LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » L’OMBRA E LA PENNA (con il contributo di Antonella Cilento) http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 STRANE COPPIE 2014 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/01/13/strane-coppie-2014/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/01/13/strane-coppie-2014/#comments Mon, 13 Jan 2014 22:08:53 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5784 strane coppie 2014STRANE COPPIE 2014

Anche nel 2014 le “Strane Coppie” (bellissima iniziativa culturale e letteraria ideata e curata, a Napoli, da Antonella Cilento) continueranno a incrociarsi con il coinvolgimento di scrittori, studiosi e artisti. Questa edizione (che è la sesta) sarà incentrata sul rapporto tra romanzi e pittura. Faccio tanti complimenti (con gli immancabili in bocca al lupo) all’amica Antonella Cilento, presenza costante in questo luogo virtuale (sin dalle origini di Letteratitudine) con la rubrica “L’ombra e la penna“… che prossimamente sarà “alimentata” proprio con nuovi contributi derivanti da “Strane coppie 2014″.  Il primo appuntamento sarà mercoledì 15 gennaio -  ore 18, via Medina 63. Amici di Napoli e dintorni… non mancate!
Forza, Antonella!

Massimo Maugeri

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Strane Coppie 2014

Pictura-Poesis

quattro incontri sulla letteratura europea, a confronto tele e romanzi

dal 15 gennaio al 20 marzo

a cura de Lalineascritta, Goethe-Institut, Instituto Cervantes e con la partecipazione di Biblioteca Nazionale di Napoli, Antica Sartoria Cilento e La Feltrinelli Libri&Musica

mercoledì 15 gennaio -  ore 18, via Medina 63

Serata speciale al Salotto Cilento

Letture di Imma Villa e Gea Martire

Degustazione a cura di Salvatore De Gennaro de “La Tradizione” di Vico Equense (Napoli)

La felice formula di sfida fra romanzi europei narrati al pubblico da scrittori si allarga alla grande pittura: uno scrittore e un pittore, maestri in arti diverse eppure consonanti, saranno avvicinati per tematiche, per similitudine o per opposte scelte, talvolta anche per contemporaneità.

Il raggio d’azione di Strane Coppie si estende quest’anno, sesta edizione, ai linguaggi non verbali per esplorarne consonanze e affinità con la letteratura, stili, tecniche, risposte alle diverse esigenze di rappresentazione e verità del nostro mondo.

Grandi scrittori, critici e storici dell’arte e attori coinvolti negli incontri e, come sempre, con Lalineascritta di Antonella Cilento, Instituto Cervantes, Goethe-Institut e, per quest’anno, Biblioteca Nazionale di Napoli, La Feltrinelli Libri&Musica e, ancora, l’Antica Sartoria Cilento animeranno la fortunata manifestazione.

Serata inaugurale mercoledì’ 15 gennaio ore 18 al Salotto Cilento (via Medina, 63 – Napoli) per la presentazione dell’intera rassegna con letture di Imma Villa e Gea Martire e una degustazione a cura di Salvatore De Gennaro de “La Tradizione” di Vico Equense (Napoli).

“Strane Coppie è uno degli eventi di qualità di questa città, curato con estrema attenzione da Antonella Cilento che stimo profondamente – afferma Ugo Cilento – il mio Salotto che nasce come luogo privato di incontri e confronti culturali, è il posto ideale per inaugurare questi piacevoli pomeriggi con gli autori e ne sono lusingato. Ad Antonella Cilento vanno pertanto i miei migliori auguri e un sincero ringraziamento per aver scelto il Salotto Cilento anche quest’anno per presentare la sua felice iniziativa”.

“Quest’anno Strane Coppie punta sul rapporto fra romanzi e pittura cercando di esplorare i due diversi modi di narrare le storie e cogliere la visione del mondo – spiega Antonella Cilento, fondatrice del laboratorio di scrittura Lalineascritta e ideatrice della rassegna – grazie come sempre all’ausilio di Goethe-Institut e Instituto Cervantes e alla sensibilità delle direttrici, Maria Carmen Morese e Luisa Castro, al nuovo ingresso della Biblioteca Nazionale e alla squisita cortesia di Mauro Giancaspro, ospite di uno degli incontri, come de La Feltrinelli Libri&Musica, che pure ci ospiterà”.

La rassegna si occuperà di autori contemporanei, com’è il caso di Francisco de Quevedo e di Caravaggio raccontati da Giuseppe Montesano (Naturalismi, giovedì 30 gennaio ore 18, Instituto Cervantes in via Nazario Sauro 23 con letture di Andrea Renzi), entrambi presenti a Napoli ai primi del Seicento, entrambi considerati, forse a torto, dei realisti. Altre volte la suggestione sarà legata a un tema, com’è il caso dell’incontro dedicato a Theodor Fontane e a Tintoretto, narratori dell’adulterio e delle adultere, raccontati da Anna Maria Carpi e Melania G. Mazzucco, (Adultere, giovedì 27 febbraio ore 18, Goethe Institut e La Feltrinelli libri & musica, via Santa Caterina a Chiaia 23, con letture di Cristina Donadio) autrice de La lunga attesa dell’angelo e di un saggio ormai fondamentale su Tintoretto e la sua biografia. Ma potrà esserci anche un genere messo in discussione nelle sue sfumature, come nell’incontro Fantastico vs Metafisico (giovedì 6 marzo ore 18, Instituto Cervantes, via Nazario Sauro 23 con letture di Giorgia Palombi) dedicato a una grandissima romanziera che con Borges e Cortazar rappresenta il culmine della letteratura fantastica argentina, Silvina Ocampo, narrata da un’amatissima nostra autrice, Laura Pariani, che da sempre legge in pubblico Ocampo, e a Giorgio De Chirico, che, curiosità, fu suo maestro di pittura a Parigi, anche se poco s’intesero, pare. Qui inizia anche la novità degli incontri di quest’anno perché a narrare De Chirico ci sarà Riccardo Lattuada, dunque un critico d’arte, un saggista, illustre e autorevole voce come quella notissima di Cesare de Seta che ci narrare Hackert e i suoi racconti in pittura di Napoli e del Regno a confronto con Vincenzo Consolo, grandissimo scrittore di recente scomparso, cui si doveva un ricordo. Di Consolo sarà narrato L’olivo e l’olivastro, libro di viaggio siciliano, dunque adatto a confrontarsi con le cronache pittoriche di Hackert, con l’ausilio di una testimone molto speciale, Maria Attanasio, che di Consolo fu amica e che in questo libro compare anche come personaggio (Viaggio a Sud, giovedì 20 marzo ore 16,30, Goethe Institut e Biblioteca nazionale di Napoli, sala Rari, piazza del Plebiscito 1 con letture di Giancarlo Cosentino). “Le coppie sono strane nel momento in cui si formano ma alla fine di ogni incontro diventano perfette perché convergono nell’obiettivo di suscitare emozioni” dichiara Mauro Giancaspro, direttore della Biblioteca nazionale di Napoli che sarà presente all’incontro.

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]]> http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/01/13/strane-coppie-2014/feed/ 0 STRANE COPPIE 2013: Giuseppe Montesano su Franz Kafka http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/06/12/strane-coppie-2013-giuseppe-montesano-su-franz-kafka/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/06/12/strane-coppie-2013-giuseppe-montesano-su-franz-kafka/#comments Wed, 12 Jun 2013 15:57:48 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5272 * * * Segui tutte le puntate di “L’ombra [...]]]> Riprendiamo a dare spazio alla rubrica “L’ombra e la penna” di Antonella Cilento (nella foto), pubblicando il materiale video dell’iniziativa culturale e letteraria “Strane Coppie 2013“.

Qui di seguito, il video del primo incontro dedicato a Franz Kafka con intervento di Giuseppe Montesano.

Massimo Maugeri

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Segui tutte le puntate di “L’ombra e la penna”

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ASINO CHI LEGGE, di Antonella Cilento http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/11/09/asino-chi-legge-di-antonella-cilento/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/11/09/asino-chi-legge-di-antonella-cilento/#comments Mon, 08 Nov 2010 23:41:11 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2659 asino-chi-legge-coverConosco Antonella Cilento da diversi anni. Di lei ho sempre apprezzato sia il talento letterario, sia l’impegno civile di una vita dedicata ai libri e alla letteratura. Questo impegno rimbalza dalle sue pagine ai corsi di scrittura de La linea scritta, dalle svariate iniziative culturali (come quella di Le strane coppie) alla sua attività svolta in giro per le scuole d’Italia con l’intento di trasmettere agli studenti – talvolta anche ai docenti – l’amore per la lettura e per la scrittura.
Ed è proprio da questa esperienza, dall’incontro con i ragazzi delle scuole, che nasce il volume Asino chi legge, appena pubblicato da Guanda (così come ben spiegato dalla scheda del libro).

“Asino chi legge” si scriveva una volta sui muri delle scuole, per sbeffeggiare un compagno ingenuo o gli adulti noiosi. Un tempo, neanche tanto lontano, avere libri in casa e un figlio laureato era considerato un valore aggiunto, il trionfo per una famiglia in risalita sociale. Da qualche anno, invece, leggere è considerato un errore, una perdita di tempo, un insignificante vizio. Studiare e leggere, è ormai noto, non ti porterà da nessuna parte, non ti aprirà le porte del mondo del lavoro, non farà di te una persona migliore, tanto vale trovare false scorciatoie.
Questo libro racconta la sfida di portare la letteratura, scritta e letta, in luoghi dove la passione per la pagina non è mai nata o si scontra con difficoltà inenarrabili: a Napoli, in Irpinia, in Trentino, in Sicilia e in altre province d’Italia. Antonella Cilento, perennemente in viaggio fra treni e scuole pubbliche, dove da anni offre servizio come esperto esterno di scrittura creativa, raccoglie storie divertenti, assurde e tristi: dai figli dei capo-clan napoletani ai timidi ragazzi della Nusco di De Mita, ai giovani pakistani di Bolzano, fissando una fotografia disincantata delle ultime generazioni, della percezione dello scrittore nelle scuole, e di un Paese in piena crisi di idee.
I ragazzi e i loro insegnanti sono, insieme ai luoghi, i veri protagonisti, con le pagine che scrivono, le loro vicende e la domanda più grave: cosa stiamo facendo del nostro futuro? Un viaggio alla ricerca di quel che stiamo perdendo o, in certi casi, abbiamo già perso, ma che niente, salvo noi stessi, può impedirci di riconquistare.

Dalla nota, dicevo, si capisce bene il senso di questa importante testimonianza… il cui sottotitolo è “I giovani, i libri, la scrittura”.
Ed è proprio dei giovani, dei libri e della scrittura che vorrei discutere con voi, insieme ad Antonella Cilento… che parteciperà al dibattito (questo post è da considerarsi come una “costola” del forum permanente “Letteratitudine chiama scuola”).
Pongo le solite domande, volte ad avviare la discussione…

1. Nella vostra esperienza, che rapporto hanno i ragazzi con la lettura?

2. Siete d’accordo sul fatto che da qualche anno leggere è considerato una sorta di errore, una perdita di tempo, un insignificante vizio?

3. Se è così… perché si è giunti a questo punto? E di chi è la colpa?

4. Viceversa, perché è importante leggere? Perché è importante saper scrivere? Come lo spieghereste a un ragazzo di oggi?

5. E con quali libri “iniziereste” alla lettura un ragazzo (o una ragazza) delle cosiddette scuole medie inferiori? E a quelli del liceo? Che letture proporreste?

6. Qual è, o quale dovrebbe essere, il ruolo della scuola e del corpo docente per incentivare gli studenti a leggere e a saper scrivere?

Vi sarei grato se poteste far “circolare” questo post, soprattutto tra i giovani e tra le scuole.
Grazie mille in anticipo.

Massimo Maugeri

P.s. Di seguito, l’articolo di Bruno Quaranta pubblicato in prima pagina di Tuttolibri de La Stampa del 23 ottobre… e le prime pagine di “Asino chi legge”

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ASINO CHI LEGGE di Antonella Cilento
da LA STAMPA – Tuttolibri

di BRUNO QUARANTA

Benedetto Croce era solito domandare agli studenti: «Vi indignate? Perché quando non vi indignerete più sarà la fine». Ma come è possibile indignarsi se non si sa né leggere né scrivere, se non si possiede quel bisturi, quella sonda, quel termometro che è l’alfabeto?
Napoletana è Antonella Cilento (nella foto). Un tempo, nell’età deamicisiana riverberatasi fino agli anni Sessanta, sarebbe stata insignita della medaglia d’oro. Da chi? Ma dal ministero della Pubblica Istruzione, tale l’eroica mission che l’autrice di Una lunga notte, fra i romanzi esemplari degli ultimi anni, va rinnovando nelle stagioni. Di scuola in scuola, porgendo il «talismano» che la parola è, letta e scritta, un’«arma scalza», la definisce nel suo febbrile journal Asino chi legge (Guanda, pp. 184, e 16), un’arma felicemente impropria, «per ricordarci della profondità».
Nei banchi, ad attendere Antonella Cilento, «Esperto Esterno di scrittura creativa», sono gli scugnizzi, scugnizzi di ogni ordine e grado, fino all’istituto tecnico, fino al liceo, tra le nostre speranze, in attesa, loro come tutti i ragazzi d’Italia, della parola che montalianamente «squadri», dirozzi, elevi, nomini e legiferi, infine, il caos, sfarinando gli slogan, gli anatemi, gli strafalcioni. Idealmente, hanno come compagno Giulio Bollati, l’Italiano che non esitava a confessare come il pensiero gli si rivelasse solo facendo scorrere la penna sul foglio bianco.
Legite, prima di effettuare la scissione, approdando a «le gite». Avvertiva don Gesualdo Bufalino che la mafia si comincia a vincere nelle classi elementari. Magari imparando, nello sfogliare il vocabolario isolano, che mafioso, in talune lande, come a Comiso, non è il tipo con la lupara, ma un dire galante, un omaggio alla bellezza femminile.
Antonella Cilento, ostinata e Generosa come dev’essere un testimone, sparge quotidianamente le sue rose. L’asino che è in noi diverrà d’oro, diverrà uomo, diverrà cittadino nutrendosene.

fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 23 ottobre

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Le prime pagine di “ASINO CHI LEGGE” (Guanda, 2010)

di Antonella Cilento

antonella-cilentoÈ il mese di marzo. C’è sole e non so bene che strada fare per arrivare alla scuola dove ho, nel primo pomeriggio, lezione di scrittura creativa.
È una scuola media, la preside è una professoressa sveglia e piena di iniziative. Il quartiere è uno di quei quartieri di Napoli che, se non ci si abita o si ha una ragione specifica per andarci, è solo un nome, un’immagine degradata che si guarda prendendo la tangenziale o l’autostrada, dai ponti.
In verità, ci passo assai spesso andando ad Avellino in autobus (sempre per via del mio lavoro di scrittrice in trasferta, in qualità di Esperto Esterno di scrittura creativa): l’autobus fa un lungo giro per imboccare l’ingresso dell’autostrada più lontano da via Marina, l’arteria che collega Napoli ai paesi vesuviani, e di conseguenza costeggia il rione Luzzatti.
Il rione Luzzatti porta il nome del primo ministro che emanò in Italia una legge sull’edilizia popolare nel 1903, che prevedeva la costruzione di nuclei abitativi vicino alle zone industriali.

La zona industriale di Napoli, tuttavia, non contiene più alcuna vera industria, solo fantasmi di capannoni, e non c’è più traccia di case del primo Novecento: il rione Luzzatti, edificato alle spalle della Stazione Centrale e, a seguito della costruzione del Centro Direzionale, ancora più arretrato rispetto alla città, ha l’aspetto di un quartiere povero degli anni Settanta.
Dai caseggiati di cemento alti sette o otto piani si vedono le torri giapponesi del Centro Direzionale; fra la sterpaglia e le gomme abbandonate che circondano le palazzine si può godere di una spettacolare vista della collina del Vomero, della Certosa di San Martino e di Castel Sant’Elmo.
In altre parole, non siamo ancora nell’hinterland, ma non siamo più a Napoli, benché prossimi a quei cartelli da Far West che con una striscia obliqua cancellano il confi ne di giurisdizione della città. Scendo alla fermata della metropolitana di Gianturco, che è tutta nuova, ben restaurata, ricca di spazi per negozi che nessuno vuole affittare e che forse, di questo passo, non si affitteranno mai.
I negozianti hanno paura ad aprire rivendite in quella fermata, nonostante le telecamere, nonostante la sorveglianza giorno e notte. Intorno crescono ponti, concessionarie d’auto di lusso, grossisti di ceramica e linee bagno, qualche bar, qualche tabaccaio con ricevitoria del lotto, i supermercati cinesi.
Ogni cosa è molto distante dalle altre. Il tunnel che separa la fermata della metropolitana dalla strada che mi porterà dentro il rione Luzzatti è largo e basso e si attraversa sia in auto sia a piedi. Anche stamane, che c’è sole e alle due del pomeriggio si direbbe che la situazione sia tranquilla, traversare il lungo tunnel mette un po’ d’agitazione. Un cane mi corre incontro. Un tizio allampanato e curvo con la tuta da idraulico scompare nell’ombra. Se subisci un’aggressione qui nessuno ti vedrà e, se anche ti vedessero, nessuno ti verrà, in ogni caso, in aiuto. È come il tunnel di Sogni di Kurosawa, da cui escono fantasmi di battaglioni che credono di essere ancora vivi e rincorrono il loro tenente. Nel film c’è anche un cane, uguale a quello che mi corre incontro, un cane che ringhia con le bombe attaccate alla schiena. Mi passa accanto, poi procedo. Nel rione Luzzatti ci sono grandi vasche pensate come aiuole fiorite in cui crescono erbe male alte almeno un metro.

Nel dedalo di caseggiati e erbe male si passa come attraverso una jungla salgariana, anche se il Sandokan che qui potrebbe apparire non è certo Kabir Bedi. Non si vede un’anima. Chi sta nelle case, dietro le finestre o al riparo delle tende a strisce arancio e blu dei balconi di cemento spellato, si guarda bene dal farsi vedere.
C’è e mi osserva, lo so, e posso anche immaginare facce e vestiti: donne sformate, giovani con la faccia da lupo, bambinetti attaccati alla PlayStation. Echeggiano, nel silenzio irreale, improvvisi allucchi sedati con paccheri a mano piena, la voce del tg regionale, Gigi D’Alessio che canta a squarciagola da una finestra. Devo chiedere a qualcuno dov’è la scuola ma non c’è nessuno.
Le traverse si somigliano, un paio di strade hanno anche lo stesso nome. E poi, di colpo, il caseggiato, in tutto identico agli altri, si lascia distinguere: ha le sbarre alle finestre, è malridotto e circondato da una cancellata carceraria, che dovrebbe contenere alberi e invece racchiude un’indistinta massa verde e gialla. Ecco la mia scuola media. La preside mi ha avvisato: qui non sarà facile. Le ho risposto: in nessuna scuola italiana è mai facile. Sono diciassette anni che entro nelle scuole come Esperto Esterno e, se conto anche gli anni in cui lo facevo non per insegnare scrittura creativa ma per fare laboratori di teatro, in effetti, sono più di venti anni che mi inserisco fra insegnanti e studenti. Sono un cuscinetto, sono la realtà che entra nella scuola, sono l’Autore che improvvisamente si manifesta come Vivo e non come morta biografia di un’antologia.
E faccio tante diverse cose insegnando scrittura: mostro tecniche che la scuola non insegna, risolvo problemi di relazione, riporto i ragazzi alla lettura, suggerisco letture a insegnanti che non leggono o non sanno bene come orizzontarsi fra i libri; a volte, riporto anche ragazzi che hanno abbandonato l’obbligo a scuola. Dalla letteratura alla mediazione, dal laboratorio al problem solving. Una sola cosa di sicuro non faccio: entrare in classe, fare lezione e andarmene.

Quasi sempre il laboratorio produce effetti: sui ragazzi o sui bambini, sugli insegnanti, su di me che partecipo e insieme li guardo. Nell’aula la prof che mi aspetta, la tutor, è molto giovane, bionda, gentile. I ragazzini sono pochi, non più di quindici. Nel corso delle trenta ore diminuiranno e bisognerà redarguire le famiglie per farli venire, bisognerà farli firmare anche se non c’erano, non in ottemperanza agli obblighi di legge, ma per evitare che lo svuotamento del l’aula faccia saltare il PON, ovvero il progetto europeo che finanzia nel Sud Italia, fino al 2013, i laboratori come il mio.
Ci salutiamo, creiamo un’atmosfera informale, le faccette fetentelle sono simpatiche, sono vispe. Ma si vede subito che non sarà facile tenerle ferme in un banco. Che avete letto, che vi piace leggere? Prufissuré, ma qua’ leggere, che palle.
Andate al cinema?
Eh…!
Ma vi piacciono i film?
Sì, i film gli piacciono ma li vedono a casa, sul pc o in televisione. Non sono mai entrati in una sala cinematografica.
Iniziamo a fare gli esercizi di libera scrittura secondo il metodo che ho sviluppato in questi anni: scrivono per cinque minuti senza mai cancellare né rileggere. Per una volta non si vedranno correggere la grammatica, né la sintassi, né la punteggiatura. Sono contenti ma anche strafottenti: prufissuré e quanno maje ce penzammo a ’sti cose?, sghignazza Salvatore, uno magro magro, con la faccia lunga lunga e gli occhi ancora da bambino.
Ci divertiamo, la cosa funziona. Ogni tanto propongo una lettura, la prof mi segue e, nel l’altro modulo, quando sarà lei a ripetere gli esercizi inventandosene di analoghi a quelli che propongo, riesce a replicare piuttosto bene il risultato che ottengo io nell’aula.
Me ne vado dal rione Luzzatti ogni volta verso le cinque e mezzo. Sta facendo buio, il tunnel è sempre meno piacevole da attraversare. Nelle settimane seguenti qualche volta Gianturco è chiusa: si so’ stesi i disoccupati, mi spiega un controllore. Si so’ stesi e chiossà quanne s’aizeno. La metropolitana è bloccata dalla protesta. Un paio di volte chiamo un taxi perché non ci sono autobus, o meglio, una linea che porta alla Stazione Centrale c’è, ma, come dicono le prof, «non si sa quando passa il mezzo».

Le prof uscendo si scortano a vicenda. Qualcuna offre un passaggio alle altre. Una lo offre anche a me. È una prof di Posillipo con la macchina piena di piante che deve reinnestare sul suo balcone.
Hai visto chi tieni in classe?, mi fa. Non so a quale dei ragazzini si riferisca. Quella, Teresa. Ah, Teresa, faccio io. Perché? Che tiene Teresa di speciale? Non lo sai? È la fi glia del capoclan. E mi fa il nome di uno dei clan camorristi più alla moda. Ah, rispondo, e allora? Quella, continua la prof, vive con la nonna: il padre e la madre stanno in carcere. Gente che per il matrimonio fra i due clan – e mi fa il nome del l’altro clan trendy, quello della madre – ha fatto svellere il cancello di una delle chiese più antiche di Napoli.
Siamo bloccate su via Marina, grande traffico di pendolari.
E com’è Teresa?, chiedo. A me sembra tranquilla. Sì, ed è pure intelligente. Si vede che è la figlia di uno importante. Guardo la prof di Posillipo che un po’ ammicca e un po’ sorride. Ci crede davvero che il padre di Teresa si possa ritenere uno «importante»?
E poi c’è quel l’altro, mi fa, Enzino.
Sì, Enzino ce l’ho presente, è uno dei più piccoli, hanno tutti fra gli undici e i tredici. Enzino ha problemi molto seri di alfabetizzazione, più degli altri. Ovviamente questa è una scuola media dove si sta insegnando ancora l’italiano della scuola primaria, come si dice oggi, insomma l’italiano delle scuole elementari.
E Enzino che tiene di speciale?, chiedo. È il figlio di uno dei sottoposti del clan di Teresa. Ah.
Tu guardali bene, mi fa la prof, e vedrai che si relazionano fra loro come si relazionano le loro famiglie: lei è intelligente e comanda e lui è fesso e obbedisce.
Ho capito. Comunque, aggiunge la prof mentre siamo in vista di Santa Lucia, a scuola di camorra non si può parlare. Il capo vero del clan, la nonna di Teresa, ha stabilito le regole e noi ci adattiamo, per buona educazione. Una convivenza pacifica, hai capito? Ho capito, non si nomina la camorra.
Ma tanto voi vi occupate di scrittura, fate cose creative, dice la prof.
Sì, sì, confermo. Ringrazio del passaggio e scendo dall’auto.

Qualche settimana dopo siamo arrivati a spiegare cos’è un punto di vista narrativo: i ragazzini ora, chi in un modo chi nel l’altro, sono catturati. Scrivono in abbondanza, inventano storie. Qualcuno mi dice anche che ha un romanzo nel cassetto. Undici pagine, insiste. Caspita, poi mi fai leggere?, sorrido e vado avanti.
Assegno un esercizio ambientato nel circo, dove ognuno pesca un diverso punto di vista. Ci sono personaggi, oggetti, animali. Chi è il trapezista, chi il nano, chi la donna cannone (profissuré, ma che d’è ’sta donna cannone?), chi il contorsionista o la tigre o la rete. Solo durante la rilettura realizzo che Teresa ha pescato il punto di vista del coltello. Ascolto molto attentamente. Teresa legge spedita: questa volta non ci sono grandi incertezze nel suo italiano, le frasi sembrano uscite da una mente adulta.
È la storia di un coltello che da giovane faceva parte della posateria di un ristorante. Poi il ristorante era stato chiuso e il coltello era stato acquistato da un lanciatore di coltelli di un circo. Il coltello vede quel che accade ma non precisamente – in fondo è solo un coltello – e così un giorno si rende conto di essere stato sottratto per perpetrare un omicidio. Macchiato di sangue, con ancora l’impronta dell’assassino sul manico, è l’unico testimone in grado di incastrare il colpevole. È con un’accurata serie di coincidenze che il coltello riesce a far sapere alla polizia la verità e a smascherare il colpevole.
Dopo la lettura la classe applaude. Teresa è stata bravissima. E questo, che ho appena sentito, è il punto di vista di coltello più legalista che io abbia ascoltato in diciassette anni di laboratori nelle scuole. Le prof si danno di gomito: per loro è strano che Teresa abbia scritto così bene. Hai visto?, mi chiedono a bassa voce. Ma allora funziona, aggiungono ammirate. Teresa ci guarda impettita. Penso a lei, alla figlia del capoclan, che ha un così alto senso della giustizia anche se nessuno glielo riconosce, per tutto il tempo che impiego a tornare a casa, quasi due ore.
Il mercoledì seguente, Enzino, il figlio del sottoposto del clan, ha un dubbio grammaticale. Prufissuré, prufissuré, sotto con quante tì? Enzino, secondo te, quante ce ne vogliono? La classe bisbiglia. Una o due?, insisto.
La classe ormai mormora sonoramente: dueee, Enzì, dueee…
E Enzino, sia pure dubitoso, accoglie il suggerimento. Due…?, mi chiede. E sì. Perché se ce ne fosse una come suonerebbe « sotto »? Il coro in sordina riprende: sòtooooo, Enzì, sòtoooo… Salvatore, il ragazzino lungo lungo con gli occhi da bambino che è accanto alla cattedra, al mio fi anco, ha un’improvvisa, inaspettata ispirazione: Ah…! Sotoacèto…!
Tutti ridono e da quel momento Salvatore non si chiama più Salvatore ma Sotoacèto.

© 2010 Ugo Guanda Editore S.p.A.

Tratto dal libro di Antonella Cilento, Asino chi legge -  Guanda – pp. 186, euro 16

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AGGIORNAMENTO DEL 14 NOVEMBRE 2010

LA SCRITTURA SCALZA di Antonella Cilento

La scrittura entra nelle scuole scalza perché nessuno crede di doverle mettere le scarpe, di aprire strade o stendere tappeti. Tutti ne parlano, nessuno la conosce e, come una parente lontana e impresentabile, la si cita, le si favoleggia intorno, la si invita a cena per convenzione sperando sempre che per un caso o per indisposizione non si presenti e diserti il desco.
Il problema è che, come i pesci, le parole fuggono, non vogliono essere pescate. Fanno il gioco di sempre, luccicano nell’acqua, fanno scorrere il loro meraviglioso corpo nel fluido, come le balene di Rosa Montero ne “La pazza di casa”, e ci promettono invenzioni che ci sfuggiranno.
Allo stesso modo la memoria, come scrive Iosif Brodskij in “Fuga da Bisanzio”, provoca vertigini, suggerisce speranze agli scrittori che tentano il mestiere di pescatori del passato.
La memoria è evoluzione, è la coda che i secoli ci hanno tolto. Raccogli pure i pesci, scrive Brodskij, raggranella parole e pezzi del passato, ma, una volta messi nella rete, senz’acqua i pesci muoiono.
Scrive Jennifer, quinta ginnasio a Napoli, sull’ascolto di Sting, che vuole volare e volare, cadere e riprendere a volare. L’importante, dice, è non cadere « in questo mare di pesci di tutti uguali ».

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Per chi avesse il dubbio (eterno solo in Italia) che la scrittura non preveda insegnamento, è forse opportuno rileggersi quest’estratto di lettera di Francesco De Sanctis, il padre della storia letteraria italiana, indirizzata a una giovanissima aspirante scrittrice napoletana, Grazia Mancini, esule con la famiglia a Torino in pieno Risorgimento:
« Ho letto i tuoi versi. L’insieme non cammina, essendo una cucitura di pensieri differenti, che si presentano, quando uno li cerca apposta, ma non sorgono tutt’in una volta spontaneamente. Le due prime strofe sono naturali, semplici, con versi facili; le altre due sono poco felici.
Veggo con piacere che intendi la struttura del verso; è già una gran diffi coltà superata. Continua, ma esprimi i tuoi sentimenti, che quando il cuore è pieno, sgorgano in copia e naturalmente. A che pro, mi domandi? Un’anima nobile scrive non per aver fama e onori; scrive per dovere, per esercitare le sue facoltà; scrive per bisogno, per dare uscita alle sue forze rigogliose ».
Insegnavano scrittura il marchese Basilio Puoti, Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini e molti altri, nella convinzione che chi non sa leggere con profondità e essere padrone della scrittura in ogni sua forma non sarà mai libero e che la punteggiatura, i congiuntivi e i condizionali fanno i cittadini di una nazione.

© 2010 Ugo Guanda Editore S.p.A.
Tratto dal libro di Antonella Cilento, Asino chi legge – Guanda – pp. 57-58, euro 16

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Antonella Cilento (Napoli, 1970) scrive e insegna scrittura creativa. Ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006), Nessun sogno finisce (Giannino Stoppani, 2007, Premio Giulitto). Collabora con Il Mattino, L’Indice dei libri del mese e il Corriere della Sera. Ha fondato nel 1993 a Napoli il Laboratorio di Scrittura Creativa Lalineascritta (www.lalineascritta.it) e tiene corsi di scrittura in tutta Italia. Ha realizzato per RAI RadioTre i racconti radiofonici Voci dal silenzio, è stata segnalata al Premio Calvino 1997, ha vinto il Premio Tondelli con la sua tesi di laurea. Ha scritto numerosi testi per il teatro e cortometraggi per Mario Martone e Sandro Dionisio. Con Una lunga notte (2002) ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana.

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ISOLE SENZA MARE, di Antonella Cilento http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/16/isole-senza-mare-di-antonella-cilento/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/16/isole-senza-mare-di-antonella-cilento/#comments Tue, 16 Jun 2009 19:44:51 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=869


“Isole senza mare” è il nuovo romanzo di Antonella Cilento, ma è anche la storia parallela di due donne che attraversano l’Otto e il Novecento: Aquila, nobile caduta in povertà e costretta a lasciare la Spagna, vende se stessa e tenta il riscatto diventando l’amante del marchese Campana, collezionista di arte e di vite altrui, un amore che la trascinerà in una trama di ossessioni, vendette e fantasmi. Nina, ultima erede di una catena di donne che dalla Spagna sono fuggite, ha più di ottant’anni, ha vissuto il Fascismo e una difficile intimità famigliare percorsa da molti nodi silenziosi: orfana di padre, sposa tardiva, madre mancata. Aquila e Nina amano con infelicità, entrambe sono esiliate: legate a doppio filo da rimandi, coincidenze ed eredità, le loro vicende si intrecciano con un coro di indimenticabili personaggi sullo sfondo del Mediterraneo.
Un romanzo sulla solitudine, sull’isolamento, sull’esilio. Sull’amore deluso. Un’opera letteraria che ha impegnato Antonella Cilento per ben dieci anni e che finalmente vede la luce.
Ce ne parlano Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
Vi invito a discuterne con loro e con l’autrice.
Di seguito pongo alcune domande/riflessioni – ispirate al romanzo – con l’intento di favorire la discussione.

1 -Isole senza mare. Isole senza amore.
Siamo isole quando amiamo? E quando scriviamo?

2 – Isole senza approdo, anche. Perchè se non c’è mare, non c’è riva. Se scriviamo come isole siamo, anche, viaggiatori senza ritorno?

3 – Isole senza tempo. Le generazioni che sfalsano e scombinano destini.
Il tempo che scorre è solitudine? È compimento?

4 – Isole senza viaggio.
Un viaggio, per scrivere, è necessario? E quale viaggio?

Di seguito, gli ottimi contributi di Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.
Massimo Maugeri

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Isolitudine e racconto nell’opera di Antonella Cilento

di Luigi La Rosa (nella foto)

C’è un orizzonte frastagliato, visionario, dove le ombre si mescolano al crudo realismo del quotidiano e i sogni hanno lunga durata. Vita e morte dialogano, consonano, intrecciano relazioni, suggeriscono prospettive dello sguardo. Mi riferisco al luogo fantastico, metaletterario per eccellenza, nel quale Antonella Cilento fa muovere i primi passi di Aquila – forse il più intenso dei personaggi del suo nuovo libro: Isole senza mare (Guanda, pp. 368, 17 euro).
Aquila ha il pianto nella voce e la capacità magica di leggere nell’oblio, richiamando presenze misteriose. Dalla sua culla di bambina delicate dita di fumo la sfiorano, le passano sensazioni che la piccola porta con sé, crescendo, come una specie di irrinunciabile segreto. Forse, la traccia di una consapevolezza, l’impronta di una precoce predestinazione al dolore.
La scrittrice ritaglia intorno a questa amabile figura lo spettro di una vera e propria epopea sentimentale, una sorta di solenne splendore: il declino della nobiltà originaria, la decadenza della famiglia nella Spagna di fine Ottocento, la fuga in Italia, la miseria, la prostituzione e poi l’innamoramento per il marchese Campana, eccentrico collezionista e funambolico interprete di tutta una stagione di soprusi e follie.
La Spagna del mistico e dell’invisibile si sostituisce pian piano alla Roma sensuale e follemente cortigiana che fa da sfondo alle esperienze della giovane espatriata, mentre la realtà si traveste da spettacolo, il quotidiano si carica di inganno, il desiderio di tentazione, e il crescendo dipana con avveduta maestria misfatti e colpi di scena lungo orbite surreali e stravaganti.
Ma questo è solo uno dei due grandi temi che risalgono la carne del romanzo: sulle fibre coinvolgenti di tali vicende germogliano in fretta nuovi spiriti, e una nuova toccante umanità fa irruzione sotto il fuoco dell’obiettivo narrativo: quella di Nina, “angelo grasso” con aspirazioni suicide, che apre l’incipit del romanzo spiccando il volo dal balcone di casa e innestando le sue ferite personali a quelle della sorella Maddalena, o della madre Maria Azara, in una formidabile teoria di rifrazioni, sublimate in storia, in cronaca, in destino.
I perimetri esistenziali di queste donne si legano a quello di Aquila, le loro ansie alle sue peripezie in un’Italia animata da fervidi ideali rivoluzionari, e la narrazione diviene il punto di confluenza, il luogo nel quale i perimetri vengono miracolosamente a coincidere, a confrontarsi, a sovrapporsi.
Come i grandi musicisti del passato, Antonella Cilento ci offre una prova di indiscussa bravura compositiva: Isole senza mare rappresenta infatti un pregiatissimo esempio di romanzo bipartito, di partitura che muove i suoi due canoni strutturali in un’alternanza consapevole di tempi e luoghi armonicamente predisposti: l’Ottocento, documentato dalla splendida saga di Aquila e dei suoi amori infelici, e il più crudele Novecento, che sembra ancora spingere a fatica i suoi polverosi ingranaggi, chiamandoci a una profonda interrogazione sulla memoria e sul vissuto.
Aquila, Nina, Maddalena, Maria Azara, ma pure Aldo, Giampietro, Giacomo, e tutti quanti gli altri personaggi evocati dalla penna dell’autrice si tramutano in isole: è accaduto un prodigio, ed eccoli punti di luce smaniosa nella nevralgica solitudine di ogni esistere, isole nel mare dei giorni, degli anni, degli attimi, cui adattare la dolente prerogativa dell’isolitudine, coscienza dell’essere “isola” in un mare svanito, prosciugato, strappato alla pelle delle cose.
In epoca di minimalismi e di più o meno conclamate poetiche del disimpegno Antonella Cilento ci offre un romanzo avvincente, colto, raffinato, che si muove secondo una direzione assolutamente libera, spregiudicata. Un libro estraneo a mode e squallidi compiacimenti di stagione, che sperimenta, che seduce, e che punta in alto, con coraggio, con ostinazione direi, scommettendo a pieno la sua abbondante materia raccontativa e regalando al lettore un viaggio poderoso, straordinario, che emoziona dalla prima all’ultima pagina.
I miei omaggi a una scrittrice che non fugge davanti alle minacce della trama, alle preoccupazioni della struttura, alle remore dell’articolazione, e che accetta invece la complessità con la fierezza di chi è cosciente di padroneggiare al meglio la propria materia, di chi ha ancora il gusto plastico del raccontare, della fabula amena, e l’ambizione all’affresco, all’intreccio di casi, uomini, situazioni, nella costruzione di un’opera in grado di superare il tempo.
Isole senza mare è un libro davvero importante, uno di quelli che uno scrittore scrive una sola volta nella vita, lasciandosi dietro tutto un mondo di viscere e di risonanze: di pensieri, caratteri, sembianze. Forme accorate e veritiere, piene di struggimento, che ci chiamano dal loro fondo di buia e crepitante malinconia, per chiederci la complicità di una nuova occasione. Forse l’ultima. Le stesse alle quali la letteratura ha il potere di ridare forma, anima, spessore. E il cui fascino oscuro ci accompagnerà per giorni, infinitamente, anche dopo aver chiuso l’ultima pagina del romanzo.
Luigi La Rosa

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Antonella Cilento: Isole senza mare.
recensione e intervista di Simona Lo Iacono.

Tracce di isola sono in noi tutti.
Siamo isole quando ci cerchiamo senza trovarci. Quando percorriamo secoli con la nostra storia sulle spalle, il passato a precederci, il futuro dietro – sempre.
Siamo isole di occhi e di cuore quando tentiamo di finire e non riusciamo a dire basta, quando la storia che pure accompagna il viaggio trascolora solo per ferirci, quando un amore ci compra e ci vende. O quando, silenziosamente, non può che lasciarci.
Isole senza mare di Antonella Cilento. Due donne a cavallo di secoli. Due galoppi e due incroci di destini. Isole senza mare non è come dire solitudine, o non solo. E’ non avere neanche il mare a cingerti. Un attraversamento. Onde da solcare e sguardi da ricongiungere. Mani tese. Uno scampolo, almeno, di noi.
Così Nina, che fende gli anni dei fasci e della guerra, che perde il padre e si sposa tardi, quando i figli non sono che un vuoto preannunciato e la sorella Maddalena rimane a custodirne la vecchiaia. E’ già una donna in fuga, Nina, prima dalla Spagna e poi da se stessa, come Aquila un secolo addietro, approdata a Roma senza splendori e costretta a prostituirsi.
A unirle, il paesino di Azara sui Pirenei e secoli che avviluppano e tornano indietro, e poi avanti e poi indietro, che stanno lì a sussurrarti all’orecchio che persino il tempo, e il suo incedere a strappi, non è che un’illusione.
E forse è questo tempo che Nina cerca di dimenticare mentre tenta il suo salto nel vuoto, a ottant’anni, e la memoria non è che un bandolo o una lunga coda di drago che chiama i morti a raccolta, li interroga e li consola. Li afferra tra venti sospirosi che non adempiono mai del tutto un destino, una storia, una verità.
Il romanzo affiora da qui. Da questa coda che non impiglia che resti e rimedia agli assalti del buio inventando altre ombre, scolorando dalle vetrate di ballatoi e saloni ottocenteschi, o di bordelli odorosi di cipria e acqua di rose, in cui i soldi lasciati sul comodino non assolvono mai a un riscatto.
Corpi che si vendono e corpi che si perdono, famiglie con segreti e segreti senza famiglia, anche questo – e molto altro – è un’isola che rinuncia a vedersi lambita dall’acqua.
Antonella svia la morte, cataloga e assesta, rimedia a smangiature , all’incedere delle scadenze. Lo fa con lingua che scava e brilla, che si staglia netta e viva, attingendo a inflessioni, a cantilene, chiamando a convitto i fantasmi.
Un viaggio e – forse – un ritorno, un attraversamento che non si rassegna a perdersi. Che incede come solo la scrittura sa fare: restituendo un passato.

-Antonella, cos’è la scrittura? Memoria, malinconia, trasfigurazione?
Tutte queste cose insieme. E’ sopra e prima di ogni altra cosa invenzione, nel senso antico del termine, inventio, ovvero cercare per trovare o cercando, non si sa bene cosa, scoprire di aver trovato oggetti che non si era partiti per cercare. Scrivere è come setacciare una spiaggia con il colino da thé: può darsi che sia un’impresa da pazzi, anzi lo è senz’altro, però se la si compie e la si fa durare per il tempo necessario (tutta la vita, da quando siamo bambini a quando moriamo) è possibile che ci riservi qualche sorpresa. Come scrive Natalia Ginzburg, che in Isole senza mare è citata in un esergo, scriviamo con la fantasia quando siamo felici e di memoria quando siamo infelici. Questo romanzo ha entrambe le condizioni dentro e mi sono accorta nei dieci anni che è durata la lavorazione, dal ’98 al 2008, che le due fasi dentro di me si sono del tutto mescolate, perché così è la vita e così è anche la scrittura: molte parti del romanzo autobiografico di Nina sono inventate di sana pianta e molte aree del romanzo storico e d’invenzione di Aquila sono decisamente autobiografiche. Dunque, scrivere è trasfigurarsi in modi così complessi e inaspettati, ma scientemente cercati, che poi l’opera finita viaggia davvero oltre noi, molto lontano dalla nostra condizione “terrestre” che, come scrive la Ginzburg, ci condiziona mentre narriamo.

-E quella coda di drago? Perché serve a impigliare le ombre?
Una delle cose straordinarie che ci capita dopo aver scritto un libro è che altri libri o la realtà ci rispondano o ci confermino nelle “scoperte” che abbiamo fatto scrivendo: ieri su una bancarella a Port’Alba ho trovato un romanzo di Hector Bianciotti (Senza la misericordia di Cristo, Sellerio, Premio Goncourt negli anni Ottanta) dove si legge: “Non so bene a cosa obbedisco cercando di preservare scrivendo una vita i cui giorni non si illuminarono di alcuna gloria (…), tanto più che sono portato a credere che se una certa cosa in questo mondo è esemplare, tutte lo sono: o tutti i fasti della memoria sono meritati o non lo è nessuno. Non sappiamo perché agiamo; la vita si serve di noi per fare scambi che sono oltre la nostra comprensione.(…) Non esiste memoria allo stato puro; per raccontare la propria vita, bisognerebbe già cancellare tutte le versioni che noi stessi ce ne siamo fatti e che in un certo senso, costituiscono le nostre azioni. (…) Scrivere su una persona che abbiamo conosciuto significa accomiatarsene.” Ho amato molto di Bianciotti un romanzo edito da Feltrinelli che s’intitola “Quel che la notte racconta al giorno” (tanto che un prossimo stage che terrò a luglio porta questo titolo): scriviamo per impigliare le ombre, come tu dici, per trattenere e per congedarci anche, come scrive Bianciotti. Ho impiegato questi dieci anni, ma in realtà tanti di più, per congedarmi dalla mia infanzia e da Nina e Maddalena, cioè la mia prozia morta suicida e mia nonna (che invece fra un anno ne compie cento e non mi pare abbia intenzione di lasciare questo mondo, è una roccia di granito sardo). La coda di drago che ci segue l’ho praticata una volta durante un training corporeo: s’immagina di avere la coda e ci si muove tenendo presente di questa protesi lussureggiante dietro di noi. Si diventa lenti e vanitosi e attenti a non inciampare. I morti sono il nostro patrimonio di memoria e la spiegazione di quel che siamo oggi. Una volta scritti li esorcizziamo, diamo loro una nuova vita, li trasfiguriamo con la parole. Cercare le parole giuste per fissare fuori dal mio corpo le sensazioni impresse in una vita è stato lo sforzo più grande e assurdo di Isole senza mare.

-Le ombre poi. Fragili e ostinate. Quanta parte hanno nella donna che scrive? E nella donna che ama?
Questa storia della donna in quanto autore è davvero seccante (scherzo): sono proprio stanca di dover ogni volta partire dalla mia condizione biologica per motivare la scrittura, un po’ come quando mi tocca partire dalla mia identità napoletana. Vengono sempre prima loro, la donna e la città, e poi io che scrivo. Comincio a diventare invidiosa: come si permettono questa donna e questa città di stare sempre in mezzo quando poi tutta la fatica la faccio io? Scherzi a parte, la questione che sollevi è relativa ai due aggettivi che hai usato giustamente: Nina e Aquila sono fragili anche se non lo sembrano. Nina non lo sembra perché trascorre una vita a ridere e far ridere, mentre il suo intimo non coincide a questa giocosità esterna. Aquila si costruisce una corazza per sopravvivere al mondo esterno e conserva le sue grandi fragilità dentro, le trattiene, le protegge, preferisce sdoppiarsi in Secunda, la sua sorellina mai nata, in un fantasma dell’anima, per non dover rinunciare del tutto a se stessa. Però entrambe hanno un fondo di resistenza, un nucleo solido. Nina lo perde, ma Aquila lo ritrova. Qualsiasi cosa ci accada, anche la più terribile, c’è un fondo bancario di resistenza umana in noi che si fatica a distruggere. La realtà ci si può accanire quanto si vuole contro, ma noi, a costa di fuggire nella follia, come un po’ accade a queste due donne, ci aggrappiamo al nostro intimo.

-Donne che amano. Uomini che si negano. Il destino di Aquila è, in fondo, lo stesso di Nina. Sono isole senza mare per questo? Sono isole senza amore?
Il primo a farmi notare questo gioco di parole nascosto nel titolo è stato Generoso Picone, che con Francesco Durante, Giuseppe Montesano mi hanno restituito finora le letture più precise e belle di questo romanzo e cui sono molto grata per la comprensione. Poiché la frase è tratta, non so più da dove, ma dall’Ortese, non ci si può stupire che contenga questo senso. Nina e Aquila non sono fortunate in amore: Nina ha un uomo accanto, non quello che forse aveva desiderato, ma non è sola. Pure, deve sentirsi molto sola. Aquila gli uomini li frequenta per mestiere e s’innamora di quelli sbagliati, fra cui del fantastico Giovanni Pietro Campana, che è una sintesi del fascino ma anche della pochezza maschile italiana. Quando s’innamora dell’uomo “giusto”, lo perde. Fanno insomma quel che molte donne fanno nella loro vita: proiettano la realizzazione di sé, anche quando si tratta di donne intelligenti e impegnate, realizzate in altri ambiti, sulla figura dell’Amato. L’Amato Bene le tradisce, scompare, si rivela un lestofante: e loro continuano a stargli dietro. Anzi si distruggono per lui. Ma il mare che è scomparso intorno alle isole di questo libro, Aquila e Nina ma anche tutti gli altri personaggi: Maddalena, Giacomo, La Rana, Egizia, la narratrice stessa, ecc…, è il mare della comunicazione. Sono svaniti i ponti che legano le persone in un destino comune. E’ svanita la comunità. Questa è forse una delle ragioni per cui il romanzo si dipana proprio dal Risorgimento ad oggi: un paese nasce mentre è già morto. E noi oggi assistiamo a questo scempio, impotenti.

-Uno sguardo alla lingua e ai modelli letterari. Nel progetto originario le isole erano Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Chi delle due è Nina e chi è Aquila?
Il progetto originario era uno spettacolo teatrale, breve, che è andato più volte in scena: lì c’era un’ipotesi di incontro mai avvenuta fra le due maggiori narratrici del nostro Novecento (e fra le maggiori d’Europa), entrambe autrici di romanzi in controtendenza rispetto alle mode del secolo. Poi, di queste due autrici così amate, in Isole senza mare non c’è più traccia narrativa, al limite ispirativi. Però se volessimo giocare a questo gioco che proponi, Aquila è Elsa, più battagliera e calata nel reale, e Nina è Anna Maria, persa dentro di sé, sola.

- La poesia di Angel Crespo che apre il romanzo : “ Misi le mani nell’acqua per assomigliare alle isole. Passava il mare tra le dita come aria tra le crepe. E s’inseguivano da sotto le mie parole le sirene. Quando volli tornare a terra, già non c’era più riva”. Antonella, un’isola senza mare è una terra ( o un destino) senza approdo?
Questo è un romanzo picaresco sull’esilio: l’esilio dalla Spagna cui è destinata Aquila, l’esilio dalla Sardegna che deriva da un esilio dalla Spagna cui sono destinate le sorelle Azara, Nina e Maddalena. L’esilio dell’anima di due donne minori per la storia e senza importanza nella quotidianità ma pure vive e bisognose di essere riconosciute e viste. Tutte corrono verso il loro esilio, che è anche già raggiunto. E’ dentro di loro. Il bello della vita è diventare ciò che già siamo, realizzare il nostro destino: Nina se ne spaventa, Aquila sfrontatamente va avanti. Chi di noi non è così un giorno e nell’altro modo in un altro? Una volta raggiunta l’isola che siamo noi vorremmo tanto fuggire al nostro destino, pure non ci è possibile. Trasformare, trasfigurare è l’arma, fuggire è la morte.

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STRANE COPPIE n. 3: ANNA MARIA ORTESE, INGEBORG BACHMANN http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/02/strane-coppie-n-3-anna-maria-ortese-ingeborg-bachman/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/02/strane-coppie-n-3-anna-maria-ortese-ingeborg-bachman/#comments Tue, 02 Jun 2009 09:16:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/02/strane-coppie-n-3-anna-maria-ortese-ingeborg-bachman/ ortese-bachmann.JPGNuova puntata de Le strane coppie di Antonella Cilento.
Stavolta vengono messe a confronto due scrittrici: Anna Maria Ortese e Ingeborg Bachmann. I due libri accoppiati sono: “Il cardillo addolorato” (della Ortese) e “Il caso Franza” (della Bachmann). Le ragioni di questo accoppiamento vengono ben spiegate da Franz Haas nella bella nota che segue.
Ne approfitto di questo post per invitarvi a ricordare e a esprimere le vostre opinioni su Anna Maria Ortese e Ingeborg Bachmann.
Conoscete queste due autrici? Le avete mai lette?
Inoltre, la relazione di Haas mi ha ispirato un paio di domande…

Haas scrive che in ambedue le opere qui considerate una voce femminile esprime il dolore del mondo.
Allora vi domando: secondo voi le voci femminili, nella scrittura, riescono a esprimere meglio il dolore del mondo?
Dalla lettura della suddetta relazione emerge la grande stima della Ortese nei confronti della Bachmann. Un stima immensa, che – al tempo stesso, come capirete leggendo – è indice di una grandissima umiltà.
Così vi domando… che relazione c’è tra arte e umiltà?
La grandezza di un artista può essere collegata alla sua umiltà?

Di seguito, l’introduzione di Antonella Cilento e la relazione di Franz Haas.

Massimo Maugeri

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Introduzione di Antonella Cilento

E’ con vera gioia che vi segnalo il proseguire incessante (e la crescita) del progetto STRANE COPPIE, organizzato da me con Lalineascritta Laboratori di Scrittura, e grazie alla collaborazione attivissima degli Istituti di Cultura napoletani, il Goethe Instut, l’Instituto Cervantes e l’Institut Français de Naples.
Strane Coppie è giunto ormai a buon punto: all’Instituto Cervantes giovedì 21 maggio h 19 si sono svolte le RIVOLUZIONI IMPOSSIBILI, dove Domenico Starnone e Melania Mazzucco hanno raccontato Il resto di niente di Enzo Striano e Il secolo dei lumi di Alejo Carpentier e, giovedì 11 giugno h 18.30 all’Institut Français de Naples, ci saranno RITRATTI DI DONNA, dove Sandra Petrignani e Donatella Trotta racconteranno Claudine di Colette e Il paese di Cuccagna di Matilde Serao.
Nel frattempo, ringrazio infinitamente Franz Haas per averci concesso di pubblicare la traccia del suo intervento avvenuto lo scorso 23 aprile presso il Goethe Institut: Franz Haas ha dialogato con Maria Attanasio intorno a Il cardillo addolorato di Annamaria Ortese e Il caso Franza di Ingeborg Bachmann.
Del perché di questo parallelo leggerete qui, di seguito, dalle stesse parole di Haas, ma occorre ricordare di quanto invece detto da Maria Attanasio, che speriamo presto di ospitare in questo spazio, che in quest’incontro si è rivelato un tema della scrittura di sempre: che un’autobiografia può essere un romanzo storico e che un romanzo storico può diventare una verità autobiografica. Di queste due autrici, fra i più grandi del Novecento, si può senz’altro dire che hanno cercato senza interruzione la loro personale Verità e sono rimaste, come scrive Monica Farnetti in Tutte signore di mio gusto, “fedeli all’invisibile”.
Ringrazio ancora particolarmente Franz Haas per la generosità e la gentilezza con cui ci ha raccontato i suoi personali ricordi relativi ad Annamaria Ortese e offerto sprazzi del loro carteggio privato.

A. Cilento

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Anna Maria Ortese e Ingeborg Bachmann –
“Il cardillo addolorato” e “Il caso Franza”

di Franz Haas

Per vari motivi ho suggerito di abbinare il romanzo incompiuto “Il caso Franza” di Ingeborg Bachmann al capolavoro “Il cardillo addolorato” di Anna Maria Ortese: perché in ambedue le opere una voce femminile esprime il dolore del mondo; perché in entrambi i romanzi una giovane donna ha un legame viscerale con un fratello più piccolo; e perché la Ortese stimava la Bachmann in modo quasi smisurato, particolarmente “Il caso Franza”, come mi scriveva in varie lettere che in seguito citerò.
Nel 1993 tornano i miracoli a Milano: dopo il clamoroso insuccesso del romanzo “Il porto di Toledo” nel 1975, il nuovo romanzo di Anna Maria Ortese è più fortunato, e per più ragioni. Primo, perché “Il cardillo addolorato” è la summa di tutta l’opera dell’autrice; ibrido stupefacente, spiritoso e malinconico ad un tempo; libro dell’età matura ma pieno di virtuosismi giocosi. Secondo, perché esce presso la nobile casa Adelphi, il che conta molto in una società devota alle etichette. Terzo, perché i buttafuori della critica non vigilano più con tanta severità sulle mode postmoderne.
Anche questo romanzo, come “Il porto di Toledo” si svolge in una Napoli fantomatica, città che l’autrice non vede da molti anni, davanti alla “fiaccola del Vesuvio” e ad altri accessori vecchi duecento anni. Sull’Europa brillano ancora le stelle dell’illuminismo ma già i primi fantasmi romantici cominciano ad oscurare il cielo. Tre viaggiatori belgi vivono la città nella sua leggerezza scintillante, ma presto la scena si offusca. I tre conoscono un ricco guantaio e sua figlia Elmina; uno dopo l’altro si innamorano di lei e intuiscono che su questa famiglia grava un tremendo segreto. Passeranno gli anni e gli stranieri non capiranno niente – soltanto che la ragazza soffre di qualche amore ridicolo, per un folletto, o per un idiota.
L’autrice si prende gioco della logica narrativa, accumula personaggi strambi che raccontano sempre nuove e strane varianti della disgrazia. Il lettore coscienzioso fatica ad orientarsi fra tanti nomi e fatti, gradi di parentela e chiacchiere da serve; egli insegue orme di fantasmi e date storiche per mezza Europa, ma alla fine nulla quadra, e non si sa se lo gnomo tanto amato ha tre anni, o trecento. Il “narratore” si scusa ogni tanto della grande confusione. Ma in fondo la vicenda è molto semplice: la figlia del guantaio aveva promesso al padre morente di prendersi cura del fratellastro deforme; per questo rifiuta ogni altro legame amoroso.
La giovane Elmina si accanisce nel suo amore sordo per il fratellino e per la solitudine, tanto da non essere più in grado di amare se stessa o alcuno. Uno degli ospiti di suo padre, il principe Ingmar di Liegi, la adora invano per tutta la vita. Lei sposa un altro, senza amarlo, il primo pretendente che capita, un artista dissennato amico del principe, sperando così di poter adottare il piccolo deforme. Quando muore questo marito ad Elmina rimane soltanto una bimba ritardata e il disgraziato fratello, che forse non è neppure un umano, ma un folletto, che a volte sembra una gallina o anche un capretto.
Il principe cerca di dimenticare, si sposa e sua moglie muore. Anni dopo torna a Napoli ed è tutto come sempre. Nell’animo di Elmina sono sopravvissute la freddezza e la pazienza, nella sua voce c’è sempre un’ironia gentile. Morendo il principe spera ancora in una qualche illuminazione. Ma non ci sono più segreti. Il disamore è davvero così sinistramente banale.
In questo romanzo Anna Maria Ortese ha narrato anche una storia autentica che conosceva dai racconti della sua adolescenza; il resto è favola e quella fantasia che viene dalla solitudine e dalla memoria. Il dolore è un’eredità del ricordo e lo si sopporta meglio nell’ironia, nel divertimento, sciogliendolo nell’assurdo. Spesso si fa largo anche la malinconia, ma l’autrice ogni tanto la scaccia con bizzarra comicità: l’adozione della piccola creatura (un trovatello di Colonia, come affermano antichi documenti) sarebbe necessaria per prolungare “il permesso di soggiorno nel Regno di Napoli”. (Qualche stupido crede persino che lo gnometto sia una spia della polizia.) Ma il mondo non è fatto di sola carta timbrata.
La realtà brutta, povera, deforme è onnipresente; le ferite e la disperazione sopravvivono agli umani, e restano. Tanti folletti storpiati se ne stanno accovacciati sui marciapiedi di Napoli, a “Liegi ed altre capitali”, leccando un po’ di latte versato.
Con il suo amore per il fratello, questo figlio sciagurato della natura, Elmina pratica una religione senza Dio né preghiere. “Ama un fantasma e questa disgrazia merita il più grande rispetto.”
Sente per tutta la vita il canto di un cardillo, che la esorta a considerare il dolore un privilegio, e la invoca di non abbandonare mai quella creatura debole; e lei prende sul serio questa vocazione, come altri si dedicano agli affari di borsa o alla poesia. L’autrice ha piena comprensione per tale ossessione. Con una fitta rete di metafore elabora una poetica in difesa del superfluo, del debole e del ridicolo; di ciò che proviene dai gironi più bassi dell’umanità, contro la logica dei vittoriosi, contro l’arroganza profumata delle parrucche nei salotti aristocratici. Oppone loro, con convinzione, il suo racconto e le sue poetiche immagini dell’inanità.
Elmina sopporta la sua sorte con la calma dei forsennati.
Il suo vecchio padre guantaio soffre molto più di lei, per lo strano trovatello e per una moglie che non lo ha amato mai. In una scatola bucata custodisce le “lettere d’amore” di lei (oppure il trovatello?); qualche volta, attraverso i buchi filtra un lamento debole. Il guantaio trascina la scatola attraverso tutta la sua vita; ma in verità il pacco contiene una sola lettera di poche righe – una gelida richiesta di soldi.
In tutta l’opera di Anna Maria Ortese esistono simili creature del dolore, né folli né ottuse abbastanza da poter sopportare in silenzio. A loro l’autrice dà voce: un miscuglio fra il realismo oscuro e “la magia nera delle parole” (Ingeborg Bachmann).
La strategia linguistica del romanzo è semplice e raffinata come l’esibizione di un vecchio clown esperto: dal rococò leggiadro delle descrizioni di certe cianfrusaglie color rosa fino al turbato silenzio esistenzialista di fronte alle cose di cui un poveretto non può parlare. E regolarmente l’ironia simulata si interrompe per fare largo ad un terrore verace. La grande arte di Anna Maria Ortese consiste in questo funambolismo dialettico-stilistico fra ragionevolezza disincantata e irrazionalismo spaventato e spaventoso.
L’autrice mantiene un continuo dialogo con il lettore, catturandolo con spiritosa ambiguità: “É penoso compito del narratore di storie sotterranee (…) preparare il suo ipotetico Lettore a una tranquilla delusione e insieme cauta speranza.”
Si confida con lui per chiedergli, insicura e lusinghiera, se veramente lo interessa questa storia “di bambine dispettose e uccelli infelici”. In ogni capitolo è presente “il narratore” che sospira ammiccando: “Dov’è adesso, per favore, il Lettore silenzioso (…capace di) raccogliere il silenzio glaciale dell’Universo, le liti dei fanciulli del mondo sotterraneo, gli sputi, le lacrime (…)?”
L’eroe maschile dominante di questo romanzo è il principe Ingmar di Liegi; è quasi invulnerabile nella sua innocuità. Avverte il dolore della delusione ma continua la sua vita da diplomatico, illuminato e ingenuo. “La magia non lo turbava, ma le cose del cuore sì.” Non sa cosa lo leghi veramente a Elmina, non conosce i rumori notturni nell’anima di una camiciaia. In fondo la considera sempre “una ruvida capra”, brutta nel suo dolore mediocre, la “capra del Golfo”. Quando egli si corica la sera, per riposare o per morire, il maggiordomo annuncia “un certo Cardillo, da Napoli”. Il principe è contento del canto e tutto intorno a lui diventa calmo, freddo, infinito.

Ho conosciuto Anna Maria Ortese la primavera del 1990, tramite Fabrizia Ramondino, proprio mentre stava lavorando a questo romanzo per il quale le servivano delle fotografie di quella zona di Napoli dove in parte è ambientato, il Pallonetto di Santa Lucia. Mi assumevo il compito di farle e poi di commentarle durante una mia visita a Rapallo. Nelle nostre conversazioni e nelle lettere che seguiranno Anna Maria Ortese si sofferma volentieri su Napoli, e mi parla con grande fremito del “Cardillo”, la sua creatura napoletana. Quando il romanzo esce, a maggio del 1993, all’autrice rimane l’antica angoscia causata dai suoi naufragi napoletani, e mi scrive: “Il libro è pronto (gliene ho mandato una copia) e dovrebbe essere in vetrina fra pochi giorni. Ma mi aspetto la stessa accoglienza che ebbe ‘Toledo’. Sparirà subito. Vedrà”. (12 maggio 1993)
Questa è pura scaramanzia, perché già si stanno muovendo i tamburi della stampa, è in arrivo una valanga di recensioni favorevoli.
Nell’estate del 1993 faccio un’altra visita ad Anna Maria Ortese, a Rapallo. Orgogliosa, mi regala una copia della traduzione spagnola del “Porto di Toledo”, appena uscita. A dicembre del 1993 mi esprime la sua soddisfazione per il successo economico del “Cardillo”, ma pensa già al futuro, alla rinascita di “Toledo”, il suo libro ingiustamente affondato, la sua creatura più napoletana.
Di Napoli, di “Toledo” e del “Cardillo” la Ortese parla sempre con timoroso entusiasmo, ma volentieri affronta anche altri argomenti. Vuole conoscere le mie letture preferite. Le parlo di Carlo Emilio Gadda, di cui lei ha solo un vago ricordo, e poco dopo mi scrive: “Ho cercato subito “La cognizione del dolore”, e ho cominciato a leggerlo stanotte, sbalordita da tanta grandezza, e mortificata di non averne saputo del tutto – o quasi – nulla, finché Lei non me ne ha parlato.” (23 maggio 1990)
Una reazione simile, persino di maggiore entusiasmo, suscita un mio suggerimento su Ingeborg Bachmann – la Ortese non conosce affatto l’autrice austriaca. Le spiego che la Bachmann ha passato molti anni in Italia, che era approdata ad Ischia e a Napoli proprio quando lei, la Ortese, aveva lasciato per sempre la sua città, che a Roma, per molti anni, avrebbero potuto incontrarsi. In varie lettere la Ortese affronta gli scritti della collega austriaca, è palesemente emozionata: “Ho letto, con grande commozione, “Canti durante la fuga”, di Ingeborg Bachmann. Vorrei leggerne altre poesie. Dove? Chi le ha pubblicate? La neve del cuore rivela una Napoli ignota. Poesia, sì, da brivido: ma assolutamente alto.” (3 luglio 1990)
Nella mia lettera di risposta do le indicazioni bibliografiche, e qualche giorno dopo, ecco la sua ammirazione senza riserva:
“Della Bachmann ho letto, inviati dalla Adelphi, tutti e quattro (credo che siano quattro) i volumi di narrativa. Tutti i racconti sono di altissima qualità, le cose più alte scritte da una donna, in Europa. Non ci sono confronti con altre scrittrici, nel mondo. Come prosa, no. Nessuna donna scrive in un modo così vertiginoso, attento, limpido: e c’è un dolore quasi soprannaturale; il dolore moderno. Non c’è un suono, poi, che non sia puro. Non ci sono tracce di terra. Quando l’ho letta, ho sentito tutti i miei limiti. Ma senza umiliazione. (Di tutti i miei libri, Lei lo sa, ne considero uno solo. Un solo libro ho scritto, e il resto è così così.)” (10 agosto 1990)

“Un solo libro ho scritto” – è questa la sintesi drastica di una lunga vita, di settanta anni di incessante scrittura, il giudizio autocritico e ingiustamente duro, dopo essersi confrontata con Ingeborg Bachmann. Anna Maria Ortese è colpita particolarmente proprio da un’opera che la stessa Bachmann aveva rifiutata e mai pubblicata, il frammento di un romanzo che uscirà postumo con il titolo “Il caso Franza”. In una lettera dell’estate 1990, mentre sta lavorando incessantemente al Cardillo addolorato, la Ortese mi scrive le seguenti parole entusiaste:
“Nel Caso Franza (Adelphi), pag. 50-51, trovo la pagina più innocente, più splendida, di tutta la narrativa del dopoguerra. Quando Franza – e suo fratello – aspettano che il cielo (il mondo) si rassereni – si liberi. E poi arrivano solo delle umili Jeep – e Franza cerca di capire a chi rivolgere il suo benvenuto – la parola di Schiller – e si fa – da sola – capo del paese liberato.
Questo episodio non sopporta confronti con nessun altro della storia umana, visto da una donna – e forse da uomini – di questo secolo.
Lei può essere orgoglioso che l’Austria abbia dato una grazia e una grandezza simili. – Non ci sono confronti.” (26 agosto 1990)

* * *

INGEBORG BACHMANN: Il caso Franza, Milano, Adelphi, 1988.
ANNA MARIA ORTESE: Il cardillo addolorato, Milano, Adelphi, 1993.

54 lettere di Anna Maria Ortese a Franz Haas, scritte negli anni 1990 – 1998, sono accessibili all’Archivio di Stato a Napoli.

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STRANE COPPIE n. 2: GOETHE, FOGAZZARO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/02/strane-coppie-n-2-goethe-fogazzaro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/02/strane-coppie-n-2-goethe-fogazzaro/#comments Sun, 01 Mar 2009 23:02:24 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/02/strane-coppie-n-2-goethe-fogazzaro/ fogazzaro-goethe.JPGSeconda puntata de “Le strane coppie”, offerta dalla nostra Antonella Cilento.
Stavolta mettiamo a confronto Goethe e Fogazzaro. Accostiamo Le affinità elettive a Malombra grazie agli ottimi interventi di Giuseppe Montesano e Francesco Costa.
Cosa hanno in comune questi due libri in apparenza diversi?
Ce lo spiega Francesco Costa quando scrive: “In comune con le Affinità elettive c’è la decisione di Fogazzaro di mettere in scena un quartetto di personaggi che, come nel libro di Goethe, sono due donne e due uomini, e di stabilire fra loro delle interrelazioni magnetiche che porteranno tre di loro a tragica sorte. Come in Goethe, le figure sono contrapposte per età, per lignaggio e per tonalità cromatiche (…).
Di seguito avrete la possibilità di leggere l’introduzione di Antonella Cilento e gli ottimi contributi di Montesano e Costa.
Vi invito a discutere sui due classici “accoppiati” e sui loro autori prendendo spunto dai suddetti contributi.
E poi vi porgo le mie solite domandine collaterali…
In merito a Le affinità elettive Giuseppe Montesano scrive: “Secondo la chimica dell’800 le “affinità elettive” erano le forze misteriose che spingevano i corpi affini ad attrarsi, dissolvendo i legami precedenti e formando nuovi legami: esattamente ciò che è messo in scena nel romanzo. Ma la forza selvaggia della natura, che disgrega le coppie e le riforma nuove, si scontra in Goethe con la civiltà: il matrimonio, le convenienze, il dovere, la responsabilità.”
Vi chiedo…
A vostro giudizio esistono davvero le affinità elettive, o si tratta solo di un mito?
Ritenete che questo capolavoro di Goethe sia ancora attuale?
Che relazione c’è tra “amore” e “senso di responsabilità”?

Infine (riprendendo una frase di Montesano), esiste un mondo – o una dimensione – in cui l’amore non viene messo a morte dalla società?

Marina, protagonista di Malombra, è definita da Francesco Costa come “insoddisfatta, fremente, furiosa, (…) una parente non tanto alla lontana di Anna (Karenina) e di Emma (Bovary), delle quali spartisce una vocazione all’autodistruttività”.
Vi propongo una domanda che troverete nel testo di Costa.
Perché l’insoddisfazione delle donne ha ispirato gli artisti nel corso dei millenni?
E poi…
Chi, tra uomo e donna, riesce a sopportare meglio il peso – talvolta insostenibile – dell’insoddisfazione, della frustrazione?

A voi.

Massimo Maugeri

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Introduzione di Antonella Cilento

Cari amici de L’Ombra e la Penna,
eccovi la seconda puntata delle Strane Coppie, progetto in sei incontri dove sei coppie di autori contemporanei rileggono coppie di grandi classici italiani, francesi, spagnoli e tedeschi. Strane Coppie è un progetto di Lalineascritta Laboratori di Scrittura (www.lalineascritta.it) in collaborazione con Goethe Institut, Institut Français de Naples e Instituto Cervantes, che si tiene a Napoli con incontri aperti al pubblico da gennaio a giugno presso le sedi degli Istituti.
In questa seconda manche, tenutasi giovedì 19 febbraio, si sono confrontati Giuseppe Montesano e Francesco Costa, rispettivamente impegnati a raccontare Le affinità elettive di Goethe e Malombra di Antonio Fogazzaro.
Ringrazio Giuseppe Montesano per averci concesso l’articolo uscito su Il Mattino martedì 17 febbraio e Francesco Costa per aver voluto riassumere per noi il suo intervento.
Grazie e entrambi per la generosità e l’intensità.

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LE AFFINITA’ ELETTIVE
di Giuseppe Montesano

Si può raccontare la trama di un capolavoro? Proviamo. Una coppia felice vive in una villa circondata da un immenso parco. Edoardo e Carlotta si amavano da giovanissimi, poi lui è stato costretto dalla madre a sposare una donna più vecchia ma ricca e innamorata di lui, e lei un uomo altrettanto ricco e in fondo affascinante. Morti i rispettivi coniugi, Carlotta e Edoardo, che hanno intorno ai 35 anni e sono coetanei, si sposano: decidendo di vivere il loro grande amore in ritardo lontani dal mondo, l’uno per l’altra. Tutto è perfetto, nella villa e nel parco: e Edoardo, perché la gioia sia massima, implora Carlotta di accogliere in casa un suo amico fraterno, il Capitano; e, perché l’amico abbia compagnia, propone alla moglie di far venire a vivere con loro anche la figlioccia di Carlotta, la diciottenne Ottilia. E poi? E poi sono cominciate nel loro splendore sinistramente lunare Le affinità elettive, il più misterioso dei libri di Goethe e uno dei romanzi più ambigui e abissali della letteratura occidentale. Quello che accadrebbe al riunirsi delle due “coppie”, sarebbe ovvio in un romanzo di Moravia: Carlotta e il Capitano andrebbero a letto, e lo stesso farebbero Ottilia e Edoardo. E Goethe? Il cinquantottenne Maestro, che all’epoca si era innamorato di una diciottenne e aveva rinunciato alla ragazza, scrive una tragedia dove un erotismo intrattenibile viene coperto da un velo di eleganza suprema: scrive Le affinità elettive. Secondo la chimica dell’800 le “affinità elettive” erano le forze misteriose che spingevano i corpi affini ad attrarsi, dissolvendo i legami precedenti e formando nuovi legami: esattamente ciò che è messo in scena nel romanzo. Ma la forza selvaggia della natura, che disgrega le coppie e le riforma nuove, si scontra in Goethe con la civiltà: il matrimonio, le convenienze, il dovere, la responsabilità. A ogni pagina delle Affinità elettive il lettore moderno dice: basta, divorziate, e risolvete il problema! Ma Goethe non vuole lieti fine, né vuole tranquillizzare: vuole raccontare la misteriosa potenza dell’amore, il suo essere al di là del bene e del male, il suo essere un “pharmakon”, il veleno che uccide o che salva. E racconta la forza del caso, dell’occasione che mette in crisi ragione e morale. Un esempio? A un certo punto del romanzo c’è un capitolo superbo: è sera, in un corridoio Edoardo sta pensando a Ottilia, la desidera, vorrebbe andare nella sua stanza; ma la stanza della ragazza è lontana, sveglierebbe tutti; lì vicino, c’è la porta della camera della moglie; Edoardo allora, con un atto inconscio, bussa, sorprende Carlotta in camicia da notte, e dice che è venuto per baciarle “il piedino”; lei risponde che era da tempo che non lo faceva, i due si sfiorano al lume delle candele, e finiscono a letto facendo giochi erotici da amanti; ma al mattino Edoardo fugge, in colpa: sente di aver tradito insieme la moglie e Ottilia. E Carlotta? Carlotta ha accettato da brava moglie il piacere di una sera, ma, a sorpresa, scopriamo che un attimo prima dell’arrivo del marito, stava pensando con desiderio al Capitano, e quando ha sentito bussare alla porta ha temuto e voluto che fosse proprio il Capitano a farle visita: ha aperto tremante e sensuale, e si è trovata davanti il marito. In poco meno di cinque pagine sottili, essenziali, erotiche come un passo delle Relazioni pericolose di Laclos e leggiadre come un arredamento rococò, Goethe ha dispiegato tutta la sua potenza di scrittore. L’intero romanzo è così: un fiume di fuoco sotto una trasparente lastra di gelo, un affiorare di sensualità selvaggia sotto un’etichetta quasi stucchevole, l’ardere quieto dell’amore in cui Ottilia e Edoardo scordano il mondo: “Li univa un’indescrivibile, quasi magica forza di attrazione. Anche se non pensavano espressamente l’uno all’altra, presi ognuno dalle proprie occupazioni e distratti dalla compagnia, finivano per avvicinarsi. Se si trovavano in una stanza, non passava molto tempo che erano già vicini. Solo la vicinanza immediata poteva acquietarli: e tale vicinanza bastava, non servivano sguardi, parole, gesti, movimenti. Solo essere insieme.” Ma dalla parte di chi sta Goethe? Dalla parte del dovere coniugale o dalla parte dell’amore assoluto? Alla fine del romanzo (e basta, raccontare la trama: leggete o rileggete da soli Le affinità elettive, a scelta tra le due traduzioni migliori, di Paola Capriolo e Ada Vigliani) i due innamorati giovani, romantici e dissennati, muoiono, e non sono nemmeno riusciti a fare l’amore: come invece faranno, o forse hanno fatto, i più ragionevoli Carlotta e il Capitano. Allora Goethe punisce chi viola il matrimonio? Punisce la passione amorosa? Punisce gli innamorati eternamente giovani? Sì. Forse. No. Le ultime parole del romanzo dicono che Ottilia e Edoardo si risveglieranno un giorno per congiungersi in carne e anima, e quel giorno la loro felicità sarà indicibile. La resurrezione dei corpi del Cristianesimo viene piegata da Goethe a rappresentare il potere di Eros, l’amore che trionfa contro la morte e contro la legge: la promessa fatta dal vecchio Goethe a Ottilia è che deve per forza esserci un mondo nel quale l’amore non viene messo a morte dalla società. Dove sarà questo mondo? Quando comincerà questo mondo? Per il tardo Goethe il dove e il quando non importano più: lui sa che il mondo sperato nella disperazione, il mondo in cui gli amanti “vegliati da angeli affini” si uniranno, deve per forza esistere perché esista una vita vera. Ciò che importa, e che molti interpreti non hanno avuto il coraggio di vedere, è che non c’è nessuna religione della rinuncia in Goethe. Nelle Affinità elettive la rinuncia è forzata, non è una scelta; nel tardo Goethe non c’è nessuna passione spenta, nessuna olimpica freddezza, e nessuna pace fasulla è arrivata; ciò che in lui sembra conciliato, lo è solo nell’impossibile desiderio di sciogliere le contraddizioni senza annullarle. Con la ferocia che il Maestro in un’arte deve sempre avere, con l’infinita tenerezza di chi conservò fino all’ultimo una scheggia di paradisiaca infanzia erotica in sé, con lo sguardo stoico che non chiude gli occhi di fronte al male e al disordine se anche li odia, Goethe strinse nelle Affinità elettiva un nodo che ancora toglie il fiato, un sogno che ancora implacabilmente parla della nostra mancanza di sogni.

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MALOMBRA
di Francesco Costa

Quante parole si sono scritte sull’insoddisfazione delle donne, quanta indignazione ha suscitato questo tema, quante lacrime ha fatto versare. La donna guarda oltre, vede cose lontane, scalpita perché si avverino i sogni, freme di rabbia per l’impossibilità di intrecciare da sola i fili del suo destino. Guardava oltre, guardava cose invisibili agli altri anche Cassandra, figlia di un re destinato alla rovina, amata e compatita da Omero, e condannata dal crudele Apollo a vedere scetticismo e derisione addensarsi intorno alle sue profezie, e in un finale purtroppo modernissimo (basta chinarsi sui recenti, abominevoli fatti di cronaca in Italia) le tocca di essere violentata proprio sull’altare che fa da fondamento alla sua vocazione di profetessa inascoltata, e si può non trovare struggente il suo ultimo viaggio, quell’andare incontro ai pugnali che la trafiggeranno in Grecia, quando si pensa che neppure sulla nave che solca l’Egeo e l’avvicina inesorabilmente ai suoi carnefici sarà dato credito alla sua profezia di una morte violenta che attende sia lei che il suo carceriere?
Perché l’insoddisfazione delle donne ha ispirato gli artisti nel corso dei millenni?
Perché da sempre l’artista spartisce non poco con la condizione femminile (e non a caso Virginia Woolf afferma perentoria che l’artista non ha sesso), essendo condannato a far delle sue visioni uno spasso per ricchi in cambio di una minestra o di un tetto sulla testa e a pazientare perché esseri non di rado insensibili decidano quanto profitto si può trarre dalla sua ispirazione…
Ed eccoci allora a Marina di Malombra, che di Cassandra è una riconoscibile discendente, perché guarda a sua volta molto lontano, si perde in fantasticherie che danno le vertigini, e per sua sfortuna vive in un’epoca in cui questo dono si chiama nevrosi.
Insoddisfatta, fremente, furiosa, è così Marina. E’ una parente non tanto alla lontana di Anna (Karenina) e di Emma (Bovary), delle quali spartisce una vocazione all’autodistruttività che in queste ultime settimane, grazie al successo del film Revolutionary Road, tormenta e angoscia anche April Wheeler, casalinga statunitense di smisurate (e purtroppo mal riposte) ambizioni artistiche, inventata dallo scrittore Richard Yates con precisi riferimenti alla Bovary.
Come Emma, Marina vuole danzare, stordirsi a banchetti e feste, viaggiare verso lidi remoti, innamorarsi, sfuggire all’uggia della vita di provincia, trovare lenimento a un martellante fantasticare senza costrutto che alla fine la condurrà alla follia.
Per erodere alla base piramidi di noia che le si ergono davanti in tante giornate uguali a se stesse, in uno stato d’animo febbrile e prossimo al delirio che autorizza le più ardite fantasmagorie, Marina racconta a se stessa di essere la reincarnazione di un’ava, Cecilia, condannata come adultera a seppellirsi viva nello stesso maniero in cui, anni dopo, lei si vede ridotta a far la stessa fine, e senza neanche essersi macchiata di adulterio, visto che non le va di sposarsi con nessuno.
E’ breve il passo da lì a vedere nell’odiato zio che le lesina denaro e svaghi il doppio, il sosia dell’antenato che ha fatto morire la sventurata Cecilia. In una vita che non è vita, trapunta di ore in cui tutto è spento, Marina tramuta se stessa e gli altri in tanti revenants, ombre di esseri passati anni prima su questo pianeta, ed ecco che finalmente tutto acquista un senso, il cuore si gonfia di sensazioni eroiche, e la noia viene infine bandita perché la giovane s’è data un compito: quello di vendicare se stessa e la sua antenata.
In comune con le Affinità elettive c’è la decisione di Fogazzaro di mettere in scena un quartetto di personaggi che, come nel libro di Goethe, sono due donne e due uomini, e di stabilire fra loro delle interrelazioni magnetiche che porteranno tre di loro a tragica sorte.
Come in Goethe, le figure sono contrapposte per età, per lignaggio e per tonalità cromatiche: se Marina è l’oscurità (come lo è Fosca, l’eroina di un bel racconto di Ugo Igino Tarchetti, che è però brutta a livelli inimmaginabili, mentre la nostra Malombra è decisamente avvenente), la giovane tedesca Edith, bionda e celestiale, è la luce e appartiene alla categoria di quelli che devono sudare per buscarsi il pane. In modo analogo si fronteggiano i due uomini, lo zio di Marina e lo scrittore che s’innamora di lei, che sono l’uno attempato e molto abbiente, e l’altro giovane e squattrinato.
L’idea della reincarnazione, l’evenienza di poter tornare più volte sulla terra, i sussurri nel buio, la paura delle vendette femminili (agitata da Shakespeare quando catapulta sulla scena la sua Lady Macbeth), i castelli e le foreste, il lago e il delitto, l’anatema e il perdono: quest’armamentario messo in piedi da Antonio Fogazzaro nella seconda metà dell’Ottocento (1881) svela il suo amore per il romanzo gotico e l’amore per gli amici della Scapigliatura, sempre ubriachi e persi dietro le loro donne fatali, la passione per i rapporti morbosi e l’adesione a una visione che si potrebbe definire fumettistica della vita, e che oggi è universalmente vincente e molto apprezzata, se si considera il successo dei film di Tim Burton e di David Lynch, o dei romanzi di Anne Rice, con le loro atmosfere sarcastiche e opprimenti, il gusto del bizzarro e l’attenzione alle perversioni (sessuali e non), ma che all’epoca non poteva non attirare sull’incauto scrittore lo scherno dei critici. Non bastò a consolarlo il plauso dei lettori che fecero esaurire a tambur battente il tenebroso Malombra e neanche quello di un collega del peso di Giovanni Verga che, pur avendo scelto d’intraprendere altre strade dopo il comune assenso ai moduli della Scapigliatura, gli mandò per posta i suoi più vivi complimenti.
Il peggio, però, fu che su Antonio Fogazzaro piombò senza appello la condanna del Santo Uffizio: la sua ispirazione febbricitante, un po’ ingenua ma neanche tanto lontana dai notturni berlinesi narrati da Hoffmann, destava sospetti, autorizzava l’infierire dei censori, e storture nel giudizio, prevenzioni, prepotenze, abiezioni, finché un libro dello sventurato fu successivamente posto all’indice.
Questo spiega a sufficienza perché Malombra che avrebbe potuto aprire in Italia la strada al romanzo gotico, sul modello inglese che Jane Austen osa prendere amabilmente in giro in L’abbazia di Northanger, resta invece un caso decisamente isolato, che una cultura punitiva, di tono plumbeo e straordinariamente compiaciuta di se stessa si tolse il capriccio di mettere al bando.
Rimane però, in ogni caso, nella mente di chi l’ha letta la suprema capacità di seduzione di Marina di Malombra che condivide con la consanguinea Emma Bovary l’attrazione e l’amore quasi fisico in cui il suo autore l’avvolge. Se Flaubert amava talmente Emma da indossarne l’identità perfino in tribunale con quell’urlo doloroso che gli attira l’affetto degli artisti di ogni tempo (“Madame Bovary c’est moi!”), non è da meno Antonio Fogazzaro che accarezza, precede e segue l’affascinante Marina verso il baratro che l’attende al varco, descrivendone gli sdegni e il dolore, gli abiti fruscianti e le chiome biondo scuro, le collere e le lacrime, le passeggiate in barca e l’apparente pacificazione di attimi fugaci, ma soprattutto la voglia di perdersi in una passione che la incenerisca. Fogazzaro è davvero innamorato della sua eroina, e ci si chiede quante sorelle avrebbe potuto darle in opere successive che non sono mai nate. Con la punta di rimpianto che coglie il lettore all’idea delle tante eroine che sarebbero potute scaturire dalla sua immaginazione e si sono invece dileguate in aria, può consolare il fatto che almeno Marina di Malombra, continuamente ristampata, si configge nella mente di chi condivide le sue pene e non se ne distacca più. La prova del suo quasi diabolico potere di suggestione sono, per citare le opere migliori tratte dal romanzo, un magnifico film di Mario Soldati (con Isa Miranda) e un decoroso sceneggiato televisivo (con Marina Malfatti, casualmente omonima della sciagurata contessina). A dispetto dell’atmosfera sinistra che crea intorno a sé con la sola forza delle sue apparizioni, o forse proprio grazie a quella, un fatto rimane accertato: di Marina di Malombra finiscono con l’innamorarsi tutti.

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STRANE COPPIE: MARCEL PROUST, NATALIA GINZBURG http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/03/strane-coppie-marcel-proust-natalia-ginzburg/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/03/strane-coppie-marcel-proust-natalia-ginzburg/#comments Mon, 02 Feb 2009 23:00:17 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/03/strane-coppie-marcel-proust-natalia-ginzburg/ ginzburg-proust.JPGMettiamo a confronto Marcel Proust e Natalia Ginzburg. Accostiamo la Recherche al Lessico famigliare. La possibilità ce la offre Antonella Cilento con una nuova puntata de L’ombra e la penna, nella quale illustrerà una bellissima iniziativa culturale portata avanti a Napoli.
Leggete il bel pezzo di Antonella che troverete di seguito!
Io vi invito a discutere sugli autori e sulle opere oggetto di questo post.
Cosa pensate di Marcel Proust? Avete mai letto la “Recherche”? Che effetto vi ha fatto?
E su Natalia Ginzburg e il suo “Lessico famigliare”… ?
A proposito… a vostro avviso, oggi, in Italia, esiste ancora un lessico famigliare?
A voi.
Massimo Maugeri

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Cari amici de L’ombra e la penna,
dal mese di gennaio fino a giugno 2009 Lalineascritta e gli Istituti di Cultura napoletani (Institut Français de Naples, Instituto Cervantes e Goethe Institut) lanciano un’iniziativa intitolata Strane Coppie.
Tutti ricorderete il film di Billy Wilder: qui la strana coppia non è costituita dai due meravigliosi inquilini forzati (Walter Matthau e Jack Lemmon), ma da scrittori contemporanei che si confrontano e dibattono su coppie di grandi classici.
Lo scorso anno Lalineascritta aveva offerto Strane Coppie ai suoi iscritti con ottimi e sorprendenti risultati: si erano incontrati/scontrati, fra gli altri, Anna Karenina e Madame Bovary, le sorelle Brönte, Stevenson e Dostoevski, Orgoglio e pregiudizio e Ritratto di signora, L’isola di Arturo e Gita al faro. Quest’anno l’iniziativa è pubblica e gratuita grazie alla collaborazione con gli Istituti, cosa fondamentale per Napoli e per questo tipo di incontri che vogliono portare quanti più lettori ad avvicinarsi o riavvicinarsi ai grandi libri con una prospettiva meno scolastica e certo anti-accademica.
L’altra novità è che, svolgendosi gli incontri presso le sedi degli Istituti stessi, ogni coppia prevede un confronto fra classici italiani e, di volta in volta, francesi, spagnoli, tedeschi.
A volte si tratta di capolavori assoluti noti ai più ma magari non letti abbastanza, come è capitato nel primo incontro che si è tenuto giovedì 22 gennaio presso l’Institut Français de Naples e dove io stessa (in sostituzione di Laura Bosio, che salutiamo affettuosamente) e Mariolina Bertini Bongiovanni, vicedirettrice dell’Indice dei Libri del Mese, studiosa di Proust e di Balzac (di cui sta curando da anni l’opera per i Meridiani) abbiamo raccontato a una sala gremitissima Lessico famigliare di Natalia Ginzburg e Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.
Di seguito, troverete una sintesi del mio intervento e nei prossimi mesi spero di potervi fornire altrettante brevi sintesi degli incontri che seguiranno.
Intanto, eccovi il calendario dei prossimi incontri:

Giovedì 19 febbraio 2009 – Goethe Insitut
Triangoli amorosi
Le affinità elettive vs Malombra
Goethe vs Fogazzaro
GIUSEPPE MONTESANO E FRANCESCO COSTA

Giovedì 19 marzo 2009 – Instituto Cervantes
Fantastico
Finzioni vs Le città invisibili
J.L. Borges e Italo Calvino
IVAN COTRONEO E ANTONIO PASCALE

Giovedì 23 aprile 2009 – Geothe Institut
Azzurrità
Il cardillo addolorato vs Il caso Franza
Anna Maria Ortese vs Ingeborg Bachmann
FRANZ HAAS E MARIA ATTANASIO

Giovedì 21 maggio 2009 – Instituto Cervantes
Rivoluzioni impossibili
Il secolo dei lumi vs Il resto di niente
Alejo Carpentier e Enzo Striano
DOMENICO STARNONE E MELANIA MAZZUCCO

Giovedì 4 giugno 2009 -Institut français de Naples
Ritratti di donna
Claudine vs Il paese di Cuccagna
Colette e Matilde Serao
DONATELLA TROTTA E SANDRA PETRIGNANI

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Il lessico famigliare di Natalia Ginzburg

di Antonella Cilento

Come vedete, alcuni classici sono assai noti e altri in Italia meno conosciuti o diffusi: la Bachmann, Carpentier, Colette che sono autori di assoluto rilievo nei rispettivi paesi, mentre in Italia sono tradotti ma non oggetto di attenzione continua, come meriterebbero. In altri casi, un grande classico come Malombra di Antonio Fogazzaro è spesso brevemente antologizzato a scuola ma di rado lo si legge integralmente. Quindi, sperando di avere anche gli amici di Letteratitudine fra il pubblico che affollerà i prossimi incontri, passo a raccontarvi un po’ del “mio” Lessico famigliare.

Dopo che Mariolina Bertini Bongiovanni ha raccontato magistralmente La Recherche, affrontando la sfida di concentrare in poco più di un’ora una storia critica lunga un secolo di un romanzo senza il quale molta della letteratura del Novecento non sarebbe concepibile e trattando, fra i molti temi che era possibile affrontare, anche la questione della traduzione di Proust in Italia, mi accingo a parlare di Lessico famigliare.
Il primo volume della Recherche fu tradotto per Einaudi proprio da Natalia Ginzburg: una traduzione imperfetta, fatta in condizioni particolari e senza un adeguato vocabolario, che però la Ginzburg non rinnegò mai, anche a distanza di anni. Quella traduzione era un pezzo della sua memoria, le ricordava un momento particolare della sua vita.
Proust compare in Lessico famigliare in moltissimi e spassosi punti:

“Mia madre aveva letto Proust, e lei pure, come Terni e la Paola, lo amava moltissimo; e raccontò a mio padre che era, questo Proust, uno che voleva tanto bene alla sua mamma e alla sua nonna; e aveva l’asma, e non poteva mai dormire; e siccome non sopportava i rumori, aveva foderato di sughero le pareti della sua stanza. Disse mio padre: – Doveva essere un tanghero!”.

Ma anche quando La Recherche non viene evocata direttamente, Proust è nell’aria: è parte indispensabile, causa prima di Lessico famigliare.
Il mio personale ricordo di questo libro è scolastico: è capitato alla Ginzburg come a Calvino di diventare classici in vita, citatissimi e indispensabili per decenni, hanno parlato a intere generazioni e poi le antologie scolastiche, che prima li includevano sempre, hanno smesso di ospitarli. Non so, quindi, quanti oggi fra i più giovani abbiano mai letto la Ginzburg. Certamente, anche Proust, lettura indispensabile alla formazione intellettuale di intere genie di lettori, oggi è accostato con sempre maggiore difficoltà.
Lessico famigliare parlava a me, che avevo quattordici o quindici anni, in un dialetto che non era il mio, con un idioletto sconosciuto (potacci, sbrodeghezzi, fufignezzi) ma che mi entrava direttamente nel sangue: non c’è famiglia in Italia che non abbia il suo specifico lessico, quei modi di dire con cui si identificano nonne e zie, fratelli e sorelle.
Il secondo ricordo è invece più recente: all’Archivio di Stato, mentre preparavamo A.M.O., una serie di giornate dedicate all’Ortese, mi capitarono fra le mani alcune delle lettere intercorse fra queste due grandissime scrittrici. Puntuta e fitta la scrittura di Ortese, occupava anche gli spazi verticali del foglio, invadeva persino un pacchetto di sigarette (meravigliosa icona). Quella di Ginzburg era invece calma, scolastica, aperta, come i denti larghi dei bambini. E l’Ortese si disperava per i suoi libri (erano lettere editoriali del periodo in cui Ginzburg lavorava per Einaudi) e Ginzurg, molto discretamente, cercava di tranquillizzarla.
Questa serenità di Natalia che ce la rende ancor oggi vicina perché donna attraversata dalla Storia, soggetta a dolorose perdite (i due mariti, i suoi cari, la nascita di un figlio malato) ha forse offuscato per un po’ i suoi grandi meriti letterari. Lessico famigliare fa parte di quella grande famiglia di romanzi che esplorano le relazioni e la memoria nati in risposta, per filiazione o gemmazione dalla Recherche: guarda caso, però, a me sembra che queste filiazioni riguardano un numero assai maggiore di scrittrici piuttosto che di scrittori (penso, per fare giusto due nomi, ad Althénopis di Fabrizia Ramondino ma anche a scrittrici distanti dallo spazio europeo, all’autobiografia stupenda di Janet Frane, Un angelo alla mia tavola).
Probabilmente perché la Recherche tocca il tema della memoria attraversando il tempo, ma anche legandosi agli spazi, cosa che accomuna molte scrittrici, da Ginzburg a Ramondino, come scrive brillantemente Monica Farnetti nel suo bellissimo Tutte signore di mio gusto (ediz. La Tartaruga) a proposito di Dolores Prato:

“Per lei apprendere è stato ed è infatti nominare, e nominare è cartografare lo spazio (…) Che le donne non abbiano con il tempo, il tempo “classico” commerci efficaci e soddisfacenti sa bene la citata Maria Zambrano, che dice che così è perché le donne hanno di fatto con esso una relazione di grado più elevato: la relazione con l’istante, quello che ella chiama ‘il vaso minuscolo del tempo’. (…)”

Lessico famigliare vive dei luoghi che racconta, perché non solo gli appartamenti in cui vivono i Levi sono gli unici spazi del narrare, ma perché i familiari stessi di Natalia vengono guardati come luoghi esotici, benché piuttosto frequentati. Sono “spazi” in questo romanzo da esplorare, attraverso le parole, il magnifico professor Levi, detto Pomodoro per via dei capelli rossi, ovvero Pom, la mamma Lidia, le sorelle, i fratelli, gli amici, la tribù che si muove intorno a Natalia. E, come ha scritto mirabilmente Cesare Garbali, questa tribù è osservata con complicità ma anche con l’impercettibile senso di vendetta di chi è piccolo e assiste ai giochi fatti dagli adulti sui quali ha l’unico potere di riportarli con il linguaggio che più le aggrada. Ed ecco che i personaggi vengono sorpresi con le dita nel naso o nella marmellata, per così dire: fotografati nella loro unica frase storica, magari insignificante o buffa. Non importa dare loro profondità nell’immediato: meglio consegnarli al lettore per quel che hanno detto, ripresi di scorcio e a sorpresa nel loro momento ridicolo, epico ma infausto, insomma nella loro favolistica umanità. E’ il tempo, il tempo di questo stupefacente romanzo a restituire, poi, la melanconia dei Persi, dei Trapassati, di coloro che non esistono più se non per le parole che hanno detto. Lo scrittore, in questo caso, è un archeologo della memoria e le tracce, labili e confondibili, si prestano a effetti di senso e di humour.
Questo sguardo dell’infanzia è così forte, così ironico, umile ma feroce, che rileggendo ho pensato a quanto debba a questo libro, fra gli altri, il Guizzardi di Gianni Celati (Le avventure di Guizzardi): magari sbaglio o, al contrario, è già stato fatto notare da altri, ma con il suo lessico da folle, da stralunato Guizzardi è solo un pelo più in là della piccola Natalia, che, certo, non è stralunata, ma come Guizzardi guarda al mondo adulto con l’improvvisa saggezza sintetica del bambino che in noi non muore mai.
Altra filiazione, come si accennava, è Althénopis di Fabrizia Ramondino, capolavoro assoluto e poco letto: altra famiglia, questa volta non ebraica e torinese ma napoletana e assai pagana. Althénopis è tutto giocato sugli spazi familiari, sui luoghi della memorie (ville, case, persone, zii e zie, ecc…) e dallo spazio struggente e ironico della memoria si concentra sul dramma privato fra madre e figlia. Certo, la struttura di Lessico famigliare resta più inavvicinabile, meno identificabile di altre: il romanzo, che è scritto senza partizioni di capitolo, senza sottotitoli o sezioni è un continuum di ricordi dove è difficile stabilire il prima e il dopo. Difficile fare una sintesi degli eventi a beneficio dei nuovi lettori per la miriade di micro episodi che lo popolano e per l’impossibilità di stabilire confini.
Siamo immersi nel senso salvifico delle parole, delle lingue perse: in una sua prefazione, Garboli segnala che forse l’idea del lessico famigliare viene dal “continico” che parlano i ragazzi ne Il giardino dei Finzi Contini di Bassani, dove, però, la ricca famiglia ebrea sembra quasi consegna allo sterminio (un destino simile a quello degli Etruschi, scrive Garboli), mentre qui l’idioletto familiare va oltre l’identità ebraica (anche se la contiene), è universale.
Meraviglioso, poi, e favolistico è il rapporto di questo romanzo con la Storia, quella con la maiuscola, che passa distratta dal salotto di casa Levi, dove appaiono Turati e Anna Kuliscioff, citati più per la pruderie delle donne di casa che non per la loro dimensione politica. Pajetta, Adriano Olivetti, lo stesso Leone Ginzburg, Pavese: tutta gente di famiglia, osservata senza epica, perfetti però nell’apparire al punto giusto della narrazione, ricordata per un soprannome o un’espressione: la Vandea, zia reazionaria, il povero Filippèt, come dice Pom di Turati, il “baco del calo del malo” che ripete ostinato Mario, fratello di Natalia, le poesiole (“la vecchia zitella senza mammella ha fatto un bambino tanto carino” o “salve ignoranza al tuo pensier mi cessa il mal di panza”), il Barbison e la puzza di acido solfidrico, “cotoletta madama bianca!”, il bir per indicare il laccio emostatico…
E’ sempre stato fondamentale per me quel passo delle Piccole virtù dove Ginzburg scrive dell’invenzione e della memoria: inventiamo quando siamo felici, ricordiamo quando siamo tristi, scrive all’incirca. Perché la nostra “condizione terrestre” influenza la nostra scrittura che è come “un padrone”, inflessibile.
Dunque, il ricordo nel momento dell’infelicità, ma sempre mescolato all’invenzione e alla fantasia, momento della felicità. In Lessico famigliare la piccola Natalia viene ricoverata in ospedale e la mamma le spiega che quella è la casa del medico, per non darle spavento. Natalia sa che quello è un ospedale ma fa finta anche lei: “…e quella volta, come anche più tardi, la verità e la menzogna si mescolarono in me”.
Cosa è vero e cosa è falso nel ricordo, cosa resta del nostro passato e cosa occorre scrivere: la verità, pur sapendo di mentire?
Antonella Cilento

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AGGIORNAMENTO DELL’8 febbraio 2009

Sono molto lieto di annunciarvi che (come ci aveva pronosticato Antonella Cilento) Mariolina Bertini ha fatto pervenire il suo ottimo contributo. Lo riporto qui di seguito. Vi invito a leggerlo con attenzione, perché è molto interessante.
Massimo Maugeri

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TRA MARCEL E NATALIA
di Mariolina Bertini

Per gli italiani della mia generazione, nata a ridosso della seconda guerra mondiale, i nomi di Marcel Proust e di Natalia Ginzburg sono molto strettamente legati.
Nel 1946 Natalia Ginzburg firma la sua traduzione, per Einaudi, del primo volume della “Ricerca”, “La strada di Swann”. Non è l’unica: nello stesso anno, presso Sansoni, esce anche la pregevole versione dello scrittore fiumano Bruno Schacherl, intitolata “Casa Swann”. Ma soltanto il volume einaudiano rappresenta il primo tassello di una traduzione integrale della “Recherche”; questo gli assicura maggior visibilità e maggior fortuna sul mercato editoriale. Tra il 1946 e il 1983, dunque, anno in cui comincia ad uscire la traduzione di Giovanni Raboni, la stragrande maggioranza dei lettori italiani di Proust si accosta alla “Ricerca” passando, per il primo volume, attraverso la mediazione della voce di Natalia Ginzburg, attraverso il filtro delle sue scelte lessicali e sintattiche, della sua scrittura, del suo stile.
La data cruciale della mia esperienza in proposito è il 1968: tra un corteo e un’assemblea, tra un intervento di Guido Viale e una discussione su don Milani, “La strada di Swann” einaudiana mi introduce, affascinata, nel mondo di Proust, dove resterò a lungo. Ma è per me importante anche un’altra data, precedente: quella del 1963, anno di apparizione di “Lessico famigliare”. Perché è leggendo, quindicenne, “Lessico famigliare” fresco di stampa che comincio ad intuire nella figura un po’ misteriosa di quel romanziere morto nel 1922 una presenza terribilmente viva e ingombrante, alla quale sarà difficile sfuggire. Nelle pagine di “Lessico famigliare” si avverte, si respira quello che fu il fascino esercitato da Proust sui lettori degli anni Venti, anche su quelli come Natalia Ginzburg che erano ancora troppo giovani per leggerlo direttamente. In “Lessico famigliare” Proust è presente come una sorta di mito. La protagonista-narratrice non l’ha ancora letto, ma sente sua sorella Paola, sua madre, Terni – il giovane assistente di suo padre, professore di medicina – che ne parlano continuamente. Ai suoi occhi, il mondo famigliare si divide in due zone contrapposte: da una parte c’è chi come il padre ama le scienze naturali e le gite in montagna, dall’altra chi, come la madre, ama la poesia, il teatro e il mondo ovattato dei romanzi.

” Da una parte c’erano Gino e Rasetti, con le montagne, le “rocce nere”, i cristalli, gl’insetti. Dall’altra parte c’erano Mario, mia sorella Paola e Terni, i quali detestavano la montagna, e amavano le stanze chiuse e tiepide, la penombra, i caffé. Amavano i quadri di Casorati, il teatro di Pirandello, le poesie di Verlaine, le edizioni di Gallimard, Proust. Erano due mondi incomunicabili.
Io non sapevo ancora se avrei scelto l’uno o l’altro. (…)
- Cos’ha Terni con Mario e Paola da ciuciottare? Diceva mio padre a mia madre. – Stanno sempre lì in un angolo a ciuciottare. Cosa sono tutti quei fufignezzi?
I fufignezzi erano, per mio padre, i segreti; e non tollerava veder la gente assorta a parlare, e non sapere cosa si dicevano.
- Parleranno di Proust,- gli diceva mia madre.
Mia madre aveva letto Proust, e lei pure, come Terni e la Paola, lo amava moltissimo; e raccontò a mio padre che era, questo Proust, uno che voleva tanto bene alla sua mamma e alla sua nonna; e aveva l’asma, e non poteva mai dormire; e siccome non sopportava i rumori, aveva foderato di sughero le pareti della sua stanza.
Disse mio padre:
-Doveva essere un tanghero!” (p. 53)

In questa pagina, Proust viene quasi a racchiudere, a simboleggiare la letteratura; ne rappresenta il mito e il prestigio. Nell’Italia di quegli anni aveva d’altronde un giovane profeta, il critico Giacomo Debenedetti, ritratto in “Lessico famigliare” senza che venga menzionato esplicitamente il suo nome:

“La Paola era innamorata di un suo compagno di università: giovane piccolo, delicato, gentile, con la voce suadente. Facevano insieme passeggiate sul Lungo Po, e nei giardini del Valentino; e parlavano di Proust, essendo quel giovane un proustiano fervente: anzi, era il primo che avesse scritto di Proust in Italia. Scriveva, quel giovane, racconti e saggi di critica letteraria.” (p.61)

Giacomo Debenedetti, contrariamente a quanto credeva Natalia, non era stato il primo a parlare di Proust in Italia, anche se a Proust aveva dedicato saggi pionieristici nel 1925 e nel 1928. Il primo a parlare di Proust in Italia era stato il giornalista Lucio D’Ambra che recensendo, nel dicembre del 1913, “Du côté de chez Swann” aveva scritto :
“Ricordate questo nome e questo titolo: Marcel Proust e “Du côté de chez Swann”. Tra cinquant’anni i nostri figlioli ritroveranno forse l’uno e l’altro accanto a Stendhal, a “le Rouge et le Noir” e alla “Chartreuse”. ”

Il nome di Stendhal, in questa fase aurorale della fortuna di Proust torna spesso, soprattutto in Italia. Nel 1919, ad esempio, quando “All’ombra delle fanciulle in fiore” riceve il premio Goncourt, è Giuseppe Ungaretti ad evocarlo, scrivendo dell’autore della Recherche :
“…questo scrittore dalle analisi minuziose a cui non sfugge la minima emozione, che fruga nelle più segrete e remote risonanze della vita sentimentale, è forse un nuovo Stendhal.”

All’epoca Stendhal è visto soprattutto come un maestro d’insuperata introspezione psicologica. Nel 1923 Giacomo Debenedetti, che leggerà Proust soltanto un anno dopo, scrive in una lettera all’amico Cesare Angelini:
“Sono più che mai innamorato di Stendhal e se sapessi farmi una bandiera io che, in fondo, sono spaventosamente timido, scriverei su quella la parola introspezione.”

Quando, nell’estate del 1924, durante una vacanza a Champoluc, ai piedi del Monterosa, Giacomo Debenedetti legge Proust per la prima volta, ha l’impressione che quel romanziere, morto due anni prima, abbia in qualche modo preceduto la sua generazione nella conoscenza di sé, nell’introspezione, nell’intuizione anticipata del proprio destino.
Gli altri scrittori – scriverà più tardi- erano semplicemente scrittori, della stessa razza di quelli che avevamo studiato nelle storie letterarie (…); mentre Proust sembrava far parte direttamente del nostro destino, sembrava prendere la durata uniforme dell’esistenza e farne una fluida, stupenda, incessante calligrafia di luce.”

A livello europeo, è un’intera generazione di scrittori ad avere la stessa impressione di Giacomo Debenedetti. “Che cosa resta da scrivere dopo Proust?” si chiede nel suo diario Virginia Woolf. E Rilke scrive a Gide nel 1922: “Su moltissimi punti, Proust ci ha costretti a cambiare il nostro modo di vedere.” Cambiare il proprio modo di vedere dopo la lettura di Proust per molti significa identificarsi con la figura , fluida ed enigmatica, del narratore della Ricerca. In un saggio del 1946, Debenedetti lo scriverà esplicitamente:
“Per quanto singolare, per quanto differenziato, il protagonista di “A la recherche du temps perdu” era, tra tutti i personaggi che allora ci furono offerti, quello con cui si sentiva più forte la tentazione, più immediata e più ricca la possibilità di identificarsi.”

Si profila, attraverso il puzzle di queste citazioni, la storia di una filiazione, della trasmissione di un mito: dalle parole di Giacomo Debenedetti, l’amico di Paola “dalla voce suadente”, Natalia ricava la sua prima immagine di Proust, lo scrittore che non somiglia a nessun altro, che trasforma la nostra vita prosaica “in una calligrafia di luce”. Quell’immagine avrà per lei una tal forza che quando, nel 1937, Giulio Einaudi le chiederà di tradurre l’intera Ricerca, risponderà di sì, benché non ne abbia ancora intrapresa direttamente la lettura. La storia di quella traduzione è raccontata nelle pagine del bellissimo saggio del 1990 che accompagnò la ristampa della “Strada di Swann” nella collana degli “Scrittori tradotti da scrittori” e che da allora è stato più volte ristampato. Le prime pagine, ci racconta Natalia, furono tradotte e ritradotte sotto la guida affettuosa di Leone Ginzburg; la maggior parte del lavoro prese forma a Pizzoli, in Abruzzo, durante il confino, nel 1940-43. La morte di Leone, torturato e trucidato a Regina Coeli, nel febbraio del 1944, getta sull’opera un’ombra di tragedia: non è difficile capire perché la scrittrice si senta legata a quelle pagine in modo così stretto da non volerne, anni dopo, nemmeno correggere le imperfezioni. Quel Proust intravisto nella penombra dell’adolescenza, e poi affrontato, con strumenti inadeguati (un povero vocabolario scolastico), nella vita durissima del confino, tra i figli bambini e l’esperienza della resistenza, doveva restare tale e quale, così come era stato amato e interpretato negli anni atroci e fondamentali della guerra. Così Natalia l’ha trasmesso alla mia generazione, così la mia generazione l’ha letto negli anni Sessanta e Settanta, con la consapevolezza di appropriarsi di un lascito prezioso.
Avvicinandomi oggi a quel lascito, è forte la tentazione di rispettarne l’aura; di preservarne il fascino evitando di guardarlo troppo da vicino. Ma in realtà la traduzione di Natalia Ginzburg non è una reliquia, è una cosa viva e come tale merita di essere studiata e frequentata. La sua lingua colloquiale, asciutta, modernissima, prossima al parlato, anticipa la lingua dei dialoghi di Lessico famigliare. Vediamone due esempi, confrontando la traduzione di Natalia Ginzburg con quella di Giovanni Raboni:

“On ne pouvait pas remercier mon père .”
Raboni: “Non si poteva ringraziare mio padre.”
Ginzburg: “Mio padre, non era possibile dirgli grazie.”

Meno fedele di Raboni nella costruzione, con l’anacoluto che apre la frase Natalia Ginzburg rende straordinariamente la componente di oralità della scrittura proustiana.

“Moi je sais bien que cela me serait très désagréable de voir mon nom imprimé tout vif comme cela dans le journal…”
Raboni:”Io sono sicura (è una prozia del narratore che parla) che mi riuscirebbe molto sgradevole vedere il mio nome spiattellato così sul giornale…”
Ginzburg: “Io se vedessi il mio nome stampato bello caldo così sul giornale, sarei molto seccata.”

E’ davvero la naturalezza di “Lessico famigliare” che irrompe nel mondo di Proust. Lo comprese molto bene Giacomo Debenedetti, che del Proust tradotto da Natalia Ginzburg riassunse la modernità in una citazione con la quale vorrei concludere:

“Il connotato proustiano che la Ginzburg sembra aver voluto – consapevolmente, o no – cogliere con più coerenza, è forse quello a cui Proust deve la simpatia umana che egli esercita, la sua facoltà di non sopraffarci mai, anzi di farsi sentire vicino, confidenziale, fraterno, dovunque spinga – magari a un estremo che, a prima vista, potrebbe parere troppo sottile, prolisso, insaziato e farraginoso – la sua ricerca. Ed è il suo modo di continuamente “sliricare” un discorso che pure tocca di continuo, per tangenze luminosissime, di un radioso fulgore musicale, cantante e a volte perfino canoro – la sfera di una massima tensione lirica.”
Mariolina Bertini

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IL RISCHIO DI RACCONTARE di Antonella Cilento http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/21/il-rischio-di-raccontare-di-antonella-cilento/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/21/il-rischio-di-raccontare-di-antonella-cilento/#comments Mon, 20 Oct 2008 22:38:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/21/il-rischio-di-raccontare-di-antonella-cilento/ Ecco una nuova puntata della rubrica “L’ombra e la penna” di Antonella Cilento.
Antonella è alle prese con un nuovo romanzo che uscirà nei prossimi mesi. Un romanzo iniziato ben dieci anni or sono e che vedrà la luce tra qualche mese.
Come si dovrebbe porre uno scrittore nei confronti della propria opera? (Soprattutto, aggiungo, in un caso come questo; quando la scrittura esige un impegno decennale).
Antonella scrive: “ogni volta si ha la sensazione di aver perso la visione d’insieme, ogni volta si crede di aver fatto il più grosso errore della propria vita, ogni volta si desidera buttare tutto e lasciar perdere. E le stesse sensazioni le raccontano tutti gli scrittori di ogni tempo, salvo quelli che preferiscono mentire e vantare un’inaffondabile sicurezza. Per contrario, ogni scrittore e ogni scrittrice si gettano nella mischia con il loro ultimo nato a dispetto di queste sensazioni e lo difendono a spada tratta, cercando di non esaltarne i difetti ma solo i pregi, come del resto fa ogni genitore con i propri figli. Ma non bisognerebbe, a volte mi chiedo, essere più cattivi con i propri libri piuttosto che con i propri figli?”
Ecco, giro a voi la domanda di Antonella.
Non bisognerebbe, a volte , essere più cattivi con i propri libri?
Oppure, lo scrittore ha l’obbligo morale – nei confronti della propria creatura letteraria - di proteggerla… sempre e comunque?
Che ne dite?
Poi, aggiunge Antonella: “un romanzo è un rischio (…). E chi non si prende rischi scrive tranquilli romanzi di mantenimento. (…) Ma se smettiamo di rischiare qual è il senso di scrivere?
Già…
Se smettessimo di rischiare quale sarebbe il senso di scrivere?

Di seguito, l’intero articolo della Cilento.
Massimo Maugeri


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IL RISCHIO DI RACCONTARE di Antonella Cilento

antonella-cilento.jpgSe i libri sono manifestazioni dei nostri incubi, delle nostre malattie, proiezioni salvifiche o meno della nostra ombra, allora – riflettevo in questi giorni – alcuni miei libri sono come infiammazioni, luoghi di riacutizzazione che proietto all’esterno. Sarà che da alcuni anni, ormai, lavoro attorno a una struttura narrativa che fatico a mettere a fuoco e che in certi giorni mi appare limpida come un lago e in altri rispecchia le mie agitazioni, le mie inquietudini. Insomma, questo romanzo, tante volte scritto e riscritto dal ’98 ad oggi, inizia a somigliare a un’operazione di spurgo, tanto è vero che questo articolo lo scrivo in una stazione termale, fra anziani ex atleti che si massaggiano la pancia, coppie trappane di sagliuti (la neo-neo-borghesia napoletana che nelle terme entra con l’ipod e il cellulare acceso, facendo casino in dialetto e fregandosene dell’obbligo al silenzio), immersa nell’acqua calda e avvolta nell’esalazioni muffose che vengono dalla sauna.
Potrei dire, però, che ogni romanzo che ho scritto abbia avuto un simile processo: la memoria parla chiaro, ogni volta si ha la sensazione di aver perso la visione d’insieme, ogni volta si crede di aver fatto il più grosso errore della propria vita, ogni volta si desidera buttare tutto e lasciar perdere. E le stesse sensazioni le raccontano tutti gli scrittori di ogni tempo, salvo quelli che preferiscono mentire e vantare un’inaffondabile sicurezza. Per contrario, ogni scrittore e ogni scrittrice si gettano nella mischia con il loro ultimo nato a dispetto di queste sensazioni e lo difendono a spada tratta, cercando di non esaltarne i difetti ma solo i pregi, come del resto fa ogni genitore con i propri figli. Ma non bisognerebbe, a volte mi chiedo, essere più cattivi con i propri libri piuttosto che con i propri figli?
Un romanzo è un rischio, come scrive La Capria paragonandolo ai tuffi, che più sono difficili più espongono il tuffatore al fallimento o alla morte. E chi non si prende rischi scrive tranquilli romanzi di mantenimento, cosa che per altro, se si ha fortuna, porta avanti la casa e ci lascia vivere più tranquilli. Ma se smettiamo di rischiare qual è il senso di scrivere?
Si può rischiare l’infamia di chi si sente offeso da ciò che si è scritto, la svalutazione di chi ti aspetta al varco contando il numero di copie e che si finge amico battendoti la mano sulla spalla, il rifiuto di chi legge in serie e non si accorge nemmeno più del rischio letterario, preso com’è dal rischio economico. Rischi comuni, contemperati ogni volta dall’esistenza di persone che ci incoraggiano, che credono in quel che facciamo, che ci spingono a continuare, non ultimi noi stessi, senza i quali si fa davvero poco.
Per un po’ ho guardato a questa struttura che inventavo come a due parti di un corpo che si stampellavano a vicenda: si sostenevano, ma forse si impedivano anche l’un l’altra di imparare a camminare. E ascoltavo i fautori dell’una e i fautori dell’altra, a disagio nel ripetersi di quest’eterna dicotomia in cui vive il pensiero (e anche i pensierini) occidentale. Così, una volta davo un colpo a una parte e la sostenevo di più, la volta dopo davo un colpo all’altra.
E’ andata così per anni, fino a che ho cominciato a chiedermi perché continuavo a guardare a questa storia in termini di bianco e nero, di separazione, di maschile e femminile, di realtà e invenzione, ecc… E mi sono detta che se curo il mio corpo in modo olistico, a maggior ragione dovrei guardare in questi termini anche ai corpi che invento: allora, le due parti non sarebbero più state in competizione, due lati che si contendono l’attenzione e decretano il mio fallimento narrativo in base all’assenza di un taglio che soddisfaccia comprensioni esterne e senza rischi, ma un insieme, un organismo, fatto di parti più belle, più brutte, ma tutte funzionali. Non dicotomico, ma organico.
In effetti, il romanzo mi metteva di fronte a me stessa in modo ancora più forte del solito, o forse solo più consapevole, dicendomi: e va bene, sei una narratrice di finzione ma anche una narratrice di realtà, sei legata all’identità e ai luoghi, all’arte ma anche ai nuclei emotivi. Devi per forza scegliere solo un lato di te stessa per far felice il marketing aziendale dell’editoria, per rendere più vendibile il loro prodotto? Per gratificarti sentendoti dire: stai vendendo? E ti interessa che si venda o di esserti realizzata con autenticità? Con tutti i difetti e i meriti del caso?
Cominciare a vedersi narrativamente per quel che si è, anche se pochi intorno a te ti vedono – l’umanità è molto impegnata a rispecchiare se stessa negli altri, ha poca voglia di vedere l’altro – è almeno un primo passo. Prima, per sette libri e una pila di racconti, ti ponevi solo il problema di raccontare quel che urgeva? E ora perché vuoi porti i problemi degli altri? Sono un’insegnante di scrittura oltre che una scrittrice e quindi indico alle persone tutti i giorni i falsi problemi che la scrittura e noi stessi poniamo davanti alla creazione, quindi devo anche dirmi se una cosa funziona oppure no. Ma posso riconoscere con me stessa che a volte le cose funzionano anche con meccanismi diversi dal consueto, che può succedere qualcosa di nuovo e che ogni rischio implica il fallimento? Sì, credo che potrò.
La scrittura è responsabilità personale. E non è detto poi che chi ti legge non decreti una riuscita, una comprensione. Oggi vi ho raccontato la mia ombra di questi giorni, di questi ultimi anni, che convive e si alimenta con la molla inesauribile che porta alla scrittura e che ogni mattino mi fa svegliare con in testa un personaggio, un’immagine, un sogno o mi fa osservare per strada le persone perché dietro di loro si nasconde un mistero. Questo è l’impulso narrativo che rende vive dalle dita cose che uscirebbero dalla bocca: a volte mi dico che starò davvero per morire solo il giorno in cui questa stimolazione – più forte delle malattie e dei dolori, più attiva della noia – finirà. Solo allora mi scioglierò nel tutto e ridiventerò.
Antonella Cilento

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PRESTO TI SVEGLIERAI. Incontro con Francesco Costa http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/29/presto-ti-sveglierai-incontro-con-francesco-costa/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/29/presto-ti-sveglierai-incontro-con-francesco-costa/#comments Sat, 28 Jun 2008 22:54:44 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/29/presto-ti-sveglierai-incontro-con-francesco-costa/ In quali circostanze potresti uccidere qualcuno?
Conosci qualcuno che sarebbe disposto ad uccidere pur di realizzare i propri sogni?

Due domande che emergono dall’ottimo – e divertentissimo - romanzo di Francesco Costa (nella foto) “Presto ti sveglierai”, edito da da Salani.
Due domande sulle quali si potrebbe discutere a lungo.
Vi invito a interagire con l’autore, che parteciperà al dibattito.

Di seguito potrete leggere le recensioni di Maria Lucia Riccioli – che mi darà una mano a moderare il dibattito – e Antonella Cilento (il suo pezzo è già apparso sulle pagine culturali de “Il Mattino”).

Subito dopo… una bella intervista rilasciata all’inesauribile Simona Lo Iacono (che si presenta all’intervistato nei panni di… Pulcinella)

E poi, sinceramente (e magari con un pizzico di sana ironia)… provate a rispondere!
In quali circostanze potreste uccidere qualcuno?
Conoscete qualcuno che sarebbe disposto ad uccidere pur di realizzare i propri sogni?

Mica facile!

Massimo Maugeri

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Francesco Costa, Presto ti sveglierai, Salani Editore, Milano 2008, pag. 222

recensione di Maria Lucia Riccioli

Presto ti sveglierai è uscito pochi giorni fa per Salani dalla penna oraziana di Francesco Costa.
Oraziana, sì, perché al di là, infatti, della scrittura serrata, del ritmo indiavolato, sostenutissimo della pagina – e qui si avverte il tocco del Francesco Costa sceneggiatore per la televisione e il cinema – serpeggia una malinconia disillusa, che è l’altra faccia della medaglia di quella solarità che connota – ma è proprio così? – i napoletani.
Di oraziano c’è anche il gusto per la battuta arguta, mai veramente cattiva, il dono dei ritratti indovinatissimi, tracciati in punta di penna, un senso morale fatto di sano buonsenso e di bonomia nient’affatto superciliosa.

«In quali circostanze potresti uccidere qualcuno?» (p. 7).

La domanda dell’incipit non potrebbe più perentoria.
Suo malgrado, Laura questa domanda dovrà porsela, lei che sembra essere, proprio come il suo minuscolo amatissimo giardino con un pino centenario, un’oasi integerrima e diciamocelo pure un po’ fessa in un mondo di strafichi furbastri arrampicatori fotticompagnisti.
A partire proprio da casa sua: la figlia Gemma cambia look – bonza, dark, intellettuale… – a ritmo vertiginoso ed è convinta di poter sfondare come scrittrice con un romanzo intitolato nientepopodimeno che Rebecca la porca; il marito Stefano la ignora, la tradisce forse con la bellissima Clara e non perde occasione per rimproverarle l’attaccamento alla morale kantiana ritenuta muffosa e fuori moda.
Per non parlare di colleghi e alunni, di Regina Saporito, vicina di casa tutta invidia e falsa cortesia…
C’è persino un surreale Gesù a vegliare, a suo modo, sulle vicende di Laura.

«Conosci qualcuno che sarebbe disposto ad uccidere pur di realizzare i propri sogni?» (p. 7).

Morale, certezze, valori vacillano di fronte all’ipotesi ventilata dal tubo catodico.

«… Allora raccontalo a Miriam!» (p. 8).

Miriam è la quintessenza dello sfasciume televisivo che ha inquinato le intelligenze e le coscienze di tutta Italia e conduce l’ennesimo reality, volto ad indagare sulle fantasie omicide che infettano anche gli animi più insospettabili, come quello di Laura.
Mite e persino goffa nella sua ingenua semplicità, la nostra sprovveduta protagonista si troverà coinvolta in un complotto che include camorristi, professori in piena crisi d’autorità, vaiasse e persino un poliziotto dall’augurale nome di Speranza.

«Per salvare la vita alla persona che ami, per eliminare un ostacolo tra te e una ricca eredità, per conquistare l’uomo o la donna dei tuoi sogni, per impadronirti di un’automobile…» (p.11).

Il marito di Laura è stato rapito ed è tenuto in ostaggio. Solo la moglie può salvarlo impegnandosi a compiere ciò che il pavido, imbolsito, distratto Stefano non è stato capace di portare a termine: l’omicidio dell’avvocato Morris, un cattivo, un vilain della peggior specie, che l’umanità tutta vorrebbe veder sparire dalla faccia della terra. Chi esiterebbe?
Laura, combattuta tra il residuo amore verso un marito che pur non apprezzandola sempre il padre di sua figlia è, il cielo stellato sopra di lei e la legge morale dentro di sé, verrà catapultata in una sarabanda esilarante di colpi di scena fino allo scoppiettante finale, che lascia anche uno spiraglio di speranza per le sorti di Napoli.
Una Napoli devastata dall’inciviltà, dal cinismo, dall’ignoranza cafona, dalla speculazione edilizia, subissata dall’onnipresente monnezza.
Francesco Costa, con profetico tempismo – o forse è Napoli ad essere tragicamente sempre uguale a se stessa? – fa muovere Laura Belmonte in un presente quanto mai attuale.
E noi ci ritroviamo a tifare per lei e per la sua città, sperando che entrambe finalmente, il più presto possibile, come Francesco Costa si augura nel titolo del libro, si sveglino e trovino la via più “giusta” per il loro riscatto.

«È notte fonda, certo, ma prima o poi si sveglierà anche lei» (p. 222).

Maria Lucia Riccioli

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recensione di Antonella Cilento

«In quali circostanze potresti uccidere qualcuno?»: questa è la frase che lampeggia lungo le pagine di Presto ti sveglierai (Salani, pagg. 222, euro 13), brillante settimo romanzo di Francesco Costa. A pronunziare la temibile frase è un’attempata conduttrice televisiva restaurata di fresco, che si affaccia da ogni media ad inquietare una Napoli messa a ferro e a fuoco dalle emergenze: camorra, spazzatura, campi Rom (una notevole preveggenza dell’autore, considerando che questo libro è stato scritto ben prima dei recenti fatti di cronaca: ma questo, ovvero anticipare i fatti del mondo, alla buona letteratura capita). E certo il diktat televisivo in una città già così facile agli ammazzamenti, turba, o quanto meno infastidisce, la vita della quarantenne Laura Belmonte, insegnante sposata a un professore, che per conservare la sanità mentale in un mondo allo sfascio ha scelto un imperativo kantiano da ripetersi come un mantra: «Il cielo stellato sopra di me. La legge morale dentro di me». Laura vive in una piccola isola, una casetta a Fuorigrotta dove fa crescere a fatica un minuscolo giardino che la separa da una vicina invadente con un figlio che crede d’essere Gesù – le cui apparizioni esilaranti, ma anche visionarie, sono una delle punte di diamante della narrazione – fra il cimitero, che manda miasmi di morte, e un campo Rom, che di miasmi ne manda di vitali. I problemi di Laura sarebbero molto comuni: un marito che si è stancato di lei e non l’ama più con la stessa passione, una figlia adolescente assai stramba, che passa da una moda all’altra e da un’identità all’altra senza troppi imbarazzi (ora bonzo meditativo, ora autrice di Rebecca la porca, non celata satira dei romanzetti trash di giovanissimi autori analfabeti), una collega di scuola bellissima e con casa a Posillipo, amante di suo marito. Tuttavia le cose si complicano: una sera, di ritorno da una disgustosissima e trendy cena, Laura e Stefano, suo marito, vengono assaliti. Il giorno seguente Stefano scompare. Laura lo cerca invano fino a che non le viene detto che la camorra lo tiene in ostaggio e che lei lo potrà riavere solo a patto di uccidere un certo avvocato americano. Dunque, la realtà non è come appare. Cos’è finto e cos’è vero? Di più non diremo della trama, che si avvolge come una spira attorno al lettore, complice la scrittura elegantissima di Costa, fatta di composta ironia e di situazioni esilaranti, sullo sfondo di luoghi napoletani non usurati dal copione letterario ma consueti all’autore, che di Fuorigrotta e dei Campi Flegrei ha già molto narrato nei precedenti romanzi. Presto ti sveglierai è un noir pieno di comicità e di ritratti impietosi della borghesia televisiva dei nostri giorni, un libro che scorre rapido e restituisce un’aria estiva: promette e mantiene le qualità narrative già note, con in più il dono della commedia di qualità.

Antonella Cilento

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INTERVISTA A FRANCESCO COSTA

di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGEcco… Ho sempre pensato che ci siano scrittori che affondano tra le maglie di una città. Che le rotolano accanto col respiro. Con i propri sogni.
Scrittori di sogni e di città, diciamo allora. Che sfiatano gli stessi sboffi del vulcano che li domina. E che ne condividono il destino fatto di precarietà e sorrisi. Quella leggerezza che solo chi vive a contatto con una terra prossima a tremare e a spaccarsi sotto il passo, è in grado di raccontare.
E allora facciamo per un attimo finta di essere a Napoli.
Andiamo incontro a Francesco Costa, edito in questi giorni da Salani con “Presto ti sveglierai”.
Pur avendo un passato da fine sceneggiatore e da romanziere di successo ( abituato – tra l’altro – alle trasposizioni per il cinema delle sue storie), Francesco è, soprattutto, un uomo aperto alla meraviglia. Al raspo repentino di un entusiasmo. All’infallibile fiuto dei veri sognatori: lo stupore – sempre rinnovato – per la vita.
Uno stupore a cui di tanto in tanto non sfugge uno strappo di malinconia. Un sobbalzo di inquietudine. Ma non per intima adesione.
Più che altro, per lo scontro con un mondo strano, che ha perduto il senso della curiosità per il proprio mistero. Per l’assurda felicità di vivere.
A volte, sebbene i mascheramenti non siano il suo forte, me lo sono immaginato come un Pulcinella. Ma diverso dagli altri. Dai mille altri Pulcinella che ci si assiepano intorno.
Il “suo” Pulcinella lo immagino a capo di una banda di bambini moccolosi, arrangiato, con scarpe di due misure più grandi, il vestito sgualcito… e un libro in mano.
Si ferma. Lo guarda. Mi toglie le parole di bocca…
Sarà lui a condurre questa intervista…

“Francesco – gli domanda, infatti, Pulcinella – ma tu cos’hai in comune con me”

F: Perdonami, ma non credo che abbiamo qualcosa in comune. Mi ha messo sempre tristezza l’idea che la tua arguzia sia per te un modo di dimenticare che hai fame. Di Napoli ricordo sempre una gran fame, tutti quelli che conoscevo (adulti e bambini) parlavano sempre di quanto avessero fame. Io covavo un’idea di fuga, che poi ho messo in atto. Pulcinella non medita di scappare: è legato da sempre alla sua Napoli. Io per poterne parlare ho dovuto mettermi a debita distanza da lei.

“E con Napoli cos’hai in comune?”

F: Napoli la rivedo ogni mese per visitare la mia famiglia. Che dire? La ami e la maledici, e questo è quanto. Ho l’impressione che non ricambi mai l’amore che le porti. Perfino i recensori napoletani se la prendono comoda nel recensire i tuoi libri quando dovrebbero quantomeno meravigliarsi ed esser grati a chi, da lontano, abbia ancora la voglia di scrivere di questa stranissima, meravigliosa e tremenda città. Inseguono il potere, pure loro, e non si rendono conto che, osservati a distanza, annaspano in una situazione emergenziale che ha dell’incredibile.

“E allora, quanta parte ha la napoletanità nei tuoi libri?”

F: Credo che se fossi nato a Nairobi, parlerei di Nairobi. Parlo di Napoli perché la conosco meglio ed è un fondale adatto alle storie che mi vengono in mente. Il fatto, anzi, che il fondale sia sempre lo stesso dovrebbe a mio avviso mettere in risalto l’inesauribilità dei registri stilistici con cui posso narrare la tragicommedia umana.

“E questa amarezza che affiora tra una risata e l’altra? Questa ricerca della salvezza in una leggerezza apparente, sempre velata da meraviglia? Forse non è della sola Napoli. Forse è oggi – non credi? – l’unica via d’uscita per sopravvivere al mondo senza rinunciare alla fantasia”.

F: L’amarezza non mi appartiene, perché ho un temperamento naturalmente gioioso. Se la si sente venir fuori dai miei libri è perché i miei personaggi devono confrontarsi con qualcosa che ha dell’incredibile. Una città pazzesca, priva di alberi, seppellita sotto la spazzatura. Dominata da gente senza scrupoli. Il contesto in cui vivono metterebbe ansia pure al serafico Oblomov.

“La fantasia. Questa nemica che ti fa credere possibile l’impossibile. Che ti precede, ti perseguita e ti condanna a barricarti tra parole a cui non puoi rinunciare. Che rapporto hai con lei?”

F: La fantasia è tutto. La vita non può essere semplicemente vissuta. Va anche raccontata, per capirci qualcosa, altrimenti l’uomo impazzirebbe.

“E il tuo ultimo libro? Perchè questo titolo?”

F: E’ il mio romanzo più dichiaratamente umoristico. Volevo far ridere. Riuscirci è per uno scrittore un dono divino. Sapere che un lettore ha riso sulle tue pagine è il massimo. Mi arrivano sms ed email di lettori (anche colleghi) che mi ringraziano per le risate che si stanno facendo. Ne sono fiero. Il titolo attiene al sonno e ai sogni. E’ musicale. Ho una ricca scorta di titoli, ai quali devo appioppare un romanzo dotato di intreccio e sensi riposti. Uno scrittore parte generalmente da una storia a cui poi dare un titolo, io parto da un bel titolo e poi vi aggiungo una storia: esattamente il percorso inverso. “Presto ti sveglierai” è un titolo che mi piace, che è piaciuto all’editore, che piace a molti lettori.

“Da quale esigenza interiore è nato?”

F: Dalla voglia di far conoscere ai miei lettori la mia abilità nel registro comico. Tutti i miei libri sono percorsi da una vena ironica, ma questa black comedy, questa commedia con delitto ha costituito per me uno sforzo ulteriore nella direzione dell’umorismo più diretto, più schietto. Presto mi misurerò invece con l’horror e con il noir: dimensioni narrative che non ho ancora affrontato. Lo sfondo sarà sempre Napoli.

“E se anche da questa tua ultima fatica fosse tratto un film, com’è accaduto per altre tue opere (ultimamente rappresentate dal meraviglioso viso di Maria Grazia Cucinotta), che volti sovrapporresti a quelli dei tuoi personaggi?”

F: Ho sempre pensato a Laura, la protagonista di “Presto ti sveglierai”, come a una donna bionda e smarrita, fragile eppur energica, con occhi azzurri stupefatti, e ogni volta mi è venuta in mente Margherita Buy: sarebbe una magnifica Laura!

“Un’ultima cosa, Francè… se ti prestassi il mio vestito, lo indosseresti?”…

F: Non mi piace travestirmi. Ho già il mio bel daffare a entrare e a uscire dalle menti dei miei personaggi. E’ sufficientemente faticoso (e spesso doloroso) inventarli e poi abbandonarli, visto che quando scrivo io divento esattamente loro, al punto che entrano nei miei sogni e mi procurano a volte perfino dei terribili incubi. Quando non scrivo, preferisco il silenzio, e dispormi all’ascolto di quella specie di mood che mi fa arrivare l’eco delle prossime storie…

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Francesco Costa è nato a Napoli. Già sceneggiatore cinematografico e televisivo, ha esordito con il romanzo La volpe a tre zampe, cui s’ispira l’omonimo film di Sandro Dionisio con Miranda Otto e Angela Luce.
Sono seguiti L’imbroglio nel lenzuolo (1997), da cui è tratto un film con Maria Grazia Cucinotta, Anne Parillaud e Geraldine Chaplin – attualmente in produzione, di cui Costa ha firmato anche la sceneggiatura – Non vedrò mai Calcutta, Se piango picchiami, e Il dovere dell’ospitalità.
I suoi libri sono tradotti in Germania, Giappone, Spagna e Grecia.

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MI DISPIACE, NON SONO UN PERSONAGGIO di Antonella Cilento http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/12/09/mi-dispiace-non-sono-un-personaggio-di-antonella-cilento/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/12/09/mi-dispiace-non-sono-un-personaggio-di-antonella-cilento/#comments Sun, 09 Dec 2007 22:40:16 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/12/09/mi-dispiace-non-sono-un-personaggio-di-antonella-cilento/ Quello che vi propongo di seguito è un intervento caustico e sentito che Antonella Cilento (nella foto sotto) mi ha inviato per la sua rubrica “L’ombra e la penna“.

Già il titolo, “Mi dispiace, non sono un personaggio”, anticipa in maniera chiara il contenuto del testo.

Ringrazio Antonella perché mi pare che ci abbia fornito un’ottima occasione per dibattere di un argomento attuale e coinvolgente; soprattutto per coloro che, per un  motivo o per l’altro, sono vicini all’ambiente letterario/editoriale. Vi chiedo di discuterne assieme con passione, ma senza tradire i toni e lo stile che caratterizzano questo blog.

Vi ringrazio.

(Massimo Maugeri)

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Ormai per essere pubblicati bisogna passare un casting. Sei interessante? Sai parlare in pubblico? Sei un attore/attrice? Sei strano/a? Trasgredisci, porti le giarrettiere, sei sexy? Hai la faccia giusta, incuriosisci, puoi andare in tv, hai i denti a posto? Manca poco al Grande Fratello degli scrittori, in questo spaventoso vuoto pneumatico della progettualità editoriale. Da tempo non si leggono i libri ma si guardano le facce degli scrittori, li si chiama, nelle riunioni editoriali o nelle cene fra addetti, per cognome: ce l’ho, ce l’ho, mi manca. Siamo figurine dei calciatori. E poiché non tutti vendiamo le cifre che agli editori fanno comodo, siamo spesso calciatori di serie B. Quello non lo voglio perché c’ha troppa storia (cioè ha segnato poco, un’intera stagione in panchina), quella la tengo come fiore all’occhiello anche se mi va sempre in fuori gioco. Ovviamente nell’editoria (italiana) non ci sono in gioco le cifre del calcio, ma hai voglia a star lì a scrivere davvero, a lavorare tutti i giorni, a non fare la velina della letteratura: hai perso. C’è una schiera di bellocci, furbastri e manovratori che ti passa avanti.

Li avrei voluti vedere i nostri tecnici dell’editoria risolvere il problema fino a qualche decennio fa, o magari cento anni fa: dove lo mandavano Giovanni Verga? Dalla De Filippi? E anche Pavese dalla Dandini non avrebbe funzionato granché. Ma oggi, in fondo, che importa? Viviamo in un paese in cui per la stragrande maggioranza delle persone la letteratura italiana del Novecento manco esiste, figuriamoci quella di altre epoche. Siamo precisi: non esiste per quasi nessuno la letteratura in generale. E non come negli anni Sessanta quando il romanzo impegnato lo leggeva una fascia elitaria ma una fascia più ampia leggeva il romanzo popolare e poi la maggioranza doveva essere ancora alfabetizzata. No, adesso il romanzo impegnato è scomparso, scrivere bene è un disvalore, il romanzo popolare lo fa la televisione e il grande romanzo, se siamo fortunati, ce lo riduce il cinema. Serve una fiction per tornare a leggere Tolstoj, magari il film di Faenza per ributtare un’occhiata al dimenticato De Roberto e nei prossimi mesi, chissà (mica è detto) il film di Martone per riparlare di Noi credevamo di Anna Banti.

E non è detto perché questo romanzo non si trova: per comperarlo mi ha aiutato la bravissima Francesca Branca, che cura un documentatissimo e appassionato blog dedicato a questa grande scrittrice morta da nemmeno vent’anni e caduta nel peggiore degli oblii (www.annabanti.splinder.com), dove per altro (vera novità!) presta sulla fiducia le sue copie personali dell’autrice, altrimenti acquistabili con difficoltà in librerie antiquarie, in prime edizioni costosissime. Un giorno Francesca mi scrive, mi cerca e poi ci incontriamo e fra le tante cose che ci raccontiamo c’è anche la storia di questo libro, uscito nel 1964, che Mario Martone ha scelto per girare un film di ambito risorgimentale (i diktat della nostra cultura ufficiale ci sollecitano: prego, signori, Dante e il Risorgimento. Niente di male in questo se non diventassero scelte obbligate, specie Dante…). Ma il libro si trova a fatica su E-bay, gli editori non ci provano nemmeno a ristamparlo. Certo, la Banti, che qualcuno ricorderà per il suo romanzo più celebre, Artemisia, dedicato alla vita della pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi, ma che ha scritto decine di libri e racconti spettacolari (Lavinia fuggita, magnifico, I porci, Tela e cenere e moltissimi altri, la raccolta più completa s’intitola Campi Elisi), non doveva essere un personaggio facilissimo (vedi l’autobiografia romanzata Un grido lacerante, uscita pochi anni prima della morte). Ah, proprio non ce l’avrebbe fatta la nostra editoria a portarla in tv. Una signora delle lettere, una vera maestra. Dirigeva una rivista fondamentale nella nostra storia letteraria, Paragone, con piglio feroce, bacchettando tutti, aspettandosi il meglio da tutti (vedi la raccolta di lettere di Alberto Arbasino pubblicata di recente da Archinto). Ah, come mi piacerebbe oggi dover litigare con una Banti, con un Vittorini, beccarmi una lettera di rifiuto da Calvino! Ci sarebbe gusto, almeno. Non dovrei passare il tempo a spiegare a qualche giovanissimo correttore di bozze a contratto cocoprò le regole della lingua italiana (perché ci sono regole?) e aiutarlo a distinguere l’errore dall’invenzione. Povera creatura, fra due mesi sarà di nuovo in strada, ne sa meno di chiunque altro, che deve fare? Ma niente, questo destino ci è negato, dobbiamo rassegnarci a litigare con l’aria, spesso a scusarci con gli editori per aver scritto cose appena più complesse del libro di barzellette. Torniamo perciò a Noi credevamo e spendiamoci due parole: il romanzo racconta l’epopea del repubblicano Domenico Lopresti, avo calabrese della Banti. Domenico, ormai vecchio e trapiantato contro voglia nella Torino che ha fatto a suo dispetto l’Italia, circondato dall’affetto dei figli cui non lascerà niente salvo le sue memorie, critico verso di sé e il mondo, si decide, suo malgrado, a scrivere le sue memorie. Le lunghe prigionie toccategli per la spiata dell’ipocrita Cassieri lo vedono, dopo una giovinezza da filadelfo entusiasta e speranzoso, recluso a Montefusco, a Procida e a Montesarchio insieme a Carlo Poerio. E’ il 1883 mentre scrive e gli anni da cospiratore trascorsi facendo il corriere e visitando a Lugano Cattaneo gli sembrano davvero distanti. Anche la spettacolare fuga da Livorno, anche il nuovo tentativo garibaldino in Aspromonte gli appaiono velati dall’occhio dell’età. Il paese, che pure ha contribuito a formare, non lo riconosce, lo ha condannato, le relega a una vita da diseredato nella città dei tanto detestati Savoia. La storia di una delusione, quindi, di un fallimento che fonda la contemporaneità. La vicenda di Domenico è dentro la linea del grande romanzo italiano che va dal Diavolo a Pontelungo di Bacchelli a Noi credevamo a Il resto di niente di Striano. Una linea che si interseca con L’isola di Arturo (Noi credevamo è del ’64, il romanzo della Morante di poco precedente) non solo per la vicinanza degli scorci procidani, ma per la potenza dell’io narrante che poco ha da invidiare all’Adriano della Yourcenar. La vicinanza con Striano, edito molti anni dopo, poi è straordinaria: i ritratti dei camorristi e dei contadini incontrati in carcere che Domenico compie, lui nei panni del galantuomo povero in canna ma animato dal fuoco della libertà, ricordano in forma speculare il celebre dialogo fra i rivoluzionari e i capipopolo della Napoli di Maria Carolina. Scrive Domenico: “Non mi piacciono le favole e diffido dei romanzieri. Per chi scrivono costoro? Come possono giocare la loro vita componendo storie inventate? Le donne le leggono avidamente (…) Va bene, anche le donne sono un pubblico. E tuttavia scrivere per un pubblico cosiffatto non mi piacerebbe. Sono intelligenti, le donne? (…) Fino a un certo segno penso che la loro condizione coincida con quella del romanziere, il quale più che viverla, costruisce la vita.” Molta amarezza, in trasparenza. Un destino letterario già vinto che passa da queste pagine.

Vedremo se il film di Martone aiuterà a far ripartire il dibattito e magari a riportare sui banchi dei librai questo romanzo come in questi giorni capita ai Viceré, ristampati in edizioni supereconomiche.

Chissà se qualcuno ha davvero voglia di discutere il lato non eroico, non illuso del nostro Risorgimento. E chissà se si potrà parlare di un libro senza un’autrice che vada a chiacchierare in fascia pomeridiana su Rai 2 del destino dei figli, degli spinelli e dei casi di cronaca.

Antonella Cilento

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78 RAGIONI PER CUI IL VOSTRO LIBRO NON SARA’ MAI PUBBLICATO (di Antonella Cilento) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/06/17/78-ragioni-per-cui-il-vostro-libro-non-sara%e2%80%99-mai-pubblicato-di-antonella-cilento/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/06/17/78-ragioni-per-cui-il-vostro-libro-non-sara%e2%80%99-mai-pubblicato-di-antonella-cilento/#comments Sun, 17 Jun 2007 20:20:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/06/17/78-ragioni-per-cui-il-vostro-libro-non-sara%e2%80%99-mai-pubblicato-di-antonella-cilento/

Oggi in Italia è forse fin troppo facile per gli esordienti arrivare alla pubblicazione e questa facilità, legata soprattutto alla sete di scritture giovani, è in crescita, piuttosto che in calo: può capitare di esordire dopo molti anni di rifiuti, e non è detto che sia un male, così come può risultare facilissimo trovare un piccolo editore disposto a rischiare su un testo anche di modesta qualità. Lo spazio ufficiale per gli esordi, considerando anche le grandi case editrici, è nel nostro paese percentualmente basso, tuttavia la selezione di quanto viene pubblicato sposta sempre più i criteri dalla qualità letteraria alla stretta vendibilità.

Così, se la massa di esordienti è in continuo aumento e preme su agenzie, scuole di scrittura e scrittori, cercando canali di lettura, il panorama che si offre in risposta è sempre più blindato e commerciale: bisogna che un editore faccia i numeri, e gli editor ne sono i primi responsabili, così potranno in seconda battuta puntare su autori che vendono meno ma sono di maggiore qualità. 

E pur di fare i numeri, si pubblica davvero di tutto.

Ma se è molto facile scagliarsi contro il mondo dell’editoria, non bisogna dimenticare che è anche la folla di aspiranti, molti dei quali senza qualità e vocazione, a rendere difficile la selezione. Scrive a questo proposito Pat Walsh:

“La ragione principale per cui il vostro libro, una volta che avrete finito di scriverlo, non sarà pubblicato è che non è abbastanza bello… forse fa addirittura un po’ schifo”. Walsh, editor e co-fondatore della casa editrice McAdam/Cage, ha le idee chiare su cosa deve fare un esordiente per confrontarsi con la sua aspirazione alla scrittura e le espone con sistema in 78 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato e 14 motivi per cui invece potrebbe anche esserlo (Tea, 9 euro).

L’elenco è secco e semplice: non si viene pubblicati negli Stati Uniti – ma il parallelo con l’Italia è abbastanza stringente – perché non si è mai scritto il libro di cui tanto si parla (e cioè si dice sempre che lo si scriverà, ma che non si è ancora trovato il tempo per farlo, oppure che servono buone conoscenze nell’ambiente prima ancora di mettersi a scrivere); perché il libro è brutto, perché si pensa che scrivere sia facile, perché non si cura la lingua o la storia, perché si plagia o si è troppo affezionati ai propri errori, perché ci si innamora del primo prodotto senza rilavorarlo, perché non si prende sul serio la fatica di scrivere. In fine, per tutta una lunga serie di ragioni che riguardano la scarsa conoscenza delle regole del mondo dell’editoria. Ed è evidente che, se esistono ben 78 motivi per fallire e appena 14, secondo Walsh, per avere qualche probabilità di riuscita, l’imbuto in cui cade l’esordiente è ben stretto: fra le qualità necessarie ci sono le ovvie (aver scritto un bel libro), ma anche essere onesti con se stessi, coltivare speranze e aspettative ragionevoli, essere pazienti, tenaci e buoni gestori del proprio tempo, saper accettare i no e le critiche, prendersi sul serio ma divertirsi.

Una delle questioni su cui Walsh punta è la fretta: se un manoscritto viene inviato state pur sicuri che sarà difficilmente letto una seconda volta, è inutile mandare capitoli di prova che poi si cambieranno. Bisogna stare molto attenti alle lettere di presentazione e ai modi con cui contattate gli editori e gli agenti: potreste presentarvi nel modo peggiore. 

A volte, però, si sanno scrivere splendide lettere di presentazione e pessimi libri, e anche questo è un notevole handicap. In sostanza, l’antimanuale di Walsh, scrittore fallito e editor felice, sia pur nella manichea  e pragmatica modalità americana, dà suggerimenti autentici, che chiunque conosca un po’ il mondo dell’editoria non potrà che sottoscrivere. Il ritratto di questo mondo affollatissimo di aspiranti inconsapevoli che bussano alle porte degli editori sbagliati, che tartassano gli agenti e che inviano qualsiasi cosa abbiano buttato giù in quattro e quattr’otto, non può che somigliare, in piccolo, alla nostra realtà. Certo, è difficile non ricordarsi di un piccolo ma perfetto racconto di Giuseppe Pontiggia (Lettore  di casa editrice) in cui un editor, un po’ affaticato e afflitto dalle molte storie quasi buone ma tutte senza obiettivi che gli tocca leggere, finisce con il cestinare per sbaglio anche un libro destinato al reparto traduzioni e firmato Dostojevski.

E in effetti Walsh di questi possibili errori non se ne duole, anche perché sostiene in un capitolo che gli editori cercano storie credibili e forti, in un altro che occorre avere un perfetto tempismo e, in un successivo, che certo si può essere sfortunati e c’è poco da fare.

A completare questa complicata quadratura del cerchio c’è la notizia che l’editoria è un’industria, che i libri sono numeri, in senso matematico e in senso economico, e che quando gli autori non possono sentire li si chiama per codici o per unità: “Ah, come staremmo meglio senza di voi! Potessimo fare il nostro lavoro senza autori!”, mi disse in uno slancio di sincerità una mia vecchia editor. E non si può non confrontare questa realtà, fatta spesso di lettere prestampate e, raramente, di brevi messaggi di apprezzamento, quando capita, con le accurate  lettere che Calvino scriveva per i suoi rifiuti quaranta e più anni fa: l’editoria italiana sembra non saper più trovare il tempo, a dispetto di editor spesso molto competenti e a loro volta autori, di costruire alcuna idea di letteratura. Colpa, allora dell’assenza di sogni imprenditoriali? Di una progettualità finalizzata solo al denaro? Fatto sta che in risposta a questi vuoti di qualità proliferano editori a pagamento, che appiattiscono ancora di più la selezione, pubblicando dietro compenso i libri che altri rifiutano o che nemmeno leggerebbero, tanto sono improponibili. Insomma, chi ne fa le spese in Italia molto più che in America, considerando il mercato asfittico e l’assenza di lettori, sono gli autori che, come Walsh spiega, meriterebbero più rispetto  per il loro mestiere, per l’enorme fatica mai ripagata e in nessun modo compensata: perché se, a volte, negli Stati Uniti possono capitare anticipi faraonici e royalties spettacolari, in Italia vivere di libri, specie di quelli scritti bene, è impossibile.   

Antonella Cilento

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Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte (Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006).

“Una lunga notte” ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. “L’amore, quello vero” ha vinto il Premo Vitaliano Brancati. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito “Ora d’aria”. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.

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Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.

Ha realizzato:

per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno" (supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista".

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DOVE SONO I CRITICI LETTERARI CON CUI CONFRONTARSI ? (articolo di Antonella Cilento) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/05/03/dove-sono-i-critici-letterari-con-cui-confrontarsi-articolo-di-antonella-cilento/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/05/03/dove-sono-i-critici-letterari-con-cui-confrontarsi-articolo-di-antonella-cilento/#comments Thu, 03 May 2007 16:19:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/05/03/dove-sono-i-critici-letterari-con-cui-confrontarsi-articolo-di-antonella-cilento/

A chiedersi per primo dove fossero finiti i critici con cui gli scrittori potessero confrontarsi era stato, sul finire degli anni Ottanta, Pier Vittorio Tondelli. Se ne lamentava in un bel libro-intervista curato da Generoso Picone e Fulvio Panzeri, all’epoca giovani critici come giovane era il compianto Tondelli, di lì a poco scomparso. Dov’erano finiti, si chiedeva Tondelli, i critici con cui dibattere e confrontarsi sul proprio percorso creativo?

A distanza di oltre vent’anni la questione sembra irrisolta.

E un convegno di studi tenutosi a Venezia presso l’Università Ca’ Foscari, coordinato da Anna Maria Carpi, scrittrice, con l’intervento imprevisto di uno scrittore della generazione di Tondelli, Enrico Palandri, e con il contributo (previsto) di Alfonso Berardinelli, Giorgio Ficara, Roberto Galaverni, Franz Haas e Emanuele Zinato, ha cercato di fare il punto.

Ci finisco un po’ per caso, in vacanza a Venezia per una lezione di scrittura presso il laboratorio tenuto da Annalisa Bruni e Lucia De Michieli, invitata da una delle organizzatrici, docente, poeta e amica, Anna Toscano.

E’ una magnifica giornata di sole, sembra luglio e sulle Fondamenta delle Zattere si mangiano gelati. Dall’afa esterna entro nella saletta universitaria a convegno già avviato. Il pubblico interno, studentesse volenterose, in piccola parte resisterà fino alla fine. Il grosso, lettrici di varia età, curiosi, forse altri docenti, pian piano svanirà, come l’orizzonte del discorso critico sviluppato dai critici.

Mi armo di succo di frutta e resisto, anche per il piacere di ascoltare e conoscere per la prima volta Franz Haas, che ha prestato le sue foto azzurrine scattate per l’Ortese in occasione della scrittura del Cardillo addolorato, a me e a Sandro Dionisio per scrivere un corto metraggio dedicato alla grande scrittrice (a un certo punto evocata: dice Haas che anche il Porto di Toledo uscì nel 1975 nel silenzio assoluto della critica italiana, vedendo qualche centinaio di copie e ora vive invece la grande riscoperta dell’Adelphi). Haas ha scritto un articolo, riportato anche su Nazione Indiana non so da chi, dove si accusa la critica italiana di omertà. Si dice che questa critica non veglia, non legge e non discrimina. Perché?

Dice anche, ma questo dal vivo, che a lui spesso tocca di fare il poliziotto e che un suo articolo assai deciso ha impedito che in Germania uscisse con clamore la Fallaci della Rabbia e l’orgoglio, o meglio, è uscito il libro ma con un battage ridotto e per un editore minore. Dunque, negli altri paesi se il critico parla, poiché si assume delle responsabilità, viene anche ascoltato e ha un effetto.

La discussione viene portata avanti da Berardinelli che segna alcuni punti intorno a cui si ruota: il primo è che, a suo avviso, i critici sono scrittori come gli altri. E cioè fanno un lavoro creativo come gli scrittori ma di un genere differente. Sono insomma autori di uno specifico genere letterario. E sono anche, sostiene sorridendo (ma convinto) scrittori più generosi degli altri perché si preoccupano di leggere gli altri autori.

Secondo punto: oggi i giornali sono invasi da recensori, cioè da persone prezzolate che obbediscono alla legge di mercato imposta dall’editoria e che lanciano scrittori come patatine, senza alcuna competenza critica ma limitandosi a fare rumore. Questi signori sono pagati dai giornali e tolgono spazio ai critici. L’editoria è senz’altro imputata principale perché tesa solo a fare numeri e per niente impegnata a stabilire meriti o valori. E infatti il convegno s’intitolava: “I critici: solo intrusi, o il sale della terra?”.

Berardinelli chiedeva, in conclusione, un vero spazio, cartaceo, dove i critici potessero confrontarsi e fare il punto di quel che vale e di quel che non vale (annualmente, bimestralmente, ecc..).

Palandri diceva invece: ma voi, signori critici, li leggete gli autori che accusate di non valer nulla? Come si fa a discriminare l’esistente senza conoscerlo? Leggete e cercate.

Giorgio Ficara commentava i “giovani scrittori”, non meglio identificati, sostenendo che sono colpevoli di non desiderare il confronto, di scrivere ignorando la tradizione cui appartengono e insomma di non valere granché.

Il dibattito con la sala è stato limitato: un signore chiedeva ragione della comprensione, di cosa significhi oggi comprendere; una lettrice incaricata di rappresentare tutti i lettori dichiarava di guardare smarrita in libreria l’enormità e la confusività dell’offerta e di non saper scegliere; la signora Zanzotto, comparsa in tarda mattinata, lamentava vari disservizi, fra cui l’inutilità e la pericolosità delle scuole di scrittura (!).

Ora, per descrivere i convegni universitari ci vogliono penne acuminate e rimando perciò alla lettura di David Lodge, ad esempio. In breve, ci si è scagliati contro i troppo famosi, da Umberto Eco a Niccolò Ammaniti, si è fatta un’operazione “non ti curar di loro  ma guarda e passa” rispetto a  nomi ancora più venduti, ma, di fatto, non si è stilata alcuna graduatoria o fornito alcun parere circa la produzione contemporanea, quale essa sia.

Peggio: si è detto che gli autori vogliono essere riconosciuti dai critici e chiedono le loro recensioni, ma disprezzano la categoria. Inoltre, si è anche detto che forse oggi nessuno scrive niente di degno (e in passato, proprio a una lezione di scrittura tenuta presso il mio laboratorio, Berardinelli aveva dichiarato che dopo la Morante aveva scelto di non leggere più nulla e che i nuovi autori gli sembravano un trucco).

Poiché autori in sala che potessero dibattere, difendersi, dire qualcosa oltre l’equanime Anna Maria Carpi e il già citato Enrico Palandri non ce n’erano, io e il mio succo di frutta ce ne siamo stati zitti, un po’ arrabbiati, in verità e ce ne siamo andati.

Perché il nostro parere contava (e ha sempre contato) poco, ma la fatica di scrivere e la consapevolezza, pesante, di appartenere a una tradizione invece esistono. Ed esiste anche la coscienza e la fatica di portare avanti, almeno per quanto mi riguarda, con onestà una scuola di scrittura.

Io e il mio succo di frutta rispettiamo moltissimo il lavoro critico e la saggezza di Alfonso Berardinelli e di Franz Haas, sia pure nella loro enorme diversità, e rispettiamo il fatto che non siano recensori ma critici, però ci chiediamo anche come mai una folla di autori di buona qualità quando vengono editi – e non sono soggetti al lancio hollywoodiano riservato a quei due o tre titoli all’anno che fanno il fatturato dei molossi editoriali italiani (cagnetti, in verità, rispetto all’editoria tedesca o inglese per non parlare di quella americana) – debbano chiedere la carità ai recensori per essere letti e spesso malamente riassunti sui quotidiani.

Perché debbano anche essere disprezzati dai critici che si mettono la maiuscola davanti, con ragione vista la loro storia, sfruttati da editori che danno anticipi ridicoli (Berardinelli sostiene che gli anticipi ai narratori siano epici: a me non è successo e a molti altri che conosco).

Perché debbano, in definitiva, scrivere per essere numeri di poco conto in case editrici i cui uffici stampa e editori e addetti ai premi li guardano come accattoni e, contemporaneamente, liquidati come ignoranti da critici che non li leggono.

Io e il mio succo di frutta ce ne siamo andati a prendere il sole sulle Fondamenta delle Zattere, portando sempre rispetto anche a chi il rispetto non ce lo porta e spesso viene ospite delle scuole di scrittura, ospite pagato e venerato, e poi si dimentica di considerare almeno l’umanità, se non l’impegno onesto,  del nostro lavoro.

I critici ci servono: servono ai lettori e servono agli scrittori. Ma non critici che s’illudano di essere artisti. Critici che leggano e facciano il loro mestiere (da sempre, per secoli, considerato parassitario della letteratura, ma che definisce il gusto, la storia, il tempo e, ahimè, ciò che resterà e ciò che passerà).

Critici che non si lamentino di essere degli esclusi, che innalzino l’attesa che il pubblico ha e che gli editori appiattiscono. Critici che smettano di puntare il dito contro gli altri e lo puntino verso se stessi. Perché ogni errore che facciamo parte prima da noi e la responsabilità della nostra vita e del nostro lavoro è personale.

Ci piacerebbe tanto, e so che parlo per molti autori amici, che qualcuno ci dicesse cosa va e cosa non va nel nostro lavoro, senza paura di offenderci e senza essere mossi da interessi personali o millantati, non per scambio di cortesie personali ma per autentica volontà di capire.

Agli scrittori, e parlo di me per prima, capita di essere in questa repubblica troppo lasca delle lettere nostrane, recensori. A volte anche di libri di persone che conosciamo e che cerchiamo di aiutare o a volte stronchiamo anche se sono amici, a rischio di perdere quell’amicizia.

In un corso di scrittura chi ha aspirazioni viene da me e mi chiede un parere onesto. Ha pagato per questo e io lo do, a costo di essere crudele. Lo do proprio perché conosco la mia fatica di essere autrice e il mio essere legata a una tradizione, perché so i miei limiti e ho piacere se altri me li mostrano, perché desidero superarli o accettarli, se non posso.

Così, è vero ed è avvilente che ormai farci un’intervista è la scappatoia per non leggere un libro in redazione, che mettere grandi foto significa non dover dire che schifezza sia questo libro oppure: magari è buono, ma non l’ho letto.

E’ vero che se leggo una recensione fatta bene mi faccio un’idea precisa di quel libro e che da lettore ho bisogno della critica. E mi sa che oggi gli scrittori leggono i loro colleghi assai più dei critici, per tante diverse ragioni: per spiarli, come qualcuno mi disse una volta, per vedere se fanno meglio di loro, oppure per il semplice piacere di leggere, che è ancora, caso mai si fosse dimenticato, la base di questi mestieri, lo scrittore e il critico.

Antonella Cilento

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Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte (Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006).

“Una lunga notte” ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. “L’amore, quello vero” ha vinto il Premo Vitaliano Brancati. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito “Ora d’aria”. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.

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Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.

Ha realizzato:

per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno" (supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista".

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UN PO’ DI PAZIENZA. E GLI OCCHI BASSI (di Antonella Cilento) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/03/30/un-po%e2%80%99-di-pazienza-e-gli-occhi-bassi-di-antonella-cilento/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/03/30/un-po%e2%80%99-di-pazienza-e-gli-occhi-bassi-di-antonella-cilento/#comments Fri, 30 Mar 2007 19:24:23 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/03/30/un-po%e2%80%99-di-pazienza-e-gli-occhi-bassi-di-antonella-cilento/
Antonella Cilento

Gli estremi di ogni paese si toccano. Torno da una lunga settimana di laboratori di scrittura nelle scuole di Bolzano e li metto a confronto con i laboratori campani. Le realtà delle due regioni sono lontanissime: una provincia autonoma, dove ogni corso è superfinanziato, tutto è regolamentato fino all’eccesso; una regione dove tutto è anarchia allo stato puro.

A Napoli, dentro la Stazione Marittima, nella manifestazione intitolata La civiltà delle donne la sede è incantevole ma disorganizzata: le hostess con i programmi alla mano ignorano le collocazioni degli eventi; le scuole, scandalizzate, chiamavano gli organizzatori perché non possono far partire gli autobus con le scolaresche fino a quando gli spazi non sono pronti; gli orari di inizio dei laboratori saltano; l’attrezzatura delle sale è inesistente o da allestire a nostra diretta cura (mentre gli inservienti spazzolano le poltroncine di velluto con scacciamosche, come in una colonia levantina, io metto da parte le pagine della Mansafield che avrei dovuto leggere ai fanciulli delle medie per cercare di organizzare loro le sedie). Facciamo laboratorio mentre “quelli di Un posto al sole”, unico interesse dei ragazzini, si esibiscono poco distante e un concerto ci strombazza nelle orecchie.

A Bolzano, la scuola Scuola Dante sembra uscita dalla favola di Biancaneve: banchi di legno e sedie in stile, mi accoglie in perfetto silenzio fra pakistani di prima generazione, tedeschi, italiani di varia provenienza, tanti meridionali. Gli insegnanti sono forse stanchi e demotivati come in ogni altra scuola d’Italia, ma hanno autorità, desiderio di scoprire cose nuove e di farle sperimentare ai ragazzi. Desideri non frustrati. Le ore iniziano puntuali, non si spreca un secondo, nessuno chiacchiera nei corridoi, tutti lavorano.

A Napoli, come a Bolzano, i ragazzini “difficili” ci sono: in una classe della Dante un caratteriale passa il tempo a insultarmi. E’ bello, intelligente, campione di nuoto, ma non ha alcuna direttiva in casa, dove, per altro, i soldi non mancano. Nella Stazione Marittima, una guappetella provoca i suoi compagni e anche la professoressa: non è campionessa di niente, parla dialetto e ha la faccia rammaricata di un popolo soggetto. Ha più cuore del caratteriale di Bolzano? E il ragazzo di Bolzano non è poco meno che un guappo di cartone? L’umanità si somiglia, da Nord a Sud. I bambini si somigliano. Ma la rassegnazione non si è ancora impadronita del Trentino, merito delle regole, forse, mentre a Napoli, ci ripetono le belle signore ingioiellate che ci accolgono, bisogna avere pazienza.

“Un po’ di pazienza…”. E gli occhi bassi.

Antonella Cilento

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Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte (Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006).

Una lunga notte ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. L’amore, quello vero ha vinto il Premo Vitaliano Brancati. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito Ora d’aria. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.

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Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.

Ha realizzato:

per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno" (supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista".

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SCRIVERE, NON FARE LO SCRITTORE (di Antonella Cilento) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/02/20/scrivere-non-fare-lo-scrittore-di-antonella-cilento/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/02/20/scrivere-non-fare-lo-scrittore-di-antonella-cilento/#comments Tue, 20 Feb 2007 20:48:06 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/02/20/scrivere-non-fare-lo-scrittore-di-antonella-cilento/
Antonella Cilento
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“So benissimo che, tra le persone apparentemente interessate a scrivere, ben poche sono interessate a scrivere bene. A loro interessa pubblicare qualcosa, e se possibile fare un colpaccio. Essere uno scrittore, non scrivere”.

Quando Flannery ‘O Connor scriveva nei lontani anni Cinquanta queste righe per una lezione sulla natura e lo scopo della narrativa non immaginava quanta attualità avrebbero avuto ai giorni nostri. Anche se insegno scrittura da quattordici anni, non c’è giorno in cui le parole della ‘O Connor non mi accompagnino. Almeno tre volte per settimana mi tocca ripetere ai neofiti dei corsi napoletani de Lalineascritta, o nei corsi dell’Upad di Bolzano, ai ragazzi nelle scuole e ai visitatori del sito (www.lalineascritta.it) che hanno un libro nel cassetto e cui un editore ha chiesto soldi per pubblicarlo, che scrivere è un’arte.

E che davvero non è il ruolo sociale, la cui aura è da troppo tempo scomparsa come diceva Benjamin, dal momento che né un narratore né un poeta vengono ritenuti, di questi tempi, opinion leaders, a contare, ma la fatica, la vocazione, il vero desiderio di far bene quel che si è chiamati a fare.

Ieri sera spiegavo che ho un romanzo in fabbrica da sette anni. Un corsista nuovo alla questione ha sgranato gli occhi: sette anni? E’ terribile! Gli ho detto che non so se questo libro poi, alla fine, funzionerà. Non ho la garanzia, non è una lavastoviglie. Sette anni, ha ripetuto disperato: e io che scrivo solo quando ho voglia! Servissero i corsi di scrittura a far capire che scrivere un libro, un libro vero – non le barzellette dei calciatori o il romanzetto dell’attore o il giallino del magistrato – è una questione di fatica fisica e che, come diceva la ‘O Connor, i denti marciscono e i capelli cadono mentre un romanzo prende forma, sarebbe già un primo risultato.

Di questi tempi di sola immagine, dove la scrittura è finita su Internet e nei blog, in cui gli editori hanno dimenticato il senso delle parole “progetto culturale”, mi sa che bisogna ripetere ad alta voce che scrivere non è fare lo scrittore. Che non c’è un tappeto rosso, che non ci sono guadagni facili né comparsate tv che vi renderanno autori. Che si scrive, come dice Rosa Montero nel suo bellissimo La pazza di casa, contro la morte, perché quel mondo inventato sia davvero simile a come lo avevamo immaginato. Che non si scrive per vedere il proprio nome in calce, ma perché si cerca la verità, per porre domande che non siano oziose, che non si ascoltino nei programmi pomeridiani sui canali nazionali.

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Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte (Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006).

Una lunga notte ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. L’amore, quello vero ha vinto il Premo Vitaliano Brancati. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito Ora d’aria. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.

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Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.

Ha realizzato:

per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno"(supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista". Si è laureata nel 1995 in Lettere Moderne con una tesi intitolata La scrittura di Pier Vittorio Tondelli vincitrice presso la Biblioteca Comunale di Correggio del Premio Tondelli 1999.

Ha scritto la sceneggiatura del corto "Il martirio di Sant’Orsola" per la regia di Mario Martone e Sandro Dionisio (Banca Intesa, 2005). E’ presidente dell’ass. cult. Aldebaran Park con la quale organizza convegni, rassegne autoriali, spettacoli.
Ha organizzato vari convegni, conferenze e seminari culturali e letterari.

Per il teatro, scrive:

"Isole senza mare: omaggio ad A.M. Ortese ed Elsa Morante", 1999 in scena al Teatro Leopardi, Napoli, regia di Cristiana Liguori, interpreti Cristiana Liguori e Giorgia Palombi; "Bambini nel tempo" da I. Mc Ewan, 2000 in scena al Mezzoteatro di Napoli, al Teatro Nuovo di Salerno, regia di Paolo Oliveri e Giorgia Palombi, interpreti Paolo Oliveri e Luana Di Sarno; "Il funambolo" omaggio a J. Genet, 2001, Teatro Garage Genova, Galleria Toledo Napoli, Teatro Colosseo Roma, in tournée attualmente, realizzato con la regia di Laura Sicignano da un’idea di Iole Cilento, interpreti Marco Pasquinucci e Massimiliano Caretta). "Frankenstesin Barausz" di Laura Sicignano e A. Cilento, 2002, Teatro Cargo, Genova. "Ho visto Don Chisciotte", regia e ideazione di Giancarlo Cosentino, in scena al Teatro Diana, Napoli, 2003.

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INSEGNARE SCRITTURA CREATIVA (di Antonella Cilento) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/01/22/insegnare-scrittura-creativa-di-antonella-cilento/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/01/22/insegnare-scrittura-creativa-di-antonella-cilento/#comments Mon, 22 Jan 2007 15:39:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/01/22/insegnare-scrittura-creativa-di-antonella-cilento/ *

Si può imparare a scrivere un racconto? Come si costruisce un romanzo? Queste sono alcune delle domande chiave che in quattordici anni di insegnamento continuano ad essermi rivolte, ad ogni inizio di corso: è davvero possibile insegnare a scrivere? La risposta è semplice: certo, si può insegnare ad inventare, anche se nessuna seria scuola di creative writing potrà mai promettervi che “diventerete” scrittori. Una cosa è andare in palestra, un’altra è vincere le olimpiadi: ma nessuno di noi rinuncia a tenersi in esercizio perché non può competere con Yuri Chechi. E non c’è allievo di corso che non possa testimoniare un serio miglioramento delle proprie capacità al termine dell’esperienza.

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Antonella Cilento

Se è vero che il talento, quello che porta Yuri Chechi a vincere, non può essere insegnato, è però un fatto concreto che l’allenamento, i trucchi e gli strumenti della narrativa, come quelli della poesia, non solo possono ma sono da sempre stati trasmessi nel mondo occidentale, dagli antichi corsi di retorica fino ai corsi di creative writing, che si tengono con sistema, da oltre un secolo, in Stati Uniti, Europa e Giappone.

Esiste, tuttavia, nel nostro paese un diffuso e antico pregiudizio di ascendenza crociana, o più latamente romantica, che consiste nel considerare le arti del racconto e quelle della poesia come frutto di alata ispirazione e fulminante genio e dunque svalutando le funzioni dell’apprendimento, della crescita e della bottega della scrittura. In un paese di santi, poeti e navigatori com’è l’Italia è poi assai facile che la maggior parte delle persone, avendo una media competenza di lettura e scrittura, si ritenga invece automaticamente in grado di narrare o versificare.

Bisogna invece ricordare, e segnalare, che, spesso al di là dei gravi vuoti o delle approssimazione della formazione scolastica pubblica, scrivere è un’arte. E che, dunque, come tale, è, prima di diventare letteratura, una forma di artigianato sofisticatissimo: non ci sogneremmo di suonare uno strumento senza conoscere la musica, di danzare senza training, di dipingere senza studi. Allo stesso modo la scrittura d’invenzione prevede una pratica di bottega fatta di confronto, riscrittura, letture e prove.

Ovviamente, non basta saper scrivere libri per insegnare a scrivere. Esistono numerose didattiche della narrazione in Italia, variamente praticate, e se chi partecipa a un corso di scrittura può non essere in possesso del famoso talento, ma arrivare a stimolare immaginazione e creazione con metodi opportuni, chi, invece, possiede una potenzialità se non si allena e non apprende rischia di perdere ai punti qualsiasi incontro, se consideriamo un racconto come un match.

Non c’è scrittore americano che non abbia avuto un maestro nelle università, a sua volta scrittore, da James Gardner a Raymond Carver, da Paul Auster a Jay McInerney, e si può ormai dire questo, senza imbarazzanti paragoni, anche di molti autori italiani di recente generazione, nonostante l’insegnamento della scrittura sia praticato in larga parte dagli scrittori al di fuori delle strutture pubbliche, in scuole private o in corsi di formazione scolastici extracurricolari. Adesso, bisognerebbe convincere le università italiane ad assumere gli scrittori: accadrà? Staremo a vedere…

Antonella Cilento

http://www.lalineascritta.it/

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Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte( Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero (Guanda, 2005), Napoli sul mare luccica (Laterza, 2006).

Una lunga notte ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito Ora d’aria. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.

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Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.

Ha realizzato:

per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno"(supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista". Si è laureata nel 1995 in Lettere Moderne con una tesi intitolata La scrittura di Pier Vittorio Tondelli vincitrice presso la Biblioteca Comunale di Correggio del Premio Tondelli 1999.

Ha scritto la sceneggiatura del corto "Il martirio di Sant’Orsola" per la regia di Mario Martone e Sandro Dionisio (Banca Intesa, 2005). E’ presidente dell’ass. cult. Aldebaran Park con la quale organizza convegni, rassegne autoriali, spettacoli.
Ha organizzato vari convegni, conferenze e seminari culturali e letterari.

Per il teatro, scrive:

"Isole senza mare: omaggio ad A.M. Ortese ed Elsa Morante", 1999 in scena al Teatro Leopardi, Napoli, regia di Cristiana Liguori, interpreti Cristiana Liguori e Giorgia Palombi; "Bambini nel tempo" da I. Mc Ewan, 2000 in scena al Mezzoteatro di Napoli, al Teatro Nuovo di Salerno, regia di Paolo Oliveri e Giorgia Palombi, interpreti Paolo Oliveri e Luana Di Sarno; "Il funambolo" omaggio a J. Genet, 2001, Teatro Garage Genova, Galleria Toledo Napoli, Teatro Colosseo Roma, in tournée attualmente, realizzato con la regia di Laura Sicignano da un’idea di Iole Cilento, interpreti Marco Pasquinucci e Massimiliano Caretta). "Frankenstesin Barausz" di Laura Sicignano e A. Cilento, 2002, Teatro Cargo, Genova. "Ho visto Don Chisciotte", regia e ideazione di Giancarlo Cosentino, in scena al Teatro Diana, Napoli, 2003.

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L’OMBRA E LA PENNA (di Antonella Cilento) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/01/21/lombra-e-la-penna-di-antonella-cilento/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/01/21/lombra-e-la-penna-di-antonella-cilento/#comments Sun, 21 Jan 2007 21:45:30 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/01/21/lombra-e-la-penna-di-antonella-cilento/ Ho il piacere di presentarvi una nuova rubrica che sarà gestita da Antonella Cilento: scrittrice, critica letteraria e insegnante di scrittura creativa. Vi dico subito che sono molto onorato di poter ospitare Antonella che considero, tra le scrittrici delle ultime generazioni, una delle più brave. (Massimo Maugeri)

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Antonella Cilento
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Si scrive per inseguire la propria ombra, come racconta Margaret Atwood. Si scrive contro la morte, come dice Rosa Montero.

Scrivere è la più misteriosa delle sorti, ma come ogni destino prevede una pratica e un allenamento. Senza preghiera non c’è devozione. Senza palestra non si arriva al ring. Questo che state per leggere è un piccolo spazio dedicato alla scrittura, che è il mio scopo di vita, e al suo insegnamento, che da quattordici anni pratico come mestiere soprattutto a Napoli, nei corsi de Lalineascritta (www.lalineascritta.it), occasionalmente a Bolzano (www.upad.it Scuola di scrittura Le Scimmie) e poi in scuole, laboratori, librerie di mezz’Italia.

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Antonella Cilento (Napoli, 1970), ha pubblicato Il cielo capovolto (Avagliano, 2000), Una lunga notte( Guanda, 2002), Non è il Paradiso (Sironi, 2003), Neronapoletano (Guanda, 2004), L’amore, quello vero(Guanda, 2005).

Una lunga notte ha vinto il Premio Fiesole e il Premio Viadana, è stato finalista al Premio Greppi e al Premio Vigevano. E’ tradotta in Germania dalla Bertelsmann. E’ stata finalista al Premio Calvino 1998 con il romanzo inedito Ora d’aria. Ha pubblicato numerosi racconti su riviste.

Conduce laboratori di scrittura dal 1993 a Napoli e in Campania, dal 2002 in tutt’Italia.

Ha realizzato:

per Cento Lire, a cura di Lorenzo Pavolini, i racconti radiofonici intitolati "Voci dal silenzio" (RAI, Radio Tre, 15-19 gennaio 2001). Attualmente, collabora con "Il Mattino", "L’Indice dei libri del mese". Dal 1998 al 2000 ha collaborato con il "Corriere del Mezzogiorno"(supplemento del Corriere della Sera), nel 2003 con "Il sole 24 Ore Sud", nel 2005 con "Il Riformista". Si è laureata nel 1995 in Lettere Moderne con una tesi intitolata La scrittura di Pier Vittorio Tondelli vincitrice presso la Biblioteca Comunale di Correggio del Premio Tondelli 1999.

Ha scritto la sceneggiatura del corto "Il martirio di Sant’Orsola" per la regia di Mario Martone e Sandro Dionisio (Banca Intesa, 2005). E’ presidente dell’ass. cult. Aldebaran Park con la quale organizza convegni, rassegne autoriali, spettacoli.
Ha organizzato vari convegni, conferenze e seminari culturali e letterari.

Per il teatro, scrive:

"Isole senza mare: omaggio ad A.M. Ortese ed Elsa Morante", 1999 in scena al Teatro Leopardi, Napoli, regia di Cristiana Liguori, interpreti Cristiana Liguori e Giorgia Palombi; "Bambini nel tempo" da I. Mc Ewan, 2000 in scena al Mezzoteatro di Napoli, al Teatro Nuovo di Salerno, regia di Paolo Oliveri e Giorgia Palombi, interpreti Paolo Oliveri e Luana Di Sarno; "Il funambolo" omaggio a J. Genet, 2001, Teatro Garage Genova, Galleria Toledo Napoli, Teatro Colosseo Roma, in tournée attualmente, realizzato con la regia di Laura Sicignano da un’idea di Iole Cilento, interpreti Marco Pasquinucci e Massimiliano Caretta). "Frankenstesin Barausz" di Laura Sicignano e A. Cilento, 2002, Teatro Cargo, Genova. "Ho visto Don Chisciotte", regia e ideazione di Giancarlo Cosentino, in scena al Teatro Diana, Napoli, 2003.

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