte”. Fu l’epoca dei ghetti. Il nazismo venne per attuare la terza fase: “Né fra noi né lontano da noi, non potete vivere da nessuna parte. Ovunque siate, dovete morire”. Ma questa terza fase non sarebbe stata possibile senza la seconda, e la seconda senza la prima. E su quella fasi ha un’impronta fondante la civiltà euro-occidentale, della quale io, come tutti qui, siamo figli. Levi è una nostra colpa. Recensendo il mio libretto “Conversazione con Primo Levi”, la stampa tedesca di destra (ma sono comunque grato che la Germania l’abbia tradotto) e la stampa francese di destra (ma sono grato che il libretto sia stato tradotto e recitato in teatro in una ventina di città, e la pièce dovrebbe ripartire di nuovo quest’anno) giudicavano Levi “obiettivo”, nell’attribuire la colpa al solo Führer, e me “razzista”, nel coinvolgere il popolo  tedesco. Si crede che veder girare un proprio libro nel mondo sia una gioia, invece è un martirio.

- Si potrebbe dire che Hitler nel popolo tedesco è riuscito a far emergere determinate caratteristiche che prima erano sopite, o comunque in letargo. Al riguardo mi pare che Marlene Dietrich abbia espresso sostanzialmente lo stesso concetto e lei appunto era tedesca.
C’è un passo della conversazione, all’argomento “Il diavolo nella storia”, in cui Lei dice: –Tuttavia, nei momenti delle grandi riprese dei loro movimenti morali e religiosi, loro pescano sempre in un repertorio di perdizione, di dannazione, di… e Levi aggiunge: – Di demoniaco? Al che la sua risposta è questa: – Di demoniaco, che coinvolge e annulla la stessa divinità…
La pregherei di precisare quali siano questi momenti in cui sono emerse caratteristiche di diabolica perdizione e di abbandono al male. Già che ci sono, mi risulterebbe che accadimenti simili non hanno caratterizzato solo i tedeschi, ma anche i polacchi e i russi.

Nella mia memoria si affacciava un brano di uno storico tedesco, che commentava come adesso dirò l’avvento del luteranesimo. Lo può trovare nell’Antologia di Critica Storica di Armando Saitta, in tre volumi, per Laterza. Il brano è questo: Lutero sta dialogando con un seguace, gli espone il suo concetto di Dio e di giustizia divina, come questa giustizia sia legata alla Grazia e separata dai merito. “Ma come si può amare un Dio come questo?” esclama terrorizzato l’allievo. “Amarlo?” risponde Lutero, “io lo odio”. Questa confessione di Lutero, che odia il proprio Dio, mi entrò nel cervello allora, ero studente di liceo classico, e non m’è più uscita. Nella mia cultura di euro-mediterraneo è inammissibile. Se non erro, Freud s’interrogava su quel che facevano i tedeschi del suo tempo, e rispondeva che erano “battezzati male”, cioè “mal cristianizzati”. In questi giorni mi sto occupando di Primo Levi, presento sulla “Stampa” un libro di Frediano Sessi intitolato “Il lungo viaggio di Primo Levi”, e mi son riletto le opere concentrazionarie di Levi: i custodi del lager non erano uomini, non avevano niente di umano. Nell’incontro del ’38 al Brennero con Mussolini, Hitler gli portò in regalo le opere di Nietzsche rilegate in pelle. Hitler non ha mai taciuto che intendeva realizzare il Superuomo di Nietzsche con le sue SS. L’avvento del Superuomo è teorizzato in “Così parlò Zarathustra”. “Tre incarnazioni dello Spirito io vi narro – esordisce Zarathustra -, com’esso divenne cammello, e di cammello leone, e di leone fanciullo”. Lo Spirito-cammello è il Cristianesimo. “Qual cosa pesa di più?” chiede lo Spirito cammello, partendo  per il proprio deserto, “ditemelo, o eroi, affinché io me lo sobbarchi”. Ma, fratelli miei, non significa questo immergersi nell’acqua putrida della verità, senza scacciare da sé i rospi viscidi e i vermi schifosi?” Le SS servivano a depurare l’acqua della vita dai rospi viscidi e dai vermi schifosi, a correggere l’umanità, perché com’era stata creata non andava bene.

- Comprendo; mi pare, però, di aver capito che in fondo Levi in questa conversazione non attribuisce le colpe dell’Olocausto al popolo tedesco e penso che questo atteggiamento gli sia derivato dal timore di essere pure lui considerato un razzista. Tuttavia, in un altro suo libro (I sommersi e i salvati) esplicitamente incolpa i tedeschi per la loro volontaria indifferenza. A Pag. 29 dell’argomento La colpa di essere natiLei dice, fra l’altro: – E cioè il problema di trovarsi a scontare la colpa di essere nato. Perché credo che questa fosse la <<colpa>> che distingueva l’ebreo dal politico o dal prigioniero di guerra. I quali scontavano una battaglia persa, o una opposizione politica; la l’ebreo per il solo fatto di essere nato doveva scontare questa <<colpa>> : la colpa di esistere.
Concordo pienamente, ma mi sono sempre chiesto perché proprio l’ebreo, ed è una domanda a cui ho cercato di dare più di una risposta. Se non si è trattato di una scelta dovuta al caso, la colpa di essere nato deriva forse da una altra colpa, così come concepita a lungo dalla Chiesa, soprattutto quella luterana: gli ebrei erano coloro che avevano immolato Gesù Cristo. Qual è la sua opinione al riguardo?

Il nazismo però non si presentava come un movimento cristiano, inteso a punire i nemici del Cristianesimo, anzi si poneva come pagano, anti-cristiano, legato ai miti del suolo e del sangue, al culto della forza, della razza, delle tradizioni ancestrali. A un certo punto fu ordinato che nelle chiese luterane, sull’altare, accanto alla Bibbia, fosse collocata una spada. Il “Mein Kampf” è stato un libro proibito per mezzo secolo, ma in Italia lo stampava una casa editrice di estrema sinistra, la ERS, Edizioni Riforma dello Stato, fondata e diretta da Armando Cossutta, che era un fuoriuscito dal Pci, a sinistra del Pci. Io l’ho trovato, l’ho comprato e l’ho recensito, sull’”Unità”. Ho letto il libro alla ricerca del “sistema” di Hitler, se voleva la guerra o no, contro chi, a che scopo, se preparava lo sterminio degli ebrei, e perché. Il libro è chiarissimo. È lo sfogo di una nevrosi fobica-depressiva, che diventa aggressiva. Hitler è sgomento per la sconfitta della Germania, e spaventato per la potenza di Francia e Inghilterra. Sogna la vendetta. Per la vendetta gli serve un popolo compatto, obbediente, educato militarmente, fisicamente robusto. Raccomanda che nelle scuole non s’insegni il francese, ma la boxe. Inculca l’odio verso gli ebrei, ma non li accusa mai di qualche colpa specifica (hanno fato questo male o quello), ma li accusa di tutte le colpe in generale. L’odio verso gli ebrei, non avendo una colpa da correggere, è immotivato e perciò implacabile. Gli ebrei vanno sterminati perché sono ebrei. Non importa se per sterminare gli ebrei dedichi uomini, mezzi, risorse e tempo, che sarebbero necessari per vincere la guerra: anche quella contro gli ebrei è una guerra, serve a liberare la Germania e l’umanità.

- Certamente, il Mein Kampf è talmente chiaro che nessuno che lo legga potrebbe dire che Hitler da agnello si era trasformato, una volta giunto al tepore, in lupo feroce.
Mi scusi, però, se ritorno alla domanda, che non è frutto di curiosità: perché sempre l’ebreo deve essere un capro espiatorio? Forse ciò è dovuto a più concause, non ultima quella religiosa. Vede, la cosa mi interessa sia come parte del genere umano, sia per motivi personali. Del resto, se Hitler ha praticato l’annientamento sistematico degli ebrei, questi hanno sempre patito nella storia persecuzioni più o meno ampie; al riguardo, basti pensare ai pogrom e andando più indietro nel tempo la Spagna del XV secolo. Forse non è in grado di darmi una risposta compiuta, come in verità non lo sono nemmeno io, ma Hitler non si è inventata la persecuzione degli ebrei, l’ha adottata e ne ha fatto uno scopo della sua vita, applicandola con metodo e ferocia.

Conversazione con Primo LeviEcco, io pongo questa esatta domanda a Levi, a pagina 17, e lui la rifiuta: dice che “non i tedeschi odiavano gli ebrei”, ma “Hitler odiava gli ebrei” e “ i nazisti odiavano gli ebrei”. Quando io cerco di trovare radici lontane del superomismo dei tedeschi nella loro mitologia, e m’interrogo sulla separazione che loro pongono tra merito e salvezza, opere e grazia, lui ribatte che non c’è traccia di questo in Goethe. Ammette però che il diavolo è una presenza fondamentale nella loro formazione. Io mi spingo fino ad affermare che l’irruzione dei popoli germanici nella storia degli altri popoli europei non hanno effetti diversi dall’irruzione della peste e delle epidemie, lui ritorna a limitare questo ruolo ai tedeschi nazisti, e questo ha prodotto un curioso effetto nella circolazione del mio libretto di conversazioni con Levi in Germania e in Francia: c’è in Germania e in Francia anche una stampa di destra, che s’è buttata su queste pagine ribadendo che Levi assolve i tedeschi mentre Camon  li condanna, quindi Camon è il vero razzista, che combatte il razzismo tedesco con un razzismo antitedesco. Allora queste accuse erano possibili, oggi non più. Perché oggi il concetto di “responsabilità di massa”, “responsabilità collettiva” è molto più chiaro, diffuso ed accettato, anche dai tedeschi, fino alla cancelliera Angela Merkel. Gli ebrei sono stati sradicati dal loro suolo nel 70 dopo Cristo, da Tito, che non era ancora imperatore, soprannominato “deliciae generis humani”, il quale ordinò l’uccisione di tutti i maschi in età di armi e la cacciata delle donne e dei bambini. La diaspora degli ebrei comincia allora, e finisce dopo la seconda guerra mondiale. A differenza di altri popoli, gli ebrei hanno conservato cultura, religione, tradizione, non scomparendo nei popoli dentro i quali confluivano, e questo ha sempre distinto le comunità ebraiche negli studi, nella scienza, nelle arti, nei commerci, nella produzione…: nelle università, tra i premi nobel, tra gli scienziati, insomma nelle classi dirigenti, la presenza di ebrei è sempre stata alta. Può darsi che questo li abbia esposti alla visibilità, e la visibilità all’odio: e che così il loro merito (avere una forte comunità ebraica è una fortuna per un popolo) sia diventato un demerito (se qualcosa va male, si può dare la colpa a loro). Ma ripeto: nei testi degli “odiatori degli ebrei” non c’è mai un’accusa chiara, c’è solo un odio viscerale, nebuloso e onnicomprensivo. È appena uscito qui da noi in Italia un libro di Céline, col titolo “Céline ci scrive”, pubblicato da una piccola casa editrice di destra, contiene le lettere e gli articoli di Céline contro gli ebrei: me lo sono subito procurato proprio per vedere se Céline chiarisce, una volta per tutte, le ragioni del suo antisemitismo, ma niente, lo ripete infinite volte ma non fornisce alcuna ragione. C’è un film di Godard in cui un marito torna a casa e dice alla moglie: “Sai la notizia? Il governo ha deciso di eliminare tutti i medici e gli ebrei”, e la moglie: “Perché i medici?”.

- Mi sembra quindi di comprendere che alla base di questo odio razziale ci sia una irrazionalità, una sorta di atavica prevenzione che deriva da un popolo che è riuscito, pur integrandosi, a mantenere la propria individualità. Dove sta l’irrazionalità? Nella mancanza di presupposti, anche fasulli, che alimentino l’antisemitismo e del resto, anche in persone insospettabili, ho sentito più volte questo ragionamento: “Se gli ebrei sono stati trattati così, un motivo ci sarà”.  Ecco che implicitamente in questi soggetti che, ripeto, non sono degli estremisti, esiste una prevenzione che se non scatena un odio razziale, però fa sì che questo possa essere tollerato. E da qui mi sorge spontanea la domanda: non posso credere che la maggioranza del popolo tedesco avesse in sé quest’odio razziale, mentre invece credo che per quel ragionamento che ho espresso prima abbia di fatto accettata come logica la persecuzione degli ebrei. Quindi non erano carnefici, ma tacitamente complici o al più indifferenti, il che non sminuisce la loro responsabilità.
Qual è la sua opinione al riguardo?

La mia risposta è questa. Curiosamente, il “Mein Kampf” non è un libro delirante-aggressivo, che nasca dalla volontà di conquistare il mondo e sterminare gli ebrei. È un libro fobico-depressivo, che nasce dallo spavento. Hitler è terrorizzato dalla strapotenza di Francia e Inghilterra, le ammira e le teme. Tutta la personalità e il programma di Hitler sono esplosioni del trauma per la sconfitta della Germania: la Germania uscì dalla Prima Guerra Mondiale non solo vinta, ma annichilita e umiliata. Il “Mein Kampf” è la rivolta contro questa umiliazione. Il collante che unisce Hitler al suo popolo, quel filo elettrico lungo il quale lui scarica i fulmini della sua forsennata oratoria, è la vendetta. Si sente sempre nei suoi discorsi, nei suoi scritti, un concetto elementare, primordiale, insostenibile da ogni punto di vista, ma di facile presa sulla massa: noi tedeschi abbiamo perso, perché?, perché non siamo “noi tedeschi”, in mezzo a noi ci sono dei non-tedeschi, i quali ci corrompono e ci indeboliscono. Per questo abbiamo perso. La nostra sconfitta è colpa degli ebrei. Eliminando gli ebrei, compiamo una giustizia retroattiva. In Céline c’è un punto in cui il grande scrittore esclama: “Non è forse chiaro a tutti che questa guerra è colpa degli ebrei?”. Naturalmente non c’è mai un episodio, un fatto, una situazione in cui si possa individuare una colpa degli ebrei verso la Germania o la Francia, ma accusare gli ebrei della sconfitta nella prima guerra aveva molti effetti utili a Hitler, in primo luogo questo: si liberava la coscienza dei soldati tedeschi dal peso di una disfatta, si scaricava quella disfatta su un nemico interno, e così i soldati potevano tornare a sentirsi invitti ed invincibili. Da notare che anche storici non-tedeschi hanno scritto che le condizioni di pace imposte ai tedeschi a conclusione della Prima Guerra Mondiale erano inique e insopportabili, il popolo tedesco non poteva in nessun modo reggerle, erano in un certo senso vendicative. E dunque l’esplosione di Hitler sarebbe stata la vendetta per una vendetta. Ma io non sono uno storico, le ragioni per cui andavo a parlare con Levi non erano storico-politiche, ma morali e sociali.

- E’ indubbiamente vero che condizioni di pace imposte di fatto costituirono i prodromi della seconda guerra mondiale, ma giustamente come dice lei i motivi che l’hanno indotta a intervistare Primo Levi non sono di carattere storico o politico, bensì morali, forse ancor più che sociali. E quindi è opportuno rientrare nel tema principale, che presenta spunti di notevole interesse, come quando Levi fornisce una spiegazione alla sua domanda volta a comprendere, come psicologicamente parlando, si riuscì a condizionare, meglio ancora a circonvenire un popolo quale quello tedesco. Levi risponde che il mezzo fu la propaganda e l’arma spettacolosa la comunicazione di massa, la manipolazione della folla, sperimentata dapprima dai regimi totalitari e poi, come anche ora, in costanza di una democrazia più di apparenza che di sostanza. Passo comunque al altro, all’argomento 6, quello del lager nazista e di quello comunista.
Verso la fine c’è una Sua domanda che partendo dal fatto che Se questo è un uomo è considerato oggi un testo esemplare della cosiddetta “letteratura concentrazionaria” cerca di comprendere i motivi per i quali gli editori l’hanno rifiutato per diversi anni. E qui fra la risposta di Levi trovo una stranezza, una non sincerità. Infatti dice: Se spegne il registratore glielo dico. E poi il risultato  non è eclatante, bensì si accenna a una disattenzione nella lettura.
Non ci credo, non posso crederci, perché lo spegnere il registratore equivale a non voler ufficializzare un discorso. Ora non so quel che poi Le ha detto Levi e se Lei possa ora riferirlo, ma comunque, in ogni caso, ha un’idea del perché di questi ripetuti rifiuti di pubblicazione?

La mia “Conversazione con Primo Levi” ha avuto più edizioni e più editori, e credo che le ultime edizioni diano una risposta al suo dubbio. Io il libretto l’avevo pensato per Garzanti, gli avevo proposto una collanina agile, di volumetti di poche pagine, 100 o meno, di autori o su temi di attualità, saggi, racconti, confessioni. Lui rifiutò dicendo: “Libri come coriandoli? Mai”. Allora i primi libretti di quella collanina, progettata come collana-rivista, li feci io a casa mia. Li stampavo in una tipografia veneta, le tipografie venete, e del Nord-Est in generale,  costano molto meno di quelle lombarde. Di ogni volumetto tiravo 5-6 mila copie, e le spedivo alla sede grafica della Garzanti, a Cernusco sul Naviglio. Avevamo un contratto, Garzanti ed io, lui alla consegna pagava come già venduta la metà della tiratura che riceveva. Io con quei soldi pagano tutte le spese e ne avanzavo. Il primo volume andò bene, il  secondo pure, gli altri (ne feci 6) pure, e a quel punto Garzanti decise di fare lui una collanina sulle 100 pagine, di formato snello, e la chiamò proprio “Coriandoli”. La inaugurai io, con un racconto intitolato “Il canto delle balene”. Ricordo ancora il giorno che presentammo la collana, in via della Spiga, Franco Fortini, Piero Camporesi ed io. La “Conversazione con Primo Levi” però aveva ormai una sua storia, non la trasferimmo nei “Coriandoli”. Esaurita la mia tiratura, la ripubblicammo in una collanina intitolata “I libri di”, poi la chiese Guanda ed è ancora in Guanda, ci sarà una prossima edizione presso le edizioni della Università di Pisa ma sarà un’edizione su licenza di Guanda. Nelle prime edizioni ho rispettato il volere di Primo Levi, e quando pronuncia il nome di chi rifiutò il suo libro per Einaudi e mi chiede di spegnare il registratore, affinché quel nome non restasse, io quel nome non l’ho messo. Poi c’era troppa pressione dei lettori e dei giornali, che volevano saperlo, quel nome. Allora, nelle ultime edizioni, l’ho messo. Il “Corriere della Sera” sul supplemento culturale, allora diretto da Riccardo Chiaberge, imbastì una discussione. Il nome è quello di Natalia Ginzburg, ed è stupefacente che una scrittrice ebrea non abbia sentito la potenza della denuncia di quel libro di un fratello ebreo, che doveva restare nei secoli e nel mondo il testimone numero 1 dello Sterminio. La Ginzburg era ancora viva, quando il “Corriere” aprì la polemica, e intervenne, ma senza dire niente d’importante: le solite cose, non ero io che decidevo, decideva tutto Cesare Pavese, e così via.  Non credo ci sia niente di misterioso sotto: si tratta del giudizio sbagliato di una consulente inadeguata. Tutto qui. Primo Levi però non è facile da capire e da valutare. Più tardi, la casa francese Gallimard ripeté l’errore di rifiutarlo, e questo quando Levi era già noto nel mondo, proprio alla fine della sua vita. Ci ho sofferto molto, per quel rifiuto. È una storia complicata.

- La Sua risposta è indubbiamente convincente, perché come sappiamo non è la prima volta che un consulente editoriale cade in un errore grossolano (al riguardo basti pensare alla tormentata vicenda della pubblicazione del “Gattopardo”) e può darsi che la Ginzburg sia stata anche condizionata dal fatto di essere ebrea, il che, magari nell’incertezza che dovrebbe avere avuto sulla validità dell’opera, deve aver pesato non poco, nel timore che un giudizio positivo, seguito da un insuccesso commerciale, potesse esserle rimproverato per una scelta che qualcuno in azienda e anche fuori poteva attribuire alla comune appartenenza. In fondo stupisce di più il rifiuto della Gallimard, poiché ormai Levi non era certo uno sconosciuto. È a conoscenza dei motivi per cui l’editore francese decise di non pubblicare l’opera?

Era un mio ripetuto consiglio al direttore editoriale della Gallimard, di pubblicare “I sommersi e i salvati”. Il direttore era Hector Bianciotti, nato in Argentina, da genitori italiani, piemontesi, poi fuggito dall’Argentina e vissuto in Francia, a Parigi. Un grande scrittore, un suo libro autobiografico è tradotto in italiano da Feltrinelli. Persona mite, affabile, gentile, con un senso squisito per i libri. Fu nominato membro de l’Académie Française, la cosiddetta Accademia degli Immortali, un posto a cui teneva molto, perché gli assicurava una rendita mensile. Per la cerimonia d’insediamento lui doveva presentarsi vestito come un cavaliere del Settecento, calzoni aderenti corti al ginocchio e giaccia attillata color verde, bordata in oro, con al fianco uno spadino. I suoi invitati dovevano indossare lo smoking. M’invitò, ma io non avevo uno smoking. Mi scusai e non ci andai. Col senno del poi, e visto che lui è morto prestino, non solo me ne pento, ma anche me ne vergogno. Mi giustifico attribuendo la causa alla mia cronica mancanza di denaro. Ma questo avvenne dopo. Torniamo a Levi.
Levi non era tradotto in Francia, e questo mi sembrava assurdo. Io avevo tutte le opere tradotte da Gallimard e avevo un rapporto col suo direttore Bianciotti.  Insistevo perché traducesse “I sommersi e i salvati”, gli mandavo lettere. Lui mi chiamava al telefono e mi rispondeva: “Ferdinandò, non ci piace”. Io rispondevo: non vi piace? Ma come lo leggete? seduti? Non dovete leggerlo restando seduti, dovete cadere in ginocchio. Era una lotta lunga, era ancora in corso quando concludevo con Levi la conversazione contenuta in questo libretto. Per aiutare “I sommersi e i salvati” sono andato a Torino, a incontrarlo di nuovo, era una domenica, e insieme con lui scegliemmo una decina di pagine da pubblicare subito su “Panorama”. Lui preferì le ultime, quelle che terminano con l’affermazione: “C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. Esce l’intervista su “Panorama”, e chiamo “Libération” per chiedere spazio, un paio di pagine nelle quali spiegare ai francesi perché devono leggere Levi. “Libération” accetta. Mando il mio pezzo, piuttosto lungo. Levi muore di sabato. “Libération” mi chiama alla domenica, mi legge tutta la traduzione del pezzo, lo approvo parola per parola, il pezzo esce. Il martedì mi arriva una lettera di Primo Levi. Levi era morto al ritorno dalla solita passeggiatina di fine settimana, e io mi dico: ”Se mi arriva oggi, martedì, questa lettera l’ha imbucata sabato, a metà passeggiata, adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi”. Apro la lettera. È una lettera vitale, piena di progetti, “mi mandi l’articolo di Libération quando esce, mi sappia dire se Gallimard vuol qualche altra copia dei miei libri”, non è affatto la lettera di uno che dieci minuti dopo si suicida. Perciò io sono fra coloro (siamo tre o quattro) che non credono al suicidio. Non ho le prove del voler-morire, mentre ho le prove del voler-vivere. Due giorni dopo mi chiama Bianciotti: “Ferdinandò, l’editore Albin Michel vuol prendere “I sommersi e i salvati”, ti preghiamo di dire alla vedova, signora Lucia, che anche noi vogliamo prendere “I sommersi e i salvati””. Due settimane dopo altra telefonata: “Albin Michel vuol prendere due libri di Levi, di’ alla signora Lucia che anche noi prendiamo quelle due opere”. Un mese dopo mi trovo a Brescia, alla libreria Ulisse (che adesso non c’è più, era una libreria raffinata, diretta da un libraio che era anche uno scrittore squisito, Umberto Stefani), sto presentando il mio libro “La donna dei fili”, squilla il telefono: era ancora Bianciotti che mi cercava trafelato per darmi questo incarico: “Albin Michel vuol prendere quattro libri, ti preghiamo di trasmettere alla signora Lucia, e alla casa Einaudi, questo messaggio: la Gallimard è disposta  a prendere tutti i libri di Levi che si possono prendere, a condizioni non inferiori a quelle di nessun altro”.  Non è finita. Un mese dopo, altra telefonata di Bianciotti: “Ferdinandò, Albin Michel vuol portarci in processo, perché dice: voi lo avete rifiutato e io l’ho preso, perché adesso mi ostacolate? Ritiratevi”, se tu Ferdinandò ci mandi quella lettera di Levi, nella quale lui esprime il desiderio di essere pubblicato da Gallimard, ci aiuti”. Mando una fotocopia della lettera, e la questione si chiude, Primo Levi esce da Gallimard. C’è un piccolo strascico: quando esce in Francia “I sommersi e i salvati”, l’Istituto Italiano di Cultura organizza una giornata di presentazione, lei conosce la sede dell’Istituto, è in Rue de Varenne 50, pubblica anche una rivista che si chiama col nome della via e numero del civico, è una sede magnifica, ampia e sontuosa, le stanze sono piene, tutta la Parigi colta aspetta, io arrivo e un signore che non conosco mi s’accosta mormorando una cantilena: “Monsieur Camon, io non la benedico, io non la benedico”, il Direttore dell’Istituto accorre e mi trascina via, io gli chiedo: “Chi è questo signore? E perché non mi benedice?”, “Non ci badi – fa il Direttore -, è il traduttore che Albin Michel aveva già assunto, gli dispiace molto di non tradurre Levi, e pensa che la colpa sia di Camon”. Ecco, le cose andarono così. La mia conclusione è questa: “Levi è troppo”, al primo impatto (Natalia Ginzburg, Hector Bianciotti…) ispira un rifiuto che è un gesto di autodifesa, un istinto di sopravvivenza. Levi non commuove il lettore, non lo turba: lo tramortisce.


- E’ una vicenda quasi da vaudeville e non a caso il teatro è la Francia; dispiace molto che Levi non ne abbia visto la conclusione e che la morte l’abbia colto anzitempo. Al riguardo, potrebbe essere stato un incidente, un malore improvviso, o anche un subitaneo sconforto; di certo non lo sapremo mai, ma in fondo poco importa, perché la morte è uno di quegli eventi che prima o poi accade a tutti, quella morte a cui era sfuggito quasi miracolosamente ad Auschwitz; mi sembra che questa “fortuna” (ma il termine è probabilmente improprio) gli sia tuttavia pesata, un po’ come per il protagonista di Diceria dell’untore. Poi, come emerge dall’intervista, qualcuno addirittura ha voluto vedere un disegno superiore in questa sua salvezza, circostanza che ha indignato Levi perché, come dice lui stesso, sembrerebbe che Dio avesse concesso dei privilegi, salvando qualcuno e condannando qualcun altro. Con questo arriviamo alle ultime righe della conversazione, al punto in cui Lei domanda: “Cioè Auschwitz è la prova della non esistenza di Dio?” e Levi risponde: “ C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio.” (Sul dattiloscritto, a matita, ha aggiunto: Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo).
Credo che queste ultime righe, oltre a concludere una conversazione di estremo interesse, siano molto emblematiche; personalmente vedo un Levi certamente non ateo, e tantomeno agnostico, però è un uomo che cerca di capire, ricorre alla razionalità per cercare il trascendente, in un percorso senza sbocco. E allora arrivo alla domanda: secondo Lei, Levi credeva in un’Entità superiore, o comunque era alla continua ricerca di una risposta al perché della morte e soprattutto al perché della vita?

È lui stesso che risponde, nella conversazione. Dice che aveva ben ricevuto un’educazione religiosa, ma che Auschwitz l’ha spazzata via. La sua conclusione è: “C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. La mia impressione è stata allora, e torna ad essere ogni volta che rileggo questo passo, che Levi volesse proprio introdurre nel pensiero filosofico una prova della non-esistenza di Dio, da contrapporre ai sistemi dei filosofi che sostengono l’esistenza, per esempio Sant’Anselmo d’Aosta. “Dio c’è per questa e questa ragione”, dicono questi filosofi. “Dio non c’è, perché c’è Auschwitz” obietta Levi. Per me, la conversazione si chiudeva lì. Quando gliel’ho mandata, per un’ultima approvazione, mi aspettavo che lui correggesse qualche parola, ma non un concetto così essenziale, così fondamentale. Ci ho ragionato molto.  Dopo le prime edizioni, a partire dalla traduzione francese, ho aggiunto una prefazione con cui chiarisco ciò che per me significa quell’aggiunta: Levi aveva espresso una negazione assoluta dell’esistenza di Dio, ma se ne pente e riapre la questione: afferma che Dio non c’è, dunque il problema è chiuso, questa è la soluzione, ma subito corregge che “non trova una soluzione”, dunque il problema resta aperto, chiarisce che il non-trovarla non mette fine alla ricerca, infatti aggiunge ancora “la cerco ma non la trovo”: il messaggio finale è quello di una continua ricerca continuamente esposta allo scacco. La conclusione “c’è” o “non c’è” sarebbe comunque pacificante, la conclusione “non trovo ma cerco” resta aperta a un’angoscia che non ha fine.


- Secondo me questa continua ricerca dimostra che in fondo Levi credeva che esistesse qualche cosa; la sua non era una negazione assoluta, anzi partiva da una deduzione personale quando diceva: “Dio non c’è, perché c’è Auschwitz.”  In fondo in lui era inconcepibile che Dio avesse consentito l’olocausto e se fosse stato ateo il problema non si sarebbe posto, anzi il fatto stesso della Shoah sarebbe stato un rafforzamento della sua convinzione. Comprendo che per lui questa ricerca sia stata un problema angosciante, ma solo perché ha voluto fare di una deduzione un ragionamento logico e senza dimenticare che l’essenza stessa di chi crede è il persistere del dubbio.
Siamo alla fine di questa conversazione, che per fortuna non ci ha impegnato per tutto il tempo che ha caratterizzato la Sua con Primo Levi e credo che questo sia il momento di tirare delle somme, di azzardare dei giudizi.
So che non è facile e so pure che parlare di quest’uomo Le riesce difficoltoso, ma è proprio per questo che la domanda che segue ha il suo senso.
Che cosa ha rappresentato e continua a rappresentare per Lei Primo Levi?

Il rapporto tra me e Primo Levi è il rapporto tra uno scrittore “minore” e uno non soltanto “maggiore”, ma “massimo”. Levi era come dev’essere uno scrittore, e come, nel mio piccolo, tento di essere io: uno scrittore “separato”, che si presenta al mondo con i libri, non in tv, non nei giornali, non nei premi. Perciò era uno scrittore dimenticato. Si stampavano storie della letteratura, in cui Levi non c’era. Ricordo che il manuale di storia letteraria più diffuso allora nei licei e nelle università, cioè quello di Natalino Sapegno, era giunto alla 43esima ristampa, e a Primo Levi non dedicava neanche una riga. Ne ho parlato col direttore del supplemento letterario della “Stampa”, che allora era Luciano Genta, e lui mi ha consigliato: “Scrivi un ‘Parliamone’”. Il “Parliamone” era una rubrica-jolly, firmata ora da un collaboratore ora da un altro, in cui si esponeva un problema letterario-culturale-editoriale del momento. Scrivo il “Parliamone”. La mia domanda era: “Si può ristampare 43 volte una storia letteraria, e dimenticare sempre Primo Levi?”. Alla 44esima edizione, Natalino Sapegno include Primo Levi con queste parole: “È forse il più grande scrittore italiano del secolo”. Allora la mia domanda diventa: può una storia letteraria italiana dimenticare per 43 edizioni il più grande scrittore del secolo? Da che cosa nasceva questa dimenticanza? Dal fatto che Levi viveva rintanato, non andava a convegni, non partecipava a dibattiti, non si faceva notare in nessun modo; se pubblicava un libro, l’editore mandava le copie alla stampa, ma non sollecitava nessuna risposta. Si comportava come deve comportarsi uno scrittore: scrive i libri e sparisce. Sono convinto che fargli avere il Nobel sarebbe stato possibile e facile. Questa mia “Conversazione”, della quale stiamo parlando qui, è uscita in Svezia, sono andato a presentarla a Stoccolma, all’Istituto Italiano di Cultura e all’Università: c’erano molti ascoltatori, studenti, docenti, giornalisti, scrittori (a Stoccolma, se vien presentato all’Istituto di Cultura Italiano un autore, gli intellettuali svedesi accorrono perché sanno che lì si trova il vino italiano; non è che nei negozi e nei ristoranti il vino italiano sia introvabile, ma è carissimo, perché è gravato da una pesante tassa che non va al Fisco ma alla Casa Reale), c’erano anche membri dell’Accademia di Svezia, votanti al Nobel, e parlando con loro ho avuto la netta sensazione che, se Levi fosse stato presentato al Nobel, gliel’avrebbero dato. Ma questa è un’operazione strana, che non dipende per niente dal Ministero della Cultura o dell’Istruzione, ma solo dal Ministero degli Esteri. I nostri Istituti Culturali all’estero sono gestiti dalla Farnesina. Anche questa è un’assurdità. Ma parliamoci francamente: cosa aggiungerebbe il Nobel, a Primo Levi? Nulla.

Grazie, caro Camon, per la bella conversazione, dalla quale esce un quadro ancor più completo della straordinaria personalità di Primo Levi.

Conversazione con Primo Levi

di Ferdinando Camon

Presentazione dell’autore

Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabattolo

Guanda Editore

www.guanda.it

Collana Quaderni della Fenice

Pagg. 75

ISBN 9788882469290

Prezzo € 10,00

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LE GIOIOSE VENDETTE DI TARANTINO: i “Bastardi” e “Django” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/02/04/le-gioiose-vendette-di-tarantino-i-bastardi-e-django/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/02/04/le-gioiose-vendette-di-tarantino-i-bastardi-e-django/#comments Mon, 04 Feb 2013 21:00:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4932 ferdinando-camonNuova puntata de IL SOTTOSUOLO – di Ferdinando Camon

Le gioiose vendette di Tarantino: i “Bastardi” e “Django”

In questi giorni il film Django Unchained tocca l’apice della diffusione, e dunque questo è il momento buono per ragionare sulla polemica aperta da Spike Lee quando il film stava per uscire. “La schiavitù è per i neri quel che l’Olocausto è per gli ebrei”, dichiarò Lee, “non si può fare un film comico sull’Olocausto, e non si può fare un film western sulla schiavitù. Sono profanazioni”. Ho visto il film: Tarantino disonora gli schiavi?
Li chiama sempre “negri”, e anche questo offende Spike Lee. Ma non è una scorrettezza storica. Il negro è il nero schiavo, e questi sono neri schiavi. Sulle due condizioni che sono due tabù, l’Olocausto e la Schiavitù, credo che noi, che non siamo neri e non siamo ebrei, dobbiamo metterci in testa una cosa: “non possiamo capirle”. Se leggiamo un romanzo o vediamo un film fatto da qualche autore ebreo, non possiamo capirli, come li capisce l’autore. Prendiamo Kafka, La metamorfosi, prima riga: “Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto”. Per noi cristiani è fantasia o inconscio, per l’autore ebreo è realismo. Perché l’ebreo prima si sentiva un uomo, poi avverte intorno a sé l’odio razziale e si sente un insetto. Lo Sterminio è il corpo del reato della storia euro-occidentale, come la Schiavitù è il corpo del reato della storia nord-americana. Parlandone o scrivendone, non dobbiamo mai dimenticare che furono colpe, le massime colpe. Ora, si dà il caso che Quentin Tarantino, che fa girare adesso questo film sulla schiavitù, abbia fatto girare l’anno scorso un film sul Nazismo, “Bastardi senza gloria”. Sono due profanazioni, una dello Sterminio e l’altra della Schiavitù?
Sono due massacri, nei “Bastardi” vengono massacrati, con le raffiche e col fuoco, tutti i gerarchi nazisti rinchiusi in un cinema, Hitler in testa. Tarantino gira la strage con goduria, e con goduria lo spettatore la guarda. È quanto di più anti-storico si possa immaginare, perché purtroppo le cose non sono andate così, e gli ebrei non si sono vendicati dei loro carnefici trucidandoli. Ma inventando quella scena Tarantino soddisfa un bisogno inconscio dell’umanità: maciullare i carnefici. Questa operazione in Aristotele ha un nome: catarsi. In Django fa la stessa cosa. Un cacciatore di taglie, bianco, compra un negro e ne fa il suo compagno, va a caccia di ricercati bianchi per riscuotere le taglie. Il risultato scavalca il progetto: lo schiavo negro libererà anche la propria donna, e sarà l’unico “giusto” a sopravvivere alla mattanza generale degli schiavisti bianchi (più uno nero, il più perfido di tutti) e a uscire dal film a cavallo, con la sua bella, tra canzoni da spaghetti-western. Sentiamo noi fastidio, per la profanazione della Storia, che purtroppo non ha mai visto i negri sterminare i negrieri? Ma no!, ci sentiamo sollevati. Tra Spike Lee, “non si fa un western sulla schiavitù, perché significa profanarla”, e Tarantino, “la vera giustizia è il massacro, eccolo qui, ve lo mostro”, stiamo con Tarantino. La storia ci ha caricato di due angosce che ci soffocano, Sterminio e Schiavitù. La storia non ha fatto giustizia. Tarantino sì. Tra la gioiosa menzogna di Tarantino e l’angosciante verità della storia, ci dispiace che la menzogna non sia verità.

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Su Letteratitudine Cinema è disponibile la recensione di Django Unchained

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COSA PERDONO QUELLI CHE NON VOGLIONO FIGLI (di Ferdinando Camon) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/01/08/cosa-perdono-quelli-che-non-vogliono-figli/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/01/08/cosa-perdono-quelli-che-non-vogliono-figli/#comments Tue, 08 Jan 2013 22:23:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4821 camon-a-padova-2007.jpgRiprende la rubrica di Letteratitudine curata da Ferdinando Camon intitolata “Il sottosuolo“.

Cosa perdono quelli che non vogliono figli

di Ferdinando Camon

Si sta diffondendo il pensiero che è bello non avere figli: i figli sono una disgrazia, rovinano la vita e il pianeta. Il pensiero diventa un movimento, il de-natalismo, e prende piede in Francia, Italia e soprattutto in Belgio. Qui i de-natalisti hanno inventato una festa annuale, a Bruxelles, dove si trovano, cantano canzoni e alzano boccali di birra. E citano uomini illustri senza figli.
Ma citano male. Moravia non era un senza-figli. Era un mancato-padre circondato da mancati-figli. Quando andavano a trovarlo, Dario Bellezza, Achille Serrao e gli altri, toccavano tutto, spostavano tutto, come fanno i cattivi figli di un padre scrittore. Uno sgattaiolava fuori dalla porta, Alberto lo inseguiva col bastone: “Cos’hai preso?”, “Ma niente Alberto, poi te lo riporto”. Sono gli aspetti vischiosi e fastidiosi della famiglia, che fanno una falsa famiglia. Pasolini dice in una poesia di aver amato una prostituta ma non è nato un figlio, e di questo era contento. Non ha mai affrontato il problema se la sua omosessualità fosse una fuga dalla paternità. Quando esplose la domanda, era in analisi da Musatti. Smise subito. Troppa angoscia.
Sì, certo, senza figli si lavora meglio. “Tu hai dato degli ostaggi alla vita”, mi ammoniva Meneghello, qui nello studio dove sto scrivendo. L’aveva già detto Bacone: “Se hai dei figli, non farai più grandi azioni, né virtuose né vituperose”. I figli ti bloccano nella mediocrità. Sono ostaggi del nemico, in una vita che è guerra. Ma se noi, padri, siamo un esercito in guerra, i figli sono l’avanguardia e la retroguardia: la protezione. Riempiono i vuoti del passato e vanno in avanscoperta sul futuro che non vivremo. Io non so come ho capito i primi film che vedevo, da bambino. Ma mi si spalanca una luce quando vedo la nipotina che guarda incantata il risveglio di Biancaneve, poi Biancaneve sparisce ed appare la matrigna, la piccola osserva in giro sbalordita e domanda: “Dov’è Biancaneve?”. È convinta che, se non è più nel televisore, è uscita dal televisore e cammina nella stanza. Qualcosa del genere dev’essere capitato al mio cervello, quand’ero piccolo, perché a questa ri-scoperta si eccita. Senza figli e nipoti avrei un cervello non eccitato, che vuol dire piatto. A 6 anni il primo dei miei figli fece un sogno: “I monti mi dicevano: quando morirai, crescerai”. Significa che ogni conquista passa attraverso una morte? Al fondo del mio cervello c’era questo concetto, non ero sicuro che fosse la verità, ma il sogno del figlio me lo confermava. Lui amava il cinema. Un giornale mi mandava un tesserino perché andassi alla Biennale, lui me lo rubava e ci andava lui. Sul tesserino c’era la mia foto, lo lasciavano passare perché lui era identico a me. Questo resta in me l’esempio di cosa vuol dire rinascere in un altro: quando la burocrazia controlla quell’altro e lo scambia per te. A volte mi càpita di cercare un libro che non ho mai letto, lo apro e lo vedo pieno di segni a matita. Sono segnate le frasi giuste con i giusti segni, asterischi, cerchi, punti interrogativi o esclamativi. Ma se non ho mai letto quel libro, chi ha fatto quei segni? Un figlio. Dunque, io ho letto quel libro non come io, ma come figlio. E allora, continuerò a leggere libri, segnandoli con i miei simboli, anche quando non ci sarò. I bambini si ammalano, come tutti, e finiscono in Pediatria. L’ospedale vuole che di notte stiano soli, se c’è bisogno ci sono gl’infermieri. Ma le madri non vogliono lasciarli, e si nascondono negli armadi. Il primario prima di andarsene apre gli armadi e scaccia le madri, allora queste si nascondono nei bagni. Le ho viste. I figli sono il sancta sanctorum della famiglia, non si possono lasciare senza sentinelle. Quando andavo a prendere un figlio all’asilo, o adesso una nipotina, la maestra lo chiama e gli chiede: “Chi è questo signore per te?”, perché ci sono i ladri di bambini, i bambini sono un valore e hanno un mercato. Diciamo sempre che non ci sono più valori: eccolo, un valore. Una madre mi ha raccontato che un giorno passeggiava con la figlioletta, questa si nascose, lei non la vedeva più, due pensieri le traversarono il cervello come fulmini, il primo: “Me l’hanno rubata”, il secondo: “Mi uccido”. Ho sentito una madre friulana cantare una canzone al figlio ricoverato in ospedale: “Signor del Cielo ascoltami, / non farlo mai soffrire, / se c’è dolor per lui, / ti prego dallo a me”: voleva soffrire e morire al posto del figlio. È difficile che chi non ha figli attraversi quest’esperienza, voler morire al posto di un altro. Per chi li ha, è un’esperienza perenne. Essere umani vuol dire questo. A Bruxelles alzano boccali di birra per la gioia di non avere figli? Avranno, come tutti, disgrazie nella vita, ma nessuna più grave di questa.
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LA MIA STIRPE di Ferdinando Camon http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/05/31/la-mia-stirpe-di-ferdinando-camon/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/05/31/la-mia-stirpe-di-ferdinando-camon/#comments Mon, 30 May 2011 22:00:43 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3313 La mia stirpeEravamo nella stirpe prima di nascere, saremo nella stirpe dopo la morte.
La mia stirpe“, il nuovo romanzo di Ferdinando Camon.

Tuo padre è in ospedale. Ha avuto un ictus. Non parla più, ma tenta di dirti qualcosa. Così procuri una lavagna alfabetica: nonostante la paralisi, può ancora muovere una mano e puntarla sulle lettere per comporre le parole. Ma la mano ruota in aria, tentenna. «Allora», dici «capimmo una cosa a cui nessuno aveva mai pensato: non sapeva l’alfabeto. Non ricordava l’ordine delle lettere». Lo so. È tragico non riuscire a capire colui dal quale vieni. È come se il fiume in cui scorre l’esistenza incontrasse una diga. E se non vai avanti, ti volgi indietro. Così ripensi al padre contadino che va in guerra, ma non vuole sparare, e per tornare a casa si inietta acqua infetta sul ginocchio. O ai momenti in cui tuo padre corteggia tua madre. E lì che si gioca tutto. Se qualcosa va storto, tu non esisterai. Ma poi nasci, diventi un altro anello della catena della stirpe. E in quanto tale, lo sai, non puoi fermarti dinanzi a un diga su cui pare interrompersi il flusso dell’esistenza. Devi andare avanti. E se tuo padre ti fa capire che il suo desiderio è che tu ti rechi dinanzi al Papa, tenendo la sua foto e la foto di suo padre nella tasca della camicia, è questo che farai. Andrai di fronte al Papa, sì, perché sarai invitato a incontrarlo a Roma insieme agli artisti di tutto il mondo. E non importa se non sarai in prima fila; o se davanti siederanno «divi, bestselleristi, vincitori di Leoni d’Oro, Palme d’Oro, Oscar». Non importa se sarai dietro, tra «gli artisti che sono artisti e basta, magari grandi artisti, ma hanno vinto poco». E se tuo padre e tuo nonno, da sotto la camicia ti rimprovereranno dicendo «ma che scrittore sei», tu potrai battere la mano sul petto per tenerli buoni e dire «colpa vostra, siete poveri, e la povertà è un crimine che si sconta con l’ergastolo ereditario». Ma sarà solo un attimo. Quando il Papa parlerà, loro – tuo padre e il padre di tuo padre – troveranno pace. E quando saluterà, loro risponderanno «noi già t’aspettiamo, in Paradiso». Non è facile essere anelli di una catena, ma fa bene al cuore guardare i nipotini e riconoscersi e riconoscere in loro i tuoi genitori. Non importa se tua madre, a venticinque anni, temeva di rimanere incinta con un bacio, mentre la nipotina sembra “sapere già tutto”. Lei sarà lì, tu sarai lì. E sarai in quelli che verranno dopo e dopo ancora, perché la stirpe – in fin dei conti – è garanzia di immortalità.

Ritengo che “La mia stirpe” (Garzanti, p. 151, € 14,60), il nuovo bellissimo romanzo di Ferdinando Camon, sia un esempio di come la letteratura e la vita si possano legare in un unicum inscindibile, di come l’esperienza di un singolo possa trasfigurarsi attraverso il racconto e diventare epica condivisa dell’esistenza umana e delle sue radici. Ché la stirpe questo è: sangue e cellule; ma anche una catena di segni, sentimenti, ricordi che si ripetono e si riproducono ancorando l’uomo al suo prima e al suo dopo, conferendogli senso e appartenenza. Con i pro e i contro che caratterizzano ogni “fatto” umano.

Avremo modo di approfondire la conoscenza di questo libro. Inoltre, prendendo spunto dai temi proposti dal nuovo romanzo di Ferdinando Camon, vorrei che esprimeste le vostre opinioni e riflessioni sul concetto di “stirpe” (nel senso inteso). Vi invito anche ad ascoltare l’intervista radiofonica che Camon ha rilasciato a Fahrenheit.
Seguono le solite domande finalizzate ad avviare e stimolare la discussione (a cui parteciperà lo stesso autore del libro protagonista di questo post).

1. Vi è mai capitato di trovare in voi alcuni elementi di somiglianza con i vostri genitori e nonni che, magari, vi hanno colto di sorpresa?

2. Analogamente, vi è mai capitato di riconoscervi in alcuni tratti, atteggiamenti, modi di pensare dei vostri figli e nipoti (al punto da rimanere meravigliati della somiglianza)?

3. Appartenere a una “stirpe” è più un vincolo, una consolazione o una responsabilità? O cos’altro?

4. In certi casi, può essere una condanna?

5. Fino a che punto l’appartenenza a una stirpe può essere considerata il “viatico” per sopravvivere a se stessi?

A voi, se volete, le risposte.

Massimo Maugeri

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LA MALATTIA CHIAMATA UOMO di Ferdinando Camon http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/27/la-malattia-chiamata-uomo-di-ferdinando-camon/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/27/la-malattia-chiamata-uomo-di-ferdinando-camon/#comments Fri, 27 Mar 2009 22:40:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/27/la-malattia-chiamata-uomo-di-ferdinando-camon/ Sulla psicanalisi si è detto di tutto, si è scritto di tutto. Molti testi di narrativa, dal Novecento a oggi (cito “La coscienza di Zeno” per tutti) sono intrisi o fanno riferimento alla psicanalisi. I saggi non si contano; così come i manuali. Eppure “La malattia chiamata uomo” di Ferdinando Camon, romanzo appena ri-edito da Garzanti (euro 14,50, pagg. 186) è un testo che si distingue dagli altri. E non solo perché è un romanzo. Lo intuiamo già da questa frase riportata in copertina: “Viaggio nell’inconscio di un uomo, fin là dov’è sconosciuto anche a se stesso e alle sue donne”. E di questo si tratta: la descrizione di un lungo e difficile viaggio durato ben sette anni di terapia. Alla fine del testo leggiamo questa avvertenza dell’autore: “Questo non è un diario o una cronaca, con personaggi della realtà, ma un romanzo: in qualche caso la realtà può avermi offerto un pretesto, ma niente più che un pretesto”. Al di là del fatto che la realtà sia stata rappresentata più o meno fedelmente, in questo libro c’è Camon: c’è l’esperienza dell’uomo esposta con il talento dello scrittore; c’è una rivelazione che forse costituisce la tappa finale di quel viaggio (ammesso che quel tipo di viaggio preveda l’esistenza di un punto di arrivo). Carlo Sgorlon sostiene (la frase è riportata in quarta di copertina): “Camon sembra essere entrato in quel gusto autolesionistico di sciorinare in pubblico le proprie disavventure che è talvolta tipico di alcuni scrittori ebrei, per esempio Philip Roth o Saul Bellow”. Non sono molto d’accordo. Non credo si tratti di gusto autolesionistico, ma di insopprimibile esigenza di raccontare (e raccontarsi) per uscire da sé. E nel percorso narrativo che porta a questa uscita da sé, Camon elabora (e offre al lettore) un testo unico: la storia di un’analisi raccontata dal suo interno; il rapporto tra medico e paziente visto con gli occhi di quest’ultimo. Una storia lunga e difficile, dicevo… che comincia così: “Ci siamo incontrati per sette anni, quattro volte alla settimana, in casa sua, ci siamo parlati per mille e cinquanta ore, ma non so con esattezza chi è. Mi pare che sia abbastanza alto, ma forse ho quest’impressione perché l’unico momento in cui lo avevo davanti e potevo guardarlo in faccia era quando avevo suonato il campanello e lui veniva ad aprirmi la porta” (pag. 9). Uno sconosciuto che diventa più indispensabile di una madre, ma che rimane estraneo fino alla fine del viaggio. “E allora intuisco: anche nelle esperienze più nuove e più rivoluzionarie, ognuno impara solo quello che già sa; e quest’uomo col quale sto parlando, e che guardo per la prima volta – così piccolo, così magro, così vecchio – io non lo conosco.” (pag. 174)
Eppure questo sconosciuto (che rimane tale) diventa un punto di riferimento imprescindibile. “Incontrarlo diventava la cosa più importante della giornata, della settimana, persino (ora mi è difficile riconoscerlo) della vita.” (pag. 13). E la necessità di incontrarlo non scema (tranne che alla fine del percorso) di fronte alla consapevolezza dello stravolgimento interiore a cui il paziente va incontro: “L’analisi sta all’uomo come una guerra civile sta allo Stato” (pag. 153).
Silenzi prolungati, sfoghi improvvisi, racconti di traumi, rivelazioni e interpretazioni di sogni, disturbi psicosomatici, risvolti tragicomici (in alcuni punti perfino divertenti), malattie vere con conseguenti ricoveri ospedalieri: Camon racconta tutto da par suo; con scrittura ritmica, incalzante, che a tratti sorprende e colpisce allo stomaco. Al centro di tutto c’è la crisi della società e dell’uomo, la dissoluzione della famiglia, la scomparsa delle Chiese-madri e dei Partiti-padri (dunque la perdita di punti di riferimento). E la sconfitta del maschio: “L’orgoglio di essere maschio si è moltiplicato in ogni minuto di ogni giorno di ogni anno, ma il risultato finale di questa operazione non indica che una minima parte della realtà. Perché questo fiume di orgoglio lo aveva già accumulato mio padre, e prima di lui mio nonno, e prima di loro tutti i maschi della nostra famiglia, del nostro paese, del mondo, e tutti questi fiumi di orgoglio erano sfociati in me, riempiendomi come un mare, prima ancora che io nascessi.” (pag. 90)
Un accumularsi di maschio orgoglio che è facile riscontrare in frasi come questa: “Non piangere, sei un uomo”. I fiumi di orgoglio riempiono, i fiumi di orgoglio travolgono. Oggi più di ieri. Perché questi fiumi – forse – corrono su letti sempre più ristretti. E straripano. E allora, la malattia. Ma attenzione: “Ciò che è malato è apparentemente lo stomaco, il cuore, l’intestino, in realtà è la lingua. La lingua è il rapporto tra il figlio e la madre, e, per estensione, tra l’uomo e tutto. Quindi, in realtà, ciò che è malato è questo rapporto. Poiché la lingua è un rapporto, la malattia è epidemica: noi viviamo immersi nella malattia, e trasmettendo la lingua trasmettiamo la malattia: la lingua è il virus della malattia chiamata uomo.” (pag. 153). La parola che si logora, che traballa, che tradisce… che perde il suo senso, fino a diventare malattia.
Sulla psicanalisi si è detto di tutto; ma a quel tutto aggiunge qualcosa in più la scrittura di questo romanzo sincero e coraggioso. Una scrittura che fluisce rapida, che scuote, che induce a riflettere sugli effetti dei mutamenti della società e sulla fragilità dell’equilibrio umano.

Di seguito potrete leggere la nota dell’autore alla nuova edizione (ringrazio Ferdinando Camon e la Garzanti per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicarla).

Mi piacerebbe discutere con voi sulle tematiche affrontate da questo libro.
Pongo alcune domande con l’intento di favorire il dibattito:
- che idea avete della “psicanalisi”? Quali sono, a vostro avviso, i pro e i contro?
- secondo voi l’uomo di oggi ha più difficoltà ad adattarsi alle metamorfosi sociali rispetto a quello di un tempo? E perché?
- c’è stato davvero un processo di dissoluzione della famiglia? Se sì… con che conseguenze a livello individuale e collettivo?
- le chiese-madri e i partiti-padri sono davvero scomparsi?
- siete d’accordo sulla seguente considerazione: “oggi il maschio è in crisi”?
- da dove deriverebbe questa crisi? Quale generazioni di maschi ha colpito di più? E per quale motivo?

A voi, come sempre, la parola.

Massimo Maugeri

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LA MALATTIA CHIAMATA UOMO (di Ferdinando Camon)

Nota dell’autore alla nuova edizione

camon-a-padova-2007.jpgQuando scrivevo questo libro, lo sentivo come pieno di sofferenza, a tratti d’angoscia, perciò sono rimasto sbalordito quando poi, appena è uscito, ho visto che i lettori e i critici lo trovavano divertente o perfino comico. Specialmente i lettori e i critici maschi. Le donne hanno avuto una reazione che ci ho messo un anno a capire: le giornaliste non si sono limitate a farci un articolo, ma han voluto una conversazione con l’autore: e così son venute a casa mia una sinologa, critica della «Stampa», una scrittrice del «Corriere della Sera», una romanziera francese redattrice di «Libération», una giornalista
della Radio svizzera… Io le ricevevo con gioia, ero contento che s’interessassero al mio libro, ma un po’ alla volta mi sono accorto che il loro interesse non era per il libro, era per l’uomo: godevano nell’aver tra le mani un uomo in analisi, e venendo a parlargli desideravano costringerlo a una seduta in più, farsi raccontare un altro capitolo, guidare o comunque partecipare all’analisi di un maschio, e in questo modo dominarlo, tenerlo in pugno. Io nel libro lo dico di un uomo per una donna: amare una donna, far sesso con lei, non è il modo più completo di averla in proprio dominio; e nemmeno confessarla, esaminarne i peccati e le colpe; no, il modo più completo ed entusiasmante di conquistarla e possederla è entrare negli spazi di lei che lei non conosce, farsi consegnare i sogni e le fantasie, scoprirne le fobie che lei patisce ma ignora.
Bene, queste donne che appena letta la Malattia venivano a cercarmi, cercavano un nuovo recesso del mio inconscio da indagare, da scoprire, un punto vulnerabile, un sogno dimenticato, una reazione incauta… Volevano una loro vittoria, diretta e personale, su un maschio in crisi. Per ottenere questo, eran disposte a pagare il prezzo che valeva, e cioè a scambiare sogno con sogno, confessione con confessione, seduta con seduta, e perciò mi raccontavano spezzoni della loro analisi, finita o ancora in corso. Alcune di queste loro confessioni sono poi confluite nella Donna dei fili. Ho imparato molto da quelle donne. Più di quanto ho loro insegnato.
Con questo libro, per la prima volta i contatti si facevano personali anche con direttori editoriali e traduttori con i quali fin’allora dialogavo per lettera. Questo è un libro che, fra tutti i miei, alla Gallimard, Hector Bianciotti ha amato di più. Da New York è venuto a trovarmi il traduttore John Shepley, s’è piazzato in un albergo qui vicino e c’è rimasto per alcuni giorni. «Per parlarmi», diceva lui. Credo che la ragione fosse un’altra: per vedermi. Da Buenos Aires è venuto Antonio Aliberti. Questo non lo avevo messo nel conto: che fosse un libro che fa venir voglia di vedere in faccia l’autore, sedersi di fronte a lui, vis-à-vis, entrargli in confidenza.
L’autore, al contrario, non ha voglia di farsi vedere dai lettori, il suo istinto è nascondersi.
Il libro è stato portato in teatro a Parigi, ed è stato recitato tutte le sere per quattro anni all’Aquarium. Io ero a Parigi la sera della prima. Ma non mi sono presentato al teatro.
In una pubblica piazza proiettavano, in prima mondiale, Ran di Kurosawa. In fretta e furia mi son procurato un accredito e mi son seduto tra la folla. Al teatro mi son recato una settimana dopo, l’attore che mi impersonava sulla scena mi ha riconosciuto e alla fine della recita mi ha indicato al pubblico, ma io non mi sono alzato in piedi.
Devo dire che le poche volte che sono andato a incontri con i lettori mi sono pentito. Le osservazioni e i dialoghi eran incauti, indelicati, dolorosi. Un gruppo di lettori aveva organizzato un piccolo festeggiamento con cena, mi presento, siamo nell’atrio della sala in attesa, una signora mi s’avvicina e mi fa: «È lei che ha scritto il libro?», «Sì, signora », «Leggendo, la immaginavo diverso», «E come m’immaginava?», la signora mi squadra dall’alto al basso, dal basso all’alto, e conclude, sprezzante: «Più ascetico».
Mi considero fortunato a non aver mai incontrato di persona, almeno finora, qualcuno dei lettori-pazienti che in questo quarto di secolo sono andati in analisi dall’analista di cui parlo nel libro. È stato lui stesso a raccontarmi che hanno tutti qualcosa da ridire: «Dov’è sul muro la macchia a forma di aereo che descrive Camon?», «Ma il lettino è sempre stato così vicino al muro? e quando venne il terremoto di cui parla Camon, sbatteva sul muro?». Son passati tanti anni, ma è come se andassi ancora in analisi insieme con loro. E neanche questo l’avevo previsto.
Quella che racconto nel libro è un’analisi in cui è uomo (maschio) sia l’analizzato che l’analista. Poiché l’analisi è onnisessuale, in questa onnisessualità fra due uomini una mente profana (beata lei) può sentire una vena di omosessualità: in fondo, son due uomini che parlano di sesso, in completa intimità. C’è stato uno scrittore omosessuale che è venuto a trovarmi, dopo di che mi ha mandato per lettera una scheda di valutazione del mio aspetto fisico: mani «raffinate», sopracciglia «stupende» (scusate, lo diceva lui; ma perché le donne non mi hanno mai fatto complimenti del genere?), sguardo «morbido»; «peccato le spalle…». Infatti, lo riconosco, sono un po’ curvo.
Non ho mai ricevuto esami anatomici dai lettori di nessun altro mio libro, ma della Malattia sì. Qualcosa deve significare.
La psicanalisi dà l’idea non di una relazione ma di una fusione psiche-soma. Valutazioni di questo tipo credevo che non mi facessero né caldo né freddo. Però, passano gli anni, e m’è venuto un tic: ogni mattina, quando mi rado, guardo le sopracciglia e ripeto dentro di me «stupende », guardo le mani e dico «raffinate», poi mi giro per vedere nello specchio le spalle e mi lamento: sì, sono curve, sembro Leopardi. È dunque un libro che mi ha inguaiato i rapporti con i lettori. E con me stesso.
Da Mosca il mio traduttore Mickail Andreev, professore all’università, mi mandò una lettera sconsolata: «Non mi la sciano tradurre questo libro, dicono di non poter ammettere che ci sia un’influenza che partendo dalla psiche si scarica sul corpo». Non so se la seduta sia un reato, come sosteneva il presidente degli psicanalisti italiani Cesare Musatti (è un aneddoto che cito spesso, a costo di ripetermi: «Se i carabinieri sentissero come parlano, e di cosa parlano, analizzato-analista, gli metterebbero le manette e li porterebbero in prigione di corsa»), ma certo è un tabù. E ogni capitolo del libro rompe questo tabù. E qui, probabilmente, c’è una violenza, una hybris. È una colpa, e chi la commette deve espiarla. Di fronte all’uomo in crisi, al maschio in analisi, la critica italiana dava spiegazioni storiche o economiche (l’Occidente è in decadenza, la donna guadagna quanto il marito, nei divorzi la moglie si porta via tutto, e soprattutto i figli, eccetera): noi avevamo una critica marxista-idealista, altrove usavano da tempo quelle che i francesi chiamano le «nuove scienze umane». E queste, nella comprensione di un testo letterario, rendevano di più. Perciò è stata profondamente diversa la lettura che di questo libro han fatto i giornali francesi, spagnoli, argentini rispetto a quegli italiani. Fuori d’Italia mi son sentito capito meglio. Qualcuno, all’estero, aveva affacciato l’ipotesi che il culmine della vittoria della donna sull’uomo (del femminile sul maschile) si fosse avuto quando c’era stato un papa che era durato solo 33 giorni, ma in quei 33 giorni aveva fatto in tempo ad annunciare al mondo che «Dio è mamma», cioè femmina. Fosse durato altri 15 giorni, avrebbe cambiato le parole con cui i cristiani sparsi sulla Terra si richiamano alla propria origine: «Madre nostra, che sei nei cieli». Era la de-maschilizzazione del mondo e della storia. Correva l’anno 1978, il mese era settembre, in analisi ero sprofondato nel tunnel dei sogni, ci volevano ancora tre autunni perché uscissi a riveder le stelle, intanto prendevo appunti, e quegli appunti erano il primo nucleo della Malattia chiamata uomo.
Ferdinando Camon
Luglio 2008

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AGGIORNAMENTO DEL 31 marzo 2009

Aggiorno il post con il bellissimo intervento che ci ha fatto pervenire Ferdinando Camon
(Massimo Maugeri)

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Ferdinando Camon a Massimo Maugeri
31 marzo 2009, ore 17,14

Caro Maugeri e cari colloquianti di “Letteratitudine”, leggo nella mattinata del 31 marzo il dibattito che si sta svolgendo sul mio libro “La malattia chiamata uomo”, e poiché qualcuno mi chiama in causa, ritengo un dovere morale rispondere. Non è una buona cosa che un autore risponda a domande su un suo libro, perché il libro dovrebbe già contenere le risposte: se le risposte le dà l’autore, vuol dire che il libro è incompleto o reticente. Ma il fatto è che si tratta di un romanzo-verità, un racconto-diario, e la verità e il diario riguardano una delle esperienze fondanti della vita, la psicanalisi, e perciò basta che uno viva per sentirsi coinvolto e reagire, concordando o dissentendo. Ho detto psicanalisi-esperienza. Il che comporta che chi ne ha fatto l’esperienza sa che cos’è, mentre chi ha soltanto letto dei libri o discusso con amici (o psicanalisti o preti o intellettuali vari) ne ha una intuizione esterna, ma non una conoscenza. La mia analisi è cominciata con Cesare Musatti, presidente degli psicanalisti italiani. Non molto costoso. Loquace. Un grande padre. Non immune da errori, anche gravi, anche gravissimi. Come, del resto, ogni padre. Musatti però stava lontano, dovevo fare tre ore di treno per l’andata e tre per il ritorno, e così dopo un po’, passata la buriana del primo transfert, concordammo, lui ed io, che si poteva continuare con uno più vicino, naturalmente membro della Spi, professore universitario, persona squisita, che sapeva impostare e condurre (e sfruttare) il transfert molto meglio di Musatti, praticamente senza il minimo errore. Questi abitava a trenta minuti di auto da casa mia. E’ il protagonista del libro. Musatti era vecchio, e come tutti i vecchi parlava troppo. Mi raccontava di un altro scrittore che era stato in analisi da lui, un grande scrittore, che io sentivo come un fratello maggiore, Ottiero Ottieri: Ottieri era caduto in quella che si chiama “analisi interminabile”, dopo l’analisi con Musatti entrò in un’analisi junghiana, e dopo in un’altra ancora, e insomma non ne usciva più. Io amavo i suoi romanzi. Avevo raccolto in un libro le mie conversazioni con gli scrittori italiani che frequentavo, Moravia Pratolini Bassani Cassola Pasolini Volponi Ottieri Roversi Calvino, Musatti lo sapeva, e non doveva parlarmi in quel modo di due di questi autori, che per me erano due “figure interiori” dominanti. Ottieri beveva. La moglie gli nascondeva gli alcolici. Ma lui trovava il rimedio, beveva i profumi della moglie, che contengono alcol. Pasolini controllò con sofferenza le prime 6-7-8 sedute, non voleva che saltasse fuori la sua omosessualità. A un certo punto lo disse: “Parlerò di tutto, tranne che della mia omosessualità, perché la considero natura”. Musatti rispose: “Ne parlerà comunque, perché è cultura”. Pasolini entrò in una crisi d’angoscia, saltò una-due-tre sedute, e alla fine non si fece più vedere. La mia opinione è che, se avesse continuato l’analisi, sarebbe ancora vivo, e avrebbe l’età di Zanzotto. Ma non sono convinto che Musatti abbia fatto bene a dire quelle parole. Lui non doveva spiegare nulla. Doveva soltanto analizzare perché Pasolini credesse che l’omosessualità fosse natura (convinzione, peraltro, che il senno del poi predilige). Anche per questi sconcertanti errori non mi fu traumatico passare da Musatti a Fara.
Quella era l’”epoca eroica” della psicanalisi, la psicanalisi freudiana si svolgeva così come io la racconto. Avevo amici psichiatri-psicanalisti che andavano in analisi a Parigi una volta al mese, da Salomon Resnik. Resnik, argentino trapiantato a Parigi, è l’autore delle voci sulla psicanalisi per l’Enciclopedia Einaudi. Questi miei amici stavano a Parigi un week-end al mese, e in quei giorni andavano in analisi ogni mattina e ogni pomeriggio. Poi, separazione totale per un mese. Assurdo. Per me, l’analisi è una “consegna” della vita, man mano che viene vissuta. Tu, all’analista, dai tutto quello che sei, giorno e notte, quello che sai e quello che non sai, e i sogni li consegni alla cieca, ignorando quel che contengono. In quello che non sai, e nei sogni, può esserci anche disprezzo per l’analista, e oltraggio, e protesta. Non ha importanza, il vostro rapporto non cambia. Il vostro rapporto è il rivivimento di altri rapporti, analizzando l’odio di questo rapporto tu capisci l’odio di altri rapporti, e ne vieni fuori. Finché non ne vieni fuori, lo patisci. E’ per questo che l’analisi è un cibo: un cibo lo devi mangiare, non saprai mai cos’è finché leggi menù. Così è l’analisi. Finché leggi libri, non ne fai esperienza.
L’analisi che racconto nella “Malattia” è la forma classica dell’analisi freudiana. Ci sono altre analisi, certo. Alcune selvagge. Un’analisi selvaggia la racconto nel romanzo “Il canto delle balene”, lo dico perché vedo che qualcuno di voi l’ha letto: l’analista del “Canto delle balene” è (scusate) un pazzo, che crede di guarire contagiando con la propria pazzia. Mi sono divertito scrivendo “Il canto delle balene”, ho sofferto oltre ogni dire scrivendo la “Malattia”.
Oggi non la scriverei più così, ma l’analisi nella sua forma classica resta quella. Allora c’erano ruoli inderogabili: padre, tu vieni dopo la famiglia; marito, tu vieni dopo tua moglie; figlio, ama il padre e la madre; omosessuale, tu sei un assassino. I “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio” erano sette, il primo era l’omicidio volontario, il secondo il “peccato impuro contro natura”, cioè l’omosessualità. Capisco la disperazione, allora, di Pasolini, e oggi di Vattimo. Ognuno aveva un ruolo, sgarravi dal tuo ruolo e ti sentivi morire. Imperava il senso di colpa. L’analisi che io racconto è il processo a cui viene sottoposta una morale piena di valori e anti-valori terrificanti. Adesso il campo della morale è vuoto, il senso di colpa è dissolto.
Per tutto quello che ho detto, uno psicanalista ottiene più per quello che è che per quello che sa. Non contano le sue risposte, conta il modo con cui ti conduce a trovare le risposte. Non è vero che quando non risponde c’è il silenzio: siete in due, tutt’e due vigili all’estremo, quindi silenzio come assenza non c’è mai. Il silenzio come assenza è l’isolamento. Il silenzio come presenza vigile è la solitudine. E’ ben diverso.
Capisco chi dice oggi che quattro ore alla settimana sono troppe: oggi forse non sono neanche necessarie. Forse oggi non è necessaria nemmeno l’analisi col lettino, e infatti vedo che qualcuno ironizza sul lettino. Il lettino e il non-vedersi causano regressione. Il punto a cui arrivi con la regressione è il punto da cui parti con la ricostruzione. Vedo che qualcuno parla di “ricostruzione della persona”. E’ giusto, è l’operazione da fare. La persona fu costruita con la lingua, e con la lingua va ricostruita. Non sono sicuro che si possa porre un “essere” prima che si possa porre il “parlare”. Heidegger dice che il linguaggio “è la casa dell’essere”. Vito Mancuso dice che “l’essere divino è persona e ha un linguaggio”. Su quel che c’era in principio sta scritto: en archè en o lògos, in principio erat Verbum. Credo (ma non è il mio campo) che la lingua fondi la persona, e che il bambino che sente come prima parola “mamma” venga fondato diversamente da quello che sente “Mutter”. Poi, crescendo, i due bambini si differenziano sempre di più: il ragazzo che sente “attenzione” sta attento, il ragazzo che sente “Achtung” trema. All’interno di una lingua, ogni parlante è diverso dagli altri, e così per ogni uomo si svolge un’analisi diversa: se non fosse così, potrebbero esistere dei dizionari dei sogni, in cui dato un sogno con i suoi simboli si deducono le oggettive valenze. Come se il senso di un sogno fosse in chi lo interpreta. Invece il senso di un sogno sta dentro il sognatore, e quando vien fuori il senso se ne meravigliano sia l’analista sia chi va in analisi. Il terreno dell’analisi è il terreno dei tabù. Un’analisi si muove sempre nel proibito. E’ ingenuo il paragone (che spesso si fa) tra analista e confessore: un’analisi comincia dove la confessione finisce, la confessione a un certo punto si deve fermare (sta scritto nelle guide del confessore; se non si ferma, diventa morbosa), ma l’analisi è da lì che parte. Certo, come dice qui più d’uno (ho imparato molto da queste e-mail; grazie a tutti, da Zauberei agli altri, e grazie anche a Giampiero, che mi ringrazia), i tempi cambiano, cambia la famiglia, cambiano l’uomo e la donna, e dunque cambia anche l’inconscio. Perciò cambia la caccia all’inconscio. Tuttavia l’inconscio fu ipotizzato e cercato e rintracciato e descritto con la tecnica che io descrivo. Quella tecnica sta alla psicanalisi come il latino sta alle Scritture. Per capire le Scritture, bisogna conoscere la lingua in cui sono scritte.
Ferdinando Camon

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L’ANIMA E IL SUO DESTINO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/01/lanima-e-il-suo-destino/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/01/lanima-e-il-suo-destino/#comments Mon, 01 Sep 2008 13:21:23 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/01/lanima-e-il-suo-destino/ Esiste l’anima?
È davvero immortale?
Qual è il suo destino? È più un destino di salvezza o di perdizione?
Ve lo siete mai chiesti?
Che risposte vi siete dati?

Inizio questo post in modo bruciante, ponendo delle domande brucianti su un argomento – giusto per rimanere in tema – scottante (da sempre, direi).
L’anima è il suo destino” è il titolo di un recente libro pubblicato da Vito Mancuso (nella foto), docente di Teologia moderna e contemporanea presso la facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano (Mancuso ha già pubblicato i volumi: Il dolore innocente , Mondadori, 2002  e Per amore, Mondadori, 2005).
Un libro che, criticando alcuni dogmi consolidati, affronta l’interrogativo fondamentale che da sempre inquieta la mente degli uomini: se esiste e come sarà la vita dopo la morte.

Questo post, peraltro, coincide con una nuova puntata de “Il sottosuolo”: rubrica di Ferdinando Camon.
Lo stesso Camon, infatti, mi ha proposto l’interessantissimo pezzo che leggerete di seguito.
Dal pezzo si evincono domande classiche sul “dolore degli innocenti”: un bambino nasce cieco, dov’è Dio? la sua giustizia e la sua sapienza?
Subito dopo avrete la possibilità di leggere la recensione del libro proposta da Wuz.it.
A voi la parola!

Massimo Maugeri

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IL SOTTOSUOLO (rubrica di Ferdinando Camon) 

In Paradiso dopo Dostoievski: luci e musica, ma i bambini piangono

camon-a-padova-2007.jpgÈ un caso letterario: un libro di teologia, che modifica profondamente ciò in cui crede il cattolico, sale in classifica, ci resta, e apre un appassionato dibattito in Internet. Un libro di altissima consolazione, sia per chi crede sia per chi non crede. Fila dritto come un missile verso la tesi che tutti avremo la salvezza, solo chi la rifiuta si perderà, dunque la perdizione è una scelta consapevole e tenace. Leggendo questo libro (che in molti punti, anche centrali, si può non condividere; io non lo condivido; ma è comunque un’opera di vasta cultura), pensavo continuamente ai due ultimi racconti di Philip Roth, “Everyman” e “Patrimonio“. Qualcuno ha scritto: il papa non deve preoccuparsi di Odifreddi e compagni, sono atei gelidi, il loro gelo è un disamore che il lettore ricambia con disamore; l’autore che davvero uccide la speranza è Philip Roth. È vero. In quei due libri di Roth tutto è morte, Dio non c’è, il personaggio di “Everyman” passa di ospedale in ospedale (lui e le sue donne) e infine visita un cimitero, e s’informa su come si scava una tomba, e dà una mancia al becchino: gli paga in anticipo il lavoro che farà per lui. Quando chiudi il libro, è come se tirassi il coperchio della bara su di te. Mancuso risponde con questa esplosione di luci e di musiche: tutto è Dio, la morte non c’è. Sulla teologia di Mancuso, docente all’università San Raffaele di Milano, Google raccoglie in questo momento 225.000 voci. Il punto su cui il dialogo lettori-Mancuso si fa più drammatico, è il dolore degli innocenti: un bambino nasce cieco, dov’è Dio? la sua giustizia e la sua sapienza? In risposta Mancuso introduce una variazione profonda nel concetto di creazione, pensa che la creazione non è finita, il mondo è in costruzione, la natura che lo produce è sapienza perché il suo disegno finale è buono, ma è cieca, vede l’insieme ma non i singoli, sugli individui può sbagliare e sbaglia, ma la sua benignità si vede dal fatto che nei genitori degli innocenti infelici non cala ma accresce la carica d’amore. Di più: per gli innocenti che nascono incapaci d’intendere, l’anima spirituale si forma per simbiogenesi, i genitori fondono la propria anima con quella del figlio, e in questa fusione si travasa amore e conoscenza. Quei figli (Mancuso lo dice col titolo dell’ultimo libro di Pontiggia) sono “nati due volte”. Sono le pagine più turbate. Ne esco ammirato, ma non pacificato.
Il sistema salvifico di Mancuso è diverso, e in parecchi punti contrario a quello della chiesa cattolica. Mancuso ha orgoglio e paura di questa diversità e contrarietà. Paura: richiama continuamente la sua formazione di figlio che non vuole trovarsi fuori della casa. Orgoglio: sottolinea la sua opposizione verso concili, bolle, documenti, anche di Ratzinger-Benedetto. Tra l’altro, sul tema della verità, chi la possiede, dove sta. Insomma, il principio dell’”extra ecclesiam nulla salus”. Imposto dal concilio di Trento (con scomunica ai renitenti), cancellato dal Vaticano II, reimposto da Ratzinger nel 2000, Mancuso “osa” contraddirlo con radicale violenza. Un coraggio benefico, in tempo di dialogo multireligioso. Quel principio non è che spegne il dialogo, non gli permette neanche di nascere. M’è sfuggito “osa” come s’io fossi un cardinale: alle mie spalle, qui nella stanza dove scrivo, tengo affissa al muro in fotocopia l’”abjuratio Galilei”, perché mi sembra il crocevia da cui parte ogni libertà di giudizio (anche letterario). Mancuso afferma che se così è, se si salva solo chi è “intra”, allora la venuta di Gesù è stata una disgrazia per l’umanità, perché ha dannato tutta quella che sta “extra”. Essenzialmente, in questo libro Mancuso tratta i Novissimi, morte-giudizio-inferno-paradiso. Ne cancella tre e ne lascia uno, il Paradiso. “Le anime del paradiso sono luce – ho visto che anche Franco Cordelli è rimasto affascinato da questa descrizione -, ma sono anche musica, perché l’essere divino è personale e ha un linguaggio”. Ripenso alla luce e alla musica da una parte, e al dolore degli innocenti dall’altra. Non riesco a metterli in contatto. Infatti, Mancuso li separa: tra Dio e i nati-per-soffrire interpone la Natura, è la natura che sbaglia, e crea con sapienza imperfetta. Dopo Auschwitz, il filosofo Hans Jonas ha ripensato Dio: è buono e onnisciente ma non onnipotente, il male è più grande di lui, lui non ha potuto farci niente. Ho l’impressione che Mancuso faccia la stessa operazione: il creatore è buono e onnipotente, ma non onnisciente, gli sfugge il dolore degli innocenti, non lo conosce. Ivan, nei “Karamazof”, diceva che se gli danno un biglietto per entrare in paradiso, a patto che ammetta il dolore nei bambini (in Dostoievski, essere sbranati dai cani), lui restituisce il suo biglietto d’entrata. Sul dolore degli innocenti, in Google, Mancuso ha 5.580 contatti, e molti sono domande. Con questo articolo, ci metto anche la mia.
Ferdinando Camon

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da WUZ.it

“Non esiste un mondo peculiare della religione, nel quale valgono leggi e possono avvenire cose del tutto differenti rispetto al mondo reale. Non c’è che un unico mondo, e se si crede davvero che la religione cristiana abbia qualcosa di importante da dire quanto all’origine e alla direzione del mondo, e degli uomini che lo abitano, si deve essere in grado di argomentarlo al cospetto del sapere che il mondo ha di se stesso, cioè scienza e filosofia.”

L’autore è docente di Teologia moderna e contemporanea presso la facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. Non ci troviamo dunque di fronte a un saggio scritto da un osservatore “esterno” ma da riflessioni che nascono dentro la stessa Chiesa, tra chi nella religione, nella fede cattolica vede la proprio vita tanto da metterla al centro dei propri studi e del lavoro.
Eppure in queste pagine l’autore critica direttamente papi e cardinali, attacca scelte e decisioni, traccia un percorso diverso rispetto a quello ufficiale di gran parte della Chiesa, sottolineando in questo modo, più “dolorosamente” e incisivamente di quanto possano fare i non addetti ai lavori, le incongruenze e le devianze rispetto a un cammino teologico rigoroso, capace di affrontare validamente il dibattito scientifico e filosofico.

Il volume non a caso si apre con una bella lettera di un uomo di Chiesa rigoroso, coerente e determinato come il cardinal Carlo Maria Martini, che esordisce con queste parole:
“Hai avuto un bel coraggio a scrivere dell’anima, la cosa più eterea, più imprendibile che ci sia, tanto che si giunge a dubitare che essa esista.”
E poco oltre:
“Penso di sentire parecchie discordanze su quanto tu concludi su diversi punti, ma non posso negare che tu cerchi sempre di ragionare con rigore, con onestà e con lucidità, e che hai il coraggio delle tue idee, dicendo anche apertamente che esse non sempre collimano con l’insegnamento tradizionale e talvolta con quello ufficiale della chiesa. Perciò il tuo libro incontrerà opposizioni e critiche. Ma sarà difficile parlare di questi argomenti senza tenere conto di quanto tu ne hai detto con penetrazione coraggiosa”.

Un libro importante, dunque, e non solo per i credenti, tant’è che è stato pubblicato da Raffaello Cortina nella collana “Scienza e idee” diretta da Giulio Giorello. Leggendolo sembra aprirsi anche a chi non ha fede una finestra di dialogo, come se finalmente la religione possa, in una realtà che, come scrive Mancuso, è una (quella in cui tutti noi viviamo) ammettere le ragioni del laicismo e certe affermazioni della scienza per procedere lungo un percorso di crescita comune.

La chiave d’accesso a questo confronto è uno dei temi più controversi e difficili: l’anima. 
Sulla sua esistenza e sulla sua immortalità si ragiona e si dibatte da sempre. Mancuso, nel suo procedere - pur collocandosi nella tradizione metafisica del cattolicesimo -, si basa sul principio che “l’ignoranza sia sempre e solo un male, la luminosità del sapere sia sempre molto meglio dell’oscurità della fede” e dunque affronta in pieno petto quei credenti che ancor oggi pensano che la condizione dell’ignoranza sia un bene perché obbliga in qualche modo a rivolgersi alla fede e alla rivelazione divina.

In questo libro, in sostanza, si ragiona “sull’anima non in quanto misteriosa entità sovrannaturale che giunge dall’alto, ma come qualcosa di naturale, come il principio della vita, come la realtà più concreta che c’è. E – prosegue ancora Mancuso – a partire da qui, dalla concretezza della vita naturale, tenterò di condurre il discorso sulla possibile continuazione della vita al di là della dimensione naturale”.

Il volume si pare con un lungo capitolo dedicato alla Teologia di fronte alla coscienza laica, una premessa anche storica molto importante e che si chiude affermando che l’obiettivo di questo libro sta nel mostrare che “il legame di Dio con l’umanità è basato su una realtà molto più solida che non singoli eventi storici, sia pure gli eventi della morte e della resurrezione di Gesù. Si tratta di un legame ontologico, concernente sia il copro sia l’anima, l’intero della nostra realtà, e che per questo è qualcosa di semplicemente indistruttibile”.

Il testo si sviluppa poi su una serie di capitoli: Esistenza dell’anima (i principi generali), Origine dell’anima (che Mancuso afferma non venire direttamente da Dio e dividersi in anima vegetativa e sensitiva), Immortalità dell’anima (che non conosce argomenti conclusivi né a favore né contro. Mancuso sostiene un argomento cosmologico, nel senso che afferma la “plausibilità dell’immortalità dell’anima” in quanto vede “in essa e nel suo ordine spirituale la più alta organizzazione prodotta dal lavoro dell’universo”), Salvezza dell’anima (un capitolo che si sviluppa sulla domanda “da che cosa deve essere salvata l’anima?” e come), Morte e giudizio (“spunti critici in vista del necessario ripensamento dell’escatologia auspicato dal cardinal Ruini”), Paradiso, Inferno, Purgatorio, Parusia (attesa della sua venuta) e giudizio universale.

La vita eterna, strettamente correlata all’anima, è il principale tema della teologia. Ragionare su di esso in questo modo significa dare nuovi sbocchi alla religiosità, fare i conti col presente “reale” e prepararsi per il futuro. 
“Amare la vita. Alla fine tutto sta qui”. E non è davvero poco.

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Extrapost

1. Su “La poesia e lo spirito” potete leggere questa intervista che mi ha rilasciato Dacia Maraini

2. Sul nuovo numero della rivista Inchiostro potete leggere un’intervista del sottoscritto in cui parlo di questo blog

(Massimo Maugeri)

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IL SOTTOSUOLO di Ferdinando Camon http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/02/21/il-sottosuolo-di-ferdinando-camon/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/02/21/il-sottosuolo-di-ferdinando-camon/#comments Thu, 21 Feb 2008 22:12:45 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/02/21/il-sottosuolo-di-ferdinando-camon/ Cari amici di Letteratitudine,

con questo post decreto l’apertura di una rubrica che verrà affidata a Ferdinando Camon (nella foto).

camon-a-padova-2007.jpgCome ho già scritto in altra occasione, Camon è una delle voci più autorevoli della nostra letteratura; un uomo che ha scritto e pubblicato libri di altissimo pregio, a prescindere dal fatto che abbiano vinto premi importanti, tra cui lo Strega e il Campiello (lo stesso Camon sostiene che “I premi non sono giudizi critici, non sono saggi e non sono articoli. Non aggiungono nulla ai libri. Nella vita dei libri, le vicende che contano sono gli incontri con i giornali, con le riviste, con le scuole e le università, e, attraverso le traduzioni, con le lingue e le culture straniere”). La presenza di Camon qui a Letteratitudine è per me un vero onore, ma al tempo stesso testimonia l’apertura che questo grande letterato (classe 1935) mostra per i nuovi mezzi di comunicazione (come Internet e i blog).

Per espressa volontà dell’interessato, il titolo della rubrica sarà: Il sottosuolo.

Il riferimento è all’ottima opera Memorie dal sottosuolo (o Ricordi dal sottosuolo, dipende dalle traduzioni) di Fëdor Michailovič Dostoevskij. Libro che, secondo lo stesso Camon, contiene uno degli incipit più belli della storia della letteratura.

Io direi di far partire questa rubrica proprio così… discutendo di questo libro di Dostoevskij. Ritengo che si possa prestare a un interessante dibattito.

A quarant’anni Fedor Dostoevskij è uscito da poco da una serie di vicende drammatiche (la militanza socialista, la condanna a morte commutata all’ultimo momento, la deportazione siberiana) e, pur praticando un’intensa attività giornalistica, sta ancora cercando la sua strada. “Memorie dal sottosuolo” (1864) è il libro che annuncia i capolavori della maturità. Con i suoi tratti autobiografici, il protagonista delle memorie è un impiegato inconcludente, un uomo a disagio con se stesso e in rotta con la società, isolato, con una vita di relazione inconsistente, incapace di legare con i colleghi d’ufficio come con gli ex compagni di scuola. Un uomo timido, senza risorse e protezioni, che proprio la brutalità della vita sociale respinge nel sottosuolo, e a cui non resta che cercare uno sfogo provvisorio tormentando chi sta ancora più in basso di lui: Liza, misera prostituta alle prime armi, incontrata in una sera di neve bagnata.

Vi lancio una sfida. Vi invito a leggere (o a rileggere) il volumetto del celebre autore russo per discuterne assieme qui. Io dispongo dell’edizione Adelphi, con traduzione di Tommaso Landolfi.

Alcune domande provocatorie (spunti tratti dal libro).

Siamo davvero “convinti che soltanto il normale e il positivo, insomma soltanto il benessere, sia vantaggioso per l’uomo? Che non abbia a sbagliarsi, la ragione, a proposito di codesti vantaggi? Non sarebbe poi possibile che all’uomo non piaccia soltanto lo star bene? Che gli piaccia anzi altrettanto la sofferenza? Che lo star male gli sia di vantaggio giusto quanto lo star bene?”

E mentre ci sono ne approfitto per chiedervi… in che rapporti (letterari) siete con il grande scrittore russo?

Vi riporto inoltre un testo che Camon scrisse nel 1985 e che “Libération”, pubblicò nel numero speciale: Pourquoi écrivez-vous?, 400 écrivains répondent (numero speciale 15 marzo 1985; in volume: edizioni di “Libération”, Parigi 1988, pp. 247-248).

Mi pare un’ottima presentazione. Seguirà, infine, una biografia dell’autore.

Mi raccomando… massimo rispetto e serietà.

Ci tengo molto.

Grazie.

Massimo Maugeri

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PERCHÉ SCRIVO di Ferdinando Camon

Scrivo per vendetta. Non per giustizia, non per santità, non per gloria: ma per vendetta. Tuttavia, dentro di me, sento questa vendetta come giusta, santa, gloriosa. Mia madre sapeva scrivere solo il suo nome e cognome. Mio padre, poco di più. Nel paese dove sono nato, i contadini analfabeti firmavano con una croce. Quando ricevevano una lettera dal Municipio, dall’esercito, dai carabinieri (nessun altro scriveva ai contadini), si spaventavano e andavano a farsi spiegare la lettera dal prete. Li ho visti passare molte volte, ero un ragazzo. Da allora ho sentito la scrittura come uno «strumento del potere», e ho sempre sognato di passare dall’altra parte, impossessarmi della scrittura, ma per usarla in favore di coloro che non la conoscevano: per realizzare le loro vendette.

Ma essi non volevano vendicarsi e perciò non si sentono rappresentati da me. E coloro che io cerco di vendicare, mi considerano — giustamente — come un nemico. Di conseguenza, sono isolato, e non riesco a legare con nessuno. Dappertutto dove sono passato sono un non-riconosciuto, un espulso, un non-accettato: famiglia, paese, mondo letterario, mondo cattolico, partito comunista, psicanalisi… Sono uno al quale non si può fare alcuna confidenza, uno che può tradire. Ogni mio tradimento consiste nella ripetizione del primo tradimento: mi sono impossessato della scrittura per vendicare gli analfabeti, sono passato attraverso il cattolicesimo per insegnargli cos’è la santità, ho descritto i gruppi terroristi per giudicarli dall’interno, e sono entrato nella psicanalisi per «dominare» l’analista… Conseguenze: all’esordio, quando ho pubblicato il primo libro, Il quinto stato, il sindaco del paese che descrivevo voleva citarmi in giudizio… Sempre, dall’inizio fino ad oggi, la prima reazione che incontro è il rifiuto, la condanna, la censura. Ho scritto su molti giornali italiani, e dappertutto sono stato censurato: dall’«Unità» all’«Osservatore romano», dal «Corriere della Sera» a «Paese-Sera» al «Giorno».

Se dovessi definire la vendetta direi che è una giustizia nevrotica. Quando dico che scrivo per vendetta, voglio dire che scrivo per compiere una giustizia smisurata, eterna e dunque ingiusta: la scrittura deve essere una esaltazione o una punizione destinata a durare senza fine. Ho bisogno di coltivare l’illusione che questo sia possibile. Non importa che si tratti di un’illusione: se prendo coscienza che la mia opera non durerà a lungo, la mia vita non ha più giustificazione. Da qui il bisogno di scrivere poesie o romanzi, non politica: la politica produce una vendetta troppo provvisoria. Quando scrivevo Il quinto stato, volevo fare l’esaltazione degli ultimi, vendicare la loro condizione di repressi. Non c’è differenza tra repressione politica, militare, economica, sessuale, ecc.: sono tutte collegate. E di conseguenza l’espressione — che è l’esatto contrario di repressione — le “vendica” tutte. Scrivendo La vita eterna volevo vendicare i partigiani contadini, il loro destino oscuro, senza gloria.

Poiché il capo delle SS di questa zona dell’Italia di cui parlo nel libro fu scoperto quando La vita eterna fu tradotta in tedesco, e fu citato in processo, e morì la notte della prima udienza, mi piace pensare La vita eterna come un colpo di fucile sparato dall’Italia alla Germania per colpire al cuore un nemico della mia gente. La Procura di Verona aveva incluso La vita eterna, edizione italiana ed edizione tedesca, tra i documenti a carico.

Con Un altare per la madre ho voluto realizzare un mio personale processo di santificazione, sostituendo quello della Chiesa: ho voluto fare la più grande esaltazione possibile del più miserabile dei personaggi, usare la santificazione come vendetta sociale.

E con La malattia chiamata uomo ho tentato di rovesciare i ruoli della psicanalisi, concependo il transfert come strumento per mezzo del quale il paziente conosce se stesso e l’analista. L’analisi è qualche cosa che non si può, non si deve raccontare: è piena di tabù.Colui che la racconta, non rompe un tabù, ma un contenitore di tabù. Caricata di questi compiti, che forse non può sopportare, la scrittura mi logora. Accettando di logorarmi punisco me stesso: mi punisco delle ingiuste giustizie che compio ogni giorno con ogni riga della mia scrittura. E così il cerchio si chiude: la scrittura è colpa ed espiazione, peccato e assoluzione, vendetta di una colpa, colpa per questa vendetta, espiazione di questa colpa.

Ferdinando Camon

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BIOGRAFIA

Ferdinando Camon è nato in un piccolo paese di campagna, in provincia di Padova, presso Montagnana, cittadina chiusa da una perfetta cinta di mura (Castellani vi ha girato il film “Romeo e Giulietta”) che risale ai tempi del tiranno Ezzelino, prima di Dante. Di questo paese non ha mai indicato il nome. Aveva dieci anni quando la guerra finì, e dunque fece in tempo a imprimersi nella memoria rastrellamenti e bombardamenti: c’era un grande olmo nella campagna paterna, e lui vi saliva sopra per osservare le battaglie aeree tra i caccia tedeschi e le Fortezze Volanti americane, o la cattura dei partigiani da parte delle SS: fu così che vide un suo parente, membro di una squadra della brigata partigiana Garibaldi, mentre si arrendeva in un campo di frumento incendiato: aveva la pancia segata da una raffica, per la ferita uscivano le viscere, e lui se le reggeva con le mani (Camon ne parlerà in una poesia de Liberare l’animale, 1973, e nel romanzo Mai visti sole e luna, 1994). Gli abitanti della campagna (“uomini, angeli, diavoli, animali”) sono i protagonisti dei suoi primi due romanzi, Il quinto stato e La vita eterna, pubblicati nel 1970 e ‘72. Questi due romanzi furono poi oggetto di una lunga riscrittura, terminata nel 1988: sicché la loro stesura definitiva ha richiesto un quarto di secolo. Questa riscrittura si era resa necessaria perché man mano che i due libri venivano tradotti nel mondo, e che le vicende che essi raccontano si allontanavano nel tempo, l’autore sentiva pacificarsi il suo rapporto con quelle storie, che nella prima stesura gli risultava sofferente e sovraccarico. Il quinto stato uscì in Italia con una appassionata prefazione di Pier Paolo Pasolini, e fu subito tradotto in Francia per iniziativa di Jean-Paul Sartre e in Unione Sovietica da Gheorgi Breitburd, che a metà del lavoro scende a Venezia, insieme con Ajtmatov, per un incontro con l’autore. Breitburd, che s’era poi ritirato in una dacia per tradurre La vita eterna, morirà a metà di questo lavoro, che sarà perciò terminato da Julia Dobrovolskaja. Tra i due romanzi Camon interpose le poesie Liberare l’animale (premio Viareggio 1973). Imprevisto, e come elaborazione di un lutto, pubblica nel 1978 Un altare per la madre: esaltazione di un Cristianesimo mistico ed originario, questo romanzo (premio Strega) si diffonde nel mondo e specialmente nei paesi comunisti. La RAI, Radiotelevisione Italiana, ne ricava un film con Angela Winkler e Franco Nero. Un altare per la madre ebbe una gestazione lunga, e fu riscritto diciannove volte: ma la stesura mandata in stampa non fu la diciannovesima, ma la terza, anche per scelta dell’editore Livio Garzanti. I tre romanzi furono riuniti nel “ciclo degli ultimi”, perché con essi Camon si accorse di aver descritto la fine di una civiltà, la civiltà contadina: questa fine era stata chiamata, da un poeta francese (Charles Péguy), «il più importante avvenimento della storia, dopo la nascita di Cristo». Geno Pampaloni, illustre critico letterario italiano del secondo Novecento, inserendo questi romanzi nella “Storia della Letteratura Italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno”, scrive: «Tre libri che sentiamo radicati come pochi altri nella cultura dell’ultimo ventennio». Il “New York Times” parlava di «A scene like a Bruegel canvas», la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” di «Ein Epitaph, ein Requiem für die Letzten», “Le Nouvel Observateur” scriveva: «”La vie éternelle” est le livre d’un Lévi-Strauss qui aurait prêté sa plume à Faulkner». Raymond Carver, il padre dei minimalisti americani, definiva Un altare (che in America si intitola Memorial): «A sublime work of art», e in Francia l’”Express” terminava la recensione avvertendo: «Attention: chef-d’oeuvre». In Italia, la rivista “Letture” lo definiva: “Un libro meraviglioso, un libro sacro”. Avendo cominciato dunque con la ricognizione di una crisi (la crisi della civiltà contadina), Camon prosegue come descrittore di altre crisi: col “ciclo del terrore” (Occidente, Storia di Sirio) racconta quella crisi che si chiama “terrorismo”, e col “ciclo della famiglia” (La malattia chiamata uomo, La donna dei fili) la crisi che porta in analisi. La malattia chiamata uomo (titolo francese: La maladie humaine) viene rappresentata per quattro anni consecutivi al teatro “L’Aquarium” di Parigi.La particolare funzione che Camon attribuisce alla scrittura (la scrittura è rivelazione, quindi un merito, ma anche un tradimento, e più esattamente una delazione, quindi una colpa) fa sì che ogni ciclo romanzesco provochi delle reazioni: per il “ciclo degli ultimi” s’interrompe ogni rapporto con i paesi d’origine, che non volevano essere descritti per quel che erano, e con La vita eterna (diventata un best-seller in alcuni stati, tra cui
la Germania, dove fu per dieci mesi consecutivi nella lista dei libri raccomandati dalla critica) ottiene l’apertura di un processo contro l’SS che nel libro è l’”eroe negativo”, e che mantiene lo stesso nome (Lembke) che aveva nella realtà: il libro è assunto come “documento a carico” dalla Procura della Repubblica di Verona, ma quell’SS muore d’infarto alla vigilia del processo. Al quotidiano francese “Libération” l’autore dichiarerà di sentire quel libro «come un colpo di fucile, sparato dall’Italia alla Germania, per colpire al cuore un nemico della [sua] gente». Alla pubblicazione di Occidente fan seguito le reazioni di gruppi terroristici: all’autore viene distrutta l’auto, e per mesi gli vengono recapitate nella cassetta postale delle piccole bare, col suo nome scritto sopra. L’autore ebbe per lunghi periodi la casa e il telefono controllati, su sua richiesta, dalla polizia. Quando Occidente viene ridotto a film dalla RAI, l’autore abbandona la sua città, con tutta la famiglia; anche la troupe, che aveva cominciato a girare a Padova, è costretta a trasferirsi altrove (il film sarà terminato a Ferrara). Contro il film sporge denuncia il terrorista “nero” che si riconosce come protagonista. Ma, condannato all’ergastolo, perde i diritti civili, e il processo non ha luogo. Successivamente riabilitato, con piena assoluzione, chiede a Camon un incontro chiarificatore, da pubblicare. Il colloquio, di un’intera giornata, è pubblicato nel volume I miei personaggi mi scrivono: si conclude con Camon che domanda al suo “personaggio” in che cosa consista la sua innocenza, e quello risponde che «è innocente non colui che è incapace di peccare, ma colui che pecca senza rimorsi». Camon ritiene che con quelle parole il terrorista volesse affermare: «Sì, sono stato io, ho fatto la strage: ma possiedo un sistema morale in grado di giustificarmi». Sul problema della “colpa” Camon ha dialogato con Primo Levi, superstite di Auschwitz: ne è nata
la Conversazione con Primo Levi, conclusa poco prima del suicidio (ma Camon non crede che si tratti di suicidio) di Levi. La tesi di Camon è che lo Sterminio coinvolga una responsabilità più grande di quella affermata da Levi, il quale adotta una concezione “eroica” della storia, per cui la storia è fatta da pochi, i Napoleoni che galleggiano come sugheri sulla volontà dei popoli; Camon pensa che l’eliminazione degli ebrei sia stata l’atto finale di un plurisecolare processo di rigetto, che ha il suo nucleo originario nel cuore stesso del Cristianesimo, che non permetteva alcun rapporto con i “diversi” se non finalizzato alla loro conversione: nella concezione cristiana del “bene” stava in realtà la radice di una immensa colpa storica. Col Canto delle balene (1989) Camon inaugura un nuovo ciclo, e lo chiama “ciclo della coppia”: in questo primo romanzo racconta come la coppia si costruisca attorno ai proprî segreti, e come, con la violazione di quei segreti, si dissolva. Ma il libro vuol essere anche una “epigrafe” su una generazione, la generazione dei cinquantenni, un compendio delle sue grandezze e dei suoi delirî: la psicanalisi di massa, il culto dell’India, la mancata rivoluzione, l’invenzione di un nuovo Dio, e la tardiva riscoperta dei sentimenti e del sesso. Nel 1991 esce il romanzo Il Super-Baby, storia del parto visto dal nascituro (tutto il tempo del romanzo coincide col tempo pre-natale) e dal maschio: con soggezione e, avvertibile in ogni pagina, con rancore. La moglie (la “nuova donna”) vuole infatti partorire un genio, e perciò porta a scuola il bambino nei nove mesi prima che nasca: il marito (il “vecchio uomo”) la accompagna e la spia, ammirato e costernato. Fino al drammatico risultato finale. Nel 1993, mezzo secolo esatto dopo le vicende raccontate nella Vita eterna, un soldato tedesco torna nei paesi veneti dove aveva partecipato alle rappresaglie che avevano seminato 56 cadaveri in una decina di mesi: vuol essere festeggiato, contando sull’oblio delle vittime. L’incontro con questo soldato riporta Camon alla rievocazione della guerra e alla denuncia dei colpevoli che si sono costruiti una biografia innocente: nasce il romanzo Mai visti sole e luna (1994). Nel ‘96 pubblica
La Terra è di tutti, sul tema dello scontro di civiltà che si svolge nelle città occidentali, sotto l’urto delle ondate migratorie dall’Asia e dall’Africa. Nel 1999 Camon ritorna alla campagna e alla poesia, con la raccolta Dal silenzio delle campagne, in cui rievoca la ricchezza cattolico-pagana della civiltà contadina del dopoguerra, e l’amorale oblio della campagna di oggi, protesa alla ricchezza, dimentica del suo passato grandioso, delle violenze patite nell’occupazione, le rappresaglie e le stragi, e popolata di mostri, parricidi, serial-killer, mercanti di donne, drogati e spacciatori. Per quattro anni viene eletto presidente degli scrittori italiani associati nel Pen, e come tale inoltra all’Accademia di Svezia la candidatura al premio Nobel per
la Letteratura di scrittori italiani, uno all’anno: Mario Rigoni Stern, Antonio Tabucchi, Andrea Zanzotto e Alda Merini. Nel 2004 esce il breve romanzo La cavallina, la ragazza e il diavolo, che finalmente instaura un rapporto felice, gioioso, nostalgico con il mondo della campagna e i suoi abitanti, e lancia il messaggio che bisogna fare quel che è giusto, avvenga quel che può: ognuno avrà il premio che si merita, e se l’astuzia o l’iniquità glielo toglie, gli sarà restituito. Nel novembre del 2006 Camon ha riunito in un volume (“Tenebre su tenebre”) una lunga serie di pensieri, ragionamenti, analisi, ricordi, scritti nel corso degli ultimi 12-15 anni a ridosso delle vicende più importanti della storia e della cronaca: guerre, stragi, encicliche, processi, omicidi, suicidi, insomma i fatti che cambiano la nostra vita. Camon scrive regolarmente su giornali italiani, ”
La Stampa”, “L’Unità”, “Avvenire”, i quotidiani delle Venezie del gruppo “Repubblica-Espresso”, a volte su “Le Monde” (Parigi) e su ”
La Naciòn” (Buenos Aires). Ha due figli maschi: il primo, Alessandro, vive a Los Angeles, dove produce film, il secondo, Alberto, vive a Bologna, dove insegna Procedura Penale.

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PERCHÉ SCRIVERE (di Ferdinando Camon) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/05/perche-scrivere-di-ferdinando-camon/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/05/perche-scrivere-di-ferdinando-camon/#comments Mon, 05 Nov 2007 21:45:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/05/perche-scrivere-di-ferdinando-camon/ Ferdinando Camon (nella foto in basso) è uno degli scrittori italiani più autorevoli. Ha pubblicato parecchi libri e vinto diversi premi letterari. Credo sia uno dei pochi che può permettersi di spiegare “perché scrivere” in maniera categorica, senza mezzi termini. Lo ringrazio pubblicamente per avermi concesso questo testo che pubblico qui di seguito. Un testo che, a mio avviso, si presta benissimo per avviare un dibattito.

Massimo Maugeri

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camon-a-padova-2007.jpgCi sono molti lavori per i quali un’etica va imposta o conquistata: un rapporto morale con quello che si fa, per farlo con sincerità, con adesione, con verità. Ma c’è un lavoro che ha l’etica dentro di sé, e se non ce l’ha fallisce, non comincia neppure, crolla ad ogni passo. Questo lavoro è quello dello scrivere. Scrivere non è parlare. Parlare vuol dire reagire con le parole a un fatto che accade, mentre accade. Lo scrivere richiede tempo. Il parlare reagisce subito, per provocare nell’ascoltatore una reazione immediata, e di breve vitalità. La scrittura reagisce dopo, a passioni fredde, perché vuol restare a lungo, possibilmente (è il segreto desiderio di ogni scrittore) “per sempre”. Perciò chi parla bene non scrive bene, e viceversa. Sono due qualità distinte, una nega l’altra. Conosco uno scrittore che dice: “So perché scrivo: perché non sono il primo figlio”. Vera o falsa che sia quest’autointerpretazione, lui vuol dire che in casa la prima risposta era riservata al primo figlio, e lui veniva dopo, e in quel dopo maturava una riposta diversa, più calma, una risposta che aveva la stabilità della forma scritta. Non tutte le forme scritte hanno la stessa durata. Per esempio (io ne sono convinto), la storia dura meno della letteratura. E questo perché la letteratura (poniamo, il romanzo) dura a prescindere dalla verità che racconta, mentre la storia, appena si dimostra che non è vera, cade. Perciò c’è una responsabilità maggiore nello scrivere pagine che durano di più. La responsabilità può essere così alta, e lo sforzo etico di reggere l’impegno così logorante, che la scrittura genera la nevrosi, scrittura e nevrosi diventano la stessa cosa. Quasi mai lo scrittore scrive in pubblico, di solito si nasconde. O nasconde quel che scrive. Tolstoj lo nascondeva dentro gli stivali, dove chi lo spiava andava a frugare non appena lui era uscito. Leonardo lo nascondeva scrivendo da destra a sinistra. Come uno che oggi, usando il computer, mette una chiave d’accesso conosciuta a lui solo. Qui c’è il concetto che l’etica dello scrivere non è mai l’etica del vivere, del vivere in quel momento, ma è la rottura dell’etica imperante, e l’instaurazione di un’etica nuova. Perciò gli scrittori di denuncia sono inaccettabili dall’etica corrente, verranno accettati più tardi, quando si sarà instaurata l’etica che loro collaborano a introdurre. Bassani ha dovuto lasciare Ferrara, Moravia non lo potevan più vedere in Ciociaria, Pasolini è finito addirittura in carcere, Volponi s’e dimesso dal posto di lavoro. Noi viviamo dentro un sistema dove tutte le forze sono in equilibrio, morale-politica-religione-scuola-arte-letteratura-informazione, la luce che illumina i passi della nostra vita viene da tutto ciò che è gia stato espresso, e che crede di essere tutto l’esprimibile: colui che si mette a scrivere esprime qualcosa di nuovo, d’inatteso, e di temibile perché rompe gli equilibri preesistenti, sicché tutto quello che c’è lavora affinché il nuovo non sia detto. Non c’è mai bisogno di un nuovo scrittore. E’ lo scrittore che, scrivendo, deve creare il bisogno di sé. Lo scrittore riesce nella misura in cui crea questo bisogno. Da quel momento è un “classico”. Scrivendo, comunica un’etica, un’idea di bene, la “sua” idea di bene, che è insieme estetica e morale, che durerà più in quanto estetica che in quanto morale. Questo spiega perché raramente i grandi scrittori, quando cominciano, hanno successo. Perché non sono in sintonia col gusto corrente, il gusto della massa. Una volta Majakovskij si presentò a una conferenza, salì sul palco, cominciò a parlare e fu subito applaudito. “Mi applaudono – pensò con disgusto -, dunque non dico niente di nuovo”, e se n’andò. L’incrocio di un’opera col gusto della massa crea il fenomeno noto come best-seller: il best-seller è “sempre” un libro morto, perché è il risultato di un gusto all’apice della diffusione, quindi in fase morente. “Best-seller” e “libro reazionario” sono la stessa cosa. Perciò possono esistere dei manuali su come si scrive un best-seller, con l’indicazione di tutti gli ingredienti, e le relative percentuali: il best-seller deve corrispondere, non inventare, non sgarrare. E se un libro è reazionario, l’autore è reazionario. E se quell’autore, oltre ai libri, scrive articoli, saranno articoli reazionari. Un libro in sintonia col gusto presente è già un libro del passato. Perciò coloro che scelgono i libri da stampare, in una casa editrice, dovrebbero scegliere non libri che li confermano, ma libri che li smentiscono e li seppelliscono. Di tutti i lettori di manoscritti, quello che trovo piu interessante non è il mitico Bobi Bazlen, personaggio dello “Stadio di Wimbledon” di Del Giudice, che affrontava ogni nuovo testo sconosciuto ponendosi la domanda: “Risponde questo libro alla mia idea di libro?”, perché voleva vivere nei libri degli altri, che dunque dovevano scrivere perché lui vivesse; domandarsi se un libro c’è o non c’è ponendosi quella domanda, significa costringere il libro a confermarci; no, preferisco l’estetica applicata dall’umile cristiano-comunista Franco Fortini, che di fronte a un manoscritto poetico di Andrea Zanzotto ebbe l’onestà di scrivere suppergiù così: “Nulla di questo libro poetico corrisponde alla nostra idea di libro e di poesia; ma è un libro poetico; e dunque alla domanda: Stamparlo sì o no?, rispondo: Stamparlo subito, purtroppo”. In un certo senso, quella parte di cristianesimo-e-comunismo di Fortini che Fortini non riusciva a dire, era detto, in forme non fortiniane, nei versi di Zanzotto. Anche questa è una maniera per vivere oltre se stessi. Dunque, per scrivere. Questa unità tra vivere e scrivere fa sì che si scrive come si vive. La menzogna, l’insincerità nella scrittura è impossibile: il libro falso è quello che si chiama “un libro non-scritto”. Lo vedi subito, fin dalle prime righe. L’etica nella scrittura non può essere imposta, o è naturale o non c’è. Uno studioso francese ha scritto un libro sul rapporto tra scrivere e respirare: François Bernard Michel, “Le Souffle coupé, respirer et écrire (Gallimard), per collegare l’asma di Queneau ai suoi problemi esistenziali, la tosse di Paul Valéry ai suoi gridi, l’asma di Marcel Proust alla sua ricerca mortale del senso, lo spasmo alla laringe di Mallarmé alle sue pagine bianche… La conclusione di Michel è: si scrive come si respira. Allo stesso modo noi potremmo trovare una corrispondenza tra le scritture e le nevrosi di Dante, Petrarca, Tasso, Manzoni, e via via fino a Pasolini. Sono etici perché sono autentici, e viceversa. La malattia è il prezzo dell’eticità, il costo della scrittura. Allo stesso modo io credo che un critico fornito di buoni strumenti possa dire, leggendo una pagina di Parise, se l’ha scritta prima o dopo l’entrata in dialisi. L’entrata in dialisi corrispose ad un diverso scorrimento del sangue nelle vene, e il diverso scorrimento del sangue nelle vene gli dettava un diverso fluire delle parole nella frase, e una diversa cadenza della punteggiatura. Il senso è: scrivi come ti scorre il sangue. Poteva Parise scrivere diversamente? E’ come chiedergli di essere in dialisi senza essere in dialisi. La responsabilità sta nello scrivere per come si è. Rispondere della propria scrittura vuol dire rispondere di come si è. Nel mostrare come si è. Nel consegnare quello che sai, quello che sei. Questo è etico. Poiché si vuole scrivere “per sempre”, si risponde “per sempre” degli effetti della propria scrittura. Omero ne risponde ancor oggi. Consegnare quello che sei non significa consegnarsi ai contemporanei, che possono non accoglierti, bensì a coloro che verranno. Anche se non sai l’accoglienza che ti faranno. Lo scrittore che fa questo, è etico. Lo scrittore che non fa questo, non è che non sia etico, è che non è uno scrittore.

Ferdinando Camon

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COME SONO BELLI I LIBRI CHE NON SI LEGGONO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/15/come-sono-belli-i-libri-che-non-si-leggono/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/15/come-sono-belli-i-libri-che-non-si-leggono/#comments Mon, 15 Oct 2007 13:41:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/15/come-sono-belli-i-libri-che-non-si-leggono/ I dati relativi alla nuova indagine Ipsos su libri e letture non sono certo rassicuranti. Ne ha scritto Mirella Appiotti su Tuttolibri de La Stampa, interagendo con Gian Arturo Ferrari, direttore generale libri Mondadori, e Stefano Mauri, presidente e ad del Gruppo Mauri-Spagnol.

Letture: Solo il 38% del campione legge 1 libro l’anno (nel 2003 il 39%, nel 2005 il 46% «effetto presunto – dice Ferrari – dei libri allegati ai giornali e di best seller tipo Dan Brown»).

Acquisti: il 71% non compra neppure un libro (il 65% del 2005).

Fenomeno generale: Polarizzazione sociale del Paese, forbice che si allarga drammaticamente, la fascia alta della popolazione compra di più, sempre meno l’Italia povera. Di qui, crollo al Sud: -8% di lettori dal 2003. Benino il Centro Italia al +10% di «acquirenti», con Roma «capace di esprimere grande vivacità…»; solo un +2% di lettori al Nord, leggero calo dei «lettori forti».

«Il libro, una perdita di tempo» secondo il 61% degli intervistati.

«La lettura? Pesante» per il 20% del campione perché «gli ricorda la scuola».

«In nessun Paese del mondo l’esperienza scolastica lascia un ricordo così negativo» ha commentato Ferrari. L’uomo più potente dell’editoria italiana, che afferma di non parlare pro domo sua «l’industria editoriale non patendo più di tanto il fenomeno, siamo pur sempre il 6° mercato del mondo», sottolinea comunque come i lettori tra i 25 e i 34 anni siano cresciuti dal 2003 del 4%. «Basterebbero 10 milioni di euro dello Stato per intraprendere tra i bambini una campagna quinquennale di promozione della lettura con frutti sicuri». Stefano Mauri sostiene quanto segue: «Vorrei collegare due cose emerse. La prima, per l’appunto, è l’aumento della lettura tra i giovani dai 25 anni. La seconda è che i non lettori non hanno capito, in gran parte, quale magnifica fonte di svago possa essere un libro»”.

Sullo stesso numero di Ttl compare un articolo di Ferdinando Camon (cfr. Ttl del 13 ottobre 2007, pag. 2, rubrica “L’opinione”) intitolato “Non bastano i libri belli”. Camon cita i dati Ipsos e chiama in causa Corrado Augias. Vi propongo di seguito l’articolo:

“Apro il libro di Corrado Augias Leggere (Mondadori, pp. 120, e 12), davanti al computer acceso, e sul monitor arriva un lancio Ansa: «Leggere? Per gli italiani è tempo perso». Continua: «Il 61% degli italiani non leggono nemmeno un libro all’anno, per il 12% leggere è tempo sprecato, per il 16 nella vita ci sono cose più divertenti, e per il 33 ci sono cose più utili». Nessuna meraviglia se i nostri ragazzi sono meno preparati dei coetanei europei. Ce l’ha appena detto l’Europa, con un’indagine di poche settimane fa. I nostri ragazzi sono messi peggio della media europea, per l’abbandono scolastico e per la percentuale di laureati. Il dato più triste è che dal 2003 ad oggi i lettori, in Italia, sono calati. Ma allora, il successo dei festival letterari? Il festival di Mantova funziona in maniera strana: la gente che ci va è tanta, ma è sempre gente che già legge, non è gente nuova. Adesso vediamo cosa fa Pordenone. Per ora «Pordenonelegge» deve fare se stesso, e ci riesce: fa notizia, attira gente, crea l’evento. Ma tutti questi sono festival di scrittori. La vera festa del libro resta la Fiera di Torino, ineguagliata. Le trasmissioni televisive avevano una loro utilità: sì, lanciavano pochi libri, ma li lanciavano molto. Una fra le migliori era quella di Corrado Augias. Evidentemente, scrivendo questo libro, Augias obbedisce ancora all’istinto missionario di chiamare il pubblico ai libri, perché «i libri ci rendono migliori, più liberi e più allegri». Bisogna leggere, dice, perché «i libri sono belli». E usa, con cenni molto rapidi o presentazioni un po’ più solide, un centinaio circa di libri. C’è anche un capitolo sul leggere che fa male, ma a ben guardare anche quello fa bene: don Chisciotte, Madame Bovary, Paolo e Francesca, Eloisa e Abelardo sono travolti dai libri che leggono, ma in quel travolgimento trovano il senso della vita. Tutto ciò che si fa per far leggere è ben fatto. Ma l’impresa di Augias mi ricorda quella di Thomas Merton: Merton s’è convertito al cattolicesimo perché «le cattedrali cattoliche sono belle», e voleva convertire il mondo spiegando a tutti che «le cattedrali cattoliche sono belle». Dubito che ci sia riuscito: gli altri uomini hanno altre bellezze. Augias vuol convertire i non-lettori spiegando che i libri sono belli. E’ difficile. I non lettori, dice l’Ansa, hanno le loro belle cose da fare”.

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Verrebbe da dire: siamo alle solite.

Commentate l’articolo di Camon, se volete.

Poi vi domando: secondo voi cosa bisognerebbe fare per incentivare la lettura di questi famigerati libri ?

Magari potrebbe venire fuori un’idea innovativa.

Chi lo sa?

A voi!

Massimo Maugeri 

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AGGIORNAMENTO del 17 ottobre 2007

Ringrazio moltissimo Ferdinando Camon per il suo intervento nel dibattito che è nato dopo la pubblicazione del post. Il “perché leggere” che troverete di seguito – un bellissimo spot a favore della lettura – è tratto dal suo libro “Tenebre su tenebre” (Garzanti, 2006, pagg. 355, euro 18)

In questo libro Ferdinando Camon usa una lente che permette di cogliere, oltre il brusio della cronaca, certe onde lunghe che sommuovono nel profondo tanto la realtà quanto noi stessi. La memoria della civiltà contadina e la percezione del mutamento, la scrittura e la psicoanalisi, la famiglia e il sesso, la religione e la religiosità, il corpo e la biologia, la guerra e la morte, il denaro e il potere, la solitudine e i popoli: sono questi gli aspetti dell’esperienza su cui Camon s’accanisce, e al tempo stesso gli strumenti con cui misura il mondo. O, per meglio dire, gli strumenti con cui lo soppesa, in tutta la sua feroce insensatezza. Così, pagina dopo pagina, s’inscrive una diagnosi impietosa del nostro tempo e delle sue perversioni, in un libro di lotta che turba e ferisce.

PERCHÉ LEGGERE

Chi vive, vive la propria vita. Chi legge, vive anche le vite altrui. Ma poiché una vita esiste in relazione con le altre vite, chi non legge non entra in questa relazione, e dunque non vive nemmeno la propria vita, la perde. La scrittura registra il lavoro del mondo. Chi legge libri e articoli, eredita questo lavoro, ne viene trasformato, alla fine di ogni libro o di ogni giornale è diverso da com’era all’inizio. Se qualcuno non legge libri né giornali, ignora quel lavoro, è come se il mondo lavorasse per tutti ma non per lui, l’umanità corre ma lui è fermo. La lettura permette di conoscere le civiltà altrui. Ma poiché la propria civiltà si conosce solo in relazione con le altre civiltà, chi non legge non conosce nemmeno la civiltà in cui è nato: egli è estraneo al suo tempo e alla sua gente. Un popolo non può permettersi di avere individui che non leggono. E’ come avere elementi a-sociali, che frenano la storia. O individui non vaccinati, portatori di malattie. Bisogna essere vaccinati per sé e per gli altri. Perciò leggere non è soltanto un diritto, è anche un dovere. Nelle relazioni tra i popoli, la prima e più importante forma di solidarietà è dare informazioni: mai l’altro dev’essere convertito alla nostra supposta superiorità, ma sempre messo in condizioni di scegliere tra le sue informazioni e le nostre. Quando una cultura si ritiene nella fase di superiorità tale che tutte le altre culture devono apprendere da lei, per il loro bene, e lei non può apprendere da nessuna, comincia la sua decadenza.
Ferdinando Camon

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