LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » POESIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 DI-VERSI IRREQUIETI: Il volo di Franco Battiato http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/05/18/di-versi-irrequieti-il-volo-di-franco-battiato/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/05/18/di-versi-irrequieti-il-volo-di-franco-battiato/#comments Tue, 18 May 2021 17:00:52 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8798 La nuova puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata a Franco Battiato (che ci ha lasciati oggi, 18 maggio 2021)

* * *

Il volo di Franco Battiato

di Daniela Sessa

All’alba Franco Battiato ha lasciato la vita. Nell’ora in cui la natura si risveglia: il cielo assiste alla fuga del buio e al primo canto e volo degli uccelli. E me lo immagino, Battiato, con la sua esile figura, il naso adunco, le braccia lunghe come ali, il sorriso evanescente e beffardo che si perde nell’infinito. Alla ricerca della sua nuova casa o di una forma diversa.

Volano gli uccelli volano
Nello spazio tra le nuvole
Con le regole assegnate
A questa parte di universo
Al nostro sistema solare

Aprono le ali
Scendono in picchiata, atterrano
Meglio di aeroplani
Cambiano le prospettive al mondo
Voli imprevedibili ed ascese velocissime
Traiettorie impercettibili
Codici di geometria esistenziale

Ha aperto le ali ed è salito in picchiata. La metafisica di Battiato è geometria esistenziale. Se l’universo è il tutto quanto, se è l’infinito che abbraccia il finito, il pensiero e il pentagramma e la parola di Franco Battiato sono quell’abbraccio. Nella sua vicenda di musicista e di poeta, Battiato ha tracciato linee dritte tra il qui e l’altrove.

Questo sentimento popolare
Nasce da meccaniche divine
Un rapimento mistico e sensuale
Mi imprigiona a te.
Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri
Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane
Fare come un eremita
Che rinuncia a sé.

Emanciparmi dall’incubo delle passioni
Cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male
Essere un’immagine divina
Di questa realtà.

La morte come passaggio. La ricerca della Luce come desiderio. La musica come armonia cosmica e intima. Il vertice della sua poesia cosmica

Ne abbiamo attraversate di tempeste
E quante prove antiche e dure
Ed un aiuto chiaro da un’invisibile carezza
Di un custode.
Degna é la vita di colui che é sveglio
Ma ancor di più di chi diventa saggio
E alla Sua gioia poi si ricongiunge
Sia Lode, Lode all’Inviolato.
E quanti personaggi inutili ho indossato
Io e la mia persona quanti ne ha subiti
Arido é l’inferno
Sterile la sua via.
Quanti miracoli, disegni e ispirazioni…
E poi la sofferenza che ti rende cieco
Nelle cadute c’é il perché della Sua Assenza
Le nuvole non possono annientare il Sole
E lo sapeva bene Paganini
Che il diavolo é mancino e subdolo
E suona il violino
.

Il violino che gli insegnò Giusto Pio. Misticismo non ascetismo: farsi carico della vita come sacralità. Ecco perché il sufismo, la corrente mistica che incantò Francesco nel suo viaggio in Medio Oriente e lo incatenò alla lana ruvida del suo saio. La stessa lana che ruota intorno al corpo dei dervisci, che ruotando celebrano l’unione con Dio.

Voglio vederti danzare
Come le zingare del deserto
Con candelabri in testa
O come le balinesi nei giorni di festa

Voglio vederti danzare
Come i Dervisci Tourners
Che girano sulle spine dorsali
O al suono di cavigliere del Katakali

E gira tutt’intorno la stanza
Mentre si danza, danza
E gira tutt’intorno la stanza
Mentre si danza

Gira la stanza, e girano le note. Da questa mattina girano nella testa e nelle orecchie di una generazione che di Battiato ha amato il cinghiale bianco e la paloma, che ha sventolato la bandiera bianca arrendendosi a questa povera patria. Che ha raggiunto la prospettiva Nevski e quel maestro “che ha insegnato l’alba dentro l’imbrunire”: lo svelamento della Bellezza (Arte ed Eterno) che come Battiato l’ha detto solo Dante di Brunetto Latini.

C’è un Battiato che ha viaggiato dentro la musica nobilitando il pop con la sperimentazione elettronica e dentro la musica classica e sinfonica. Un eclettismo cui non sfuggivano i testi in cui l’ironia si condensava nelle immagini evocative e ardite negli accostamenti, fino all’affastellarsi di concetti filosofici. L’incontro con Manlio Sgalambro arricchì un’ispirazione poetica di eco fortemente leopardiana e della poesia francese, senza dimenticare i versi del proemio dell’Iliade impastati a quell’inglese, che non ci servirà il giorno della fine. Sgalambro, Baudelaire e Battiato:

Ti invito al viaggio
In quel paese che ti somiglia tanto
I soli languidi dei suoi cieli annebbiati
Hanno per il mio spirito l’incanto dei tuoi occhi
Quando brillano offuscati
Laggiù tutto è ordine e bellezza
Calma e voluttà
Il mondo s’addormenta in una calda luce
Di giacinto e d’oro
Dormono pigramente i vascelli vagabondi
Arrivati da ogni confine
Per soddisfare i tuoi desideri

Forse laggiù è davvero luce e bellezza, calma e voluttà. Quaggiù oggi resta solo la nostalgia.

Questa piccola rubrica di poesia rende omaggio a Franco Battiato

* * *

[I versi sono tratti nell’ordine da “Gli uccelli”, “E ti vengo a cercare”, “Lode all’Inviolato”. “Voglio vederti danzare”, “Invito al viaggio”]

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DI-VERSI IRREQUIETI: Amelia Rosselli, poeta libellula http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/21/di-versi-irrequieti-amelia-rosselli-poeta-libellula/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/21/di-versi-irrequieti-amelia-rosselli-poeta-libellula/#comments Wed, 21 Apr 2021 06:00:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8768 La nuova puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata ad Amelia Rosselli

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Amelia Rosselli, poeta libellula

di Daniela Sessa

Non ne vogliano i pasdaran della grammatica, se questa rubrica chiama Amelia Rosselli (e lo farà con tutte le altre scrittrici di versi che deciderà di raccontare) poeta e non poetessa. Nella fragile e burbera Amelia la poesia s’accampò come assoluto declinare dell’esistenza. Amelia Rosselli fu un’apolide del verso: lo incarnò nella musica (era una studiosa di musicologia) in un mutuo simbolismo dei metri, lo dispiegò tra i gangli della sua malattia (la diversità del suo stare al mondo tra depressione e schizofrenia fu di-versità), lo rese materico e incorporeo assieme quasi per eludere il destino.  “La libellula” è il poema che la rese celebre e cui affidò la metafora biografica e intellettuale. Libertà ed equilibrio, evocati dal leggendario insetto, sono i due confini entro cui si mosse la vita di Amelia Rosselli. Nata a Parigi nel 1930 da Carlo Rosselli e dall’inglese Marion Cave, Amelia assume su di sé una tragedia familiare (l’assassinio del padre e dello zio Nello per ordine di Mussolini nel 1937) senza una precisa consapevolezza della tragedia politica, assente nelle sue poesie. Il piglio di Montale è anche qui, nel metabolizzare la storia dentro la condizione umana. Le sedute di psicoanalisi, l’identificazione con la madre, l’ingombro forse della figura volitiva della nonna (quell’Amelia Rosselli con cui l’adolescente Moravia tenne un carteggio interessante e da riscoprire), la ricerca del padre negli uomini che volle – Carlo Levi e Renato Guttuso -, l’amicizia imberbe con Rocco Scotellaro, la specularità con Sylvia Plath che ne detta forse anche il suicidio a soli 66 anni. Un movimento sperimentale intorno a se stessa che Amelia Rosselli riprende proprio nell’opera “La libellula”, cominciata nel 1958 e poi inserita in “Scritti ospedalieri” del 1966.  Sperimentale se Amelia Rosselli, prima di abdicare al verso libero, senza poi contrapporvi un verso nuovo né tornare al metro classico, lo adottò nel poema come elemento fisico costruito sulle parole e non sulle sillabe (il cubo teorizzato in “Spazi metrici”) e sull’immagine del giro.

“La libellula (Panegirico della libertà)”

Fluisce tra me e te nel subacqueo un chiarore
che deforma, un chiarore che deforma ogni passata
esperienza e la distorce in un fraseggiare mobile,
distorto, inesperto, espertissimo linguaggio
dell’adolescenza! Difficilissima lingua del povero!
rovente muro del solitario! strappanti intenti
cannibaleschi, oh la serie delle divisioni fuori
del tempo. Dissipa tu se tu vuoi questa debole
vita che non si lagna. Che ci resta. Dissipa
tu il pudore della mia verginità; dissipa tu
la resa del corpo al nemico. Dissipa tu la mia effige,
dissipa il remo che batte sul ramo in disparte.
Dissipa tu se tu vuoi questa dissipata vita dissipa
tu le mie cangianti ragioni, dissipa il numero
troppo elevato di richieste che m’agonizzano:
dissipa l’orrore, sposta l’orrore al bene. Dissipa
tu se tu vuoi questa debole vita che si lagna,
ma io non ti trovo e non so dissiparmi. Dissipa
tu, se tu puoi, se tu sai, se ne hai il tempo
e la voglia, se è il caso, se è possibile, se
non debolmente ti lagni, questa mia vita che
non si lagna. Dissipa tu la montagna che m’impedisce
di vederti o di avanzare; nulla si può dissipare
che già non sia sfiaccato. Dissipa tu se tu
vuoi questa mia debole vita che s’incanta ad
ogni passaggio di debole bellezza; dissipa tu
se tu vuoi questo mio incantarsi, – dissipa tu
se tu vuoi la mia eterna ricerca del bello e
del buono e dei parassiti. Dissipa tu se tu puoi
la mia fanciullaggine; dissipa tu se tu vuoi,
o puoi, il mio incanto di te, che non è finito:
il mio sogno di te che tu devi per forza assecondare,
per diminuire. Dissipa se tu puoi la forza che
mi congiunge a te: dissipa l’orrore che mi ritorna
a te. Lascia che l’ardore si faccia misericordia,
lascia che il coraggio si smonti in minuscole
parti, lascia l’inverno stirarsi importante nelle
sue celle, lascia la primavera portare via il
seme dell’indolenza, lascia l’estate bruciare
violenta e incauta; lascia l’inverno tornare
disfatto e squillante, lascia tutto – ritorna
a me; lascia l’inverno riposare sul suo letto
di fiume secco; lascia tutto, e ritorna alla
notte delicata delle mie mani. Lascia il sapore
della gloria ad altri, lascia l’uragano sfogarsi.
Lascia l’innocenza e ritorna al buio, lascia
l’incontro e ritorna alla luce. Lascia le maniglie
che coprono il sacramento, lascia il ritardo
che rovina il pomeriggio. Lascia, ritorna, paga,
disfa la luce, disfa la notte e l’incontro, lascia
nidi di speranze, e ritorna al buio, lascia credere
che la luce sia un eterno paragone.

Nella poesia lo spostamento della posizione anaforica crea il giro come vortice sonoro ed esistenziale al tempo stesso, esaltato da una punteggiatura immeditata come un singhiozzo dell’anima. Una poesia d’amore dove ancora una volta si sente l’eco del secondo e terzo Montale, quello dell’anguilla e del visiting angel.

E se il mare che
fu quella lontana bestia nascosta mi dicesse
cos’è che fa quel gran ansare, gli risponderei
ma lasciami tranquilla, non ne posso più della
tua lungaggine. Ma lui sa meglio di me quali
sono le virtù dell’uomo. Io gli dico che è più
felice la tarantola nel suo privato giardino,
lui risponde ma tu non sai prendere. Le redini
si staccano se non mi attengo al potere della
razionalità lo so tu lo sai lo sanno alcuni ma
ugualmente la cara tenda degli scontenti a volte
perfora anche i miei sogni. E tu lo sai. E io
lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su
de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia
fattucchiera, e nemmeno io so dove è che debbo
prendere il tram per arricchire i tuoi sogni,
e le mie stelle. Ma tu vedi allora che ho perso
anche io le leggiadre risplendenti capacità di
chi sa fregarsene. Debbo mangiare. Tu devi correre.
Io debbo alzar. Tu devi correre con la coda penzoloni.

Qui le immagini “della tarantola nel suo privato giardino” e dell’insoffribile “lungaggine” del mare sono variazioni musicali camuffate e nello stesso tempo confliggenti stati emotivi: “io non so se io rimo per incanto o per travagliata/pena” scriverà più avanti Amelia Rosselli. Ed è questa una dichiarazione di poetica che tanto dovette piacere a Pier Paolo Pasolini poeta. Pasolini che definì il linguaggio di Rosselli “così potentemente amorfo, così oggettivamente superbo”, Pasolini che ispirò con “Le ceneri di Gramsci” la forma poema di “La libellula”, Pasolini che c’è in questi versi:

E tu sedevi sicuro sul tuo ponte da falegname,
sicuro di ritrovarti nell’infinito. Io ne ho
perso le vie. Tu ancora ti dibatti: io non posso
più ricordare d’esistere. La miscela è troppo
fine: il ricordo è troppo tagliente: l’incastro
è troppo vivido. La luna (ed ora oso vederla)
è troppo triste. La luna pende. Io muoio. Gli
uccelli si dibattono. La malattia non ha diritto
d’esistere. L’uccellaccio ti rincorre. Io vomito.
Io, tu – no. Ed enormi pinete attendono, in riva,
ed enormi flutti di mare; ed enormi stesure di
sabbie, stancate e scoperte, calanti al di fuori
della città che le ricorda. Topo d’inferno, topo
tropicale, topo d’incontentabile seduzione; topo
orizzontale topo sbiancato nella memoria, impadronitosi
delle mie forze. Topo arcigno e spietato. Sapiente
topo; mercato di topi. Lunga notte di topi. Mercato
di topi e di ferramenta. Io sono grande e piccola
insieme: le vostre furie mi toccano e non mi
toccano. La mia malattia è diversa dalla vostra,
il mio santuario non è quello di Cristo, e lo
è anche, forse, se troppo insidia la spada alle
mie spalle.

Come ci sono gli “spasmodici trucchi di radianza” di Sylvia Plath tradotti da Amelia Rosselli (la poesia è Black Rook in Rainy Weather).

La vita poetica di Amelia Rosselli può essere letta in mille modi, come esige un classico della letteratura (per quanto valga – ahimè – ancora la categoria di classico) passando, oltre ai legami con Montale e  Dino Campana,  dalla produzione in lingua francese e inglese che riflette anche la babele linguistica della sua famiglia, alle frequentazioni con il Gruppo ’63 fino a Dario Bellezza, poeta erotico e turbante, cui Rosselli fu legata, nella vita e nella morte e nel destino di poeti trascurati in vita e celebrati dopo la morte.

E sulle loro labbra come per ragazzi ride
la beffa, la noia e l’angoscia. La noia, la beffa!
L’orrendo macinare grano tra spighe smorte

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DI-VERSI IRREQUIETI: Lucio Piccolo – poeta http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/21/di-versi-irrequieti-lucio-piccolo-poeta/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/21/di-versi-irrequieti-lucio-piccolo-poeta/#comments Sun, 21 Mar 2021 09:24:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8742 La prima puntata di “Di-versi irrequieti“, spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine, è dedicata a Lucio Piccolo

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di Daniela Sessa

Il Novecento in poesia è il luogo della rarefazione della parola. L’osso di seppia montaliano non è solo scarnificazione del verbum ma condensa in sé ogni rivolgimento e stravolgimento del rapporto suono e senso, verità e simbolo. La lirica novecentesca fu antilirica e liricissima assieme: sferzò il tempo con parole crude e fissò il tempo nella ungarettiana “quiete accesa”. Un poeta del ‘900 fu Lucio Piccolo. Poeta riservato e coltissimo, relegato in una nicchia fatta di diffidenza verso i suoi spettri e le sue manie, mai davvero entrato nel consesso dei letterati con la maiuscola. Seppure pare lo desiderasse. Di Lucio Piccolo si raccontano la stirpe nobiliare, le ironie del cugino Tomasi di Lampedusa verso quel poeta strambo e filosofo, la passione per lo spiritismo (condiviso con il fratello Casimiro) e per la relatività di Einstein. Lucio Piccolo si rifugiò nel Barocco (Villa Piccolo è assieme scrigno e materia di quella scelta) quando esplodevano le avanguardie e rievocò un crepuscolarismo di ritorno. Lo studio della musica si riversò nei suoi versi come attenzione alle pause e agli inarcamenti, a una sonorità che mai si mischiò con la tradizione del fonosimbolismo. Perché i suoi simboli, arcaici e ancestrali, scaturivano dall’oscurità e così si consegnavano alla pagina.

Dedico la Giornata mondiale alla poesia a Lucio Piccolo. Ecco alcune delle sue liriche. Che come tutte le liriche vanno lette e non spiegate, ascoltate e non analizzate. Ogni esercizio diverso dal viaggio sensoriale, snatura la poesia invece di celebrarla.  Le liriche sono tratte da “Canti barocchi”, la raccolta del 1956 in cui Piccolo voleva “rievocare un mondo siciliano sulla soglia della propria scomparsa…e anime adeguate a questi luoghi” e da “Plumelia” del 1967 la raccolta del viaggio iniziatico, tranne “La notte” tratta da “Gioco a nascondere”

Mobile universo di folate

Mobile universo di folate
di raggi, d’ore senza colore, di perenni
transiti, di sfarzo
di nubi: un attimo ed ecco mutate
splendon le forme, ondeggian millenni.
E l’arco della porta bassa e il gradino liso
di troppi inverni, favola sono nell’improvviso
raggiare del sole di marzo.

Il raggio verde

Da torri e balconi protesi
incontro alle brezze vedemmo
l’ultimo sguardo del sole
farsi cristallo marino
d’abissi… Poi venne la notte
sfiorarono immense ali
di farfalle: senso dell’ombra.
Ma il raggio che sembrò perduto
nel turbinio della terra
accese di verde il profondo
di noi dove canta perenne
una favola, fu voce
che sentimmo nei giorni, fiorì
di selve tremanti il mattino.

Voce umile e perenne

Voce umile e perenne
sommesso cantico
del dolore nei tempi,
che ovunque ci giungi
e ovunque ci tocchi,
la nostra musica è vana
troppo grave, la spezzi;
per te solo vorremmo
il balsamo ignoto, le bende…
ma sono inchiodate
dinnanzi al tuo pianto le braccia
non possiamo che darti
la preghiera e l’angoscia.

La notte

La notte si fa dolce talvolta,
se dalla cerchia oscura
dei monti non leva alito di frescura
perché non sòffochi, ai muri vicini apre corimbo di canti,
sale coi rampicanti pei lunghi archi,
alle terrazze alte, ai pergolati, al traforo
dei mobili rami segna garofani d’oro,
segreti fievoli coglie ai fili d’acqua sui greti
o muove i passi stanchi
dove l’onde buje si frangono ai moli bianchi.
Subito allo schermo dei sogni
soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone…
muove la girandola d’ombre:
sulla soglia, in alto, ogni dove
vacuo vano, andito grande tende a forme,
sguardo che muove le prende,
sguardo che ferma le annulla.
Riverberi d’echi, frantumi, memorie insaziate,
riflusso di vita svanita che trabocca
dall’urna del Tempo, la nemica clessidra che spezza,
è bocca d’aria che cerca bacio, ira,
è mano di vento che vuole carezza.
Alle scale di pietra, al gradino di lavagna,
alla porta che si fende per secchezza
è solo lume l’olio quieto;
spento il rigore dei versetti a poco a poco
il buio è più denso – sembra riposo ma è febbre;
l’ombra pende al segreto
battere d’un immenso
Cuore
di fuoco.

PLUMELIA

L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.

Scirocco

E sovra i monti, lontano sugli orizzonti
è lunga striscia color zafferano:
irrompe la torma moresca dei venti,
d’assalto prende le porte grandi
gli osservatori sui tetti di smalto,
batte alle facciate da mezzogiorno,
agita cortine scarlatte, pennoni sanguigni, aquiloni,
schiarite apre azzurre, cupole, forme sognate,
i pergolati scuote, le tegole vive
ove acqua di sorgive posa in orci iridati,
polloni brucia, di virgulti fra sterpi,
in tromba cangia androni,
piomba su le crescenze incerte
dei giardini, ghermisce le foglie deserte
e i gelsomini puerili – poi vien più mite
batte tamburini; fiocchi nastri…

Ma quando ad occidente chiude l’ale
d’incendio il selvaggio pontificale
e l’ultima gora rossa si sfalda
d’ogni lato sale la notte calda in agguato.

Fu Montale a scoprire Lucio Piccolo.  Vincenzo Consolo lo chiamò il barone magico. Natale Tedesco lo raccontò meglio di chiunque altro quando scrisse che la poesia di Lucio Piccolo era “un sogno ancora caldo della vita, ma che vita non è più”.

* * *

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DI-VERSI IRREQUIETI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/21/di-versi-irrequieti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/21/di-versi-irrequieti/#comments Sun, 21 Mar 2021 09:21:28 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8740

Inauguriamo questo nuovo spazio collegato alla rubrica “POESIA” di Letteratitudine. Si intitola “Di-versi irrequieti” e sarà curato da Daniela Sessa: «la rubrica si intitola così perché vuole raccontare la poesia come forma diversa ossia varia per autori, ispirazione e forme. La poesia è irrequieta come lo sciame di un verso di Montale (il mio poeta preferito) e sarà irrequieta questa rubrica che a volte ospiterà recensioni, a volte versi e basta, a volte darà la parola ai poeti. Seguiteci e siate irrequieti con noi».

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POESIA: Cettina Caliò (Di tu in noi) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/18/poesia-cettina-calio-di-tu-in-noi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/03/18/poesia-cettina-calio-di-tu-in-noi/#comments Thu, 18 Mar 2021 13:30:02 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8738 Nel nuovo appuntamento dello spazio “POESIA” di Letteratitudine ospitiamo Cettina Caliò autrice della silloge “Di tu in noi” (La nave di Teseo)

Ecco le risposte di Cettina Caliò alle domande “ricorrenti” di questa rubrica dedicata alla poesia.

* * *

- Cettina Caliò, chi è poeta?
Il poeta è uno che si fa delle domande, sempre. È uno che vede il lato stanco e incolore di ogni cosa, è uno che vede la meraviglia nel dettaglio e ne fa metafora.

- Poeti si nasce o si diventa?
A monte c’è la necessità del respiro: alcuni nascono col fiato corto, ad altri, il fiato, si accorcia strada facendo. In entrambi i casi diventa essenziale scrivere l’urlo del fiato.

- Cos’è la poesia?
La poesia è una condizione del sentire, come il dolore (è del più forte sentire la più forte figlia, diceva Vittorio Alfieri).

- A cosa serve la poesia?
La poesia non serve, la poesia offre, offre la possibilità di raggiungere se stessi attraverso un comune sentire.

- Che consiglio daresti a chi volesse avvicinarsi alla lettura della poesia?
A chi volesse, direi: lasciatevi leggere dalla poesia. Noi siamo convinti di leggere la poesia, ma è lei che ci legge nella misura in cui ci riconosce e si fa specchio del qui e ora del nostro sentire. La poesia funziona come una canzone: si ascolta, ci si galleggia dentro. Magari si trattiene solo un verso, ed è già tantissimo, perché quel verso diventa compagno, si fa carezza.

- Cosa consiglieresti a un poeta esordiente che ha velleità di pubblicazione?
Direi di leggere moltissimo, di essere severo e selettivo, moltissimo, nei confronti della propria scrittura.

- Parliamo di te. Come nasce il tuo amore per la poesia?
Come quando ci si imbatte in qualcuno e si prova per questo qualcuno una istintiva simpatia, come quando batte il cuore e forse è amore. E a quel qualcuno senti il bisogno di ritornare. Quel qualcuno te lo ripeti, te lo canti in testa.

- Guardando all’intera storia della poesia, quali sono i poeti che consideri come tuoi punti di riferimento?
Probabilmente quelli a cui sento il bisogno di ritornare. Quelli con i quali avrei voluto condividere un bicchiere di vino rosso. Cito qualcuno per affioramento: Alejandra Pizarnik, Wislawa Szymborska, Jaime Sabines, Cesare Pavese, Antonia Pozzi, Paul Celan…

- Quali sono i versi poetici che non ti stancheresti mai di rileggere?
Sono quelli che mi capita spesso di ripetere a memoria, a mo’ di preghiera:
Antonia Pozzi: io non devo scordare che il cielo fu in me.
Francesco Scarabicchi: toglimi da quest’ansia che mi spegne, portami dove sei umido e spine (…) Quest’ora del respiro, questa pena porta con sé per sempre la tua grazia.
Emily Dickinson: Quante mai cose possono venire e quante andare, senza che il mondo finisca. Else Lusker-Schuler: Io so l’inizio – di me di più non so però mi sono sentita singhiozzare nel canto.
Rainer Maria Rilke: Non avere paura, sono io. Non senti che su te m’infrango con tutti i sensi? Julio Cortazar: se mi volto, oh Lot, sei il sale dove la sete mi si rompe a pezzi.
Salvo Basso: Di te con me rimane uno sguardo per sbaglio e un pensiero che non finisce.
Franco Loi: Vòltati per ritornare, che dimenticato ci sono io dietro le spalle per rubarti quel niente del camminare, quel tuo andare via.
Mascha Kaléko: Nostalgia dell’altrove cui non sai sottrarti nostalgia di essere dentro, se sei fuori, di essere fuori, se sei dentro.
Edward E. Cummings: Il tuo cuore lo porto con me. Lo porto nel mio, non me ne divido mai. Dove vado io, vieni anche tu (…) Non temo il fato perché il mio fato sei tu.
Iosif Brodskij: difendo in me il ricordo del tuo volto, così inquietamente vinto.
Milo De Angelis: Dov’eri? Io ero lì, ero nel cortile che fu tutto. Ero lì, inchiodato a un esistere sparito.
Mario Benedetti: qui avvengo e qui mi inganno sommamente.

- Qual è il filo conduttore di questa tua nuova silloge intitolata “Di tu in noi”? E come nasce?
Il filo conduttore è la frattura, il crollo, la vita che ama, perde, dolora… e nasce mentre si muore rimanendo vivi.

- Ti chiedo di scegliere alcuni tra i versi che consideri più rappresentativi di questa tua raccolta e di offrirceli in lettura qui di seguito.

Sulla soglia dell’ora
che non torna e trasparente
mi vive intera

nel forse di ogni passo
a ridosso del silenzio
tu mi parli ovunque

*

Ti lascio
a un esistere altro

recupero le mie ossa
faccio carezza di ogni pensiero
e tanto
l’infinito che sai

*
… a perdifiato
io sto
al riparo di noi

- Per quale motivo hai considerato questi versi come i più rappresentativi della silloge?
Perché sono alcuni fra quelli che mi ripeto più spesso per tenermi compagnia.

- Come immagini il futuro della poesia?
Lo immagino in salita, purtroppo. Per una serie di ragioni. C’è, in questo mondo di fretta, l’incapacità di molti di indugiare sul suono e sul senso delle parole, l’incapacità di lasciarsi incantare da loro, di lasciarsi consolare e innamorare. C’è che la poesia è sostenuta poco e male da chi dovrebbe sostenerla tanto comprendendone il valore. Edgar Lee Masters scriveva: A questa generazione vorrei dire: imparate a memoria qualche verso di verità o bellezza. Vi potrà servire una volta nella vita.

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La scheda della silloge: “Di tu in noi” di Cettina Caliò (La nave di Teseo)

Tre le sezioni di questo testo, in cui la prima si fa antefatto delle due successive: “Quel mio ritornare a te / da tutte le strade / per sottrarci da tanta morte”. Fra le pagine una mappatura dell’anima che è luogo e memoria ? “Ti tengo / nell’entroterra dell’anima / in un respiro di due sillabe”, la vita come frattura in fiore su un muro: “la conseguenza del mattino / uno schianto in due tempi”, e ovunque il frammento dell’esperienza restituito in trama: “nulla sappiamo della mano / che ci regge il giorno / a tremare / fra la memoria e la sete”. C’è un tempo fatto di attimi che sono già ricordo: “faccio ogni cosa / per l’ultima volta”; il respiro scardinato dagli eventi e lo scontro e il confronto con la perdita che si fa crollo: “mi cade addosso / il cielo che fu”. L’esperienza è rimodulata in senso e suono. “Scrivo perché mi aiuta a respirare meglio. Perché ho nostalgia di tutti i momenti in cui mi sono sentita viva”. Così l’autrice conferma lo stile ormai riconoscibile e la cifra della sua ricerca poetica: la capacità di tradurre la quotidianità viva dei giorni restituendo profondità e consistenza alle parole comuni. Attraverso l’indagine lucida, l’essenzialità delle immagini, l’accuratezza dei suoni e la misura del verso, l’autrice riesce a fare delle occasioni della vita metafora assoluta: “di noi stessi erranti / è certo / il destino corroso”.

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Cettina Caliò è nata a Catania nel 1973. Scrive poesia e prosa. Traduce dal francese. Cura libri.
Ha pubblicato: Poesie (1995), L’affanno dei verbi servili (2005), Tra il condizionale e l’indicativo (2007), Sulla cruda pelle (2012), La Forma detenuta (2018), Di Tu in noi (2021).

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ADDIO A FRANCO LOI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/05/addio-a-franco-loi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/05/addio-a-franco-loi/#comments Tue, 05 Jan 2021 08:33:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8672 Nell’ambito delle rubrica di Letteratitudine Poesia” omaggiamo il poeta Franco Loi, scomparso il 4 gennaio 2021 proponendo, in particolare, questo ricordo del poeta Sebastiano Burgaretta (un contributo che abbiamo intitolato: Il giallo dei limoni)

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Franco Loi (Genova, 21 gennaio 1930 – Milano, 4 gennaio 2021) è stato un poeta, scrittore e saggista italiano.

La poetica di Loi, ricca di arcaismi (in particolare dantismi) e neologismi, ha assunto il dialetto meneghino come il crogiolo di un più complesso espressionismo linguistico indirizzato a una libertà espressiva assoluta e a dare voce al proletariato oppresso e sfruttato.

Di seguito: alcuni approfondimenti (dalle principali testate giornalistiche italiane), un video (con una lezione magistrale di Loi alla serata inaugurale di Poesia Festival ‘15) e una biografia del poeta.

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Approfondimenti su: la Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano, RaiNews, Ansa

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Franco Loi nasce a Genova nel 1930 da padre sardo e da madre emiliana. Seguendo il padre ferroviere si trasferisce nel 1937 a Milano dove frequenta gli studi diplomandosi in ragioneria. Successivamente lavorerà come contabile allo scalo merci di Lambrate. In seguito lavora come impiegato allo scalo merci del porto di Genova fino al 1950 per diventare in seguito, nel 1955, incaricato per le relazioni pubbliche presso l’Ufficio pubblicità de La Rinascente e nel 1962 lavora all’Ufficio stampa della casa editrice Arnoldo Mondadori Editore.

Dopo essere stato attivo militante comunista, ha aderito al movimento della nuova sinistra, ma dagli anni settanta ha lasciato sostanzialmente l’attività politica, assumendo posizioni molto personali, con forte accentuazione di una religiosità anarchico-libertaria. La sua prima produzione poetica nacque tutta in una breve stagione, tra il settembre 1965 e l’estate 1974 quasi “sotto dettatura”, così il poeta rievoca quegli anni fondamentali: “scrivevo versi per quattordici ore filate al giorno, mi sono sempre considerato amanuense di Qualcuno”.

Esordisce solo nel 1973 come poeta in dialetto e ha subito un buon successo con l’opera “I cart” edita dall’Edizione Trentadue di Milano e l’anno dopo, 1974, con “Poesie d’amore” edite da Il Ponte. Nel 1975 il poeta dimostra di aver raggiunto la completa maturità di espressione con il poema “Stròlegh”, pubblicato da Einaudi con prefazione di Franco Fortini, di cui una parte aveva già visto la pubblicazione nel secondo “Almanacco Dello Specchio” ricevendo una critica positiva da Dante Isella.

Nel 1978 scrive la raccolta “Teater”, edita da Einaudi e nel 1981 l’opera “L’Angel”, pubblicato a Genova dalle Edizioni San Marco dei Giustiniani e “L’aria de la memoria”, edita da Einaudi che raccoglie tutte le poesie scritte tra il 1973 e il 2002, tra le quali alcune già edite nella raccolta I cart e Poesie d’Amore. Molte altre sono le sue opere, tutte scritte in dialetto milanese, tra le quali “Lünn”, “Liber”, “Umber”, ” El vent”, “Isman”, “Aquabella”, “Pomo del pomo”.

Oltre alle raccolte di poesia Loi ha scritto, nel 2001, un libro di racconti intitolato “L’ampiezza del cielo” e ha pubblicato diversi saggi. Loi è stato vincitore del Premio Bonfiglio per la raccolta Stròlegh, del premio Nonino per Liber e recentemente ha ricevuto il Premio Librex Montale e il Premio Brancati 2008 (sezione poesia) con il libro Voci d’osteria. È stato insignito dalla Provincia di Milano della medaglia d’oro e ha inoltre ricevuto dal Comune di Milano l’Ambrogino d’oro e il “Sigillo Longobardo della Regione Lombardia”.

Contributore di numerose riviste e redattore del Il Sole 24 ore, a dicembre del 2018 rilascia alla rivista Affari Italiani un’intervista dal titolo Mussolini ha fatto più di tutti per gli operai, nella quale riprende la retorica del cosiddetto paradosso democratico, sostenendo che la sua azione in termini mutualistici, assistenziali e previdenziali restò ineguagliata dai politici successivi.

È morto il 4 gennaio 2021 all’età di 90 anni nella sua casa di Milano.

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Temi ricorrenti nelle opere di Loi sono la guerra, la scoperta della presenza del male nella storia, la sensazione di un tradimento perpetrato e di ferite non rimarginabili, l’energia dell’invettiva, il rimpianto di un paradiso perduto, ma anche la costanza dell’invocazione della preghiera. Il titolo della sua raccolta più famosa “Stròlegh” (astrologo), composta in due tempi nell’estate 1970 e nella primavera 1971, rimanda a un sogno a occhi aperti, a una profezia rassicurante.

Il nono passaggio della poesia è dedicato a Piazzale Loreto, luogo fondamentale nell’esperienza di Loi, situata a poche centinaia di metri da dove allora abitava, in Via Casoretto: fu lì che, ancora ragazzino, il 10 agosto 1944, vide quei partigiani uccisi “gettati sul marciapiede come spazzatura”, e nel 1945 i cadaveri di Mussolini e degli altri gerarchi fascisti lì trucidati. I due momenti sembrano confondersi in un’unica scena, che suscita nel poeta rabbia e pietà, elegiaca reminiscenza e angosciosa invettiva. Le ultime raccolte sono caratterizzate da un linguaggio meno incisivo. Alcuni esempi: “Teàter” del 1978, l’”Aria” e l’”Angel” del 1981, l’”Amur del Temp” del 1999.

La poetica di Loi, ricca di arcaismi (in particolare dantismi) e neologismi, è spesso fondata su costruzioni sintattiche anormali, essa è finalizzata a una libertà espressiva assoluta, ma nasce anche in base a una precisa scelta di campo ideologico-politica per dare voce a un proletariato oppresso e sfruttato. Lo stile violentemente espressionistico, scaturisce da una costante mescolanza di registri, dal grottesco al sarcastico al satirico.

“Un milanese parlato a Milano negli anni cinquanta, quando per le immigrazioni, per i precisi cambiamenti di ordine sociale, la lingua non aveva più un suo tessuto fermo, chiuso, ma era completamente aperta, il milanese, in quel momento era una vera e propria lingua, culturalmente aperta a tutte le esperienze”: così Franco Loi definisce il suo dialetto. La lingua usata da Loi è un milanese cittadino, contaminato da apporti dei dialetti rustici, di altre influenze (lombarde e no), di lingue straniere, di latino, e naturalmente di italiano. Loi si avvale di un dialetto intriso di forme colte.

(Fonte: Wikipedia Italia)

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OGGI: ricordando Elena Salibra http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/20/oggi-ricordando-elena-salibra/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/20/oggi-ricordando-elena-salibra/#comments Mon, 20 Jul 2020 15:25:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8542 Nell’ambito delle rubrica di Letteratitudine Poesia” ospitiamo il secondo dei due saggi dedicati a ricordare la poetessa Elena Salibra, firmati dalla professoressa e saggista letteraria Emma Di Rao.

Il primo saggio, incentrato sull’opera Nordiche, la quinta raccolta poetica di Elena Salibra, è disponibile cliccando qui.

In questa sede ci occupiamo del saggio dedicato a oggi.

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Note in margine a oggi

di Emma Di Rao

Il titolo oggi, che Elena Salibra attribuisce al suo ultimo componimento, scritto il 28 novembre 2014,[1] era già apparso in un testo della prima raccolta poetica, Vers.es,[2] testimonianza dell’esigenza costante, nell’autrice, di fissare la dimensione presente per individuarne la rilevanza nel proprio percorso interiore. Il contenuto di quella poesia lascia intravvedere una sorta di arresto  del soggetto lirico, che appare desideroso di quiete e di oblio, ma anche propenso ad affidarsi alla dimensione del sogno, come si evince dai versi: <<Lasciamoci dormire un’altra notte/ nella direzione dei sogni chè/ nella distanza non vadano via>>. Il contesto temporale è quello del tramonto che, allungandosi <<oltre il limite del giorno>>, guida i passi di due figure, l’io lirico e il consueto, silenzioso interlocutore,[3] verso la dimora di campagna che una sbarra chiusa  rende inaccessibile. Nella luce persistente della sera di fine estate, che avvolge e dilata lo spazio oltre i confini del reale, si muovono lievemente  le due presenze, che non percepiamo distinte, ma unite in un intimo ‘noi’ e immerse nella natura sino a fondersi con essa. Le suggestioni che tali immagini lasciano affiorare evocano l’atmosfera dominante  ne La pioggia nel pineto, cui rimanda, peraltro, anche un elemento abbastanza puntuale:<< sui nostri volti bruni>>, variazione minima del dannunziano <<sui nostri volti silvani>>.[4] Dal testo sembra lecito evincere  che l’oggi si identifica con una prospettiva che si colloca al di là della condizione presente, con quella dimensione onirica  in cui si dissolve ogni ostacolo che venga a frapporsi tra l’io e il suo desiderio di evadere in direzione di un ‘oltre’. Ne è prova evidente il ricorrere di termini  quali << limiti>>, << sbarra chiusa>>, <<chiudere di luce>> su cui, tuttavia, finisce per prevalere la <<direzione dei sogni>>, unitamente alla formulazione della speranza che essi <<nella distanza>> non vadano perduti.
imageE proprio in tale visionarietà si rinviene quell’elemento che, affidandosi a diramazioni nascoste e profonde,  salda l’Oggi di ieri con  l’oggi del presente. Se, infatti, ogni componimento della produzione lirica di Elena Salibra si configura come un microcosmo autonomo e in sé compiuto, è pur vero che i vari testi sono connessi da una fitta trama di richiami e corrispondenze che concernono sia l’ambito tematico che quello espressivo. Da qui la ripresa del titolo – con l’unica variante grafica della lettera minuscola – in una composizione che, configurandosi fatalmente come l’ultima, non può non ritenersi di fondamentale importanza. Ancora una volta, ma in una situazione di certo più drammatica, l’io poetante avverte l’esigenza di far confluire l’oggi nel bilancio del proprio itinerario esistenziale  e di analizzarlo con lucida consapevolezza. Il componimento, il cui titolo costituisce la chiave essenziale di lettura, assolve dunque la funzione di suggellare un percorso che, fin dalla raccolta di esordio, aveva rinvenuto nel tempo -così come nello spazio-  la categoria entro cui si snodano le più significative avventure interiori. Nel discorso poetico salibriano, infatti, è frequente la propensione a far riaffiorare il passato,[5] su cui non viene, però, esercitata una mera, sterile nostalgia: il recupero memoriale scaturisce dal desiderio di evocare un luogo, un incontro, un oggetto perché essi svelino, nella distanza temporale, un ulteriore, più riposto significato. In altri casi, anche in virtù di un’innegabile riluttanza nei confronti  del futuro,[6] l’io rimane ancorato alla precarietà del presente che, a causa dell’aggravarsi della malattia, diviene l’unica realtà che si intenda comunicare.
Oppresso da una condizione psicologica di angoscioso smarrimento e da una sofferenza che non logora soltanto il corpo, il soggetto lirico, che sempre più tende a identificarsi con l’io biografico, si volge ad analizzare e interpretare gli esigui e dolorosi segnali provenienti da una quotidianità cui si vorrebbe aderire con le forze residue,  ma che infonde solo un paralizzante senso di incertezza e blocca ogni pur minimo gesto. Nei desolati luoghi ospedalieri, che concorrono a minacciare l’identità, riducendola ad arido numero o insignificante lettera, si avverte l’opaca pesantezza del vivere su cui non è ormai possibile  esercitare  quella ‘doppia visione’ che, in altri contesti poetici, aveva consentito di cogliere significati sottesi   e di avviare un processo di sublimazione del reale. Persino la misurazione del tempo è affidata a un elemento tristemente prosaico, imposto dalle cure mediche, quale il lento  cadere di un liquido instillato attraverso una fleboclisi – come si evince dal cadere ‘alla rovescia’ della goccia – che dovrebbe permettere di <<guarire almeno un poco>>, sebbene l’impegno quotidiano di <<imparare a morire>> risulti, per l’io, la prospettiva forse più veritiera. L’oggi è dunque scandito dalla durata di un ‘protocollo d’intervento’ e impone di vivere in una situazione di sconsolata inerzia, nella quale si può soltanto ricordare il passato più recente, ovvero quei risvegli e quello stato pensoso di veglia durante i quali il malinconico dialogo con ‘l’altro’ – da identificarsi con la ricorrente figura del coniuge dell’autrice-[7]rivela una volontà in procinto di disarmare.
Il disorientamento e la timorosa esitazione del soggetto lirico si traducono in movimenti  irregolari e convulsi, propri di chi non sa collocarsi nè sulla linea del tempo né su quella dello spazio, come suggeriscono i versi: << ti toglie/il respiro ti alzi confusa t’aggiri>>. Vale la pena osservare che l’espressione <<t’aggiri>> rimanda a << ti aggiravi diego>>, incipit del componimento di apertura de la svista, ballando diego.[8] Ascrivibile a una memoria involontaria dell’io poetante o  consapevole raccordo intertestuale, l’<<aggirarsi>> di oggi è segno del mutamento esistenziale nel frattempo intervenuto: non più la vitale danza di chi, come il ballerino madrileno, riempiva di sé lo spazio circostante <<per diramarsi in un esistere proteo, onnipervasivo>>,[9] ma il vano e concitato <<aggirarsi>> di chi appare sospinto verso il basso.[10] In tale ambito il soggetto rimane inesorabilmente confinato, quasi si trattasse dell’unica dimensione ora possibile e dal punto di vista ontologico e dal punto di vista morale. E’ quasi superfluo notare che l’uso del tempo presente,  in <<t’aggiri>>, riconduce le azioni, in modo definitivo,  all’orizzonte breve dell’oggi, imposto dal venir meno di ogni prospettiva di sopravvivenza. Da qui, a nostro avviso, deriva il rifiuto ostinato e  categorico del salire, <<neppure in ascensore>>, che la studiosa M.C. Cabani interpreta come riluttanza  da attribuire al presentimento dell’ultimo viaggio.[11]
Eppure, nella chiusa del componimento, <<leggi il tuo destino/nella punta là in alto dei Climiti>>, si delinea, inaspettato, l’affrancarsi dell’io  dal luogo straniante in cui  la contingenza della malattia lo ha rinchiuso: quell’altezza cui non si credeva di poter aspirare viene raggiunta per mezzo di un percorso del tutto alogico, che sostituisce a uno spazio fisico un luogo squisitamente interiore. Al turbamento avvertito dinanzi al ritmo incalzante del display che, mutando lettere e numeri, governa in modo dispotico la fila dei ‘dannati’, fa infatti da contraltare quella visionarietà che permette di  svelare  un’indeterminata lontananza spaziale. In virtù di una disposizione contemplativa quasi incantata e sospesa, il soggetto lirico è  <<capace>> di proiettare il proprio sguardo ‘oltre’: in lontananza, sulla vetta dei monti Climiti, elemento geografico della città natale, ma anche realtà del tutto smaterializzata, si rinviene la chiave di lettura per interpretare la propria esistenza e concludere una ricerca avviata in passato.
Il tempo, il cui corso  appariva poco prima spezzato dal tragico incalzare degli eventi fino a ridursi in elemento minimo, in << goccia/che cade alla rovescia>> - tale immagine dello stillicidio è presente, con valenza metaforica, anche in un componimento de la svista -[12] ,  sembra assumere una dimensione circolare: riavvolgendosi su se stesso, viene a configurarsi come una linea ininterrotta che cancella ogni soluzione di continuità e riannoda il filo dell’esistenza al punto di origine, ai luoghi, quasi mitici, dell’infanzia e della giovinezza dell’autrice.
Ci sembra significativo notare che la parte di testo racchiusa fra i trattini, come frequentemente si riscontra nella scrittura salibriana, non risulta incidentale o accessoria, ma introduce la voce di ‘un altro sé’ , che appare in grado di osservare da una prospettiva distaccata, quasi opposta a quella che determina l’inquieto aggirarsi dell’io. Rilevante deve considerarsi in <<leggi>> il conservarsi della seconda persona  al di fuori dei trattini, ascrivibile al fatto che è proprio il momentaneo sdoppiarsi dell’io a permettere di ampliarne la prospettiva, legittimando la conquista di una superiore visione. Pertanto, <<leggi il tuo destino>> potrebbe intendersi come l’esortazione che ‘l’altro sé’ rivolge all’io – di cui rappresenta comunque una rifrazione – perché questi rinvenga << nella punta là in lato dei Climiti>> il senso più profondo della sua esistenza.
A una lettura non semplicemente cursoria di oggi non può sfuggire, inoltre, che il termine ‘Climiti’ compariva già nel componimento dal titolo …anche mio:[13]<< ora rifletto sui limiti/della mia carne tra i clivi dei climiti>>, in cui le parole rimanti, <<limiti>> e <<climiti>>, creano un sotteso rapporto di opposizione tra ciò che è noto e finito e ciò che, già allora, appariva misterioso e quasi irreale.
Per quanto concerne l’ambito stilistico, il testo appare caratterizzato, come ogni altro componimento dell’iter poetico di Elena Salibra, da una ricercata cifra espressiva e da un’elevata letterarietà a determinare la quale concorrono non pochi artifici retorici: la presenza dell’allitterazione, come in <<ricordando i risvegli>> e in <<ti alzi…t’aggiri>>; il ricorrere dell’enjambement, come in <<non sono/ capace>>, dove la collocazione di <<capace>> all’inizio del verso conferisce all’aggettivo un particolare rilievo sul piano semantico; la presenza, nel verso finale, del suono della vocale ‘a’ che, tonica in <<là>> e in <<alto>>, suggerisce l’idea di una vastità indefinita. Ed ancora, si osservi che il ripetersi della consonante liquida ‘l’ , nel verso conclusivo, produce effetti di levità e fluida scorrevolezza, che ben assolvono la funzione di esprimere la nuova condizione dell’io. Infine, è innegabile che  la rarefazione dei segni di interpunzione consente alla scrittura lirica di configurarsi come il fluire ininterrotto di un discorso avviato e concluso nell’interiorità.
Del tutto interiore è, infatti, la visione evocata dal termine  ‘Climiti’ che si carica di una intensa suggestione allusiva  e in cui l’uso della lettera maiuscola non è certo da giudicarsi casuale, poichè concorre a evidenziare la funzione svolta, nella vicenda del soggetto,  dal recupero di una dimensione aurorale.
E’stato dunque sufficiente sillabare ‘Climiti’ perché il destino avesse un nome o, meglio, una direzione in cui  potesse compiersi. E’ stato sufficiente sillabare ‘Climiti’  perché si potesse finalmente trovare, al pari della stella marina, la <<giusta posizione>>,[14]
Avrebbe avuto termine, di lì a poco, a causa dell’infausto esito della malattia, la vicenda dell’io biografico, ma prosegue, destinata a oltrepassare l’oggi, la vicenda eterna dell’io lirico.

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NOTE


[1] Il testo è stato di recente pubblicato, con una breve nota introduttiva di V.Manca, in Nella punta là in alto dei Climiti, Quaderno della Fondazione IL Fiore , edizioni Polistampa, 2016.

[2] Oggi, Vers.es, Diabasis 2004, p.37.

[3] Sulla presenza del ‘tu’, come <<necessità di un altro da sé o un altro sé>> , nel discorso poetico salibriano, cfr.  M.C.Cabani, <<Introduzione a il martirio di ortigia>>, Lecce, Manni, 2010, p.8. Al riguardo, si leggano anche le considerazioni espresse da M.Minutelli, in <<Introduzione a Nordiche>>, Soglie, anno XVI,1,2014, pp.53-54.

[4] Sulle reminiscenze dannunziane nella produzione lirica di Elena Salibra ,cfr. M. Santagata, <<Introduzione a sulla via di Genoard>>, Lecce, Manni, 2007, pp.5-6.

[5] Al riguardo, v. M.C. Cabani, << Poesia per l’occhio, poesia per l’orecchio>>, Il Portolano,51/52, 2008, p.46.

[6] Come è stato osservato, << Se c’è una dimensione assente e forse non del tutto pacificata è quella del futuro>>, Ibidem.

[7] Su tale <<indefettibile presenza tutelare>> e sulla funzione che essa svolge nel discorso lirico di E.Salibra si veda M.Minutelli, <<Introduzione a Nordiche>> cit., pp.53-56.

[8] E.Salibra, la svista, Catania, A&B editrice, 2011,p.7.

[9] D. Salvatori, Le prospettive intrecciate: spazi, corpi e presenze ne La Svista, in Nella punta là in alto dei Climiti cit.,p.112.

[10] L’espressione <<t’aggiri>> ricorre anche in <<t’aggiri in dormiveglia/nella stanza. spalanchi/gli scuri della finestra>>, Un colibri, in Nordiche, Stampa 2009,Azzate 2014). In questo caso, l’autrice fa  riferimento all’inquieto aggirarsi del coniuge nell’intimo spazio familiare, dove si consuma tristemente l’attesa di un nuovo giorno.

[11] Al riguardo, si leggano le considerazioni espresse da M.C.Cabani, Le diverse scrivanie: studiosa, docente e poeta, in Nella punta là in alto dei Climiti cit., p.52.

[12]Si leggano i versi:<< fisso la boccia di vetro appesa a fianco/ e piano piano ancora due. una goccia >>, Il salotto, in la svista cit.,p.25.

[13] Da il martirio di ortigia, Lecce, Manni,2010 p.16.

[14] In vena, Nordiche, Stampa 2009, Azzate 2014.

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NORDICHE: ricordando Elena Salibra http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/10/nordiche-ricordando-elena-salibra/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/10/nordiche-ricordando-elena-salibra/#comments Fri, 10 Jul 2020 14:35:24 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8534 Nell’ambito delle rubrica di Letteratitudine Poesia” ospitiamo il primo di due saggi dedicati a ricordare la poetessa Elena Salibra, firmati dalla professoressa e saggista letteraria Emma Di Rao.

Questo primo saggio è incentrato sull’opera Nordiche la quinta raccolta poetica di Elena Salibra

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L’Io di Nordiche: né Ulisse né Tiresia

di Emma Di Rao

L’inscindibile legame che intercorre tra vita e letteratura si rinviene anche in Nordiche[1], la quinta raccolta poetica di Elena Salibra, e ne costituisce il tratto più significativo. Dissimulata, o persino assunta come materia su cui viene esercitata un’ironia sottile ed elegante, la dolorosa contingenza della malattia si configura, infatti, come la prospettiva da cui l’io poetante rappresenta i molteplici aspetti del reale – finanche elementi riconducibili alla quotidianità o dettagli apparentemente insignificanti -, sui quali interviene quella “doppia visione” che consente di rinvenire in essi un significato ulteriore.
L’ambito del vissuto individuale è oltrepassato mediante il dar voce alla ricerca del significato da attribuire alla nostra esistenza, soprattutto quando essa è minacciata dal sopravvenire di circostanze drammatiche. È tuttavia innegabile che l’esperienza del dolore produce una sorta di potenziamento della capacità di vedere e di conoscere il reale, coniugandosi con una straordinaria lucidità. Come nelle raccolte precedenti[2], il discorso lirico non accoglie, però, toni che non siano pacati e sobri, dando luogo a una cifra stilistica che coincide con una scrittura elegante e armoniosa, acquisita dall’italianista siracusana anche in margine ad uno studio rigoroso del patrimonio letterario classico e moderno. Alla resa letteraria e alla creazione di un dettato sempre ricercato -anche quando si fa ricorso a toni volutamente dimessi e colloquiali – contribuisce indubbiamente la memoria poetica che, nell’itinerario lirico salibriano, si manifesta nella fitta trama di reminiscenze mutuate da poeti quali Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, Montale. Si tratta di echi o citazioni che, come è stato a ragione affermato[3], “non fanno macchia” e non sono di ostacolo alla creazione di un linguaggio poetico autonomo. Basti pensare al tema ricorrente del varco, che, pur rimandando innegabilmente a Montale, rappresenta anche un’innovazione rispetto al modello di riferimento. E’ fin troppo noto, infatti, che per il poeta ligure tale immagine si configura come una non comune e imprevedibile possibilità di sfuggire alla prigione della realtà fenomenica[4], come la rivelazione improvvisa di un segreto profondo, celato nella natura[5], da cui l’io lirico rimane escluso e a cui può accedere soltanto la figura femminile[6], quell’interlocutrice che, nelle Occasioni, al pari della Beatrice dantesca, assumerà il ruolo di visiting angel. Nella scrittura poetica di Elena Salibra, il termine varco si connota di una diversa sfumatura: non allude a una casuale ed improvvisa apertura che consenta di sfuggire al non senso della temporalità, ma si correla strettamente alla ricerca costante di un aldilà[7]. Si tratta di una tensione che caratterizza l’intero percorso salibriano[8], ma che in Nordiche assume uno spessore più profondo in virtù della dolorosa vicenda biografica, configurandosi come desiderio di trascendere la dimensione contingente, seppure in una prospettiva del tutto laica.
In alcuni casi, tuttavia, il soggetto lirico non appare deciso nella ricerca di un tunnel di passaggio e finisce per confessare la propria esitazione, come si evince dalla chiusa di Giorno 3, in cui si allude al dissolversi dell’oscurità e a quel sottile, ambiguo confine che separa il sonno dalla veglia:

[…]oggi nel disfarsi
delle tenebre si desta il sonno
alla mia voce…
non sono pronta al varco

image

Se il mistero indecifrabile dell’oltre produce nell’io una sorta di timorosa perplessità[9], è pur vero che non vengono invalidate le possibilità di conoscenza del reale. Dalla quinta raccolta di Elena Salibra si evince infatti la salda fiducia dell’autrice nel mondo sensibile, non ritenuto mai vuota e illusoria parvenza[10], ma realtà oggettiva cui si intende aderire con le forze residue e la cui pienezza si desidera ricomporre, pur in una situazione di estrema precarietà, con la medesima fermezza con cui ci si era prefissi di riparare pazientemente una conchiglia spezzata[11].
A nostro avviso, le reminiscenze montaliane non sono ascrivibili all’intervento di una memoria involontaria: preferiamo ipotizzare che l’autrice ricorra a tale presenza letteraria[12] non tanto perché  si prefigge di caratterizzare come colta la propria poesia quanto perché, con una strategia compositiva riconducibile alla ben nota arte allusiva[13], si propone di inserire riprese e citazioni proprio affinché queste siano riconosciute dal lettore, ma si configurino poi come elementi di uno sviluppo diverso e originale.
Alla memoria letteraria si fa appello anche quando sembra che la pena seguita a un verdetto non generoso debba far prevalere l’esigenza di un’espressione immediata. Al fine di esprimere la dolorosa rinuncia al viaggio – tema al quale si riconduce, nel discorso lirico salibriano, ogni esperienza interiore -, l’io ricorre, infatti, alla figura di Ulisse, in quanto paradigma di una condizione irrimediabilmente perduta. Archetipo dell’uomo perennemente teso alla ricerca di una meta, Ulisse è dunque presente in Nordiche, nell’itinerario estremo di un io che aveva già espresso nelle raccolte precedenti una costante propensione al viaggio, intrapreso in direzione di luoghi che, reali o mitici, si configuravano come l’approdo in cui potesse risolversi ora una perenne sete di conoscenza, ora un mero desiderio di evasione, ora una profonda inquietudine esistenziale.
In una cornice fatalmente mutata, qual è la realtà presente, è lecito solo protendersi verso il passato, come recita l’ultimo verso, scevro però da ogni autocommiserazione, di Mp3:

[…]penso ai miei viaggi…

Relegato in una condizione nella quale non si intravvede alcun orizzonte e in cui il tempo è

da riprogrammare ogni giorno.[14]

e consapevole dell’irrilevanza del prefiggersi una meta nella situazione presente[15], il soggetto lirico non può che accogliere una disposizione d’animo opposta a quella che, in altre circostanze,  si traduceva in un desiderio inestinguibile del viaggio. E’ quanto si coglie nel componimento Lo steccato, il cui incipit

al di qua dello steccato
che ci divideva dal mare

esprime già la difficoltà di aderire alla pienezza vitale che l’immagine del mare suggerisce. Ed ancora si legge:

nuotavo a rana nell’insenatura
se mi perdevi di vista oltre
il limite delle acque
sicure su di me
cadeva la tua scure.
ma non ero ulisse…
quando riprendevo fiato
tornavo nel tuo raggio

A causa di un male che non corrode soltanto il corpo, ma si insinua più profondamente, indebolendo consolidate certezze, l’io si riscopre, in talune situazioni, privo della temerarietà consueta, come quando, temendo di imbattersi in acque non tranquille, preferisce un approdo diverso: far ritorno nel raggio protettivo di chi attende amorevolmente sulla riva.
E’ lecito osservare che la presenza dell’enjambement in oltre/il limite conferisce rilevanza semantica a una dimensione che, sebbene non più accessibile al soggetto lirico, esercita ancora una profonda attrazione[16]. Su di essa, comunque, a causa della situazione dolorosa in cui versa l’io, finisce col prevalere la scelta di un rassicurante limite. Significativo appare, inoltre, lo spazio bianco che, creando una suggestiva pausa di silenzio, contribuisce ad accrescere il potenziale evocativo di oltre, in direzione di un senso ulteriore, veicolato proprio dal non detto.
Nella lapidaria e malinconica affermazione:

ma non ero ulisse…

si esprime, mediante l’antonomasia, l’impossibilità di identificarsi con l’eroe omerico e di aderire agli aspetti sottesi alla sua figura- come il desiderio dell’avventura e l’inarrestabile andare-, ma si esprime soprattutto la rinuncia a varcare i confini abituali dell’esistenza. Risulta dunque evidente che tale personaggio assolve la funzione di porre in risalto una condizione interiore dell’io, ovvero un’opprimente stasi e un arresto improvviso, imposti dal dramma personale.
Un’ulteriore menzione di Ulisse si rinviene ne Il cacciucco :

di fronte al tuo atelier
accanto all’accademia un insolito
ulisse progettava il suo viaggio
prima del naufragio. il mio è
per mare o in aereo- non importa-
purché mi guidi la stella del fondale

Nei versi citati si rinviene non la mancata identificazione del soggetto lirico con l’eroe di Itaca, ma una dimensione inusitata di quest’ultimo. Anche in questo caso è presente l’antonomasia,  che viene, però, attenuata dall’aggettivo insolito, poiché esso lascia intravvedere una corrispondenza al modello non così perfetta da giustificare l’assunzione del nome. L’insolito ulisse è collocato in un contesto che vari elementi, quali,  ad esempio, la menzione dell’accademia e della buca di oscar- quest’ultima offre il pretesto per un ulteriore elenco dei consueti sapori da contrapporre a ben diverse ricette-, inducono a identificare con la città di Livorno, che può aver suggerito l’immagine del viaggio per mare, così come,  in passato, aveva suggerito quella del ritorno con un attracco dolce[17]. La figura che viene rappresentata nell’atto di progettare il suo viaggio prima della catastrofe finale allude, verosimilmente,  all’Ulisse dantesco, exemplum della sete di conoscenza punita con la morte, o all’Ulisse pascoliano, travolto nella fallimentare ricerca di una risposta ai propri interrogativi esistenziali[18]. Risulta comunque evidente la contrapposizione fra chi è in grado di collocarsi sulla linea dello spazio e del tempo, nonostante il possibile esito fallimentare, e l’impossibilità, da parte del soggetto lirico, di fare altrettanto. Per orientare il percorso che si compie nelle strutture profonde della memoria viene evocato un elemento del tutto immateriale: quella stella marina,  attaccata al fondale, di cui si scrive, nel componimento In vena, che essa ha trovato la giusta posizione.

L’amara consapevolezza di non poter ormai disporre del tempo sembra attenuarsi nei versi conclusivi:

[…]ma a crocino a volte
i girasoli si volteranno
verso il sole

L’immagine dei girasoli, in cui si ravvisano tratti umani- come si evince dall’espressione si volteranno-, esprime  infatti uno slancio vitale che, pur attenuato dall’occasionalità dell’evento, configura comunque una promessa di felicità,[19] soprattutto in relazione a quanto recitavano i versi del martirio[20]:

[…] a crocino
i girasoli non ruotano
mai nel sole […]

Si osservi,  tuttavia,  che  il carattere corsivo, con cui tale immagine è resa nel testo, introduce una sorta di voce fuori campo – rifrazione o sdoppiamento dell’io – che, divergendo dal tono desolato di chi constata di non poter più sostare a fes, induce a ipotizzare che l’io riservi ad altri la speranza o che riponga quest’ultima nella mera capacità di ricreare, grazie alla guida infallibile della stella del fondale, la dimensione luminosa del passato.
Ancora una volta, in Off label , viene menzionata la figura di Ulisse:

tra le cartelle spuntava una foto
di te a trent’anni su una spiaggia
del Peloponneso durante
un workshop di logica formale.
leggevo ulysses al sole meridiano
dall’altro capo troia e un vento
di maestrale[…]

E’ una foto casualmente rinvenuta tra le cartelle ospedaliere a restituire l’immagine di una spiaggia del Peloponneso in cui il soggetto lirico appare intento a seguire, durante un’ assorta lettura, il   viaggio del moderno Ulisse nel labirinto della coscienza. Tale nome, unitamente all’atmosfera che avvolge il paesaggio egeo, è sufficiente a richiamare l’immagine della città che fu sconfitta dall’astuzia dell’eroe greco. La menzione di Troia, suggestivamente connessa con l’immagine del vento di maestrale[21] e collocata in una prospettiva spaziale indeterminata, fa indubbiamente  da contraltare alla realtà vissuta.
Lungi dall’assumere i toni di una sterile nostalgia, la memoria si configura dunque come una facoltà in grado di conferire al passato non solo ciò che esso autenticamente conteneva, ma anche quanto una visione dai  contorni sfumati  lascia affiorare,  permettendo così una sorta di ricreazione del passato stesso[22].

E’ quanto si evince dai versi sopra citati, in cui al contesto angusto e desolato di un interno si sovrappone uno spazio dalle linee ampie e luminose, proiezione simbolica di una pacificata condizione interiore dell’io, ma anche della trascorsa età giovanile.
Il dilatarsi dello spazio  si coniuga,  infatti, con l’indicazione di un tempo ben preciso – una foto di te a trent’anni - e di un elemento concreto – durante un workshop di logica formale -, che finiscono, però, con l’assumere i caratteri di una dimensione mitica.
Infine, ancora un mutamento nello spazio in cui si colloca il soggetto lirico: dissoltasi la visione del passato, quando una piena adesione alla vita induceva a lambire con il corpo le alghe del fondale, si profila  di nuovo l’orizzonte breve e limitato dell’oggi, in cui l’unica prospettiva concessa all’io sembra essere quella di rinvenire il senso della propria vicenda personale fra le numerose ricette mediche.
Se il viaggio è negato, è preclusa anche la dimensione temporale entro cui il viaggio si snoda: se non si è più Ulisse, non si è più nemmeno Tiresia. Così , infatti, recita l’incipit di Sapori da evitare:

ma non ero tiresia
quando ti ragguagliai sul mio destino
neanche sibilla che leggeva
tra le foglie[…].

Anche in tali versi si riscontra la figura dell’antonomasia, che esprime il significato fondamentale del testo: svanita quella tregua che sembrava fosse stata concessa dal destino, ci si scopre privi della capacità di formulare qualsiasi ipotesi sul futuro, proprio mentre si tenta di ragguagliare su di esso il proprio interlocutore. L’impossibilità di identificarsi con il celebre indovino dai poteri divinatori è rafforzata dalla seconda antonomasia: neanche sibilla. Proiettato inutilmente verso una nuova estate, il soggetto lirico prende le distanze dalla profetessa che, affidando al vento benevolo i propri responsi non sempre graditi, lasciava spazio alle illusioni degli uomini. Ed ancora, si legge:

ora tiresia non parla più
anzi dopo un po’ si addormenta
e insegue l’acqua del canale che scorre
lieve. dalle chiaviche guizza
un topo poi un altro e un altro ancora.
sono guariti da quel male e aspettano
la stagione propizia

E’ innegabile che l’immagine introdotta nei versi citati assume una valenza allusiva: gli animali che, guariti dal male, guizzano dalle acque putride esemplificano l’insensata casualità che riserva ad essi il privilegio di attendere quella stagione futura da cui l’io è invece escluso. Vi si potrebbe inoltre ravvisare un destino di sofferenza che accomuna leopardianamente tutti gli esseri viventi e che concede solo qualche pausa.
Se non risulta possibile identificarsi con l’eroe di Itaca o con l’indovino tebano, in quale nuovo contesto spaziale e temporale si muoverà allora il soggetto lirico?
E’ noto che nell’undicesimo libro dell’Odissea è rappresentato il colloquio di Ulisse con le anime dell’oltretomba e, in particolare, con Tiresia, cui l’eroe chiede ragguagli sul proprio ritorno in patria e sugli ostacoli da superare. Crediamo  - in virtù di un’ ipotesi suggestiva- che anche in Nordiche i due personaggi omerici interagiscano e riacquistino il significato connesso con la loro figura. Svanita l’euforia ulissidea di nuovi orizzonti, l’io ingloba, infatti,  la memoria dei viaggi passati – fossero stati reali o mentali non importa – e, con rinnovata audacia, si rimette in cammino verso un confine sconosciuto, in direzione di un approdo che ora si ha fretta di raggiungere, forse per concludere una ricerca avviata molto tempo prima. E’ quanto affiora dai versi:
[…]ora
c’ho voglia di andar via… nelle terre
del nord. […] .[23]

Allo stesso modo, è verosimile che, spentasi la voce malinconica di Tiresia, l’io, di nuovo fiducioso nel proprio canto, ponga fine al silenzio, proiettandosi ancora una volta verso il futuro, se è vero che vivere significa dare senso nell’unico modo possibile alla partita già persa in avvio contro la morte affidandosi alla letteratura, che è ricovero dell’unica realtà di cui può farsi artefice l’essere umano, ovvero la memoria…[24].
E’ innegabile infatti che, rispetto alla mutevolezza e alla caducità dell’esistenza, la parola poetica, scelta con rigore e con sapienza, permette di cogliere il reale e di fissarne definitivamente i contorni sfuggenti, esaudendo quell’esigenza di assoluto che avverte chi, come Elena, è in procinto di andar via, oltre le acque malsicure del vivere terreno.
Parola poetica, dunque, come possibilità d’infuturarsi, ma anche come risarcimento dei mali dell’esistenza. E’ forse in essa quel passepartout per l’aldilà di cui fa menzione l’autrice di Nordiche ? A noi che siamo qui finché ci saremo piace immaginarlo.

* * *

NOTE

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[1] Nordiche, Stampa 2009, 2014.

[2] Vers.es, Diabasis 2004; sulla via di Genoard, Manni 2007; il martirio di Ortigia, Manni 2010; la svista, A&B Editrice, 2011.

[3] Cfr. M. Santagata, Introduzione a sulla via di Genoard, pag.5.

[4] Cfr. :[…] una maglia rotta nella rete/che ci stringe […] ( In limine, vv.15-16, da Ossi di seppia).

[5] Cfr. : il punto morto del mondo, l’anello che non tiene ( I limoni, v.28, da Ossi di seppia).

[6] Cfr. :[…]tu balza  fuori, fuggi!/va, per te l’ho pregato, ora la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine…(In limine,vv.16-18, da Ossi di seppia).

[7] Al riguardo, cfr. le considerazioni espresse da M. Minutelli in Introduzione a Nordiche di Elena Salibra, Soglie, aprile 2014, pp.52-53.

[8]Cfr. i versi: che cosa a mente avevamo studiato/per l’aldilà (Per via, da sulla via di Genoard, pag.23), che suonano quasi come una citazione del verso montaliano Avevamo studiato per l’aldilà (Xenia,I,4). Si veda inoltre: c’è un aldilà per i matematici ( ipotesi ,da il martirio di Ortigia,pag.25), ipotesi che la grafia in corsivo consente di attribuire a un altro da sé, mentre il soggetto lirico preferisce declinare l’aldilà come un inferno o un limbo. Malinconiche riflessioni sul mistero di chi nasce/ e muore… inducono l’io, nella chiusa de Il fiume sotterraneo, ad estendere la prospettiva di un aldilà al proprio cane (e penso a un aldilà/per lui…), il cui respiro affannoso, nell’incipit de I sapori, non poteva non alludere al crudele destino che accomuna uomini e animali.

[9] E’ quanto affiora anche dai vv.16-18 de Il fiume sotterraneo ([…] ma non ero/pronta[...] a rispecchiarmi/nell’acqua scura), in cui il soggetto lirico riflette sulla propria riluttanza a specchiarsi nelle acque del fiume Amenano, perché ancora pervaso da la luce di su.

[10] Tale concezione si riscontra nel montaliano Forse un mattino (Ossi di seppia), in cui il poeta esprime il dubbio che il mondo fisico non sia altro che un inganno, un’illusione dei sensi, ma afferma anche di non voler divulgare il suo doloroso segreto agli uomini che non si voltano. Una reminiscenza di tale immagine si coglie nei versi salibriani: non sempre/negli arenili d’alghe le ombre vanno/alla deriva senza voltarsi. (L’appartamento), in cui le ombre non indicano, come nel poeta ligure, gli esseri inconsapevoli di quel nulla che una realtà ingannevole nasconde, ma figure che non si collocano dalla parte dei vivi.

[11] Cfr. i vv. 1-4 de  la conchiglia: mi si è spezzata tre le dita oggi /la conchiglia/che portavo al collo./mi ci provo/ a ricomporla (la svista)

[12] Sulla presenza di citazioni nella poesia salibriana, vedi M. Cristina Cabani, Salibra. Poesia per l’occhio, poesia per l’orecchio, Il Portolano, n.51-52, p.47.

[13] Sull’espressione arte allusiva, cfr. Giorgio Pasquali, in Pagine stravaganti, 2° ediz., Firenze 1968, pp.275-282.

[14] La condanna ( Nordiche).

[15] Lo si evince dai versi di Tragitti: oggi dopo vent’anni/ la meta non importa più.( Nordiche).

[16] Si noti che l’espressione oltre il limite appariva già, assumendo una connotazione di carattere non spaziale, ma temporale, nel verso iniziale di Oggi (Vers.es): Oggi il tramonto s’allunga oltre i limiti/del giorno[…] . In questo caso, nonostante il frequente  ripetersi dell’enjambement nel testo,  esso non è presente fra oltre e i limiti, quasi si volesse evidenziare che tra la dimensione contingente e l’oltre non è avvertita dall’io alcuna scissione, come si evince anche dall’atmosfera di quiete e dal desiderio di oblio che caratterizzano il componimento.

[17] Cfr. : Livorno o uno storno di tempo/ ancora da computare (Per via, da sulla via di Genoard, p.42).

[18] In relazione a L’ultimo viaggio, Poemi Conviviali ( canto XXIII) di G.Pascoli, cfr. E.Salibra, Voci in fuga, Liguori pp.32-33.

[19] Evidente risulta la reminiscenza dei versi montaliani: e mostri tutto il giorno agli ameni specchianti/del cielo l’ansietà del suo volto giallino. (Portami il girasole). E’noto che il girasole si configura, nella poetica montaliana, come simbolo dell’aspirazione a sradicarsi dalla condizione terrena, ma si ritiene anche che la luce illimitata provochi in esso un delirare, come si evince dall’espressione impazzito di luce. Al riguardo, cfr. Angiola Ferraris, Montale e gli Ossi di seppia. Una lettura, Donzelli, 1995,pag.25.

[20] Cfr. : a crocino,vv.2-4.

[21] Non riteniamo superfluo evidenziare il frequente ricorrere, nella scrittura salibriana, dell’immagine del vento: a volte è il caldo vento di scirocco (ora il vento /di scirocco accresce la calura…[L’appartamento]), a volte è un vento ostile  al soggetto lirico (ma un vento contrario mi spingeva/ fuori…[I piatti del giorno]) o, ancora , è il vento di maestrale (tra le foglie portate sulla soglia dal vento di maestrale…[Sapori da evitare]). Elemento dinamico, il vento sortisce l’effetto di produrre un mutamento e di rendere imprevedibile la vita,  fosse anche in senso negativo ( la vita la stessa di un mattino/ d’inverno- imprevedibile/ al vento di maestrale-… [Se imprigioniamo il mare da Vers.es]). Anche nei versi: sentivo/un tempo nuovo che increspava il mare (il secondo lavoro, da la svista) si alludeva al subentrare di un elemento non propizio che sconvolgeva la superficie del mare, metafora dell’esistenza, rendendo non sicura la navigazione. Si osservi che nella poetica montaliana, invece, il vento, anche quando si configuri come soffio vitale e liberatorio, non riesce ad attenuare la condizione di stasi e immobilità del soggetto, imprigionato nel mondo fenomenico. E’ quanto si coglie nel testo liminare degli Ossi di seppia (Godi se il vento ch’entra nel pomario/vi rimena l’ondata della vita, vv.1-2) e in Notizie dall’Amiata (Ritorna più forte/vento di settentrione che rendi care/le catene e suggelli le spore del possibile!,vv. 37-39, dalle Occasioni).

[22] Sull’efficacia della memoria in Nordiche ci limitiamo a citare alcuni esempi: forse riesumando i sudori/nell’afa cittadina qualcosa rimarrà/d’un martirio d’ortigia non goduto/ a pieno (-Alla Matalotta-); […] e incidi la mia ombra/sulla vetrata a piombo con la lima/della memoria […] (L’orchidea); […] lì un tempo-ricordi-ha trovato/la giusta posizione[…] ( In vena). Al riguardo, non si può non rilevare che la memoria, nella scrittura poetica montaliana è, invece, sempre destinata a fallire, configurandosi come morto viluppo (In limine) o riducendosi a poca nebbia (Casa sul mare), cosicchè, nonostante ogni tentativo di far emergere il ricordo, si deforma il passato, si fa vecchio,/appartiene ad un altro…(Cigola la carrucola nel pozzo).

[23] In vena ( Nordiche).

[24] Cfr. Essere o riessere . Conversazione con Gesualdo Bufalino, a cura di Paola Gaglianone e Luciano Tas, Omicron Roma 1996, pag.48.

* * *

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POESIA: L’ALEA di Laura Pugno http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/02/01/poesia-lalea-di-laura-pugno/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/02/01/poesia-lalea-di-laura-pugno/#comments Sat, 01 Feb 2020 09:50:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8395 Il nuovo appuntamento dello spazio POESIA” di Letteratitudine è dedicato alla silloge di Laura Pugno intitolata L’Alea” e pubblicata da Perrone editore.

“Tu-io sei quella che rimane”, inizia così La mente paesaggio di Laura Pugno, pubblicato per la prima volta da Perrone nel 2010, e qui riproposto. Il libro di un’assenza, la linea d’ombra di tutte le vite, con l’io che affiora, una volta sola, in questa voce poetica che dice della natura della coscienza – dove inizia in noi? dove finisce? – e dell’identità. Eppure, a dieci anni di distanza, cambia la parola fine, diventa “tu-isola coperta di bosco”. Ora l’assenza si diffonde e sfuma nella bellezza intorno. È la linea dorata, intrecciata a quella d’ombra, che traccia il secondo poemetto, L’alea, in cui la mente-paesaggio, la mente-corpo, si riunisce al mondo. Un mondo le cui leggi allo stesso tempo ci sfuggono completamente e ci sembrano aver a che fare con noi, con la nostra presenza, il nostro inevitabile osservare ciò che accade e così modificarlo mentre siamo allo stesso tempo osservati, siamo sempre un tu-io.

Laura Pugno è nata a Roma nel 1970. È autrice di poesia, prosa, saggi e testi teatrali. Tra gli ultimi libri, i romanzi La metà di bosco e La ragazza selvaggia, Marsilio 2018 e 2016; il saggio In territorio selvaggio. Corpo, romanzo, comunità, Nottetempo 2018, e la raccolta di poesia I legni, Pordenonelegge/Lietocolle 2018. Ha vinto il Premio Campiello Selezione Letterati, il Frignano per la Narrativa, il Premio Dedalus, il Libro del Mare e il Premio Scrivere Cinema per la sceneggiatura. Collabora con L’Espresso, Elle, e il sito Le parole e le cose 2, ed è tra i curatori della collana di poesia I domani dell’editore Aragno. Dal 2015 dirige l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid (proponiamo un’ampia intervista a Laura Pugno dedicata all’IIC di Madrid).

Di seguito, un’intervista all’autrice.

* * *

L’ALEA: il mondo quantistico, costituito di lampi di luce, dove albergano le parole di Laura Pugno

di Massimo Maugeri

laura Pugno- Cara Laura, partiamo dall’inizio. Come nasce il tuo amore per la poesia?
Nasce nell’infanzia, c’è da sempre. Ho appreso prestissimo la capacità della scrittura, e quindi letteralmente non ho memoria di una me stessa che non scriva, e la forma materiale di questo scrivere è sempre stata la poesia. Ogni altra forma di scrittura che ho praticato – prosa, teatro, sceneggiatura – , e che ho praticato con amore, viene in qualche misura dopo, o accanto. Nel tempo e nello spazio la poesia è prima, è avanti e oltre, per me.

-Sappiamo che il poemetto “L’alea” è stato pubblicato per la prima volta nella collana Zoom di Feltrinelli (e che è stato scritto tra il 2013 e il 2016); mentre “La mente paesaggio” è stato pubblicato per la prima volta nel 2010, da Giulio Perrone Editore, che lo ristampa ora insieme a “L’alea”. Ciò premesso, considerandola nel suo complesso, quale potrebbe essere il principale filo conduttore di questa tua silloge che troviamo adesso in libreria intitolata, per l’appunto, “L’alea”?
L’alea è in un certo senso un tentativo di percezione, e un tentativo di descrizione, di un mondo intorno, in cui il soggetto si muove – anche se non dice io, ed è situato nel tu – e che ci si rivela profondamente altro rispetto alle categorie con cui fino ad ora era stato pensato: un mondo quantistico, costituito di lampi di luce, connesso a se stesso, e a noi, in ogni sua parte. Questa connessione non nega il dolore, la perdita, il lutto come fatti innegabili in una singola vita, ma li iscrive in un orizzonte più ampio: l’orizzonte degli eventi, che è il futuro, “la superficie limite oltre la quale nessun evento può influenzare un osservatore esterno”.
In Vertumno, Iosif Brodskij scrive “In un certo senso non c’è nessuno/nel futuro; in un certo senso/nessuno ci è caro nel futuro”, e anche “Nel futuro il passato non esiste e là/tu non hai nulla da fare”, perché “Il futuro comincia sempre quando qualcuno muore”. (La traduzione è di Serena Vitale, dall’edizione Adelphi). Questo è stato scritto e resta vero. Eppure è un futuro e un presente più vasto, quello che iniziamo a percepire, perché di nuovo sperimentiamo non la sensazione, ma la percezione di farne parte, di fare parte del mondo, di mutare in tutto, di mutare in un tutto. È un cammino che si intravede solo a tratti: per questo va percorso in poesia, perché la poesia è sempre in anticipo.

-Che posto occupa, a tuo avviso, “L’alea”, nell’ambito generale della tua poetica (tenuto conto anche della narrativa)? Che connessioni ci sono con le altre tue opere?
È un libro che riassume un percorso di anni, e che prepara un nuovo movimento, in cui ancora più ci si apre verso il mondo. In qualche modo, L’alea è un libro che “fa il punto”, rendendo anche visibile come i libri stessi in certo modo si riscrivano nel dialogo con i testi successivi, all’interno di una storia poetica. È come se, in certi libri, ci si raccogliesse per poi spiccare un balzo, anche se la traiettoria di questo balzo appare visibile solo dalla prospettiva di un’opera successiva e nuova. Intorno, c’è un’aria di cambiamento. Non sono solo i poeti a respirarla, ma i lettori, le lettrici. Lo stesso contesto in cui scriviamo poesia in Italia oggi è mutato, siamo in una nuova decade, le categorie con cui la poesia è stata pensata fino a ieri in qualche modo non bastano più, si sono assottigliate fino a diventare trasparenti. E anche la sofferenza della narrativa letteraria – non per la qualità delle opere, ma per i meccanismi e modi, possiamo dire, della sua produzione e distribuzione – sta restituendo centralità alla poesia. Non è necessariamente il modo in cui avremmo voluto che la poesia recuperasse centralità, ma è un dato reale. La poesia sopravvive in una estrema economia di mezzi, nella materialità stessa della sua scrittura, nella sua quantità e qualità: non è un’arte resa marginale dal mercato, è un’arte che precede il mercato, che può muoversi al suo interno ma che non lo necessita come precondizione. Esiste prima di ogni società editoriale avanzata, prima di ogni società letteraria. Prima.

-Lavare le parole custodite / in una sacca di pelle, / affilarle di nuovo come strumenti di caccia“. Questi bellissimi versi compaiono sulla copertina del volumetto. Sono versi che celebrano le parole e la necessità di “custodirle”, “lavarle”, “affilarle”. Partendo dalla considerazione che, come accennato, oltre a essere autrice di bellissime poesie scrivi anche ottimi romanzi, ti chiedo: mettendo a confronto poesia e narrativa… la necessità di “custodire”, “lavare”, “affilare” le parole… è del tutto uguale (o ci sono differenze)?
È la stessa, ma la poesia è senza dubbio il luogo della scrittura in cui questa esigenza si esprime al più alto grado. Ci sono dei versi di T.S. Eliot che ho appreso negli anni della mia formazione, e che cito anche nel mio saggio In territorio selvaggio (Nottetempo), che lo dicono perfettamente, quindi li riporto qui:

So here I am, in the middle way, having had twenty years
Twenty years largely wasted, the years of l’entre deux guerres
Trying to learn the use of words, and every attempt
Is a wholly new start, and a different kind of failure
Because one has only learnt to get the better of words
For the thing one no longer has to say, or the way in which
One is no longer disposed to say it. And so each venture
Is a new beginning, a raid on the inarticulate
With shabby equipment always deteriorating
In the general mess of imprecision of feeling,
Undisciplined squads of emotion. And what there is to conquer
By strength and submission, has already been discovered
Once or twice, or several times, by men whom one cannot hope
To emulate – but there is no competition –
There is only the fight to recover what has been lost
And found and lost again and again: and now, under conditions
That seem unpropitious. But perhaps neither gain nor loss.
For us, there is only the trying. The rest is not our business.

Home is where one starts from

E così, eccomi qua, nel mezzo del cammino, dopo vent’anni
Vent’anni in gran parte sciupati, gli anni dell’entre deux guerres
A cercar d’imparare l’uso delle parole, e ogni tentativo
È un rifar tutto da capo, e una specie diversa di fallimento
Perché si è imparato a servirsi bene delle parole
Soltanto per quello che non si ha più da dire, o nel modo in cui
non si è più disposti a dirlo. E così ogni impresa
È un cominciar di nuovo, un’incursione nel vago
Con logori strumenti che peggiorano sempre
Nella gran confusione di sentimenti imprecisi,
Squadre indisciplinate di emozioni. E quello che c’è da conquistare
Con la forza o la sottomissione, è già stato scoperto
Una volta o due, o parecchie volte, da uomini che non si può sperare
di emulare – ma non c’è competizione –
C’è solo la lotta per ricuperare ciò che si è perduto
e trovato e riperduto senza fine: e adesso le circostanze
non sembrano favorevoli. Ma forse non c’è da guadagnare né da perdere.
Per noi, non c’è che tentare. Il resto non ci riguarda.

La casa è il punto da cui si parte

(la traduzione è di Filippo Donini, nella vecchia edizione Garzanti). Ma questo non vuol dire che la prosa non sia allo stesso modo un luogo in cui si fa una lingua. Per me anzi è una condizione della sua leggibilità, della sua praticabilità come prosa, e può essere la lingua più rarefatta, la più apparentemente naturale di tutte, che è il bersaglio a cui tendo.

In che modo “L’alea” influenza la poesia? E in che modo incide sulle nostre vite?
Siamo in un’intermittenza di apertura, di possibilità. Per quanto si lavori sul progetto – ed è qualcosa che ho appreso anch’io, nella storia della mia scrittura, il passaggio dal frammento al progetto – la poesia resta qualcosa di dato, di evocato: siamo noi che evochiamo noi a noi stessi. L’alea è ciò che può accadere, esattamente nel senso del possibile, e porta con sé l’idea di unknown unknown, di ignoto ignoto, contrapposto al known unknown, il noto ignoto: non ciò che sappiamo di non sapere, ma ciò che non sappiamo di non sapere e che fa irruzione in noi, e intorno a noi. Come fa la poesia.

-Ci sono nuovi “progetti poetici” sul tuo orizzonte letterario?
Sono al lavoro su una nuova raccolta, ed è come se avessi iniziato ora a scrivere per la prima volta.  Allo stesso tempo, in questo scrivere si condensano tutte le vite di scrittura che ho attraversato fino ad oggi. Per dire di più, però, è ancora presto.

- Grazie mille, cara Laura. E tanti complimenti per le tue molteplici attività

* * *

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POESIA: MELAMANGIAI di Daniela Matronola http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/08/03/poesia-melamangiai-di-daniela-matronola/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/08/03/poesia-melamangiai-di-daniela-matronola/#comments Fri, 03 Aug 2018 10:33:46 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7894 Il nuovo appuntamento dello spazio “POESIA” di Letteratitudine è dedicato alla raccolta di versi di Daniela Matronola intitolata “Melamangiai” (RP libri)

Di seguito, la recensione di Simona Lo Iacono.

* * *

MELAMANGIAI di Daniela Matronola

di Simona Lo Iacono

Scrivere è sempre uno scandalo. Forse un peccato originale. Come se, cogliendo il frutto proibito nel giardino dell’Eden, Eva avesse immesso nell’eternità non solo il destino dell’uomo, la sua fragilità, la sua finitezza. Ma anche l’ambiguità delle parole.
Prima di tradire, l’uomo non scontava alcuna differenza tra l’essere interiore e quello esteriore. Interagiva con Dio attraverso un linguaggio silenzioso e stupito. Ma quando disobbedisce, la prima cosa di cui si accorge è che è nudo. Che è uomo, e deve coprirsi. E che la parola non è solo relazione, ma anche maschera.
Per farne riaffiorare la purezza, per tornare a darle la perfezione originaria, servono i poeti.
A loro è dato eliminare le scorie del tradimento, scavare, riannodare, ripulire. Nelle loro mani è la ricerca dolorosa di quella prima compattezza tra dentro e fuori. Una compattezza perduta per orgoglio.
Il poeta, allora, in qualche modo è un potente rievocatore di umiltà, perché si fa servitore della primissima vocazione della parola.
Ripara al tradimento, sia pure nel breve lasso di un verso.
Daniela Matronola è quel genere di poeta.
Non a caso la sua raccolta di versi si intitola “Melamangiai” (RP libri), la parola che disse Eva dopo quel primo morso alla mela nel paradiso terrestre.
La sua ricerca è tutta volta a riannodarsi ai valori nascosti dell’essere. Alle motivazioni spirituali e inquiete della scrittura.
Daniela indaga mentre scrive. La poesia le si rivela mentre si fa, mentre si crea. È una tela di ragno, ma è anche il ragno che tesse la tela. È sogno di dormiente, ma anche dormiente che viene sognato.
Come quando dice: “la scrittura si compone per affioramenti, affiora la patologia e affiora la diagnosi”. E quando trova la forza di sospirare: “Sparire nella parola chiede coraggio”.
È sempre l’atto dello scrivere che la forza a farsi domande scomode, che si scontrano contro l’incessante passare delle cose, contro quella loro transitorietà destinata a finire. Perché la parola nata da un atto di verità, sempre alla verità deve tornare.
E allora: “Mi chiedo se tutto questo lasciare indietro sia una regola aurea da sopravvissuti o se sia il cinismo solo un coperchio di metallo…. come si forma, e come si trattiene il ricordo? …In quale punto della terra restiamo nel mondo?”
Daniela ci si addentra, nel mondo, anche se silenziosamente, spiandolo come da una feritoia. Questa feritoia è sempre la poesia. Ed è la poesia a rivelarle, per quel suo antico e regale destino, che la realtà tradisce al pari del morso di Eva. Che tralascia i deboli, disarma i disarmati, sconfigge gli sconfitti.
“Fu assicurata la crescita zero al Mezzogiorno… poco o punto è importato degli orfani”.
È quindi ciò che siamo diventati a tradire, a rinnovare quel primo atto di disubbidienza. Figli del primissimo atto di ribellione, continuiamo a rivoltarci contro la nostra essenza dimenticando la nostra vera eredità. Eravamo nati per essere felici, e quindi per essere semplici.
I poeti allora diventano indispensabili oggi. Gli unici a opporsi veramente a quel primo, e perpetuato, tradimento. Gli unici a resistere e a rimarcare il valore della memoria, il pericolo di smarrire la semplicità.
Risultati immagini per MELAMANGIAI di Daniela MatronolaDaniela lo avverte, lo denuncia, lo grida. La dimenticanza è un allarme, che inghiottirà le cose vere poco per volta, e le farà – le ha già fatte – sparire.
“Sparita la viva voce del mezzadro, col suo racconto dialettale, …sparito il gallo accigliato attento al proprio parco, accostato senza deferenza abbastanza… sparito anche il pane tolto col coltello a fette alte dalla forma cotta al forno a legna… Tutti spariti, tutti scomparsi… maggior sconfitta o guadagno è aver capito che nessun altro avrebbe lottato, con o per te”.
Lottare è quindi dire. Ma dire nella misura alta del poeta vero, che alla apparenza preferisce la sostanza calda del cuore. Alla visibilità, l’invisibilità: “Di te vorresti si dicesse, si nota per l’assenza, non c’è dunque manca”.
Ma Daniela c’è. E c’è nella misura in cui afferma il suo bisogno di esserci, la sua fame di dare un nome alle cose perché vengano ad esistenza: “Della lingua della Legge ho imparato un trucco: tutte le cose dette, le cose nominate, sono tutte indicate perché mancano”.
Con “Melamangiai” Daniela Matronola ci regala un gioiello di rara bellezza. La sua voce. La sua ricerca. Il suo personalissimo atto di riparazione al peccato originale.

* * *

Daniela Matronola, Cassino 1961, lavora alla propria letteratura da molti anni, su quasi tutti i fronti: racconto, romanzo, traduzione, critica, poesia. Prima in Italia (a parte le lezioni milanesi di Giuseppe Pontiggia) ha tenuto corsi sulla poesia italiana a studenti americani alla LUISS, e corsi di scrittura in versi per la scuola di scrittura OMERO. Ha vinto premi per racconti e poesie.

* * *

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POESIA: Mario Baudino (La forza della disabitudine) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/05/20/poesia-mario-baudino-la-forza-della-disabitudine/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/05/20/poesia-mario-baudino-la-forza-della-disabitudine/#comments Sun, 20 May 2018 12:37:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7796 Nel nuovo appuntamento dello spazio “POESIA” di Letteratitudine ospitiamo Mario Baudino autore di La forza della disabitudine (poesie scelte 1980-2018) (Aragno).

Ecco le risposte di Mario alle domande “ricorrenti” di questa rubrica dedicata alla poesia.

[Ne approfittiamo per segnalare questa intervista a Mario Baudino dedicata al suo saggio: "Lei non sa chi sono io" (Bompiani)].

A seguire, un estratto della postfazione di Giovanni Tesio.

* * *

- Mario Baudino, chi è poeta?
Mario BaudinoQuesta è una domanda davvero difficile, caro Massimo. Posso fornire una risposta tautologica: chi scrive poesie. Ed una un po’ più articolata: chi riesce a fare delle propria immaginazione e del linguaggio che gli è stato dato, in cui si trova o che ha scelto, una musica necessaria. Per usare le parole di Heidegger (a proposito di Rilke) è anche qualcuno che “arriva all’abisso”. Mi rendo conto che sono tutte definizioni e, appunto, hanno la debolezza di ogni de-finizione. E’ piuttosto arduo tracciare confini per ciò che è sconfinato, e i poeti appunto di questo tendono a occuparsi.

- Poeti si nasce o si diventa?
Se vale la prima risposta, non c’è dubbio che va scelta la seconda alternativa. Si diventa: la poesia è un genere letterario che ovviamente nasce dalle forme più o meno indistinte, spontanee, di espressione umana, quindi potenzialmente appartiene a tutti. Ma va costruita (o creata) e dunque è il risultato di una elaborazione

- Cos’è la poesia?
In qualche modo credo di avere già risposto. Aggiungo che per me è una modalità di espressione altamente formalizzata.

- A cosa serve la poesia?
A niente. A tutto. «Se abitiamo un lampo, è il cuore dell’eterno» ha scritto René Char.

- Che consiglio daresti a chi volesse avvicinarsi alla lettura della poesia?
Non saprei. Leggere a letto? La poesia più che altri generi letterari chiede una condizione di ascolto, di affidamento totale, di silenzio

- Cosa consiglieresti a un poeta esordiente che ha velleità di pubblicazione?
Di non aver fretta, di frequentare altri poeti, di discutere, di leggere molto e di non farsi troppe illusioni. Anche, non dico soprattutto, di leggersi magari i romanzi di Roberto Bolaño, soprattutto Detective selvaggi. Sono storie di poeti e anche straordinari ritratti del poeta da giovane.

- Parliamo di te. Come nasce il tuo amore per la poesia?
Dal liceo, dalle prime letture. E’ stato  un lungo amore con molti travagli, tradimenti, libertinaggi. Un amore privato

- Guardando all’intera storia della poesia, quali sono i poeti che consideri come tuoi punti di riferimento?
Faccio qualche nome ovvio? Leopardi, va da sé. TS Eliot, soprattutto per La terra desolata, uno dei primi libri che credo d’aver letto e compitato e perfino tradotto. Ariosto, Borges, Mario Luzi. Montale, Foscolo, alla rinfusa. La poesia è disordinata

- Quali sono i versi poetici che non ti stancheresti mai di rileggere?
“«Dammi tu il mio sorso di felicità prima che sia tardi»/
implora, in tutto simile alla mia, una voce bassa/ e fervida lungo i dedali del risveglio risonando”.  (Mario Luzi, Il pensiero fluttuante della felicità)

“Date candidi giorni a lei che sola/ da che più lieti mi fioriano gli anni/ m’arse divina d’immortale amore…” ec ecc ) Foscolo, Le Grazie

“Non so come stremata tu resisti/ in questo lago/ d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse/ ti salva un amuleto che tu tieni/ vicino alla matita delle labbra,/ al piumino, alla lima: un topo bianco/ d’avorio; e così esisti!” (Dora Markus, Montale)

“«O frate», disse, «questi ch’io ti cerno/ col dito», e additò un spirto innanzi, / «fu miglior fabbro del parlar materno”.
(Dante, Purgatorio, Canto XXVI)

“Perché il bello non è/ che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora,/ lo ammiriamo anche tanto, perché esso calmo, sdegna/ distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo”.
Rilke, Elegie Duinesi

- Qual è il filo conduttore di questa tua silloge intitolata “La forza della disabitudine”?
LA FORZA DELLA DISABITUDINETrattandosi di una raccolta che ripropone un certo numero di libri pubblicati negli anni, il filo conduttore è quello di una sorta di autobiografia poetica. Scegliendo e rileggendo i testi, mi sono accorto che non mancano di una certa coerenza

- Ti chiedo di scegliere alcuni tra i versi che consideri più rappresentativi di questa tua raccolta e di offrirceli in lettura qui di seguito…
Preferirei non essere io a scegliere. In ogni caso, sono ancora molto legato all’Aeropoema, il poemetto del 2006. Ti propongo questi versi, che magari fuori contesto suoneranno un po’ enigmatici, ma hanno una loro autonomia

* * *

Disse Venator la prima volta che entrai

nell’aereo sardonico e mi lasciai ingoiare

ero giovane e vidi i boschi di nuvole

contorcersi nella gran luce del giorno

il mio compito era semplice e banale

mai avuti di troppo complicati

strinsi un patto con gli dei dell’ozono

non me ne sono pentito

quegli alberi giganti

nessuno taglierà

piccoli mietitori intriganti

sulle vie dell’aldilà

hanno missioni diverse dalla mia

ognuno la sua, non so quale sia

dove porti e perché, le convenzioni

variano e si assottigliano nel ventre

perduto dei sofismi della mente

viaggiare è poco

forse viaggiare è niente

Disse Venator: dobbiamo essere

più moderni, assolutamente

* * *

- Per quale motivo hai considerato questi versi come i più rappresentativi della silloge?
Non c’è un vero motivo. Sono legato ad essi perché ho trovato nell’Aeropoema una tecnica narrativa che ancora mi pare interessante

- Come immagini il futuro della poesia?
Si parla molto di poesia “pop”, di poesia in rete, di poetry-slam e in qualche caso anche di best seller poetici. Sono convinto che, come diceva il vecchio McLuhan, il mezzo possa essere il messaggio (vero è che non va trascurato un commento, all’epoca, di Flaiano: d’ora in poi leggeremo il postino) e che il modello della rete possa influenzare molto l’idea del fare poetico. Come dicevo prima, però, sono convinto che il linguaggio poetico resti quello più altamente formalizzato e più consapevole della propria tradizione. Il resto mi pare un uso a volte virtuosistico di quella che i formalisti russi definirono a suo tempo la funzione poetica del linguaggio, ovvero il focalizzare l’attenzione del lettore sulle strutture linguistiche di quel che si dice (l’esempio tipico era il celebre slogan “I like Ike” durante la campagna elettorale di Eisenhower, se non ricordo male, o lo slogan fortunatissimo di una campagna pubblicitaria Fiat di qualche anno fa, “you are, we car”): è una parte consistente della comunicazione sociale, non solo nella pubblicità, dai titoli dei giornali ai dialoghi dei film, ai nomi che si danno agli oggetti di consumo. Ma la funzione poetica del linguaggio non è la poesia, che se pure ne condivide vari strumenti tecnici non mi pare aver nulla a che fare – in quanto tale – con essa; esattamente come il signor Bonaventura ricco ormai da far paura, nonostante i versi e la rima, non aveva nulla da spartire con Montale o Caproni. Detto questo, nel nuovo panorama influenzato dalla rete e dalla società dello spettacolo, ci sono sicuramente esperienze individuali di valore. Ma il futuro della poesia intesa come genere letterario altamente formalizzato, ricerca del senso attraverso il linguaggio, esperienza individuale che ingloba il mondo, mi pare destinato a una certa marginalità, a un agire segreto anche se non per questo meno efficace. Credo ancora, come scrisse P. B. Shelley, che i poeti siano i non riconosciuti legislatori del mondo; anche una asserzione del genere va interpretata, nel suo essere sublimemente ambigua – come del resto la poesia.

- Grazie mille, caro Mario. Auguriamo lunga vita a “La forza della disabitudine” e proponiamo, qui di seguito, la parte inziale della bella postfazione di Giovanni Tesio…

* * *

Estratto dalla Postfazione di Giovanni Tesio: Mario Baudino, un viaggio ininterrotto nella “debolezza” dell’amore e della poesia

Il motivo più profondo della poesia di Mario Baudino
è l’amore. L’amore che tutto orienta e tutto
accoglie, nelle sue storiche metamorfosi e nella sua
rinascente avventura d’utopia. L’amore che si consegna
al suo esilio e al suo scacco, o meglio l’amore che
nell’esilio e nello scacco trova la sua unica – assoluta
– forma di inconcussa resistenza utopica.
Della pattuglia “innamorata”, antologizzata da Pontiggia
e da Di Mauro (uscita nel 1978 come risposta al
terrorismo sperimentale della neoavanguardia, comprendendo
autori-guida come Giuseppe Conte e Milo
De Angelis), Baudino si caratterizza per una voce intinta
di raucedine e forse, di quella pattuglia, risulta
essere la presenza non dirò più discreta ma più “distante”
(come può essere distante una musica evocativa,
proveniente da segrete e misteriose percussioni).
Del resto occorre leggere il suo (ormai antico) libro
di saggi, Al fuoco di un altro amore (1986). Da Rougemond
a Barthes, da Lawrence a Miller, dal decisivo
magistero di Luzi alla poesia degli anni Settanta, si
tratta di un notevole e a tratti minuzioso tentativo di
cercare risposte ai nodi di una “storia”: quale rapporto
tra Eros e Amore, tra l’amore e il libro, tra il libro
e la parola, tra la parola e la letteratura? A quale intreccio
sorgivo, originario, può essere ricondotto quel
fuoco che chiamiamo poesia?
Se La parola innamorata tendeva a restituire alla poesia
la seduzione della retorica, restituirle la capacità
di stupore, recuperarne le energie più segrete, ritornando
ai temi dell’amore, del dono, della tenerezza,
della grazia, del mito (e, insomma, ai “valori” maciullati
dall’outrance neoavanguardistica), occorre pur dire
che i saggi scritti nel tempo e raccolti in quel libro
stanno a documentare un allineamento ben temperato,
un bisogno di chiarezza intellettuale, di scavo
dentro il senso di un’avventura che non può – contro
la centralità di un’antica presunzione dell’io – se non
farsi “marginale”.
E basterebbe citare a questo proposito quanto Baudino
scrive nel saggio su Henry Miller, Van Gogh e lo
scrittore immaginato
: “Una crescita marginale, una crescita
che si nutre di tutto ma anche e soprattutto di
tutto ciò che sta tra codice e codice, di ciò che non
è mai ‘centrale’, di ciò che è interstiziale, nascosto,
oscuro eppure preciso e inevitabile”. Come dire, giustappunto,
di quella segreta sinopia, di quella traccia
nascosta che guida la polifonia testuale.
In questo va cercata la sutura tra biografia e poesia,
tra vita e libro, quale sia mai la possibilità che si
dia alla parola esausta di riuscire ancora (e fin dove)
esatta, quantunque – secondo gli indici di una nuova
“debolezza” – mai totalmente esauriente. I confini,
insomma, della sua “probabilità”, della sua possibilità
di dirsi e di dire nell’accoglienza e nell’amore.
Tutto ciò rincorso – attraverso alcune voci vibranti,
ancora e diversamente vibranti – individuando le
ragioni della crisi, percorrendone le stazioni apparentemente
lontane e invece fortemente congiunte
e congiuntive.
Due le direttrici: della vita e della voce. E, tertium
datur
, dell’ascolto (della lettura). Ma il tutto, sempre,
sotto la guida e lungo il tracciato dell’“amore”, di cui
si discorrono le dinamiche e le variabili. Il che significa
quel che resta di una vicenda che nel sentimento
della perdita e nella condizione dell’esilio va alla ricerca
del suo riscatto o quanto meno della sua volontà
di incontro, di ritorno, di rimpatrio.
A tale riguardo diventa spontaneo convocare quanto
ha sottolineato una volta Milo De Angelis (senza
dimenticare i tanti altri riferimenti che Baudino rintraccia,
da Conte a Copioli): “La perdita non riguarda
ciò che da noi si allontana. Riguarda ciò che ci viene
incontro”. O, a proposito di ritorni, ancora: “Scrivere
è andare verso qualcosa che ti esige da sempre e di cui
la poesia ti fa percepire più netta la voce, la chiamata,
la chiamata a giudizio: e devi andare. E puoi solo dire:
eccoti, ti aspettavo!”. Molto altro potendosi citare, mi
fermo tuttavia qui: “È il ritorno, ogni volta, a sospingere
la prima parola, a far sì che noi rispondiamo”.
Non avanguardie, dunque (tanto meno neo), né
crepuscoli (tanto meno tramonti), ma invece – come
nel coevo alpinismo di quella specie di ispiratore che
fu Gian Piero Motti – un “nuovo mattino”, quantunque
poi riesca vano l’eventuale rincorsa a un gioco
(me ne rendo conto, un po’ peregrino) di strette affinità
tra quegli alpinisti del cosiddetto “gruppo selvaggio”
e questi poeti della cosiddetta “parola innamorata”,
per i quali Baudino preferisce parlare di comune
“orizzonte”.

L’esordio poetico (a parte sparse e disiecta membra
apparse su rivista) avviene con Una regina tenera
e stupenda
(1980), in cui a spiccare è la dissimulazione
delle presenze, che non s’accampano se non per
allusione. Tutto è avvolto in sogno, in indecifrabili
accostamenti, in corrispondenze fragili, in frammentate
congiunzioni, in tortuose e fluttuanti identificazioni,
ma anche intrusioni, introiezioni testimoniate
da componimenti come Tarmu o – più flagrantemente
– come Nero di cinema, che Renato Barilli accolse
nella sua antologia “intraverbale”, Viaggio al termine
della parola
, parlando di “coraggio della follia”, che riesce
a valorizzare “una scansione di cocci sillabici”, e
che io sono propenso a pensare piuttosto come infinibaudino.
to e ironico divertimento (una specie di parodica citazione,
un uovo di cuculo deposto in nido altrui…).
Tutt’insieme, un’imprendibile metamorfosi testuale,
che si dà per citazioni e inserzioni (plurime e disparate,
da Foscolo a Freud, da Virgilio a Baudelaire,
da Campanella a Campana, dal vangelo di Matteo a
Dante, da Hölderlin-Scardanelli a Mallarmé, fino
alla sezione delle “dedicate”, che convocano i poeti
affini), continui décalages, cambi di registro, moti di
filastrocca, miti d’ogni dove (dalla Grecia all’Ossezia
all’India), fili e filiazioni sorprendenti, squarci
riflessivi, persino filosofeggianti, sapienziali, suggestioni
(suggerimenti), slittamenti, scorrimenti, fluide
percussioni.
Ma anche più decise prese di posizione, che mi pare
di poter cogliere in un componimento esemplare
come questo, non titolato, interpretabile come sintesi
di una vera e propria descrizione di “poetica”: “La
mia acqua, povera acqua limpida / le mie conchiglie,
sassi / il paziente paguro bernardo / (la nuova difficile
casa) / le chiare incisioni del segno / l’aritmetica
dei rimandi // l’alto, il basso, le metaforiche / strade
per cui si passa, si centra, si / decentra: la mia acqua
variopinta, il mandala / (mi vesto di piume e sonagli,
denti da fiera / per amare di te la terra)”). O subito
dopo, nel componimento successivo: “[…] nasco /
nella definizione di una particolare retorica
/ in cui finisce
ciò che può avere un fine” (il corsivo è mio).
A me pare che davvero qui ci sia tutto: l’acqua come
emblema di liquidità, le conchiglie e i sassi che figurano
come simboli di circoscritta bellezza, il paziente
paguro, che fa la sua casa in simbiosi, le incisioni del
“segno” (ma non del “senso”), la trama dei richiami,
la topologia dei fondamenti, il transito metaforico
(ma anche la nascita a “una particolare retorica”), il
tema della centralità e del decentramento, l’emblema
dell’essenza cosmica (il “mandala”), i travestimenti
del mito e l’amore, ma anche (forse) l’abito del fool.
In tutto riconosco quanto ha osservato Roberto Carifi
introducendo l’antologia Anni ’80, a cura di Luca Cesari
per Jaka Book (1993): “[…] la spinta di un desiderio
che non afferra, non prende e tuttavia dispone
di una pronuncia felice che può riscattare l’angoscia
della mancanza”.

(…)

[Riproduzione riservata]

© Aragano editore

* * *

La scheda del libro

LA FORZA DELLA DISABITUDINEAppartenendo all’attiva pattuglia della «parola innamorata» (avversa a ogni lirica e terroristica outrance), Mario Baudino s’è allevato al «fuoco di un altro amore», come recita il titolo di una sua raccolta di saggi, e ha proseguito nel suo cammino con una coerente e congeniale direzione di «margine», perseguendo ciò che non è mai centrale, ciò che è «interstiziale, nascosto, oscuro» ma ad un tempo «preciso e inevitabile». Dall’esordio poetico di Una regina tenera e stupenda (1980), dove tutto è avvolto in sogno, in indecifrabili accostamenti, in corrispondenze fragili, in frammentate congiunzioni, in tortuose e fluttuanti identificazioni, l’itinerario di Baudino si snoda per stazioni pausatissime, attraverso titoli come Grazie (1988), Colloqui con un vecchio nemico (1999), o al titolo più narrativo di Aeropoema (2006), la cui comunicabilità arriva a manifestarsi nei procedimenti tipici del parlato: zeppe, segnali discorsivi, avvisi d’attenzione, divagazioni, digressioni, ritorni, e persino chiacchiera, verbiage. Per giungere, infine, agli attuali inediti che toccano i mesi e i giorni più recenti. Attraverso continuità e discontinuità di toni, timbri, registri, ma sempre anche attraverso quel filo di raucedine vocale e di stridula – persino ludica – ironia mentale, che si annida nella disposizione prosodica, nelle frizioni sillabiche, nella viandanza ritmica, l’orchestrale pluralità degli esiti acconsente a una sempre maggiore chiarezza di dettato. In questo ormai lungo e non quieto percorso, i testi inediti costituiscono l’ultima prova di una speranza che si attenua, ma anche la documentazione più recente di una lunga fedeltà, mantenendo alla poesia di Baudino – insieme con il primato delle nuvole – il mai smentito privilegio della – per lui – ineludibile sprezzatura.

* * *

Mario Baudino vive a Torino dove fa il giornalista. Oltre alle raccolte di poesia (ha esordito nell’antologia La parola innamorata (1978), e pubblicato Una regina tenera e stupenda, Grazie – premio Montale –, Colloqui con un vecchio nemico – Premio Volterra e premio Brancati –, Aeropoema) è autore di romanzi: In volo per Affari (1994), Il sorriso della Druida (1998), Per amore o per ridere (2008), Lo sguardo della farfalla (2016). Tra i saggi: Al fuoco di un altro amore (1986), Voci di guerra, sette storie d’amore e di coraggio (2002), Il Mito che uccide (2004), Il Gran rifiuto, storie di autori rifiutati dagli editori (1991, 2009), Ne uccide più la penna (2010), dedicato ai detective bibliofili nella letteratura di genere, Lei non sa chi sono io (2017), sulla pseudonimia letteraria.

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INTERVISTA A EUGENIO MONTALE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/04/20/intervista-a-eugenio-montale/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/04/20/intervista-a-eugenio-montale/#comments Fri, 20 Apr 2018 15:13:58 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7766 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine sulla “POESIA” lo dedichiamo a questa breve intervista televisiva (la riportiamo in forma di testo) che Eugenio Montale rilasciò per la rubrica televisiva “Arte & Scienza” del 1959.

Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981),  poeta e scrittore italiano, ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel 1975.

* * *

A PROPOSITO DI POESIA: intervista a Eugenio Montale

- Montale, lei ha scritto che il poeta è colui che coglie la palla al balzo. Può spiegarci il senso di questa frase?
Nel mio caso, e anche nel caso di altri, credo che si tratti di una situazione linguistica. Ci sono delle cose che non possono essere dette che in un determinato tempo e con determinate parole. Colui che si rende conto prima di questo fatto è anche lo stesso che poi realizza qualcosa in questa direzione. Insomma ci sono possibilità da essere prese tempestivamente… diciamo così.

- Lei crede in una distinzione ancora valida tra poesia e prosa, o crede che i due fatti espressivi si vadano via via identificando?
Diciamo che la poesia va diventando certamente sempre più prosastica, ma credo che rimarrà sempre una distinzione dato il carattere più sintetico della poesia.

-Che cosa pensa della frattura tra poesia e pubblico? Esiste cioè un pubblico della poesia?
Forse no. Forse no perché i poeti sono così tanti che formano un pubblico. Escono migliaia di libri di versi all’anno. È probabile che questi poeti siano anche i clienti di se stessi; cioè che comprino essi stessi i libri di poesia. Ma dubito che esista veramente un pubblico per la poesia moderna. Forse esiste più in Italia che altrove.

- Potrebbe indicarci almeno tre opere poetiche di autori contemporanei degni, a suo giudizio, di restare nella storia della nostra poesia?
Io salverei le opere di Ungaretti e le opere di Saba. I critici dicono anche le mie, ma non potrei giudicare il mio caso. Ci sono poi poeti più giovani come Luzi, Sereni, Caproni, Pasolini e altri che sono molto apprezzabili e promettenti.

- Qual è il suo giudizio sulla produzione poetica degli autori delle ultime generazioni?
Se per ultime  generazioni devono intendersi quella posteriore alla mia, direi che si stanno facendo degli sforzi molto interessanti; ma è un po’ presto per giudicare. Gli strumenti stilistici e linguistici ereditati da questi giovani non sono del tutto idonei a una poesia di impegno realistico e sociale diretto. E quindi è probabile che avverrà una certa frattura che potrà durare qualche anno. In sostanza devono rinnovarsi le idee, ma anche gli strumenti.

- E qual è il suo giudizio su Montale pittore?
Dipingendo ho cercato di ritrovare una certa ingenuità che avevo perduto scrivendo versi. Credo di averla trovata. Ecco, mi diverto più a dipingere che a scrivere, ma se insistessi molto forse non mi divertirei più nemmeno a dipingere.

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ENTRO A VOLTE NEL TUO SONNO di Sergio Claudio Perroni http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/01/25/entro-a-volte-nel-tuo-sonno-di-sergio-claudio-perroni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/01/25/entro-a-volte-nel-tuo-sonno-di-sergio-claudio-perroni/#comments Thu, 25 Jan 2018 17:45:25 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7709 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine sulla “POESIA” lo dedichiamo ai testi in “prosa poetica” di Sergio Claudio Perroni contenuti nel suo nuovo libro, che esce proprio oggi (il 25 gennaio): “Entro a volte nel tuo sonno” (La nave di Teseo, 2018 – postfazione di Sandro Veronesi).

Di seguito, una “doppia lettura” a cura di Massimo Maugeri (dove si tenta di raccontare o di “spiegare” il libro) e di Daniela Sessa (dove si diffida dal tentare di raccontare o di “spiegare” il libro).

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La lettura di Massimo Maugeri

Sergio Claudio Perroni è scrittore raffinato ed eccellente traduttore. Nella biblioteca di ogni famiglia, giusto per dirne una, non dovrebbe mancare la sua magnifica traduzione del capolavoro assoluto di John Steinbeck: “Furore. Chi volesse gustarsi la storia di un incontro tratteggiata con delicatezza e maestria invidiabili (e non l’avesse ancora fatto), per dirne un’altra, troverebbe soddisfazione nella lettura del suo recente romanzo: “Il principio della carezza” (La nave di Teseo, 2016 – qui è disponibile il suo Autoracconto d’autore). Prima, però, vecchi e nuovi lettori dei testi di Sergio Claudio Perroni e delle opere da lui tradotte, farebbero bene a procurarsi il nuovo bellissimo libro intitolato “Entro a volte nel tuo sonno” (La nave di Teseo), che si presenta con questo potente esergo: Ama impetuosamente / senti forsennatamente / non c’è altra vita.

Sergio Claudio PerroniC’è amore, dunque, nel nuovo libro di Perroni. E sentore. E vita. E molto, molto altro.
C’è una fitta e ampia geografia del pensiero e dei sentimenti, racchiusa nelle circa 170 pagine di “Entro a volte nel tuo sonno” (titolo, peraltro, dotato di grande intensità espressiva e su cui ci si potrebbe soffermare per vagliarne a fondo il significato. Chi volesse saperne di più è invitato a leggere “Madrigale – Madre io stesso”, a pag. 36).
Come leggiamo sulla bandella del libro, “Entro a volte nel tuo sonno” ci fa esplorare, come in un ideale atlante dell’anima, tutte le variazioni dell’esistenza – tra paure e passioni, volontà e istinti, mancanze e rinascite – per ricomporre i frammenti dei nostri discorsi interiori quotidiani, e donarci le parole esatte per saperli riconoscere e, finalmente, dire“.
Non stiamo parlando di un romanzo, non stiamo parlando di un saggio. Non si tratta nemmeno di una silloge di poesie in senso stretto. In questo libro, Sergio Claudio Perroni sperimenta una forma letteraria “altra” (e alta) che unisce al largo respiro della prosa la profondità della poesia, ponendosi di fronte al lettore come una sorta di specchio su cui riflettere pensieri/parole/emozioni che attraversano la nostra condizione di esseri umani. Ogni pagina di questo libro offre un titolo incisivo e uno sviluppo letterario che si trasforma, a sua volta, in occasione di viaggio fuori e dentro di noi.

Nella  postfazione Sandro Veronesi ci rivela che la sua preferita è “Sapere la strada”. Ci dice che l’ha letta solo cinque o sei volte (“ma metti pure dieci, son sempre poche, perché andrebbe imparata a memoria, da tanto è bella, da tanto è vera“, scrive Veronesi).  E già ripensa – continua Veronesi – a tutto quello che ha letto in vita sua, a tutto quello che ha scritto, e a quel che ha fatto di buono e di cattivo. E già ripensa – sono ancora parole di Veronesi – a tutto quello cui si possa ripensare, di fatto e di non fatto, da lui e da chiunque altro, come al frutto di quell’attimo.
Riporto, a mia volta, il testo di “Sapere la strada” (che qui diventa, dunque, citazione di citazione) per dare ulteriore risalto alle considerazioni appena esposte:

“Ti muovi nel buio e non ti trovi, cammini piano tra le
pareti di casa ma ciò che ti aspettavi non lo tocchi, ciò
che sfiori è inatteso, arriva troppo presto, troppo tardi,
ha spigoli nuovi, profili inauditi, allora cerchi a tentoni
l’interruttore più vicino, accendi un attimo la luce per
orientarti, solo un attimo per non svegliarti del tutto, e
quell’attimo ti basta per individuarti, per riconoscere il
tragitto un istante prima che scompaia, per incidere nella
tua mente la planimetria del buio, e riprendi ad avanzare
con la certezza di ogni passo, di ogni gesto, tra forme di
cui ti fidi, convinto di sapere la strada nell’invisibile, ma
a farti andare avanti è solo il ricordo di quell’attimo, a
guidarti è solo la memoria della luce”.

Un titolo, dicevo. E insieme a ogni titolo, la premessa (e la promessa) di un viaggio. “Entro a volte nel tuo sonno” ci consente di percorrere all’incirca 160 di questi itinerari. Il lettore può intraprenderli in sequenza, o senza rispettare un ordine prestabilito. Sono viaggi intensi che ti lavorano dentro, trasportandoti in una dimensione introspettiva dall’altissima densità letteraria. Sono esperienze di lettura che vanno consumate più volte per poterne beneficiare appieno; perché ogni lettura e ogni rilettura può offrire una percezione diversa, una nuova prospettiva di visione.

Mi incanto di fronte a un titolo: “Il profilo delle parole“. Mi ci soffermo, perché – alla fine – è di parole che stiamo parlando. È un titolo che mi incuriosisce, che m’inchioda. Mi domando: anche le parole, dunque, hanno un profilo? Leggo il testo e inizio il mio viaggio che qui, adesso, voglio condividire:

“Certi giorni cadono senza fare rumore come oggetti su
un panno, come pensieri che rimbalzano sull’acqua, certi
giorni sono uno specchio strabico, ti ci vedi ma non riesci
a riconoscerti, ti ricordi qualcuno ma non pensi di esserlo,
non potresti mai esserlo, hai già smesso di esserlo, certi
giorni la tua forma è un riflesso lontano, un’increspatura
di nebbia che vorrebbe farsi pioggia, muovi la mano ma il
gesto non ti segue, scrivi ma sono solo bucce d’inchiostro
intorno al bianco, parli ma senti solo il profilo delle tue
parole, allora ti agiti, ti sbracci, ti avventi, e la realtà non
reagisce, si lascia attraversare come se non avessi corpo,
si richiude intorno a te come se non avessi volume, certi
giorni sono come persone, ti sfiorano senza vederti, certi
giorni sono come gli anni, passano senza lasciarti esistere”.

Leggo e rileggo. E mi sembra di rivivere l’esperienza descritta da Sandro Veronesi. Non ho dubbi: “Il profilo delle parole” sta parlando di me, sta parlando a me. È uno specchio. È, appunto, il percorso di un viaggio.
Sono grato al profilo delle parole di Sergio Claudio Perroni, agli itinerari che segnano, alle emozioni che suscitano.
E mi ritorna alle orecchie la voce dell’esergo:
Ama impetuosamente / senti forsennatamente / non c’è altra vita.

* * *

La lettura di Daniela Sessa

Mettetelo in musica, recitatelo, danzatelo oppure, al limite, leggetelo solamente ma – per favore – non raccontate o tentate di spiegare “Entro a volte nel tuo sonno”, il nuovo libro di Sergio Claudio Perroni. E quando lo leggerete la seconda volta (la prima volta dovete farlo in silenzio o con un minimo movimento delle labbra o, se credete, degli occhi), fatelo a voce alta e sospirate nei corsivi; scandite con la voce il ritmo delle parole: vi aiuterà, nelle pause, la virgola, unico segno di punteggiatura a far compagnia al punto. Perroni ha composto un’opera per mente e corpo: uno spartito di biscrome, un canovaccio di appunti per rari e sconsigliati stati di veglia, una coreografia di piroette oniriche. Chiedetevi, alla fine,  cos’è questo insieme di prose liriche. Troverete la risposta nel brivido della carne, nelle fughe della mente, nel battito estetico del cuore. Questo libro ha il movimento del mare “che di notte spoglia terra e veste terra”, e nell’istante onnipotente e rapido, in cui la terra aspetta il moto dell’onda, spoglia te, lettore, e ti scopre poco prensile, “fisiologia imperniata su una carenza”, vivo per cauzione, Icaro magrittiano tradito da una mira sbagliata, Ulisse invecchiato e inseguito dalle orme sulla sabbia, uomo incapace e bramoso d’infanzia, un io siamese e clandestino con le spalle voltate agli specchi.  Spoglia e veste te, donna, come credi sia reale solo nei sogni più scabrosi e puri: tu che non resterai “imbaciata” di baci cruciali, madornali, miliari; tu che se ridi sei cielo e panorama se appari, tu pianeta affamato di orbite; tu spiata mentre sogni, tu respirata anche se lasci la stanza; tu che sei la metà fredda del letto nel  “tempo di quando manchi”,  tu che sei “fatta di sole da freddo, di acqua da sete, di cuscino da sonno e labbra soffiate”, tu che fai fischiare all’amore le orecchie, tu che hai “colori ineffabili in pittura”, tu che spalanchi un’enormità d’azzurro addosso a lui che spasima per te, e che se prende un libro ti romanza e se affitta un orizzonte ti paesaggia e se torna bambino si siede accanto nel banco di scuola; tu che rendi una sorpresa lo scindersi del corpo che ti abbraccia, tu che non puoi ancora perdere tempo a leggere parole di forsennato amore e non tornare dall’ovunque che sei.  E sia l’ovunque un sonno, maldestro carceriere dei sogni: brutta gente che bussa alla memoria, i sogni si travestono da passato e rendono incubo il risveglio. “Entro a volte nel tuo sonno” è quel brutto ceffo, fatto della stessa sostanza dei sogni. Se ancora vi ostinerete a non cedere all’impalpabile e a non abbandonarvi alle pagine, potete svegliarvi e dare la caccia allo scrittore. Lo scrittore è quello con una matita con cui sottolinea persone e sguardi e delusioni e illusioni e paure, con fogli con “fior d’orecchie” e note e “snodi di trama” e “certa classe nel trattare i personaggi femminili”, con una gomma che non cancella le “bucce d’inchiostro”. Forse lo scoverete in piazza, come un turista, a guardare il mare con un cannocchiale o lo sorprenderete a scrivere ancora vite e amori e dolori e malinconie, che dei dolori sono la carezza. Magari vi accorgerete di un dettaglio. “Sono un dettaglio feroce”: non vi sembra di sentire quel tipaccio di R. T.Fex? Continuate a leggere: “Sono un’idea scartata”, “Sono lo stupore prima dello schianto”, “Sono un fatto tiranno”. sergio-claudio-perroniL’artificio della scrittura, l’ombra di sé che Perroni, nel suo primo romanzo “Non muore nessuno”, gettò a qualche metro di distanza per sfidare il suo futuro di inventore di storie. R. T.Fex mette da parte il suo empatico cinismo e torna a più di dieci anni di distanza con uno strumento dolcissimo tra le mani: compone madrigali per l’amore lontano e nelle pause dialoga, tra meraviglia e spavento, con le cose del mondo. Ecco dove troverete lo scrittore: inchiodato a quell’ossessione lirica del doppio che inaugurò con quel primo formidabile personaggio. Non c’è pagina dei romanzi di Perroni, non c’è espressione che non celi la propria alterità, la propria ambiguità, il proprio bipolarismo.  Solo che il doppio di Perroni elude la tradizione letteraria di specchi deformanti, di abitanti della notte o del crimine o anche di un redivivo rinnegato. Perroni è più cerebrale e, ancora di più, è architetto della lingua. Lui, il doppio, lo realizza nell’ordito elicoidale del linguaggio e del sé interiore. Un ordito che in “Entro a volte nel tuo sonno” crea un altro doppio, la diafana coppia sonno e sogno. Diafana, appunto. Quindi, non occorre altro che farsi attraversare dal libro ”facendo sogni d’altura, con una nuvola per bussola e la chimera per timone”. Con questo libro occorre fare così: “alzo gli occhi, busso al cielo e apri tu”.

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La scheda del libro

A ogni vita appartengono scorci sulla bellezza assoluta che ciascuno di noi porta dentro di sé, quasi senza accorgersene. Finestre che possono spalancarsi sull’intensità dolente dei sentimenti, sulla leggerezza dei gesti piccoli e delle emozioni più universali, “confessioni del sentire”, come le chiamava Pessoa, che nelle pagine di Sergio Claudio Perroni conoscono la forma potente e delicata di una poesia che scivola nella compattezza di una prosa breve, per tornare sempre all’origine di un ritmo dettato dal vivere, ancor prima che dallo scrivere. Entro a volte nel tuo sonno ci fa esplorare, come in un ideale atlante dell’anima, tutte le variazioni dell’esistenza – tra paure e passioni, volontà e istinti, mancanze e rinascite – per ricomporre i frammenti dei nostri discorsi interiori quotidiani, e donarci le parole esatte per saperli riconoscere e, finalmente, dire.

“ Reinventa quello che tutti abbiamo provato, lo riformula da capo, punto per punto, lemma per lemma – l’amore, la colpa, la tristezza, l’estasi, il vuoto, la tenerezza, la solitudine, la curiosità, l’ispirazione, il rimorso, la malinconia -, come se si trattasse, sì, di salvarlo, questo mondo, di imbarcarlo su un’arca e di salvare dal diluvio questo mondo interiore di tutti noi.” – Dalla postfazione di Sandro Veronesi.

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Sergio Claudio Perroni traduce, scrive, cura libri. Ha pubblicato Non muore nessuno (2007), Raccapriccio. Mostri e scelleratezze della stampa italiana (2007), Leonilde. Storia eccezionale di una donna normale (2010), Nel ventre (2013), Renuntio vobis (2015), Il principio della carezza (2016).

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POESIA: A MARIA ATTANASIO il Premio Internazionale Gradiva-New York 2017 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/10/21/maria-attanasio-premio-gradiva-2017/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/10/21/maria-attanasio-premio-gradiva-2017/#comments Sat, 21 Oct 2017 09:17:45 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7639 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine sulla “POESIA” lo dedichiamo alla poetessa e scrittrice Maria Attanasio che, con la silloge “Blu della cancellazione” (La Vita Felice) si aggiudica il Premio Internazionale Gradiva-New York 2017  (dopo aver vinto il Premio Brancati).

Di seguito, la puntata della trasmissione radiofonica “Letteratitudine in Fm” dove Maria Attanasio conversa con Massimo Maugeri su “Blu della cancellazione” e un video dedicato alla poetessa.

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Il Premio Internazionale Gradiva-New York 2017 è stato assegnato – con voto unanime della Giuria – alla poetessa Maria Attanasio per la silloge “Blu della cancellazione” (La Vita Felice), opera vincitrice del Premio Brancati 2017 (sezione Poesia).

La Cerimonia di premiazione del Gradiva si svolgerà il 26 ottobre 2017 presso la State University of New York, Stony Brook.

LA PUNTATA DI “LETTERATITUDINE IN FM” (con Maria Attanasio in conversazione con Massimo Maugeri) È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO. Nell’ambito della puntata, Maria Attanasio legge due poesie tratte dalla silloge.

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Maria AttanasioBlu della cancellazione” (La Vita Felice) – vincitore del Premio Brancati 2017 (sezione Poesia) e del Premio Internazionale Gradiva-New York 2017

Blu della cancellazione è il libro della piena maturità di Maria Attanasio, quello in cui la musica si fa più fonda come il blu di una notte o di un’acqua che inghiotte tutte le cose non necessarie. È un libro in cui il passato è indistinguibile dal presente perché – come sempre in questa scrittrice che dovrebbe, per passione e sapienza narrativa, scalare le classifiche – riesce a sedimentarsi e crescere sulla parola. Così la bambina, la madre, la guerra, la denuncia dello sfruttamento attuale ma eterno, tutto si legge tra le crepe di un corpo-pietra cretto di fiume secco, ricordo raggrumato.

(dalla Presentazione di Antonella Anedda)

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Maria Attanasio è nata nel 1943 a Caltagirone, dove tuttora vive e lavora. Ha pubblicato le raccolte di poesie Interni (1979), Nero barocco nero (1985), Eros e mente (1996), Amnesia del movimento delle nuvole (2003) e Del rosso e nero verso (2007).
Per la narrativa ha dato alle stampe i romanzi Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile (1994), Di Concetta e le sue donne (1999), Il falsario di Caltagirone (2007) e Il condominio di Via della Notte (2013).
Nel 1998 è uscito il libro di racconti Piccole cronache di un secolo, nel 2008 ha pubblicato Dall’Atlantico agli Appennini, una riscrittura del racconto di De Amicis Dagli Appennini alle Ande e nel 2012 tre prose raccolte nel libro Della città d’argilla.

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POESIA e POETI: OMAGGIO A PIERLUIGI CAPPELLO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/10/03/omaggio-a-pierluigi-cappello/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/10/03/omaggio-a-pierluigi-cappello/#comments Tue, 03 Oct 2017 17:30:19 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7629 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine sulla “POESIA” lo dedichiamo a Pierluigi Cappello, poeta scomparso il 1° ottobre 2017.

Pierluigi Cappello è stato uno dei maggiori poeti italiani. Ha ottenuto importanti riconoscimenti, tra cui i premi: Montale Europa (2004), Bagutta Opera Prima (2007) e Viareggio-Rèpaci (2010). Nel 2012 ha ricevuto il premio Vittorio De Sica sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica e nel 2013 è stato insignito del premio assegnato ogni anno dall’Accademia dei Lincei a personalità che si siano distinte nel mondo della cultura. Nel 2014 ha vinto il premio Terzani.

Di seguito: un video dove Pierluigi Cappello legge due sue poesie a Eraldo Affinati, una nota biografica del poeta, alcuni testi tratti dal suo sito e informazioni sui suoi libri.

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Pierluigi Cappello (Gemona del Friuli, 8 agosto 1967 – Cassacco, 1° ottobre 2017) è stato un poeta italiano. Ha scritto numerose opere in lingua friulana e ha diretto la collana di poesia La barca di Babele, edita a Meduno e fondata da un gruppo di poeti friulani nel 1999.
Ha pubblicato i seguenti libri: “Le nebbie” (1994), “La misura dell’erba” (1998), “Amôrs” (1999), “Dentro Gerico” (2002). Con “Dittico” (Liboà, Dogliani 2004) ha vinto il premio Montale Europa di poesia. “Assetto di volo” (Crocetti, Milano 2006) è stato vincitore dei premi Pisa (2006) e Bagutta Opera Prima (2007). Nel 2008 ha pubblicato la sua prima raccolta di prose e interventi intitolata “Il dio del mare” (Lineadaria, Biella 2008). Nel maggio 2010 pubblica “Mandate a dire all’imperatore” (Crocetti, Milano 2010), col quale vince il premio Viareggio-Repaci.
Nel 2013 Rizzoli pubblica la sua prima opera narrativa: “Questa libertà” ed in contemporanea anche la raccolta di tutte le poesie “Azzurro elementare”. Con “Questa libertà” vince il premio Terzani 2014.
Nel 2014 esce anche un suo nuovo libro, scritto per i bambini: “Ogni goccia balla il tango” (Rizzoli).
Nel 2016 esce un nuovo libro di poesie, “Stato di quiete” (BUR contemporanea, Rizzoli), con prefazione di Jovanotti seguita da una sua nota introduttiva.

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Parole povere


Uno, in piedi, conta gli spiccioli sul palmo
l’altro mette il portafoglio nero
nella tasca di dietro dei pantaloni da lavoro.

Una sarchia la terra magra di un orto in salita
la vestaglia a fiori tenui
la sottoveste che si vede quando si piega.

Uno impugna la motosega
e sa di segatura e stelle.

Uno rompe l’aria con il suo grido
perché un tronco gli ha schiacciato il braccio
ha fatto crack come un grosso ramo quando si è spezzato
e io c’ero, ero piccolino.

Uno cade dalla bicicletta legata
e quando si alza ha la manica della giacca strappata
e prova a rincorrerci.

Uno manda via i bambini e le cornacchie
con il fucile caricato a sale.

Uno pieno di muscoli e macchie sulla canottiera
Isolina portami un caffé, dice.

Uno bussa la mattina di Natale
con una scatola di scarpe sottobraccio
aprite, aprite. È arrivato lo zio, è arrivato
zitto zitto dalla Francia, dice, schiamazzando.

Una esce di casa coprendosi un occhio con il palmo
mentre con l’occhio scoperto piange.

Una ride e ha una grande finestra sui denti davanti
anche l’altra ride, ma non ha né finestre né denti davanti.

Una scrive su un involto da salumiere
sono stufa di stare nel mondo di qua, vado in quello di là.

Uno prepara un cartello
da mettere sulla sua catasta nel bosco
non toccarli fatica a farli, c’è scritto in vernice rossa.

Uno prepara una saponetta al tritolo
da mettere sotto la catasta e il cartello di prima
ma io non l’ho visto.

Una dà un calcio a un gatto
e perde la pantofola nel farlo.

Una perde la testa quando viene la sera
dopo una bottiglia di Vov.

Una ha la gobba grande
e trova sempre le monete per strada.

Uno è stato trovato
una notte freddissima d’inverno
le scarpe nella neve
i disegni della neve sul suo petto.

Uno dice qui la notte viene con le montagne all’improvviso
ma d’inverno è bello quando si confondono
l’alto con il basso, il bianco con il blu.

Uno con parole proprie
mette su lì per lì uno sciopero destinato alla disfatta
voi dicete sempre di livorare
ma non dicete mai di venir a tirar paga
ingegnere, ha detto. Ed è già
il ricordo di un ricordare.

Uno legge Topolino
gli piacciono i film di Tarzan e Stanlio e Ollio
e si è fatto in casa una canoa troppo grande
che non passa per la porta.

Uno l’ho ricordato adesso adesso
in questo fioco di luce premuta dal buio
ma non ricordo che faccia abbia.

Uno mi dice a questo punto bisogna mettere
la parola amen
perché questa sarebbe una preghiera, come l’hai fatta tu.

E io dico che mi piace la parola amen
perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra
e di pietà dentro il silenzio
ma io non la metterei la parola amen
perché non ho nessuna pietà di voi
perché ho soltanto i miei occhi nei vostri
e l’allegria dei vinti e una tristezza grande.

* * *

Assetto di volo

A Gino Lorio, in memoria

Con lui venivano una determinazione feroce
dalla camera alla palestra
i cento metri percorsi in cinque minuti,
con una tensione di motore imballato
tutta la forza del suo corpo spastico
ribellata alla forza di gravità.

Sant’Agostino diceva che perfezione
è la carne che si fa spirito, lo spirito che si fa carne
ma non è vero: ogni mattina i puntali delle stampelle
scivolano metro a metro per guadagnarne cento
ogni mattina lo spirito è tagliato via da quel corpo,
dalle suole strascicanti e dalle nocche strette,
bianche sull’impugnatura,
ogni mattina dal dorso di lottatore
si stacca un collo di tendini tesi e redini allentate
un urlo chiuso nella sua profondità,
perfetto nella sua separazione.

E io vi vedo una bellezza di cimieri abbattuti
e dentro la parola andare la parola compimento
e sono sicuro che lui sogna baci pieni di vento
mentre la volontà conquista le giornate a morsi,
schiaffo dopo schiaffo perché venga la sera
schiaffo dopo schiaffo chiglia in piena bufera.

Ci vuole un’estate piena e un padre calmo,
un dio non assiso in mezzo agli sconfitti
ma così in tutta bellezza lo posso immaginare
come un bambino alle prime pedalate,
reggilo, eccolo, tienilo così – adesso tiene
uniti la terra e il cielo dell’estate
non sbanda più, vince, è in equilibrio,
vola via.

* * *

Gerico

È raro sentire cantare in strada
molto più raro sentire fischiare
o fischiettare
se qualcuno lo fa
l’aria sembra fargli spazio
ti sembra che un refolo muova
la flora dei tuoi pensieri
ti metta dove prima non eri;
ma come passa chi fischia
la noia stende le vertebre al sole
e tu rientri dov’eri
dietro il douglas dei serramenti
dentro il livore
degli appartamenti
al tango delle dita sul tavolo ti chiedi
da quali trombe scosse
scrollate le mura
per quali brecce potremo vedere
- fresca -
come un sogno appena sbucciato
la terra che calpesteremo, allegri.

* * *

I LIBRI

Stato di quiete. Poesie 2010-2016
“È questo che mi interessa dello stato di quiete: mi vengono in mente le bottiglie di Morandi, stanno lì, composte, allineate o sparse nella loro rarefazione, ma quanto fermento c’è dentro quell’immobilità? O quanta energia potenziale c’è nei corpi fermi di Hopper? Come se fossero colti prima o dopo un diluvio, prima o dopo un evento tragico o sacro.” L’essenza di questa nuova raccolta di poesie è racchiusa qui, nelle parole del poeta: in sei anni di quiete apparente, e apparente silenzio, dal tumulto interiore sono nate trenta poesie, lavorate al cesello e levigate da un vento costante e tenace. Un viaggio attraverso momenti che si fanno eterni, dove i ricordi diventano istantanee lucide e il futuro appare presente e imperativo: con la vividezza della sua voce, Cappello compone una raccolta che si fa “fune lanciata nell’ignoto e nel tempo.”

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Azzurro elementare. Poesie 1992-2010
“È densa di echi letterari, ma arriva al cuore con l’immediata intensità del quotidiano. È contemporanea ma disarmante nel suo nucleo atemporale. La poesia di Pierluigi Cappello, la cui opera è qui finalmente riunita, ha incantato i lettori più diversi, dal premio Pulitzer Jorie Graham – che ha confessato di essere rimasta stregata dall’incontro con i suoi libri e di volerli tradurre in inglese – a Jovanotti, che ne tweetta i versi per i fan. Tullio Avoledo è certo che “la poesia di Cappello parlerà di noi molto dopo che ce ne saremo andati” e Francesca Archibugi, autrice di un film sul poeta friulano, dice di lui che “ti risveglia e diventa un amico interiore”. Le sue parole ci svelano il nostro mondo, e leggerle è una rivelazione che scalfisce ogni certezza.” Con una prefazione di Francesca Archibugi

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Questa libertà
“Ci sono parole senza corpo e parole con il corpo. Libertà è una parola senza corpo. Come anima. Come amore. Parenti dell’aria e quanto l’aria senza confini definiti, hanno bisogno di qualcuno che presti loro la sua carne, il suo sangue e i suoi limiti perché diventino concrete. In questo libro è raccontata la storia di come una libertà, la mia, sia germinata dai luoghi vissuti da bambino e poi abbia preso il volo dal mio incontro con la lettura. Così queste pagine, nei mesi, sono diventate un’ossessione, la scrittura mi ha torto il collo e ha costretto il mio sguardo nei luoghi felici dell’infanzia o a muovere i miei passi dentro dolori intensi che pensavo di avere rimosso. Mentre ero in ospedale, tanti anni fa, con lo sguardo ostruito dalle sponde di un letto, il dolore stava accucciato in attesa di un nuovo sforzo, pronto ad aggredire. E tuttavia, col tempo, il letto si è trasformato in un tappeto volante, un luogo in cui per un po’ ci si sottrae al mormorio del quotidiano e si vedono le cose da lontano e dall’alto. Da lassù gli anni scorrono via dalle nostre vene, si concede una tregua al corpo e il pensiero si libera del superfluo che ingombra la giornata. Ho concepito e scritto diverse poesie adagiato a letto. Non ci vuole molto: una matita, un taccuino e il mondo che si raduna intorno a te, e lascia i suoi segni sulla pagina da scrivere come baci sulla pelle di un’amata. Così possiamo darci alla sostanza tiepida dei sogni…” (Pierluigi Cappello)

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Notizie su altri libri di Pierluigi Cappello sono disponibili qui

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POESIA: Valentino Zeichen (Le poesie più belle) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/08/04/poesia-e-poeti-valentino-zeichen-le-poesie-piu-belle/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/08/04/poesia-e-poeti-valentino-zeichen-le-poesie-piu-belle/#comments Fri, 04 Aug 2017 14:00:34 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7594 Il nuovo appuntamento dello spazio “POESIA” di Letteratitudine lo dedichiamo a Valentino Zeichen (Fiume, 24 marzo 1938 – Roma, 5 luglio 2016) in occasione della pubblicazione del volume “Le poesie più belle” di Valentino Zeichen (Fazi editore).

Di seguito, alcune poesie estratte dal volume (per gentile concessione dell’editore).

* * *


Estratti da Le poesie più belle, Valentino Zeichen

L’amante della poesia

Col proposito di disciplinare

la vita stampata che

assai più della vera, recalcitra

apparecchio il letto

che per gioco somiglia

alla tavola d’un banchetto

con prelibate pietanze:

ritagli di giornali con elogiative

recensioni ai miei libri.

Il piatto forte consiste

in mie foto a colori

pubblicate su riviste: profili,

mezzibusti, l’interafigura!

Giunge l’amante della poesia

evita gli approcci fisici

e s’inginocchia radendo

con le labbra i miei ritratti.

La sua foga fa ben sperare

ma nondimeno m’allarma;

osservo le carte gualcirsi

le teste spiegazzate,

sciupate dal passionale trapestio.

Ora l’amante della poesia rivolge

le sue attenzioni all’originale

ma, la vedo come interdetta

poiché non mostra di saper distinguere

fra me e le copie cartacee.

* * *

A Evelina, mia madre

Dove saranno finiti

la veduta marina,

il secchiello e la paletta,

e i granelli di sabbia

che l’istantaneo prodigio

tramutò in attimi fuggenti,

travasandoli dal nulla

in un altro nulla?

Dove sarà finito l’ovale

di mia madre

che fu il suo volto e

che il tempo ha reso medaglia?

Perché non mi sfiora più

con le sue labbra,

dove sarà volato quel soffio

che raffreddava la

mia minestrina?

Dove le impronte di quel

lesto e disordinato

sparire delle cose?

In quale prigione di numeri

è rinchiuso il tempo?

Rispondimi! Dolore sapiente,

autorità senza voce.

* * *

Artisti

Più che la poesia e le subdole manovre

degli addetti alle poetiche

per spartirsele, io amo

fare vita d’artista.

* * *

Poesia

Si dice che la poesia

manchi di vero slancio,

che non sappia più volare

poiché non più sorretta

dai grandi angeli alati.

Che farci? È un mondo

di poeti atei che volano

preferibilmente in aereo.

* * *

(Riproduzione riservata)

© Fazi editore

* * *

Dalla “scheda del libro

«Presso tutti gli uomini», dice Omero nell’Odissea, «i poeti godono della massima venerazione e di rispetto, perché la Musa ha insegnato loro il canto e ha cara la stirpe dei poeti».
Per quarant’anni Valentino Zeichen ha passeggiato per le vie romane consapevole che i poeti non erano più venerati come al tempo dei greci, ma che, se fosse stato vivo, Omero lo avrebbe celebrato come un grande. Moravia non a caso l’aveva riconosciuto come «un Marziale contemporaneo» e altri nel tempo hanno definito questa figura di poeta sui generis «un libertino minimale settecentesco» (Ferroni), «un Gozzano dopo la Scuola di Francoforte» (Pagliarani), un neoclassico beffardo, un dandy, un flâneur, un neo liberty, un hidalgo.
Oltre che grande poeta, Zeichen è stato un personaggio la cui vita e le cui opere sono già diventate leggenda insieme ai suoi sandali francescani e alla baracca dietro piazza del Popolo in cui, da austro-ungarico trasferitosi a Roma, ha vissuto nello «sdegnoso rifiuto di un qualsivoglia lavoro e con violenti attacchi alla civiltà dei consumi», come ha avuto modo di scrivere Valerio Magrelli. Non è vero quello che spesso hanno sostenuto i critici, e cioè che la “ragione” fosse unicamente al centro dei suoi componimenti. Al contrario, Valentino Zeichen ha messo subito a nudo il “cuore” in una delle sue prime poesie: «Presumibilmente, / sembro un poeta di alta rappresentanza / sebbene la mia insufficienza cardiaca ha per virtù medica il libro Cuore». E non è neanche vero che Zeichen fosse un antilirico. A riprova di ciò, basta leggere alcune sue poesie sulla madre, Evelina, e sulla fanciullezza passata a Fiume, per rendersi conto che nel suo caso l’etichetta di antilirico non ha alcun senso.
Il problema di Valentino Zeichen è stato quello di essere un gigante in mezzo ai nani. Nel primo anniversario della morte, che il libro intende celebrare, si ricordi che questa notevole figura di poeta, che nei suoi versi importò anche temi difficili e raramente trattati come quelli riguardanti la geopolitica, la chimica e la scienza, sue grandi passioni, è sempre stata ignorata dai maggiori premi letterari. Fuor di polemica, con questo omaggio che intende raccogliere le sue poesie più belle, si vuole ricordare il poeta, l’amico e soprattutto un uomo che, con la sua coerenza intellettuale e il suo rigore, ha lasciato un segno indelebile nel mondo culturale italiano.

La mira dell’artista
deve essere superiore
a quella dell’arciere
poiché punta all’infinito.

* * *

Valentino ZeichenNato a Fiume ma trasferitosi a Roma subito dopo la guerra, Valentino Zeichen è stato uno dei maggiori poeti italiani del suo tempo. È presente nelle più importanti antologie di versi e negli anni ha pubblicato svariati libri esplorando i generi letterari più diversi, dal romanzo al dramma teatrale. Tra le raccolte di poesie: Area di rigore (1974), Ricreazione (1979), Pagine di gloria (1983), Museo interiore (1987), Gibilterra (1991), Metafisica tascabile (1997), Neomarziale (2006) e Casa di rieducazione (2011). Negli Oscar Mondadori è apparsa la raccolta di tutte le sue poesie, con una prefazione di Giulio Ferroni. Per la Fazi Editore, ha pubblicato Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio (2000), Passeggiate romane (2004), Aforismi d’autunno (2010), Il testamento di Anita Garibaldi (2011) e La sumera (2015).

* * *

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POESIA: Ocean Vuong (Cielo notturno con fori d’uscita) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/07/25/ocean-vuong-cielo-notturno-con-fori-duscita/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/07/25/ocean-vuong-cielo-notturno-con-fori-duscita/#comments Tue, 25 Jul 2017 17:00:09 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7585 Il nuovo appuntamento dello spazio “POESIA” di Letteratitudine è dedicato al giovane poeta vietnamita Ocean Vuong e al suo “Cielo notturno con fori d’uscita” (La nave di Teseo) – prefazione di Michael Cunningham, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan.

Di seguito, la recensione di Daniela Sessa.

* * *

Il corpo lirico di Ocean  Vuong: “Cielo notturno con fori d’uscita”.

di  Daniela Sessa

Lui getta il mio nome in aria. Io guardo le sillabe che si sbriciolano in ciottoli sul ponte“.  L’immagine è in “Immigrant haibun”  di Ocean Vuong: si finga nel nome un “io” e nell’io un “noi”, che leggiamo i suoi versi, e si resta colpiti dal baluginìo della sua poesia. Baluginìo mentre il senso se ne sta camuffato nel singhiozzo delle immagini, nel gioco di parole dal suono di oboe  e luce di stelle, quelle inghiottite dal buco nero della memoria, del dolore, del corpo. Stelle che brillano e poi muoiono. Dentro un libro. Ciottoli sul ponte sono le parole dei libri o l’inceppamento di un revolver

“ Torna indietro & vai a cercare il libro che ho lasciato

per noi, colmo

di tutti i colori del cielo

dimenticato dai becchini.

Usalo.

Usalo per provare che le stelle

sono sempre state quello che sapevamo

fossero: i fori d’uscita

di ogni

parola che ha fatto cilecca”

Le parole di Ocean Vuong al primo pronunciarsi paiono non trafiggere, leggere come sono per le ali delle metafore che le portano in alto, nel cielo notturno. Ma proprio in quel notturno, in quel buio sappiamo, sentiamo che stanno lacerando. Lacerano il corpo. Di chi legge e ascolta. Del poeta che scrive e legge. Lacerano il corpo se “in every body is the book”, afferma Ocean Vuong in un’intervista televisiva. Il corpo racchiude un libro, racchiude parole, versi: “Recording poems”, questo fa il corpo per Ocean Vuong. Una poesia carnale e lieve, ossimoro di scrittura e senso. Tanto più sanguinano le immagini quanto più la parola lava quel sangue fino a cancellarlo, fino a sublimare in suoni e colori le ferite aperte del corpo. Un corpo martoriato dalla guerra, dalla violenza, dal viaggio, dal sesso trova una voce nei labirinti della memoria. Ocean Vuong è molto giovane, non ha ricordi del Vietnam fatto a pezzi dalla guerra perciò prende i ricordi dalla madre e dalla nonna. L’universo femminile custodisce anche il senso del viaggio in America, la terra nemica che accoglie. Qui c’è l’assassinio edipico del padre “Carissimo Padre, che ne sarà del ragazzo/ non più ragazzo? Ti prego-/che ne è del pastore/ quando le pecore sono cannibali?”, qui c’è “l’orizzonte di ruggine” di Newport “America una fila di lampioni/ che gli baluginavano sulle labbra/di whiskey”, qui c’è una lingua nuova e la “parola esiliata” per decrittare sentimenti atavici, una lingua “fiammifero acceso” a generare un’identità nuova, meticcia di pelle e di radici emotive “Quando ti chiederanno/ di dove sei,/ di’ che il tuo nome/ è stato reso carne dalla bocca sdentata/ di una donna di guerra”.  Elegia del padre ed epos della madre è “ Cielo notturno in fori d’uscita” di Ocean Vuong (La nave di Teseo, 2017), la prima raccolta di questo giovane poeta vietnamita e americano, portato in Italia dall’acume di Elisabetta Sgarbi che lo ha pubblicato in un volume prezioso (prefazione di Michael Cunningham, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan). Malinconia e mito sono spazio lirico. Malinconia per un padre incapace di ritorno e aura mitica per la madre quasi una presenza sciamanica di coraggio e sfida. Le trentacinque poesie di questa spaesante raccolta celebrano la scrittura come piena realizzazione dell’io poetante. Domina la figura gracile del poeta. Gracilità della dimensione di figlio sulla soglia (“Thresold” è la poesia che apre la raccolta), di ragazzo piegato da orgasmi onanistici (in “Ode alla masturbazione”) e omosessuali, di poeta alla ricerca impossibile e distratta di un modello di lessico e metro (in molte liriche c’è la tentazione immatura di rendere omaggio alla poesia americana di Carl Phillips, Robert Duncan, Frank O’Hara come anche le letture di Joseph Brodskji, di Shakespeare e di Milton, addirittura di Garcia Lorca).
lorenza-mazzettiGracile è Ocean Vuong anche nella voce. Bassa, fine, a tratti pastosa e sempre dolce; controllata è la recitazione di Vuong. Ascoltare – come è accaduto al pubblico della Milanesiana 2017-  e leggere Ocean Vuong è un’esperienza totale. Le pause e il tremore, talvolta beffardo della voce, è mimesi del poggiarsi del verso sulla pagina. Il singulto della voce è il verso libero spezzato in una qualsiasi posizione della pagina, frammenti di bianco e nero come inconsapevole eco di calligrammi e figure ermetiche; l’ansimare ampio è il calco tonale della forma scritta del verso o della misura dell’haibun (in Ocean sequenze di haiku travestito di realismo, dunque evocativo e intimo come i rifugi del corsivo). Suoni e colori. C’è una lirica dedicata a un dipinto di Mark Rothko “Untitoled (Blu, Green and Brown)” che ricorda l’attacco alle Torri Gemelle: più di tutte rende il senso della poesia di Vuong. I campi di colore (il color field painting) del pittore statunitense evocano nel loro astrattismo l’asimmetria singolare tra parole e temi del libro di Vuong. Si può non restare rapiti dalla bellezza di un verso come “Il rosso è soltanto nero che ricorda”? Il rosso ricorda il pane nero della menzogna e dell’esodo (la poesia è “Pane quotidiano”). Questo pane non ha nulla di mistico: è solo precipizio nel buio del Vietnam ed è pure inchiostro “…Non so/ niente del mio paese. Scrivo/ e basta. Costruisco una vita &la faccio a pezzi/ & il sole continua a splendere. Onda come/falce di luna. Aerosol di sale. Tsunami. Ho/ abbastanza inchiostro per darti il mare/ma non le navi, ma questo è il mio libro/& dirò qualsiasi cosa pur di rimanere dentro/questa pelle…”. Inchiostro per parole e versi evocativi, per corrispondenze di segni, talvolta enigmatiche più spesso di lampante verità. Complice di questo realismo simbolico è proprio la lingua di Vuong quasi antica, acerba. Diversa. Se mescola la colloquialità di poesie come “Frammenti da un taccuino” allo sperimentalismo di “Il settimo cerchio terreste” (dove il testo è relegato nelle note) o di “Il dono” (in cui sembra giocare a distanza con le vocali di Rimbaud), allo stesso modo Vuong è capace di creare un felice magma linguistico, per esempio tra la tradizione elisabettiana di “thee” o la devianza cercata con l’uso dell’ampersad “&” e la raffinatezza evocativa di grappoli di parole: “Non resta altro della frase/ che un verso,/il filo di un capello nero rimasto in secca/ fino ai miei piedi”. Eleganza di stile che dà ragione a Cunningham quando afferma che l’inglese di Vuong è fresco ed eterodosso ma non sperimentale: è la lingua emotiva e personale che esprime dolori di sempre, comuni, umani. Che sa trovare il codice per riscrivere i miti: nella raccolta c’è un ciclo odissiaco con un “Telemaco” che trova il padre “come una bottiglia verde potrebbe comparire/ ai piedi di un ragazzo con dentro un anno/ da lui mai toccato” e un “Odisseo reduce” simile a un pastore di Caravaggio, un padre erotico con un petalo rosso attaccato sulla lingua o anche “Troiano” che si veste di un abito rosso e danza davanti al cavallo dalla “pancia piena di lame & di bruti”. Al mito rimanda una splendida “Eurydice” trasfigurata in una cerva inghiottita dall’erba ghiacciata e a un appunto “se Orfeo fosse stato donna non mi troverei incastrato quaggiù”. I versi di Vuong diventano composti e inappuntabili nel ritmo quando attraversano lo scandalo dell’eros. Se il Vietnam è soprattutto guerra, l’America è soprattutto sesso. Anche qui la brutalità e l’oscenità si sublimano nell’ironia e nell’affinamento del lessico, nel rimpiattino tra realismo e allusività “Invece l’anno comincia/ con le mie ginocchia/ che strusciano sul parquet,/ un altro uomo che se ne va/ nella mia gola. Neve fresca/ crepita sulla finestra,/ ogni fiocco una lettera,/di un alfabeto/che ho tagliato fuori del tutto”. Come leggere “Cielo notturno in fori d’uscita”? Di certo con la predisposizione d’animo a farsi trascinare dai sensi. Vista e udito sì, e poi i sensi interni. L’immaginazione per vagare tra i luoghi e i personaggi che la memoria del giovane Vuong ha trasformato in correlativi delle emozioni e dunque l’associazione (la metafora e la realtà del corpo) e la dissociazione (la trasfigurazione della figura paterna). E infine allertare le sensazioni e accorgersi che si è offerto a noi il corpo di un poeta. “Un giorno amerò Ocean Vuong” è il dono di quel corpo scrigno in versi di disincanto e fremito.

Hai chiesto un’altra chance

& ti viene concessa una bocca da cui svuotarti.

Non avere paura, gli spari

sono solo il rumore di gente

che cerca di vivere un po’ più a lungo

& non ce la fa. Ocean. Ocean –

alzati. La parte più bella del tuo corpo

è il luogo verso cui si dirige. & ricorda,

la solitudine è comunque tempo trascorso

insieme al mondo…

* * *

La scheda del libro

35 poesie, ispirate al vissuto di questo giovanissimo autore, in cui l’amore per il classicismo – il mito, l’estetica, l’armonia, la ricerca dell’ordine, della simmetria – si fonde con la ricerca di nuove forme, sempre fedeli al verso libero, e a una commistione fra prosa, dialogo, e lirismo.

Il Vietnam dilaniato dalla guerra e dal comunismo; New York – il simbolo dell’America – ferita dalla violenza e dall’intolleranza; l’omosessualità come condizione di diversità ed emarginazione. Trentacinque poesie, ispirate al vissuto di questo giovanissimo autore vietnamita, emigrato in America ancora bambino e celebrato dalla critica come uno dei poeti più rivoluzionari degli ultimi anni. Ad animare Cielo notturno con fori d’uscita, la sua prima raccolta poetica, è una lingua nuova, di commistione e creazione, in cui l’amore per il classicismo – il mito, l’estetica, l’armonia, la fede nell’ordine e nella simmetria – si fonde con la ricerca di nuove forme, sempre fedeli al verso libero e a un dialogo fra prosa e lirismo sorprendente e vitale.

* * *

lorenza-mazzettiOcean Vuong è nato in Vietnam nel 1988 e si è trasferito negli Stati Uniti nel 1990. Con la sua raccolta di debutto, Cielo notturno con fori d’uscita, ha vinto nel 2016 il Whiting Award. Ha ricevuto inoltre il Pushcart Prize e altri riconoscimenti da: Poets House, The Elizabeth George Foundation, Fondazione Civitella Ranieri, The Saltonstall Foundation for the Arts e Academy of American Poets. Le sue opere di poesia e narrativa sono state pubblicate sul “New York Times”, “The New Yorker”, “Kenyon Review”, “The Nation”, “New Republic”, “Poetry”, “The American Poetry Review”, che gli ha conferito lo Stanley Kunitz Prize for Younger Poets. Cielo notturno con fori d’uscita è stato tradotto in albanese, arabo, bulgaro, cantonese, francese, hindi, spagnolo e ucraino.

* * *

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POESIA: Elena Mearini (Strategia dell’addio) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/05/24/elena-mearini-strategia-delladdio/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/05/24/elena-mearini-strategia-delladdio/#comments Wed, 24 May 2017 13:21:10 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7517 Nel nuovo appuntamento dello spazio “POESIA” di Letteratitudine ospitiamo Elena Mearini autrice di “Strategia dell’addio” (LiberAria).

Ecco le risposte di Elena alle domande “ricorrenti” di questa rubrica dedicata alla poesia.

* * *

Risultati immagini per elena mearini letteratitudine- Elena Mearini, chi è poeta?
Poeta è colui che non si stanca mai di scoprire e riscoprire i volti nascosti della realtà. Il poeta si deve impicciare dei fatti e delle facce del mondo, sfondare le barriere, abbattare i muri, sconfinare senza fine e senza mai dimenticare di portarsi appresso attenzione e cura. Il poeta avanza con passo gentile.

- Poeti si nasce o si diventa?
Nella poesia ci s’inciampa, per errore, grazia o destino.  È una specie di pozza che contiene infinite varianti del mondo. Chi ci casca dentro, se ne innamora. Ed ecco fatto. È poeta.

- Cos’è la poesia?
È una cosa che non smette mai di accadere e di esserci, una costante umana che contempla la bellezza e tralascia l’abbandono. La poesia garantisce la realtà della vita, ci dice che quando un cuore batte, batte davvero.

- A cosa serve la poesia?
A innamorarsi dell’istante, l’unico tempo certo che ci è dato avere. Un tempo fragile, friabile e umanissimo. Il tempo che più ci somiglia e ci appartiene.

- Che consiglio daresti a chi volesse avvicinarsi alla lettura della poesia?
Per leggere e godere della poesia è necessario ricavare in sé uno spazio pulito e libero. Togliere polvere, sporcizia e ingombri, lasciare che la parola poetica possa circolare nuda e pure bendata se crede. Dobbiamo preservarla da malanni e incidenti.

- Cosa consiglieresti a un poeta esordiente che ha velleità di pubblicazione?
Dimenticare l’ipotesi di una pubblicazione e scrivere solo se è la necessità a spingerlo. Con la poesia non si può fingere, lei stringe affari solo con la verità di un’urgenza.

- Parliamo di te. Come nasce il tuo amore per la poesia?
È un amore nato per fame, il pane quotidiano della sopravvivenza.

Guardando all’intera storia della poesia, quali sono i poeti che consideri come tuoi punti di riferimento?
Di certo esponenti della poesia ermetica quali Montali, Ungaretti, Quasimodo, ho sempre amato la loro grande maestria nello stringere nel pugno il seme originale delle cose, toccare l’osso, non rifuggire né temere l’essenza bensì afferrarla e rivelarla. Una mia grande passione è poi l’intera opera della Szymborska, unica per ironia e potenza. E come non citare Celan, capace di fare della parola un miracolo…

- Quali sono i versi poetici che non ti stancheresti mai di rileggere?
“ Non scriverti tra i mondi, al margine della traccia di lacrima impara a vivere”. Ed ecco Celan e il suo miracolo.

COPERTINA_mearini- Qual è il filo conduttore di questa tua nuova silloge (intitolata “Strategia dell’addio“)?
“ Strategia dell’addio” è la storia di un amore che non si compie mai fino in fondo, nasce e si richiude di continuo, sfiorando la fioritura senza viverla. Sarà la parola a soccorrerlo, una parola-corpo che prende il posto dell’altro, in questo caso dell’uomo,  una parola-corpo presente e capace di darsi e di dare. Nella poesia, la donna che racconta, compie finalmente il proprio sogno d’amore.

- Ti chiedo di scegliere alcuni tra i versi che consideri più rappresentativi di questa tua raccolta e di offrirceli in lettura qui di seguito…
Confinata in una foglia, osservo il mondo. La mia quarantena odora di te, che mandi respiri al vento”

“ Quando indosserò la mia mancanza, qualcuno griderà allo scandalo di una donna nuda per la strada”

“ Non si può occupare educatamente il cielo, per essere vento dobbiamo disturbare le foglie”

- Per quale motivo hai considerato questi versi come i più rappresentativi della silloge?
Per il senso di una mancanza che diviene spazio aperto e ampio, luogo predisposto al decollo della libertà.

- Come immagini il futuro della poesia?
Mi piacerebbe che fosse di una leggerezza imbattibile. Il respiro della parola, ecco. Una poesia fatta di respiri.

* * *

Elena Mearini – “Strategia dell’addio” (LiberAria) – la scheda della silloge

COPERTINA_meariniStrategia dell’addio è la storia poetica di un amore e di un abbandono raccontato in versi. La parabola di un amore infelice, dalla solitudine, all’incontro, alla crisi fino al superamento del dolore, è descritta e sviscerata attraverso brevi didascalie del quotidiano, istanti fermati e scandagliati con occhio acuto e penna affilata, capace di esercitare con precisione chirurgica la dolcezza e la crudeltà necessarie a sopravvivere. Il linguaggio di Elena Mearini e si fa di volta in volta strumento d’indagine, espressione di dolore, rassegnata tenerezza, lotta indomita contro la sofferenza, sorriso con cui guardare a un addio, in una sinfonia di sensazioni che diviene cifra di un sentire universale. Contraltare a questo canto intimo e struggente, i disegni dell’illustratrice Clara Patella, il cui tratto netto, aperto, minimale ma dotato di delicatezza e profondità, dona risalto alla scrittura poetica, aiutando il lettore a trovare la propria Strategia dell’addio.

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Elena Mearini è nata nel 1978 e vive a Milano. Ha pubblicato i romanzi 360 gradi di rabbia, Excelsior 1881, Premio giovani lettori “Gaia di Manici-Proietti” nell’ambito della rassegna “Umbria Libri”; Undicesimo comandamento, Perdisa pop, Premio Speciale UNICAM- Università di Camerino, terzo classificato al Concorso Nazionale di Narrativa “Maria Teresa di Lascia” e Premio giovani lettori “Gaia di Manici-Proietti” nell’ambito della rassegna “Umbria Libri”; A testa in giù, Morellini editore; Bianca da morire, Cairo editore, Premio “Lago Gerundo” per la narrativa. Firma due raccolte di poesie: Dilemma di una bottiglia, Forme Libere editore e Per silenzio e voce, Marco Saya editore.

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ANTOLOGIA DI POETI CONTEMPORANEI e LA GRAVIDANZA DELLA TERRA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/04/19/antologia-di-poeti-contemporanei-e-la-gravidanza-della-terra/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/04/19/antologia-di-poeti-contemporanei-e-la-gravidanza-della-terra/#comments Wed, 19 Apr 2017 09:34:25 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7492 Questo post inaugura il nuovo spazio di Letteratitudine dedicato alla POESIA (che si aggiunge a PoesiaNews).

Ci occupiamo di “ANTOLOGIA DI POETI CONTEMPORANEI. Tradizioni e innovazione in Italia” di Daniela Marcheschi (Mursia) e di “LA GRAVIDANZA DELLA TERRA. Antologia di poesia rurale” (curato da Daniela Marcheschi e pubblicato da Olio Officina).

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“ANTOLOGIA DI POETI CONTEMPORANEI. Tradizioni e innovazione in Italia” di Daniela Marcheschi (Mursia)

di Massimo Maugeri

Conosco e stimo Daniela Marcheschi da tanti anni.
Docente in Italia e all’estero di Letteratura italiana e Antropologia delle Arti, la Marcheschi ha curato i Meridiani Mondadori delle Opere di Carlo Collodi (1995) e di Giuseppe Pontiggia (2004). Come critico, numerosi sono i suoi interventi su poeti contemporanei (Penna, Noventa, Bacchini e altri) e su varie problematiche e aporie connesse alla poesia attuale. Alcuni dei suoi interventi più originali, oltre che in vari libri, sono riuniti nel volume Il sogno della letteratura. Luoghi, maestri, tradizioni (2012). I suoi saggi sono tradotti in diverse lingue. Nel 1996 ha ricevuto un Rockefeller Award proprio per la Critica e la Poesia.

Di recente Daniela Marcheschi ha pubblicato, per i tipi di Mursia (nella collana Argani diretta da Guido Oldani), un nuovo libro dedicato alla poesia: ANTOLOGIA DI POETI CONTEMPORANEI. Tradizioni e innovazione in Italia.
Stiamo parlando di un’antologia che prova a rispondere a una domanda tutt’altro che semplice: chi sono i poeti più significativi del nostro tempo? Ma c’è una domanda ancora più essenziale che coincide con l’incipit della prefazione firmata dalla stessa Marcheschi. Ed è la seguente: perché allestire oggi un’antologia della poesia italiana contemporanea? La risposta giunge subito dopo:
«Perché, per fare letteratura, è indispensabile continuare a inventarla, crearla e ricrearla ogni giorno e, per dare un contributo anche piccolo alla creazione di una nuova letteratura, è necessario fare costantemente il punto della situazione, dello stato dell’arte. È necessario esserle fedeli. Bisogna cercare di capire meglio quali siano effettivamente e come si articolino le tradizioni in atto e di cimentarsi in una loro lettura-interpretazione per scegliere quali autori e quali testi sembrino più vitali per tematiche, ricerca stilistica, modalità espressive. Insomma le opere migliori, le più belle per esiti formali».

Riporto di seguito qualche altro stralcio della prefazione per gentile concessione della stessa Daniela Marcheschi e della casa editrice Mursia (che ringrazio):
Risultati immagini per Daniela Marcheschi«Lo sguardo di un critico, come di ogni altro intellettuale, è tanto più prezioso quanto più è soggettivo ed eticamente centrato sui principi della responsabilità e della verità. Solo se vi sono tante solide verità soggettive, frutto della consapevolezza intellettuale, di una cultura la più vasta possibile e dello slancio etico a costruire oltre se stessi e insieme con gli altri, si può partecipare attivamente alla letteratura. Inoltre, solo così può nascere la possibilità di comparazione e quella tensione virtuosa, persuasiva, verso la conoscenza della verità: che è movimento condiviso, viaggio perpetuo verso la meta intraveduta all’orizzonte, anche se non la potremo mai raggiungere davvero o catturare una volta per sempre. Un’antologia della poesia contemporanea ha perciò un senso se corrisponde prima di tutto al significato della parola stessa, ovvero si fa scelta, con tutti i rischi che ciò comporta per il critico; se non è un regesto catastale. Accademico o militante che sia, un critico è tale, non solo se tratta con argomenti più o meno efficaci di libri e autori, ma anche, e soprattutto, se si fa carico di chiarire a fondo i valori che attribuisce alle opere e non smette di sostenerli. Per usare un modo di dire corrente: ci mette e rimette la faccia per difendere quanto ritiene più forte e persuasivo.
Una simile incombenza e una simile fedeltà appaiono tanto più indispensabili in un contesto socio-culturale ed economico, dove le voci sono spesso così tante da far nascere il baccano e confondere udito e idee; e dove, in una produzione comunque vasta, l’industria editoriale segue le strategie di mercato di volta in volta reputate, a torto o a ragione, meglio confacenti ai propri bisogni e caratteri di impresa. Ciò significa che fra le tante proposte di stampa e il valore letterario non c’è sempre una coincidenza. È una contraddizione con cui fare i conti, per non cadere in un duplice/identico errore. Da un lato, c’è infatti il rifiuto, aprioristico e talora anche snobistico, di quanto viene spesso proposto dalla grande editoria; dall’altro, se ne ha un’accettazione indiscriminata: la sigla editoriale rassicura e fornisce automaticamente una sorta di certificazione di bellezza e autorità agli occhi dei lettori meno avvertiti. È però una scorciatoia demonizzare o idolatrare gli editori, che hanno anche i loro limiti, talora per difetto di coraggio e idee, talaltra di mezzi; ma non hanno tutte le responsabilità possibili».

(…)
«Questa antologia confida dunque di presentarsi armata di argomentazioni critiche ed estetiche persuasive, specie riguardo alla selezione dei testi poetici e alle singole, ampie, introduzioni ai ventuno autori selezionati: poeti tout court, poeti e autori di teatro, poeti narratori, poeti studiosi, poeti critici e saggisti o poeti narratori critici e saggisti.
Si tratta di ventuno profili, quasi voci enciclopediche e non solo interpretative in chiave critica e storico-letteraria, allestiti prima di tutto per aprire una prospettiva, la più articolata possibile, sugli autori. Si è cercato di illuminare sia il loro percorso biografico specifico, di uomini e donne di oggi, sia la loro biografia poetica e intellettuale. Ogni poeta è infatti anche un intellettuale, un mediatore, per il tipo di lavoro a tutto tondo sulla cultura su cui si innesta l’esperienza della poesia: il lungo diventare poeti, nascendolo.
Abbiamo ritenuto più convincente proporre autori che, pur radicandosi in modo molteplice nelle tradizioni novecentesche della poesia, hanno intrapreso delle vie per aprire a queste ultime spazi meno battuti.
Autori che, ad esempio, a partire dall’adozione di un linguaggio chiaro, razionale ma non sciatto né privo di risonanze emotive profonde, hanno abbandonato le secche di certi residui simbolisti e tralasciato le tentazioni del ripiegamento neocrepuscolare. Autori, che hanno sostituito agli sperimentalismi dalle formule ingessate – divenute «scuola» e meccanismi automatici della scrittura, noti fin dagli inizi del XX secolo –, e ai neoclassicismi e al metricismo di maniera, la ricerca di nuove modalità tecniche, metrico-strofiche, espressive. Autori che, invece di portare nei propri versi il già pensato della Filosofia come disciplina a sé, hanno fatto della poesia il crogiuolo in cui si possono incontrare e possono reagire l’espressione e un pensiero conoscitivo autonomo nelle loro mutue tensioni. Autori, che si sono storicamente costruiti e hanno costruito la loro poesia dialogando in maniera complessa con altri ambiti disciplinari, sostituendo così modalità del fare poetico oramai invecchiate e fin troppo costrittive».
(…)
L’antologia va perciò incontro ai lettori anche «disarmata», nel senso che le sue ragioni profonde stanno sia in una selezione del gusto e di giudizi maturati negli anni sia nella necessità di riaffermare un’idea e un ruolo a cui il critico non può sottrarsi. Se c’è tanta volgarità intorno a noi, è anche perché si fanno tanta arte e poesia volgare: senza donchisciottismi e con umiltà, sarebbe necessario che ognuno – autore e critico – riassumesse l’onere del proprio ruolo. Ritornare dunque al grande impegno e rischio della poesia e della critica, di stabilire gerarchie per iniziare un lavoro di verifica formale che, periodicamente, a partire dal 2018, vedrà la messa a punto di altre antologie, a cura di chi scrive qui e non solo. Si intende così aprire un laboratorio permanente o un osservatorio sulla poesia per monitorare i lavori in corso, segnalare voci nuove e vecchie, ma che abbiano saputo riprendere il cammino della creatività in maniera notevole. Troppe volte, nelle ultime decadi, abbiamo infatti udito voci anche fresche, che, purtroppo, sono poi andate ripetendosi o a fissare quel carattere in cliché di maniera, capaci solo di offuscare il bell’accenno di nuovo, che aveva invece tanto colpito all’inizio».

Chi sono i poeti contemplati nell’antologia? Eccoli elencati rispettando l’ordine con cui sono stati “presentati” all’interno del volume: Pier Luigi Bacchini, Giampiero Neri, Franco Loi, Fernando Bandini, Elio Pecora, Jolanda Insana, Nanni Cagnone, Anna Cascella Luciani, Giorgio Manacorda, Cristina Annino, Maurizio Cucchi, Lino Angiuli, Assunta Finiguerra, Biancamaria Frabotta, Guido Oldani, Roberto Piumini, Maura Del Serra, Amedeo Anelli, Margherita Rimi, Antonio Riccardi, Paolo Febbraro.
Ventuno poeti italiani, che – come evidenziato – la Marcheschi ha giudicato variamente rappresentativi e validi da molteplici angolazioni. Con riferimento a ciascuno di loro ha offerto (oltre che, naturalmente, una selezione di poesie) un profilo bio-bibliografico e critico fondamentale per comprenderne genesi ed evoluzione dell’opera artistica.

Ringrazio personalmente Daniela Marcheschi per il suo impegno e per l’ottimo lavoro svolto anche nell’ambito di questa nuova utilissima antologia (dedicata, peraltro, alla memoria del poeta e critico Remo Pagnanelli, Macerata, 1955-1987) che, oltre a “dare luce” ai poeti citati, contribuisce a riaprire il dibattito sulla poesia in Italia.

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In chiusura, ne approfitto per segnalare quest’altro volume intitolato: “LA GRAVIDANZA DELLA TERRA. Antologia di poesia rurale” (curato da Daniela Marcheschi e pubblicato da Olio Officina). Si tratta (come ben segnalato nella scheda del libro, che riporto di seguito) di una “antologia di poesie inedite allestita con l’intento di riportare l’attenzione dei poeti italiani ed europei sulla campagna. Il lettore troverà versi di autori italiani, croati, francesi, portoghesi, rumeni, svedesi e svizzeri. Daniela Marcheschi ha invitato 43 autori con la dichiarata intenzione di fare i conti con ciò che nel XXI secolo può essere, e significare, la vita rurale. La situazione umana, nella storia e nell’ambiente, muta di continuo. Mutano i tempi, e i fenomeni sociali ed economici di industrializzazione e post-industrializzazione nella loro sostanza multiforme e nelle loro conseguenze. Ciò vale anche per altri fenomeni e aspetti che, per meri pregiudizi ideologici o pigrizia, sono stati sovente relegati all’ambito di residuo del passato. Ma a torto: è un fatto che oggi il settore agricolo sia in grado di trainare di nuovo l’economia. Ciò impone un ripensamento critico su differenti piani: sociologico, economico, storico o culturale in senso lato. Una simile riflessione la si deve pretendere anche in poesia, che non può ritenersi un giardino chiuso, uno spazio ripiegato esclusivamente su un soggettivismo esasperato“.

La gravidanza della terra. Antologia di poesia rurale (a cura di Daniela Marcheschi)

Un approfondimento è disponibile cliccando su questo link.

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Il nuovo spazio di Letteratitudine interamente dedicato alla Poesia (in aggiunta all’iniziativa PoesiaNews ) dove diversi poeti si avvicenderanno per rispondere ad alcune domande “ricorrenti” e a discutere della loro nuova opera. La rubrica ospiterà anche ulteriori contributi – in varia forma – dedicati alla poesia e ai poeti.

Tutte le puntate della rubrica sono disponibili qui.

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