LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » RECENSIONI INCROCIATE http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 RECENSIONI INCROCIATE n. 11: Paolo Cacciolati, Achille Maccapani http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/05/04/recensioni-incrociate-n-11-paolo-cacciolati-achille-maccapani/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/05/04/recensioni-incrociate-n-11-paolo-cacciolati-achille-maccapani/#comments Mon, 03 May 2010 22:03:04 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2025 Nuova puntata delle “recensioni incrociate” di Letteratitudine. Gli scrittori/ospiti coinvolti sono: Paolo Cacciolati e Achille Maccapani.

I libri oggetto delle recensioni sono: “Digestione del personale” di Paolo Cacciolati (Tea) e “Confessioni di un evirato cantore” di Achille Maccapani (Frilli).

Il romanzo di Maccapani è ambientato nella Venezia del 1791: il protagonista della storia è Luigi Marchesi, primo sopranista del Teatro alla Scala: un cantore… evirato.

Il romanzo di Cacciolati ha per protagonista Mirco Michichi: il consulente aziendale perfetto, quello che ha le conoscenze e gli agganci giusti, quello che ti fa avere i fondi per i corsi di formazione, quello che usa tutte le paroline magiche (missione vision, competitorse challenge).

Cosa accomuna i due libri, a prima vista così profondamente diversi?

Intanto la presenza di un omicidio, in entrambe le storie.
Ma non solo…

Vi riporto due “passaggi” delle recensioni incrociate.

Cacciolati sul romanzo di Maccapani, scrive: “La narrazione ha un ritmo veloce, attacca con Luigi Marchesi che nel pieno di un incontro amoroso deve fuggire dai sicari e commette un omicidio. Poi il risveglio notturno e la consapevolezza dell’amaro che gli ha lasciato quel sogno: una vita trascorsa a rincorrere obiettivi fatui. Così matura la decisione di parlare con Padre Francesco, un giovane prete di campagna ai confini tra il Naviglio e l’Adda. Instaurerà con lui un fitto dialogo, attraverso vari incontri. E’ lo stratagemma che permette al protagonista, e a noi con lui, di ripercorrere tutte le tappe della sua vita a dir poco movimentata”.

Maccapani sul libro di Cacciolati, scrive: “Ciò che emerge da tutto il romanzo è una visione tremendamente cruda, realistica, quasi rispondente ad un’esperienza vissuta fino alle viscere dall’autore, dove tutti i personaggi, con le loro piccole e grandi meschinità, rivelano dentro di sé una profonda solitudine e una desolazione senza limiti, nonostante l’immagine di facciata, il modo lavorativo di presentarsi sempre perfetto, l’autocontrollo sempre pronto, la forza d’animo che non viene mai meno, nonostante tutti i brainstorming, i tagli e i licenziamenti in arrivo, dipendenti in teoria sulle teorie di valutazione formativa, ma in realtà suggeriti dal commenda di turno”.

Ecco, allora, un altro possibile “tratto” in comune… entrambi i protagonisti, a un certo punto, si ritrovano davanti a se stessi. E quando l’uomo si mette davanti a se stesso emerge – spesso – il disagio, la necessità di ritrovare il senso dell’esistenza,  il dover fare i conti con i buchi neri delle proprie contraddizioni… il bisogno di “confessarsi”.

Leggendo le recensioni di Achille e Paolo, e pensando ai protagonisti dei loro libri, mi sono venute in mente le seguenti domande rispetto alla condizione umana…

Quali sono le differenze fondamentali tra un uomo che ha vissuto alla fine del 1700 e un uomo che vive agli albori del terzo millennio? (Mi riferisco a uomini vissuti, comunque, nell’Occidente).

Quali sono i vantaggi e gli svantaggi dell’uomo che vive in quegli anni, rispetto ai vantaggi e svantaggi dell’ uomo di oggi?

L’esigenza di affermarsi a tutti costi, di sopravvivere a sé e al mondo, è davvero cresciuta – oggi – rispetto ad allora? E fino a che punto?

E quella di ritrovare se stessi, il senso delle cose e della propria esistenza… fino a che punto è cambiata?

E poi, naturalmente, avremo modo di discutere in generale dei due libri approfittando della presenza degli autori.

E ora, le due recensioni incrociate…

Massimo Maugeri

***********************

Confessioni di un evirato cantore, di Achille Maccapani
Fratelli Frilli editore – 2009 – euro 15,90

recensione di Paolo Cacciolati

Confessioni di un evirato cantorePotrei titolare questo pezzo le cose che dovete sapere per scrivere un romanzo storico. Io è da una vita che vorrei scrivere un romanzo storico, ma mi hanno sempre bloccato mille dubbi. Come parlano le persone vissute qualche secolo fa? Che razza di dialoghi metto loro in bocca? Che pensieri vomerano i loro prati mentali? E, naturalmente, come fanno l’amore? Queste sono solo alcune tra le domande più stupide che mi vengono in mente.
Leggendo Confessioni di un evirato cantore, di Achille Maccapani, non ho trovato esattamente le risposte che mi aspettavo, ma ci sono andato vicino. E poi mi sono ricordato di quella frasetta che al liceo buttava lì il prof di greco, leggendoci Archiloco. L’uomo è sempre lo stesso, e così i suoi pensieri.
Più che un romanzo storico, definirei Confessioni di un evirato cantore un romanzo in costume, dove il lettore si immerge nei costumi di quella che è stata l’ultima epoca di sfarzo nobiliare, il periodo tra fine settecento e inizio ottocento, a cavallo tra rivoluzione e restaurazione, prima che lo tsunami storico della borghesia spazzasse via quel mondo fatto di alte (o basse) corti.
Così, per dirla con Marino Magliani che scrive la quarta di copertina (e per soddisfare uno dei miei balenghi quesiti di cui sopra), impariamo come un evirato potesse condurre al delirio -non solo dei sensi- le damazze dell’alta società, tra nastri e cuscini, parrucchini e concerti. E non solo. Impariamo come ci si sfidava a duello, gli intrighi di corte, l’ammissione a una loggia massonica, come si vestivano le ragazze negli strusci milanesi di inizio ottocento e cento altri dettagli che tratteggiano l’epoca meglio di un manuale di storia.
Ma sto volutamente trascurando il vero protagonista di questo libro. No, non è Luigi Marchesi, il nostro evirato cantore, primo sopranista del Teatro alla Scala, che ci prende per mano a seguire le sue avventure tra successi e pericoli in una società divisa tra la dominazione austriaca e la cometa napoleonica. Il Marchesi ha solo funzione di psicopompo nel condurci al vero protagonista della storia, ovvero a quello che potrebbe essere l’ospite dominante, tra le passioni del nostro Achille Maccapani. La scrittura? chiedete voi. Nooo, perlomeno non solo, rispondo io. La storia? Proverà a dire qualcun altro. Certo, dico io, nel nostro autore è evidente la cura per il dettaglio storico, il gusto per la riproduzione fedele della società dell’epoca. Ma non è neppure questa, secondo me, la sua vera passione.
I più perspicaci tra voi avranno sicuramente capito quale sia la più grande passione di Achille Maccapani, che emerge inesorabile in questo libro, prima in modo sommesso, come pisciatine fatte di nascosto all’ombra di un portone, poi in modo sempre più prepotente. Chi non ha ancora capito ovviamente non deve far altro che leggere il romanzo.
La narrazione ha un ritmo veloce, attacca con Luigi Marchesi che nel pieno di un incontro amoroso deve fuggire dai sicari e commette un omicidio. Poi il risveglio notturno e la consapevolezza dell’amaro che gli ha lasciato quel sogno: una vita trascorsa a rincorrere obiettivi fatui. Così matura la decisione di parlare con Padre Francesco, un giovane prete di campagna ai confini tra il Naviglio e l’Adda. Instaurerà con lui un fitto dialogo, attraverso vari incontri. E’ lo stratagemma che permette al protagonista, e a noi con lui, di ripercorrere tutte le tappe della sua vita a dir poco movimentata.
Foscolo, Mozart, Paganini, sono solo alcuni dei personaggi che il nostro incontrerà lungo il suo cammino. Non dico dove condurrà questo cammino, per non togliere al lettore il gusto della sorpresa, ma certo il percorso risulta leggiadro a seguirsi, lieve come una delle piume adornanti i cappellini delle nobildonne che si accompagnano al nostro evirato cantore.

———

Digestione del personale, di Paolo Cacciolati
Tea – 2009 – euro 12

recensione di Achille Maccapani

Digestione del personaleUn meccanismo infernale a orologeria, che acchiappa il lettore con una virulenza tremenda e non lo molla più fino all’ultima pagina. La scelta strutturale, compiuta da Paolo Cacciolati con il suo romanzo d’esordio Digestione del personale, di far partire il tutto dalla fine, o meglio da un potenziale finale, senza svelare le ragioni del perché il protagonista, il formatore di risorse umane Mirco Michichi, si trovi in quella strana condizione.
Il meccanismo dei flashback incrociati scandisce quindi il ritmo di una trama narrativa moderna, vicina al mondo odierno, fatto di zone industriali, gestione esasperata dei bilanci aziendali col solo obiettivo di giungere al tanto agognato attivo, ricorrendo il più possibile ai tagli, ma non solo, anche a tutti gli espedienti più o meno legali che possano esistere. Lo scenario disegnato da Cacciolati, quello dell’hinterland torinese, è quello di una provincia metropolitana che non si differenzia affatto rispetto a quella milanese, in preda ad una frenesia e ad una tensione più che lavorativa, psicologica e in preda a dinamiche sempre più legate ad uno stato di isterismo ansioso, tipico dei nostri tempi, nel quale non si riesce a percepire i segni di una speranza rivolta al futuro, ma dove tutti lottano contro tutti e chi, come Michichi, si trova ad operare come freelance, resiste solo per merito degli agganci con l’ufficio pubblico che gli permette di avere una corsia preferenziale per i fondi statali o regionali per la formazione nelle imprese.
Ma ciò che emerge da tutto il romanzo è una visione tremendamente cruda, realistica, quasi rispondente ad un’esperienza vissuta fino alle viscere dall’autore, dove tutti i personaggi, con le loro piccole e grandi meschinità, rivelano dentro di sé una profonda solitudine e una desolazione senza limiti, nonostante l’immagine di facciata, il modo lavorativo di presentarsi sempre perfetto, l’autocontrollo sempre pronto, la forza d’animo che non viene mai meno, nonostante tutti i brainstorming, i tagli e i licenziamenti in arrivo, dipendenti in teoria sulle teorie di valutazione formativa, ma in realtà suggeriti dal commenda di turno.
Attraverso questo romanzo, emerge quindi un quadro profondamente diverso dalla mitologia dell’universo urbano torinese. Chissà per quale motivo, nel corso degli anni, abituato a conoscere le problematiche dell’hinterland milanese fino ai primi anni ’90, mi ero fatto una strana idea della vita lavorativa torinese: tutti uniti e compatti, fedeli all’azienda, zero mondanità, grigiore totale in città, al massimo il tifo per la Juve, e vacanze nei centri Fiat. Mi aveva molto colpito, invece, qualche anno fa un saggio di Bruno Babando, nel quale si analizzava la profonda trasformazione del sistema economico torinese, per giungere ad una teoria coraggiosa e dura: quella di considerare l’area del torinese come l’allargamento forzato della provincia di Milano. Una tesi, questa, che indirettamente è confermata dal romanzo di Paolo Cacciolati, che ci svela una realtà urbana e industriale sconosciuta, profondamente trasformata, sintomo di una pesante alienazione psicologica dei vari personaggi, dove alla fine il rischio serio, di fronte al fatto di continuare ad opporre, in reazione ai piccoli e grandi soprusi, l’arma della diplomazia e dell’autocontrollo, sia quello di abbattere di colpo l’argine, e trovarsi a compiere gesti folli, violenti, inaspettati, ma che in realtà rappresentano il frutto di una lunga serie di tensioni che si sono accumulate, a mano a mano, in silenzio, e sono tuttavia pronte ad esplodere in tutta la loro virulenza e scatenamento.
Ecco, quello che più mi ha colpito nel romanzo di Cacciolati è il modo in cui descrive tutte queste tensioni, sembra di averle vicine a noi queste situazioni, queste tensioni, pare di vivere gli episodi e gli sviluppi che si dipanano all’interno degli uffici della Elektracar, forse perché l’utilizzo delle tecniche cinematografiche recenti (penso a Pulp Fiction di Quentin Tarantino, in primo luogo, ma anche al John Woo di Face Off) o comunque più vicine al background personale dell’autore si fanno sentire in modo vistoso, al punto da farci sentire dentro l’azione, e con una progressione narrativa incandescente, tale da renderci consapevoli di come questo mondo urbano contemporaneo stia diventando sempre più alienante, più insostenibile, più inaccettabile, e non sia forse il caso di dire basta una volta per tutte, cambiare vita, cercare una soluzione diversa e più compatibile per il resto dei nostri giorni, visto che i lussi del consumismo non rappresentano certo la panacea per dare risposta alle nostre domande.
Forse l’unica carenza che si potrebbe cercare di trovare in questo incandescente romanzo dai toni thrilling, ma che illustra con forte evidenza, e meglio di uno dei tanti saggi sociologici editi da Franco Angeli o Cortina, lo stato della nostra società del Nord Italia di questi ultimi anni, l’assenza di un germe, anche il più piccolo, della speranza.
Ma, a ripensarci bene, non è affatto detto che sia l’autore a dover cercare e provare a suggerire al lettore le soluzioni, specie se – come nel caso di questo romanzo – l’io narrante è proprio il protagonista principale, Mirco Michichi, alle prese con un esito infernale, con la logica conseguenza di questa highway to hell percorsa senza un briciolo di pentimento, e che si trova, consapevolmente o meno, a trovarsi di fronte ad una battuta d’arresto destinata, probabilmente, ad essere suggellata dall’ennesimo articolo di cronaca nelle pagine locali de La Stampa, magari a poca distanza dalle notizie di una provincia torinese, che, passo dopo passo, si sta scoprendo sempre più meneghina, e dove alla fine i comuni dell’hinterland che circondano Torino non hanno, ormai, più nulla di diverso rispetto a quelli della cerchia metropolitana milanese, e si ritrovano unificati dalla grande serie di centri commerciali che, con il loro fattore aggregativo sempre più incombente, hanno praticamente cancellato l’identità di tante piccole comunità locali, trasformatesi in veri e propri dormitori al servizio delle grandi città.
Tematiche, queste, che emergono profondamente nel romanzo di Paolo Cacciolati, e che suscitano profonde riflessioni sull’Italia di oggi, con una lucidità e un’amarezza che ben difficilmente, forse a causa della contingenza delle news, della frenesia del sistema giornalistico attuale, si riesce a percepire dall’informazione italiana dei nostri giorni, ma che emergono in modo più stringente e vero, proprio grazie alla narrativa contemporanea: esempi come Digestione del personale ce lo confermano, appunto, in modo ulteriore.

—————

Extrapost

Bacchetta in levareIn coda al dibattito, esaurita la discussione sui due libri oggetto delle recensioni incrociate, avremo modo di approfondire la conoscenza del nuovo romanzo di Achille Maccapani: Bacchetta in levare (edito da Marco Valerio).

Segue un breve scheda del libro.

Un direttore d’orchestra di fama internazionale, sconvolto da una lacerante crisi personale decide improvvisamente di smettere con la carriera artistica. Con una serie di colpi di scena che condurranno ad esiti imprevedibili, sarà invece il ritorno sul podio a svelargli la verità che ad ogni costo cercava di rimuovere dalla propria vita. E a riconciliarsi col mondo che lo circonda. Un romanzo che ci introduce dietro le quinte del mondo della musica sinfonica.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/05/04/recensioni-incrociate-n-11-paolo-cacciolati-achille-maccapani/feed/ 209
RECENSIONI INCROCIATE n. 10: Alessandro Cascio, Sergio Sozi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/23/recensioni-incrociate-n-10-alessandro-cascio-sergio-sozi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/23/recensioni-incrociate-n-10-alessandro-cascio-sergio-sozi/#comments Wed, 23 Dec 2009 06:22:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1492 recensioni-incrociate.jpgQuesta nuova puntata de Le recensioni incrociate di Letteratitudine, trae origine da quest’altra che vedeva come protagonisti dell’incrocio Enrico Gregori e Francesco (Didò) Di Domenico. In quell’occasione promisi a Sergio Sozi e ad Alessandro Cascio un incrocio letterario (che avrà modo di svilupparsi – appunto - in questo post).
Devo dire che sono particolarmente lieto di questa combinazione, perché credo che Sergio Sozi e Alessandro Cascio siano molto diversi come approccio alla scrittura e come modo di scrivere. Ma quando le differenze diventano occasione di sano confronto – così come sarà nell’ambito di questa discussione -non possono che contribuire a una crescita comune.
I libri oggetto dell’incrocio sono “Menu” di Sergio Sozi (edito da Castelvecchi) e “Touch and splat” di Alessandro Cascio (edito da Historica).
Nemmeno a farlo apposta sembra che un libro faccia “il verso” all’altro (e viceversa). Se dal libro di Sozi emerge una sorta di condanna contro l’imbastardimento anglofono della lingua italiana (“parliamo una neolingua conosciuta come angloitalo“), il libro di Cascio risponde con un titolo in inglese (“Touch and splat“).
Colgo subito l’occasione, dunque, per introdurre i temi di discussione che vi propongo parallelamente a quello sui due libri.
Ecco le domande del post…

La lingua italiana rischia davvero di essere imbastardita dall’inserimento di termini provenienti da altre lingue?

Fino a che punto questa sorta di commistione può essere considerata contaminazione in senso negativo?

Qual è il discrimine e – soprattutto – chi (e come) dovrebbe decidere il limite entro cui tale commistione è arricchimento e normale evoluzione (superato il quale diventa, invece, svilimento della lingua)?

Certo, vedere la propria lingua perdere identità potrebbe generare anche rabbia…

E a proposito di rabbia (riferendomi al libro di Cascio) passiamo all’altro tema del post. E domando…

La società in cui viviamo è particolarmente rabbiosa? Più rabbiosa di quelle del passato?

Quale potrebbe essere un “giusto” antidoto contro la rabbia dilagante?

Seguono le recensioni incrociate di Alessandro e Sergio… più ulteriori recensioni dei due libri firmate da Salvo Zappulla (sul libro di Sozi) e Sacha Naspini (sul libro di Cascio).
Massimo Maugeri


—————

Il Menu” (Castelvecchi) di Sergio Sozi

recensione di Alessandro Cascio

Nel 2002, il visionario e geniale Kurt Wimmer, grande sceneggiatore ma regista di nicchia, scrisse e diresse Equilibrium, che narra le sorti di un’umanità priva di pensiero ed emozione, d’arte e cultura, confinata nella nazione della Libria. Il film in Italia non ebbe molto successo, ma solo perché la massa è balorda: se così non fosse ci sarebbe più gente ai musei che a teatro e forse, dopo tempo, i cross di Del Piero si ammirerebbero come fossero “arabesque et battement” di danza classica e sulle tribune del Petruzzelli nascerebbero schiere di Ultras che patteggiano per protagonisti e antagonisti con tanto di striscioni che inneggiano Romeo a lasciare quella calamità di Giulietta per la bella Rosalina. Io con i balordi ci sto bene, vivo in Sicilia, uno dei paesi più mafiosi del pianeta, ma a giudicare dal suo Il Menu, edito da Castelvecchi, lo scrittore Sergio Sozi non si limita soltanto a odiarli, ma ne delinea ironicamente ogni tratto, immaginandone la decaduta, tramutandoli in deficienti con comportamenti da primati, privi di alcuna attività mentale creativa. Per chi come me ama più il cinema che la letteratura, il paragone con Kurt Wimmer sarà un onorevole riconoscimento, perché credo che Il Menu sia un Equilibrium nostrano, in cui il primo segno del decadimento è la scomparsa della Pizza, che cede il passo agli Hamburger nel lento processo di americanizzazione che accompagnerà la nostra Italia fino alla formazione della nazione del Buruguay, con capitale Washington, in cui la vecchia Roma prende il nome di New Miami, Torino prende il nome di Bulltown e Milano di Mayland. Nel Buruguay del 2050 è proibito lo studio della Storia di cui tra l’altro non si sa molto perché gli ultimi testi tramandati dall’antica civiltà italiana, sono diventati del tutto incomprensibili. Per farvi capire il cammino dell’incomprensibilità che Sozi vuole mostrarci, pensate al fatto che un tempo, l’amore ci veniva spiegato da Shakespeare e la sua prosa e adesso, invece da Moccia. Se avete abbastanza cultura antica e moderna da poter fare un confronto, potrete notare che il saggio-commedia Il Menu, non ha nulla di così catastrofista, ma si limita ad anticipare i tempi, palesemente: che è come prevedere che un uomo in volo, gettatosi dal decimo piano, prima o poi arriverà al marciapiede.
Proprio in quella futuristica nazione, l’io narrante Lukin Philippucci scopre il diario del poeta scomparso Cesare Menicucci, che con le sue strofe, narra le gesta di quel popolo estinto dopo la chiusura dell’ultima biblioteca nel 2003. Ho letto che qualcuno ha definito “Il Menu” fantascienza. Credo che Asimov si sia rivoltato nella tomba, a meno che non l’abbiano cremato (allora si sarà scombinato nell’ampolla). Le basi del romanzo fantascientifico hanno come regola principale non scritta “evitare l’ironia, il futuro è una cosa seria”. Una cosa seria non è assolutamente il romanzo di Sozi, che sì, affronta temi seri come il cammino dell’esistenza e della cultura, ma lo fa da commediografo napoletano, anche se è nato a Roma, è cresciuto in Umbria e vive in Slovenia. Basta sfogliare il romanzo e imbattersi nel linguaggio usato nel 2050, per capire di cosa sto parlando

———————————————————-

Touch and splat” (Historica) di Alessandro Cascio

E l’Anticristo verrà dagli Stati Uniti?

recensione di Sergio Sozi

Allora. A prender il toro per le corna, dirò subito che ”Touch and splat” è un romanzo breve col quale il sottoscritto ha poco da condividere: stilistica e ambientazione umana e territoriale (ossia gli americani e gli U.S.A.), senso di fondo e scelte lessicali e sintattiche non appartengono in alcun modo, infatti, ai miei gusti, sia attuali che precedenti. Per i motivi che tutti sapranno se appena informati delle mie pubblicazioni – poche ma ”chiare e tonde”.
Tuttavia un critico è un professionista, non un qualsiasi cittadino che legge e giustamente scarta o apprezza senza dover render conto ad altri che non siano lui stesso delle proprie selezioni. Il critico ha il dovere di capire, paragonare e soprattutto affrontare: affrontare il toro-libro per le corna, scegliendo, fra le diverse tattiche di presa a sua disposizione, quella che egli reputi la piú confacente alla bisogna, al caso in sé, ma anche la tattica che gli consenta di restare moralmente ineccepibile. Il critico secondo me, appunto, deve avere una sua morale, ma non deve permettere che essa lo soffochi e ne pregiudichi il lavorio di analisi e comprensione di un testo. Cosí anche onestà, competenza ed intelligenza, nonché amore per la cultura e per l’uomo che ne sta dietro, sono il paradigma fondante di ogni uomo vero da sempre e per sempre – all’epoca di Platone come in quella di Petronio e di Moravia. A maggior ragione questa sia allora la ”bibbia” di un critichetto qualsiasi come il sottoscritto: che un libro sia sempre guardato oggettivamente, pur senza lesinare osservazioni anche d’ordine etico-morale o d’altra natura. Libertà di opinione all’interno dell’obbligo al rispetto per l’opera umana.
Dunque, dopo questa indispensabile premessa, direi che questo libro di Alessandro Cascio sia ben inquadrabile nello specchio della litote che ne cadenza una buona parte del filmico scorrere, questa: ”Quella rabbia non vi porterà nulla di buono”.
La litote è una figura retorica che afferma qualcosa negando il suo contrario. Dire che una cosa non ti fa bene equivale a esprimere in forma attenuata l’avviso che esplicitamente direbbe invece: ”la rabbia ti fa male”.
E appunto sulla rabbia dell’uomo (moderno e americano) e sullo psicotico evolversi di questo stato emozionale alterato in furia omicida è incentrato il romanzo breve di Alessandro Cascio, il quale pone un gruppo di giovani (o forse di quarantenni?) statunitensi nella scenografia, ormai dismessa, di una locazione nella quale vennero anni prima girate grandi pellicole western – ai tempi d’oro di produzione statunitense e poi, nella decadenza, con capitali e registi italiani o spagnoli: insomma Spaghetti Western, come da denominazione ormai stranota. In tale stralunato, obliquo e mortifero panorama di cartapesta, dunque, questi giovinastri mezzo suonati si affrontano nel gioco del ”touch and splat” (letteralmente: ”Tocca e spappola”). Si tratta di una finzione-divertimento piuttosto idiota, anzi direi demenziale e sottosviluppata culturalmente: questa gente – un branco di cosiddetti conoscenti – affitta l’area dal suo proprietario e si munisce di fucili a salve per liberarsi dagli istinti omicidi repressi nel corso della vita quotidiana sparandosi addosso scariche di proiettili di gomma colorati (che addolorano ma non ammazzano).
La cronaca dell’incontro conviviale di quei grezzotti (che dovrebbe avvenire, mi sembra di capire, in tempi attuali), ovviamente contempla una ricostruzione degli antefatti – ossia i rapporti esistiti precedentemente fra i protagonisti – e include la presentazione di un progetto sperimentale di ”riabilitazione carceraria” che lo psicologo Rupert Kensington compí nei primi anni Sessanta negli U.S.A.: l’EIR (acronimo italianizzato di Experiment of Hydrophoby and Rage-regression; appunto Esperimento di Idrofobia e Regressione della rabbia).
Cos’era?
Era l’attuazione nelle carceri statunitensi della teoria che l’uomo moderno (soprattutto quello in stato di detenzione, ma anche, si lascia intendere, quello sottoposto agli obblighi della normale vita sociale) non può prescindere da un connaturato impulso all’omicidio e all’aggressione fisica, insomma da una rabbia repressa che, se non sfogata in qualche modo, può solo esplodere in reali assassini (ossia al ritorno a delinquere per gli ex galeotti).
Perciò l’EIR venne applicato – dice il romanzo nelle sue precise digressioni – offrendo ai carcerati americani l’unico sfogo di un incredibile gioco di ruolo: delle giornate nelle quali i galeotti piú miti prendevano i panni delle vittime e i galeotti piú feroci li potevano angariare senza troppi danni reali:

”L’esperimento (…), consisteva nel munire un gruppo di carcerati (soggetti attivi) di fucili in plastica a pallettoni colorati e di creare un’atmosfera del tutto simile a quella della società esterna. Per far questo si travestivano i galeotti considerati più pacati (soggetti passivi) in cassieri di supermarket, mogli, datori di lavoro, padri violenti e ogni sorta di personalità tipo che potesse scatenare impulsi idrofobi.
Attraverso una riproduzione dettagliata di ambienti e situazioni, si creava quindi la circostanza che aveva portato il soggetto attivo al compimento dell’azione criminale e gli si permetteva di tramutare la “rabbia statica” in “rabbia dinamica” (Dynamic Rage) e di far venire fuori, attraverso l’uso delle armi finte, i propri fantasmi interiori per poi liberarsene definitivamente.”
(”Touch and splat”, pp. 49 e 50).

Però il giochetto non funzionò e negli anni Settanta venne fermato dalle Autorità perché i detenuti-vittima, una volta scontata la pena, presero ad inseguire ed uccidere per le strade i delinquenti che si rendevano colpevoli di omicidi e violenze sessuali. Si erano immedesimati nella parte della vittima cosí tanto da assumere il ruolo di giustizieri.
Come, dunque, commentare nel 2009 questa colossale americanata psicotico-sperimentale? Cosí: credo che il risultato fosse ovvio (Cascio mi darà ragione, penso), poiché l’assunto del signor Kensington era del tutto erroneo, per non dir folle tout court: se si permette ai piú cattivi di esprimere la propria brutalità sui piú deboli, i deboli incattiviscono odiando i loro persecutori mentre i cattivi restano tali. La rabbia del violento, infatti, mica è come l’aria negli pneumatici, che se la lasci uscire affloscia il tubo di gomma: la violenza genera violenza. Chi semina vento raccoglie tempesta. E l’assunto di Kensington era del tutto erroneo.
Ma…
…ma questo lo consideriamo ovvio, poiché tutto ciò è stato inventato di sana pianta dal bravo Alessandro Cascio, effettivamente geniale nel creare l’intero alfabeto del suo racconto, oltre che nel tessere una storia che ha sicuramente il merito di metterci al riparo da chi voglia considerare l’uomo come uno pneumatico. Un libro, allora, ”Touch and splat”, che vorrei possedesse le valenze che meno gli si potrebbero addossare: quelle consistenti nell’avvisarci di certe teorie bislacche e postmoderneggianti. Un libro in fondo violentemente nonviolento. E mi si perdoni l’ossimoraccio.

———-

IL MENU di Sergio Sozi (Castelvecchi)
recensione di Salvo Zappulla

Sergio Sozi è letterato autentico, i classici sono la sua passione (Dante, Petrarca, Boccaccio i maestri a cui si ispira), l’integrità morale la sua ossessione. Integrità che a volte sconfina nella rigidità ma non vi è dubbio che il personaggio sia un puro, la stessa purezza che trasmette nelle sue opere di narrativa. E non è poco riuscire a mantenere un simile candore in un mondo in cui il successo è spesso frutto di compromessi. Questo romanzo pubblicato da Castelvecchi (Il menù, pagg. 106, €. 13,00) ci dà la conferma della sua vena istrionica, la facilità di scrittura, la fantasia scoppiettante che sconfina nel divertissement irriverente e beffardo. Sergio guarda con nostalgia al passato, pretende rispetto per la lingua italiana. Fustigherebbe volentieri quanti scrivono senza possedere gli strumenti del mestiere. I congiuntivi bisogna azzeccarli. Tutti. Le tradizioni e la storia vanno salvaguardate, nella loro interezza. Quasi un’operazione pedagogico-patriottica la sua, una chiamata alle armi in pieno spirito risorgimentale. In questo romanzo, utilizzando la brillante idea di un diario appartenente al vecchio poeta Cesare Menicucci, ci offre lo spaccato di un’Italia smarrita, senza identità, diventata satellite degli Stati Uniti, vittima di un lento ma inevitabile processo di americanizzazione. La pizza cede il passo agli hamburger. Gli eleganti abiti da sera si inchinano dinanzi a un paio di sdruciti, rozzi e scoloriti paio di jeans. La nostra amata lingua rischia di essere sostituita da quella inglese. Il progresso ha prodotto imbarbarimento. Dio ci liberi dagli avanguardisti, sperimentalisti occasionali, confusionisti e manipolatori arbitrari della nostra grammatica. Alcune riflessioni filosofiche di Sergio sono degne del miglior De Crescenzo. “Il menù” che ci offre è gustosissimo, ci invita a sorridere ma anche a riflettere con malinconia, appartiene al filone delle opere fantasatiriche e Sergio Sozi è un personaggio tutto da scoprire, per conoscerlo, amarlo o, se è il caso… evitarlo.
da ‘’La Sicilia’’ il 15 ottobre 2009

———-

TOUCH AND SPLAT di Alessandro Cascio (Historica)
recensione di Sacha Naspini

Solo un avvertimento: “Rilassatevi: quella rabbia non vi porterà nulla di buono.” È così che Touch and Splat di Alessandro Cascio vi attacca. Di petto, come uno spintone che ti rimette a sedere sulla poltrona, dove pensavi di andare? Quel che succede da lì in poi, non è che te lo scordi così in fretta. Touch and Splat è un western moderno? È una beffa al genere? È un’evoluzione? È un tributo a certo cinema? È… Difficile dirlo. Forse tutto questo, forse no. Forse è altro ancora. Quel che è vero, è che Alessandro Cascio mangia cinema e lo rigetta sulla pagina formulando una storia che ti fa sbalzare di qua e di là come su una strada a sterro affrontata col pedale a palla. Salti temporali e pagine come fucilate che ti fanno fare capriole da ottovolante, arrivi alla fine del giro e ti ritrovi di fronte di nuovo a quel cartello di avvertimento: “Rilassatevi: quella rabbia non vi porterà nulla di buono”. Il fatto è che se prima ce l’avevi sepolta, adesso la rabbia ti abbaia dentro come un animale. Touch and Splat è il nuovo lavoro di Alessandro Cascio. Quello che dovete fare è solo aprire questo volume, e ci lasciate le penne. Vi porta via, dalla prima pagina. Ve lo sparate in un paio d’ore e quando tornerete, per qualche minuto, non sarete più quelli di prima. Quello che vorrete, sarà ricevere una busta. Un invito che vi avverte che domenica, al vecchio West Golden Paradise, ci sarà un Touch and Splat. Unico suggerimento: “Non ammazzate nessuno, fino a quel giorno”.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/23/recensioni-incrociate-n-10-alessandro-cascio-sergio-sozi/feed/ 390
RECENSIONI INCROCIATE n. 9: Barbara Becheroni, Cinzia Pierangelini http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/06/recensioni-incrociate-n-9-barbara-becheroni-cinzia-pierangelini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/06/recensioni-incrociate-n-9-barbara-becheroni-cinzia-pierangelini/#comments Sat, 05 Sep 2009 22:43:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1068 recensioni-incrociate.jpgNuova puntata delle “recensioni incrociate” di Letteratitudine. Gli scrittori/ospiti coinvolti sono due autrici: Barbara Becheroni e Cinzia Pierangelini.

I libri oggetto delle recensioni sono “Pandemia” di Barbara Becheroni, e ” ‘A Jatta” di Cinzia Pierangelini (rispettivamente editi da Zonza editori e da GBM)

Questa è la scheda del libro di Barbara Becheroni (“Pandemia”): Un professore di botanica cade dall’undicesimo piano di un palazzo di San Paolo del Brasile. Un vecchio sbirro rovinato dall’alcol e dai fallimenti indaga sul presunto suicidio del professore. Un giovane ricercatore non vuole accettare quello che è successo. Poi una malattia terribile, il morbo di Chagas, senza rimedio, che uccide di nascosto, lentamente, migliaia di vittime all’anno in America latina. Infine, un’industria multinazionale farmaceutica senza scrupoli e i suoi uomini pronti ad assassinare chiunque cerchi di limitarne gli introiti. E la selva amazzonica come contorno, come tessuto vivente in cui si dipingono gli eventi. Un thriller mozzafiato, capace di tenerci avvinghiati alle sue pagine… Riusciranno i “buoni” ad impedire un disastro di proporzioni mondiali?

E questa è la scheda del libro di Cinzia Pierangelini (‘A Jatta): Alfredo, segretario scolastico in pensione, afflitto da smemoratezza e malinconico pessimismo, single impenitente, incontra Andrea, una transessuale operata che, dopo anni di lontananza, rientra in Sicilia, sua terra natale. I due intrecciano una relazione amorosa. Attorno a loro, gli amici di lui, la sua intrattabile cameriera, il fantasma di vite trascorse, altri affetti, una gatta filosofa e un violoncellista antipatico, Giorgio, che farà di tutto per spezzare l’unione dei due amanti. Sullo sfondo una realtà sociale meschina e provinciale attraverso cui l’autrice mette in luce un universo affettivo su cui l’opinione pubblica continua a dividersi, offrendo numerosi spunti di riflessione circa l’opportunità di restituire dignità e identità sociale a chi vive fuori dalla logica eterosessista.

I due libri affrontano temi diversi, ma ugualmente interessanti. Come al solito tenterò di formulare delle domande per proporre discussioni parallele a quella che verterà sui romanzi protagonisti del post.

Il libro della Becheroni affronta la problematica delle pandemie e del business ad esse legate.
Perché alcune malattie che ancora incombono su varie parti del mondo – come lebbra, dengue, malaria, (oltre alla Chagas di cui si narra nel libro) – sono state dimenticate?
Cosa pensate dell’H1N1? Lo temete? Ritenete che condizionerà le vostre vite? Vi sottoporrete al vaccino? Vaccinerete i vostri figli?

Il libro della Pierangelini affronta i temi della solitudine, della vecchiaia, dell’identità sessuale.
La solitudine è solo fonte di problemi o, in alcuni casi, offre anche opportunità? Ritenete sia vero che la categoria più esposta alla solitudine sia quella degli anziani? Oppure? In che modo è possibile andare incontro alla vecchiaia senza sprofondare nella solitudine? I pregiudizi sulla sessualità si sono effettivamente attenuati, in questi anni?

Ne parleremo insieme alle due scrittrici ospiti. Di seguito potrete leggere le loro recensioni incrociate.

Vi chiedo di interagire con Barbara e Cinzia. Come dico sempre… che ciascuno di voi faccia il giornalista culturale e ponga domande per scoprire (insieme) cosa offrono questi due libri. Chi ha già avuto modo di leggerli è pure invitato a esprimere la propria opinione.

Massimo Maugeri

——————

PANDEMIA di Barbara Becheroni – Zonza editore
recensione di Cinzia Pierangelini

Se dovessi descrivere questo libro con un’immagine penserei alla pioggia. Sì, perché in Pandemia piove spesso e quando dall’alto non scende acqua sono ben altre le cose che cadono: simpatici scienziati dall’undicesimo piano, scimmie stecchite dal curaro, lacrime, aerei, orribili ematofagi. Non tutto rovina al suolo ma i sogni di Antonio e Bento Felipe, di Chico, di Tahinà… ecco i loro sogni sì. E anche quelli di Joao, il vecchio poliziotto deluso dal proprio destino ma ancora così onesto e deciso a combattere. I loro sogni s’infrangono cocciando con la realtà e forse anche i nostri, per altri versi. Un thriller, un noir? Non so, di certo un invito alla riflessione sulla nostra epoca, su cospirazioni e ingiustizie, ingordigie e potere, sulla superficialità che è anche nostra, di ognuno, senza sconti. Un plot collaudato e personaggi adeguati e comparse anche, che a volte, nonostante vivano per poche pagine come Mae Terezinha, riescono a conquistare il cuore. Il libro ci porta in Brasile (ma non solo), con maestria Barbara ci fa visitare sobborghi e residenze da vip e l’orribile ditta farmaceutica Sephaco, così attuale, e poi, in un volo affettuoso, accarezza anche la Sicilia e la vecchia Europa. Tra le pagine è ben visibile, per me che ho dato una decina di materie nella stessa facoltà, lo sguardo della dott.ssa Becheroni-veterinaria e soprattutto quando ci spiega le analisi di laboratorio o l’orrendo morbo di Chagas portato dal tripanosoma attraverso le cimici che infestano i luoghi più poveri del Sud America. Pandemia, quasi un monito a essere più attenti e consapevoli, anche riguardo alla nostra iniqua felicità.
Il cuore pulsante, vivo del romanzo è la foresta amazzonica, questa madre –matrigna, indifferente alle nostre pene eppure così fragile, implacabile e generosa, indispensabile.
La foresta come un unico, composito essere vivente, che soffre e lotta per la sopravvivenza. Tra serpenti e belve, in un ambiente dove ‘ognuno è cibo-vita per altri’: L’anziano poliziotto si stupì quasi per l’improvvisa solitudine che lo avvolgeva. Ora il suo compito consisteva nel non cadere nel sonno, nel mantenere acceso il fuoco, e nel porre la massima attenzione a quanto li circondava. Non conosceva la foresta (…).
Nella selva Chico da ragazzetto che era si trasforma in uomo e cacciatore, Tahinà respira ancora l’amore, Joao sogna la vendetta, i cattivi sudano e incespicano senza percepire l’essenza della vita e della morte.
Barbara ci porta proprio tra le braccia di questa antica genitrice, come fossimo in una radura umida insieme ai nostri beniamini. Allarmati anche noi, confusi dalla natura nel suo spaventoso splendore, atterriti dalla sua terrificante sofferenza ma anche certi di essere al centro del ‘giusto’, nel posto da cui, ancora una volta, tutto può tornare retto, pulito, incorruttibile.
La selva cantava la sua canzone notturna, un coro di voci diverse, di richiami, di assolo, di fischi. Una grande platea animale commentava a modo suo i pensieri di Joao. In questo luogo fatato, al cospetto di fieri e sfortunati indigeni si compirà ogni cosa. L’ultima pagina del libro sarà ancora per lei, per la foresta pluviale: una richiesta di aiuto, un grido d’indignazione, una provocazione… Forse, però, anche una speranza. Da tenere stretta. Brava Barbara!

——————

‘A JATTA – di Cinzia Pierangelini – GBM editore
recensione di Barbara Becheroni

Alfredo dimentica. Nomi, persone, situazioni, cose. Come in un romanzo sudamericano, il mondo sembra destinato a svanire a causa di neuroni incapaci di ricordare. Malattia? Degenerazione dovuta a età non più giovane? Il passato si smembra, perde i confini. E Alfredo si chiede se la sua vita sia realmente esistita.
Andrea ricorda. Tutto. Dolori, umiliazioni, incomprensioni. Una vita galera, imprigionata da una X e una Y al posto di due X simmetriche. Un corpo sbagliato. Il passato che riemerge a ogni occasione. L’incomunicabilità con chi si amava e ormai se n’è andato, lasciando il rimpianto per quanto non si è riuscito a spiegare. Come scriveva De Andrè, una vertigine di anestesia, anzi, tante, tante vertigini di tante anestesie. E ormoni. E bisturi, bisturi, bisturi. Andrea ricorda, tutto.
Sembra una tragedia. Del resto siamo in Sicilia, anche se non sappiamo dove, esattamente. Ma tant’è, è sempre Magna Grecia. Il coro: gli amici di Alfredo, che sguazzano in esistenze grigiastre. Matrimoni squallidi, passatempi ordinari, figli così così. Un “murmuriari” costante e continuo. Su Andrea.
Alfredo ha offeso Afrodite, la dea dell’amore. Tanto tempo fa, in una stagione lontana in cui era belloccio e appetibile. Ha conquistato donne su donne, ci ha fatto sesso, si è divertito senza lasciare traccia. Era uno stallone, in gioventù. Ora non ricorda. Un nome, un viso. Una voce, un sorriso. Una carezza, il profumo dolce della pelle morbida. Afrodite ha punito così il maschio incapace di amare, l’egoismo sfrenato, il cacciatore ingordo. A volte capita. Afrodite sa essere crudele, con chi non cede ai suoi obblighi. Se non ami, non vivi. Se non vivi, non ricordi.
Andrea ha inseguito l’amore per tutta la vita. Lo ha cercato in ogni anfratto, in ogni angolo, in ogni luogo. L’amore è beffardo. Lo sanno tutti. Non puoi cercarlo, altrimenti fugge. Non puoi pretenderlo, se no si nasconde. Se lo sogni, si trasforma. Non lo si può raggiungere. Ti sembra di vederlo, ma era solo un’ombra, un miraggio che svanisce appena credi di averlo sfiorare.
Alfredo ha un amico coetaneo, Pippo, single come lui. La sua ancora di salvezza. Ma Pippo è destinato a tradirlo: si sposa. Alfredo resta solo. Solo, senza nulla da ricordare. Afrodite ha completato la sua vendetta. Lo sciupafemmine impenitente ormai altro non è che un uomo quasi vecchio. Totalmente solo. Solo con una gatta che apparteneva alla madre. Animale opportunista, bisbetico, un tantino snob.
Ma Afrodite è stanca. Stanca di vendette.
Qualcosa succede, in quel luogo indeterminato della Magna Grecia. Il cielo, sempre uggioso, si rasserena. Gli dei sorridono ai mortali.
Si sacrifica un’automobile. E Afrodite accetta il dono. Benedice l’amore. Lo fa volare così alto che perfino un eroe nemico, giovane e bello, di chiare doti e ingegno prontissimo viene sconfitto, perde il suo agone e fugge lontano, coperto di vergogna.
C’è tutto. Il “Deus ex machina”? La gatta.
Non era scontrosa. Aspettava il suo momento. Inno alla vita. Simbolo di maternità. La vita vince sempre. Su tutto.
Brava Cinzia, hai raccontato una storia limpida, perfetta nella sua semplicità, con uno stile preciso, essenziale, piacevolissimo da leggere. Belli i personaggi, dotati di vita propria, indipendente dal romanzo. I dialoghi sono ben costruiti, con quel tanto di vernacolo che dà un po’ di pepe al tutto. Un libro da leggere e da consigliare.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/06/recensioni-incrociate-n-9-barbara-becheroni-cinzia-pierangelini/feed/ 169
RECENSIONI INCROCIATE n. 8: Giorgio Morale, Roberto Plevano http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/21/recensioni-incrociate-n-8-giorgio-morale-roberto-plevano/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/21/recensioni-incrociate-n-8-giorgio-morale-roberto-plevano/#comments Thu, 21 May 2009 20:03:26 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/21/recensioni-incrociate-n-8-giorgio-morale-roberto-plevano/ recensioni-incrociate.jpgNuova puntata delle “recensioni incrociate” di Letteratitudine. Gli scrittori/ospiti coinvolti sono Giorgio Morale e Roberto Plevano. Entrambi gli autori fanno parte della redazione del blog “La poesia e lo spirito“.

I libri oggetto delle recensioni sono ”Acasadidio“, di Giorgio Morale, e “100 miglia” di Roberto Plevano

Due libri diversi, ma che – forse – hanno tratti in comune nella gestione dei rapporti umani e famigliari.
100 miglia racconta il volo, il sogno, e nel volo… la libertà suprema, la scrittura. Acasadidio, fotografa – tra le altre cose – le ristrettezze dell’ufficio, una Milano chiusa e intabarrata nei soliti ritmi, l’oscurità di mura di uno “stabile vecchio, volutamente povero”, “angustia dell’ingresso, oscurità delle scale, locali tutti uguali”, “dappertutto crocifissi ai muri, madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta”. Una casa di Dio ben impiantata che però nasconde giochi truffaldini e impasti della solita Italia… e le distorsioni di alcune organizzazioni di volontariato.

Così vi domando:

Che rapporti avete con il “volo”?
Avete mai sognato di volare?
Cosa vuol dire sognare di volare: libertà o desideri inappagati? Cosa fu per Icaro?
E la scrittura – come il volo – è libertà o desiderio inappagato? Pienezza o mancanza?

E poi…

L’oscurità (rappresentata dalle angustie dell’ufficio) è solo smarrimento, dovere?
O anche il dovere è libertà?
Che rapporti avete con il mondo del volontariato?
Cosa ne pensate?

Di seguito potrete leggere le recensioni incrociate dei due scrittori/ospiti di questa puntata.

Vi chiedo di interagire con Giorgio Morale e Roberto Plevano, che parteciperanno alla discussione. Come dico sempre… che ciascuno di voi faccia il giornalista culturale e ponga delle domande per scoprire (insieme) cosa offrono questi due libri. Chi ha già avuto modo di leggerli è pure invitato a esprimere la propria opinione.

Massimo Maugeri

Extrapost: domani pomeriggio sarò ospite della trasmissione culturale condotta da Mariella Alì a Radio Catania: h. 17-19 circa. Sono previsti gli interventi di Roberto Alajmo e Simona Lo Iacono. La trasmissione si può ascoltare in diretta collegandosi al sito: www.radiocatania.it

———————

100 MIGLIA di Roberto Plevano
Recensione di Giorgio Morale

Ci sono sere d’estate in cui il mondo è in attesa di qualcosa che non arriva e s’invoca la cessazione di tutto. Ci si affaccia alla finestra e si guarda. È tutto pieno, di sostanze diverse ma ugualmente compatte: case, aria, nuvole. È come essere in un sommergibile o in una tenda a ossigeno. Né vivi né morti, sospesi fra due regni, come gli eroi greci morti senza sepoltura. Si anela al vuoto – chissà quando, chissà dove. Come soccorrerebbe allora un’immagine come questa:

“Era come sospeso a qualche filo invisibile che aveva come punto d’origine il puro nulla, e quel pendolo aereo privo di perno pareva comunque un muoversi con segreta regolarità di oscillazione. O era a tratti un galleggiare su polle e cascate create e disfatte a ogni istante nel silenzio dell’incerto e pur così continuo procedere” (p. 9).

Di tutti i sogni dell’uomo, il volo, pur da tempo tradotto dai sogni alla realtà, pare conservarsi inalterato: forse per essere legato al desiderio inesauribile di libertà, di acquisire una leggerezza che superi la gravità naturale. O forse perché è quello che più ci equipara agli uccelli, gli esseri felici per eccellenza, come ebbe a definirli l’operetta leopardiana. E anche qui c’è una sorta di elogio degli uccelli da parte di un istruttore di volo, strana figura di puro di cuore e truffaldino al contempo, in un discorso a metà tra Leopardi e Francesco d’Assisi:

“Gli uccelli… sono nostri amici. Sono come nostri fratelli. Fratelli maggiori. Ci mostrano l’aria, ci segnalano dove si sale, e dove c’è turbolenza. Osservare sempre! Gli uccelli sono allegri, cantano, e più sono contenti, meglio cantano e meglio volano! Si divertono quando volano. Nessun animale si diverte come loro, volano e cantano e ci insegnano! Aria buona, uccelli cantano!” (p. 133).

Tutto un immaginario mitico e mediterraneo si mescola ad arditezze poetiche e filosofiche, da Icaro a Baudelaire a Nietzsche, nel rinverdire continuamente questo sogno. Come si vorrebbe, noi stessi, poter dire così!

“I rumori, tutti, cessarono… E improvvisamente il mondo si srotolò davanti a me, prese a scorrere a una velocità ridicola… scorrevo anch’io incontro a esso. E non capivo, non sapevo che cos’era, il quadro di riferimenti spaziali che era nato con me e che mi aveva accompagnato fin dai primi miei passi era sconvolto… la terza dimensione era entrata in me con la vertigine e la meraviglia, e poi allargava la cavità del mio petto con una grande euforia” (p. 24).

La citazione di p. 9 è il primo contatto col parapendio, nel romanzo 100 miglia di Roberto Plevano, da parte del protagonista Luca; quella di p. 24 è la sua prima esperienza di volo.

Alcune delle pagine più felici del romanzo sono quelle dedicate al volo:

“È come un conflitto di naturali armonie, la gravità che ti blocca a terra dove sei nato, la spinta che porta in alto, che pare il compiersi di un’antica promessa. Cambia il respiro, cambia la percezione del tuo corpo, una liquida vibrazione comincia ad agitare i polmoni e lo stomaco… sentivo nel corpo la felicità dell’asino che raglia, la gioia del gallo all’alba, la completezza organica dei sensi nell’esercizio dell’azione perfetta e funzionanti in concordia. È una specie di vibrazione interna, il canto della carne” (p. 122).

E una delle scene più toccanti in assoluto è quella in cui uno spettatore non riesce a trattenere l’emozione al vedere uno stormo di cicogne che vola per un tratto appaiato a un gruppo di umani:

“Aprì la bocca, e d’improvviso il suo corpo fu preso da una specie di fremito convulso. Ero dietro di lui e pensai a una fitta di tosse. Erano singhiozzi invece. L’uomo piangeva, come chi non aveva più conosciuto lacrime dagli anni dei giochi e la chiusa delle acque dell’anima fosse andata in frantumi, per lunga usura, in un momento. ‘Ma dove vanno? Dove vanno? Le hai viste? Dove vanno?’. Non riuscì a dire altro, la voce rotta da singulti, un pianto dirotto” (p. 126).

* * *

Lo spirito della gravità in 100 miglia è rappresentato dallo spirito del tempo, in cui “anche i più semplici rapporti personali sono avvelenati da interessi nascosti e da continue manipolazioni” (p. 41), da una “società spuria, che a lungo, nel disinteresse generale, ha incubate alcune malattie degenerative di diagnosi difficile e impossibile cura” (p. 34). In cui “tutti, tutti! Si lamentano che è dura, lavorano tanto, che non hanno tempo, che è sempre più complicato” (p. 53). È rappresentato da una società che presenta una realtà capovolta, in cui ci sono “McDonald’s e simili che vendono cibo che non nutre, delle canzoni che non sono musica, professori che non insegnano… medici che ammazzano… giudici che vendono sentenze per un appartamento in centro,… ricchi che sono poveri e viceversa… partiti che sono club… politica che non è più governo,… arte che è mera esibizione,… religioni fai-da-te con tessera d’iscrizione a scalare secondo il reddito e il livello di plagio,… storia che è diventata successione di eventi, e che è finita, a quanto pare” (pp. 55-56). E arrivano anche sentenze come: “Benessere? Quale benessere?… non c’è nessun benessere in Italia. Ci sono solo un po’ di soldi, e finiranno in fretta” (p. 53).

Ma nella dimensione umana pesantezza e levità si intersecano, comunicano come per osmosi. Così in questo romanzo avviene ai due amici. A Luca, che per la pratica del suo sport preferito potrebbe apparire spericolato, ma in realtà vive nella provincia rassicurante e sonnolenta con moglie e bambini che riempiono il suo mondo, e al cui equilibrio basta l’evasione del volo una volta la settimana. E a Renato, che, dopo l’illusione di un progetto di ricerca in America abortito per l’ignoranza e la corruzione degli ambienti universitari, è diventato agente di commercio, ma anche lui si scoprirà coltivare una sua via per la libertà.

Cento miglia di volo è il percorso che il protagonista Luca aspira a percorrere e la misura della sua libertà, mentre le cento miglia di Renato sono un volumone che Luca trova nell’abitazione, dopo la morte prematura dell’amico in un incidente automobilistico: è come se lo stesso soffio diventasse il vento che alimenta il volo di Renato e lo spirito che ispira la scrittura di Luca. Nel volumone, nonostante l’amarezza della sua esperienza del mondo, perennemente sulle soglie della disillusione e della tragedia, Renato ha salvato grazie alla scrittura la gioventù sua e del suo gruppo di amici. Proprio lui, che sembrava il più lontano dalla scrittura e mai aveva lasciato trapelare questa passione.

Anche se lo stesso Renato lo aveva dichiarato, parlando con l’amico: alla scrittura va affidata “la mia esperienza, quello che ho passato, amicizie, lavoro, amori, affetti, diventare adulti, e la fine della giovinezza… è stata tutta roba abbastanza inaspettata, cioè non l’ho riconosciuta in nessuna storia che ho letto finora”. E anche Anna: “A sentire sulla carne certe verità, che cos’altro si può fare se non lasciare un segno, scrivere, se si può? Può essere una testimonianza… scrivere è una validazione dell’esperienza” (p. 209).

Fa da contraltare ai due amici Anna, l’amore giovanile di Renato, che “Fin da bambina era stata attenta a quello che la circondava. Se anche non capiva subito il mondo intorno, la fede nell’intelligenza delle cose non veniva meno, quasi mai… era sempre un pensare: perché le cose sono così? Perché le persone fanno così?… ‘Il dolore c’è, il male c’è, il male c’è!’. Non era più un pensiero, era un riscontro spassionato, la lettura di una cartella clinica, una mesta constatazione della prognosi infausta… C’era il suo dovere, solo il dovere” (pp. 25-29).

Ma anche lei: con il suo senso del dovere e la sua decisionalità, professionista in carriera e al contempo moglie e madre, colei che come una Parca recide definitivamente i fili con il passato rifiutando la pubblicazione postuma del manoscritto di Renato presso la casa editrice per cui lavora: anche lei è protagonista di una squallida relazione extraconiugale. Insomma, tutte le vite sembrano a metà e pare potersi applicare a tutti i personaggi la sentenza che nella vita non c’è relazione tra intenti e risultati. La fine della giovinezza pare capovolgere i sogni, e forse questo libro, questo 100 miglia, rappresenta per lo stesso autore Roberto Plevano il prolungamento della giovinezza con il compimento di un sogno.

E allora si capisce quanto afferma Luca, che la ricerca vera, nel volo, nonostante le comuni proiezioni e, confesso, anche le mie, non sia la nozione di libertà: “quella è rudimentale. La storia sta nel pilotaggio, che è un’idea di se stessi” (p. 150).

* * *

Roberto Plevano è scrittore colto e ironico. Il suo testo fa rivivere figure mitiche e occhieggia ai classici della letteratura e della filosofia. Il romanzo si fa metaromanzo, dove la stessa penna dello scrittore esercita il suo spirito critico riflettendo sulla scrittura, ad esempio quando affida ad Anna una sorta di definizione della sua opera: “Non c’è una storia, una struttura, un’unità di proposito” (p. 211). In realtà la mancanza di una storia non è un problema. Nonostante gli strilli del mercato che la invoca, la tradizione novecentesca dovrebbe averci immunizzato dalla soggezione alla dittatura della storia – dovrebbe: anche se sappiamo che tuttora non è del tutto così.

Il problema in 100 miglia mi pare risiedere nella struttura. Le storie di Luca e Renato non sono ben intrecciate né procedono parallele, cosicché solo nelle ultime pagine si realizza pienamente la funzione del personaggio di Renato. Mentre la vicenda di Luca (il volo) è raccontata in presa diretta, quella di Renato emerge solo nei racconti in flash back, per cui il suo percorso perde in forza e immediatezza. Le note sullo Zeitgeist anziché essere fatte figura e storia sono affidate ai discorsi di Luca e Renato a tavolino e talvolta appaiono come digressioni non sempre necessarie.

Una maggiore sintesi e una migliore organizzazione della materia potrebbero permettere di gustare in pieno la scrittura sicura e curata e l’insieme dell’opera, in cui sono da ricordare, oltre alle già citate pagine sul volo e quelle su Jacek, quelle sulla corsa di Anna in bicicletta, quelle sulle montagne, sul primo bacio tra Renato e Anna, e quelle finali, che, malgrado l’intenzione parodistica della ripresa della petrarchesca ascesa al monte Ventoso, hanno la trasparenza e lo spessore delle migliori pagine di Plevano, quelle in cui è minore il controllo e l’autore riesce a coniugare armonicamente sensibilità e cultura.

Le critiche sono doverose. Tuttavia 100 miglia è un romanzo insolito, e forse l’intenzione dell’autore non era quella di confezionare un lavoro “riuscito”, calibrato, rispettoso di una certa organizzazione, di regole di costruzione del testo, ecc., bensì quello di presentare vario materiale narrativo e metterlo al servizio della comunicazione di un’esperienza assai particolare: a mia conoscenza, infatti, questa è la prima opera narrativa in assoluto che abbia il volo libero come tema principale. Dal momento però che il volo è materia preferibilmente trattata nel suo valore metaforico (anche se 100 miglia prende il suo materiale in termini molto letterali), rimane allora un interrogativo inevaso a proposito del destinatario implicito di questo testo, che non pare confinato nella cerchia di chi per sorte abbia condiviso questa esperienza.

_______________________

Acasadidio di Giorgio Morale
Recensione di Roberto Plevano

Oggetti umili, luoghi a margine, situazioni quotidiane, i piccoli piaceri soffocati nel fastidio delle abitudini moleste: una caffettiera pronta dalla sera sul fornello, l’ufficio nell’“estrema periferia”, “alle spalle le macchine sulla tangenziale”. Impiegate che arrivano alla spicciolata, stanche e incazzate già a metà mattina.
Il romanzo Acasadidio di Giorgio Morale (2008 Manni Editori) si apre con l’umore amaro di una consueta grigia mattina milanese, che sembra stendere una coltre di claustrofobia sopra ogni gesto e ogni ambiente.
E il racconto sembra via via fermarsi di proposito in luoghi circoscritti; non andare, con lo sguardo, oltre il chiuso dell’ufficio, e poi l’abitacolo del tramvai, qualche via cittadina sul cammino di casa, o il collegio di suore imposto per decoro piccolo borghese a una giovane inquieta, la vecchia casa di famiglia dalle stanze chiuse, che rimandano alle stanze chiuse della memoria che trattengono i ricordi, le cose salvate di una passata, inconsapevole, e non proprio rimpianta infanzia, affollati atrî e uffici di questura, o la luce fredda, compressa, di un obitorio, il dolore muto di una madre, che ammutolisce il narratore: “non mi lasciava una parola in bocca”.
L’ufficio, “stabile vecchio, volutamente povero”, “angustia dell’ingresso, oscurità delle scale, locali tutti uguali”, “dappertutto crocifissi ai muri, madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta”, è un centro di “volontariato” che ha in gestione l’accoglienza e l’avviamento al lavoro degli immigrati: le necessità e i drammi degli ultimi arrivati. In realtà un luogo che l’italico genio, e la retorica dell’impresa, ha trasformato in un pretesto, uno dei tanti in città, di speculare attraverso clientele, appropriazione di denaro pubblico e favori incrociati. La modestia esteriore, l’impronta confessionale, la finzione del volontariato e la locazione periferica, a casa di Dio appunto, sono gli studiati camuffamenti con cui si dissimula il fulcro della via lombarda, e italiana, sgangherata e truffaldina, alle politiche dell’immigrazione, dietro copertura di “servizio” e iniziativa privata: “indirizzano i poveretti da famiglie facoltose del loro partito o da aziende della Bassa della loro congrega – per essere più forti si sono messi in una Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza. Così riforniscono i loro amici di manodopera a basso costo e per di più sono pagati dallo Stato perché trovano lavoro. Come se non bastasse, hanno il riconoscimento morale”. Piana allusione alla struttura di potere della Compagnia delle Opere, e tuttavia Morale si concentra sui caratteri dei personaggi piuttosto che sulla descrizione dei meccanismi di malaffare e di connivenza delle istituzioni.
Il romanzo alterna, in modo un po’ schematico, due piani narrativi.
Molte le storie che si dipanano dalla racchiusa unità di luogo dell’ufficio. Da qui procede il racconto impersonale dell’andirivieni delle faccende di lavoro ed esistenziali dei vari personaggi. Teresa è l’impiegata (forse l’unica in autentica buona fede) che apre l’ufficio, e in un certo senso ne custodisce sempre le chiavi. Il direttore faccendiere, figlio di immigrati meridionali, passato da una gioventù di ristrettezze al caparbiamente e spregiudicatamente cercato successo economico e sociale. La vicecapa Martina (“ha preferenza per le mignotte nere da redimere e i cingalesi dall’aria cattolico-remissiva”), una vedova bulimica e bigotta, delusa di non vedere il figlio prete (e che vedrà assecondata, in modo imprevedibile e imbarazzante, la propria preferenza in fatto di immigrati dal figlio stesso). Ombretta, che “da ex femminista incallita, rifiuta belletti e profumi: «i deodoranti inquinano» dice”. Vanna, una chiusa, che va “diritta per la sua strada”, ostenta senso del sacrificio ma non si è mai sicuri sull’effettivo rispetto degli impegni, e si fa ingannare “da un eterno fidanzato” che nasconde una moglie in Romania. Altri personaggi maschili aggiungono carattere alla vita dell’ufficio.
Teresa prende voce direttamente nel secondo piano narrativo, che occupa i capitoli resi in prima persona e contrassegnati dalla scelta tipografica (non necessaria, a mio parere) del corsivo. Qui il narratore fornisce un commento interposto alla vita dell’ufficio e porta il lettore ad immedesimarsi con la realtà esistenziale di una giovane donna alle prese con rapporti non facili con la famiglia, con la propria stessa crescita, i suoi luoghi dell’anima, con gli uomini, con una gravidanza inattesa. Qui Morale risolve il resoconto episodico in una solida unità di resa psicologica della vita di una donna e del suo incontro con il dolore altrui, da lei accolto con l’ospitalità offerta ad Anila, una prostituta albanese dal destino segnato, e poi alla madre File, venuta in Italia a reclamarne il corpo. File è una figura straordinaria di mater dolorosa che ha in sé le risorse di dare un senso e una tenue speranza in una vicenda che ha il pathos e i lutti di un dramma tragico. File riannoda un linea spezzata di umanità prendendosi cura di Teresa durante la gravidanza e il parto.
La concisione del lavoro di Morale (30 capitoli distribuiti in 130 pagine) non deve trarre in inganno: Acasadidio è un romanzo certosinamente preparato, in cui ogni paragrafo rivela una scrittura nitida e controllata, capace di annullare ogni distanza tra lettore e fatti descritti, tra costruzione dell’impianto narrativo e piacere della lettura. Ecco, questo è il merito del romanziere, di portare il manufatto di testo, con i suoi artifici e dispositivi, a essere come una lama di bisturi che affonda nella realtà politica e sociale della crisi italiana, nella vita delle coscienze distratte e appannate. Il romanzo prende vita sul suo doppio binario di registro narrativo ed è un’importante testimonianza sullo stato dell’umanità dell’Italia nel nuovo millennio, tra emigrazione e condizione speculare del precariato degli indigeni italiani, e le incertezze della vita di tutti. Ma c’è di più.
L’intento ironico, a tratti satirico, di Morale è in realtà uno sguardo politico, che tuttavia forma solo un primo, e forse non così rilevante, livello di lettura, perché la crisi, il fallimento delle classi dirigenti, in una parola la catastrofe italiana che viene da lontano, è davvero sotto gli occhi di tutti, ad ammettere un po’ di onestà intellettuale. La letteratura, oggi in Italia, se si può parlare di letteratura di impegno civile, aggiunge un valore conoscitivo importante ma tutto sommato marginale all’analisi della realtà (e credo che molti non saranno d’accordo con questo apodittico giudizio). Il testo di Morale allora ha la forza di evocare caratteri e strutture esemplari dell’esperienza umana. Si nota, ad esempio, una marcatissima asimmetria di giudizio morale tra personaggi maschili e femminili: il presidente, il padre spirituale nel ricordo della giovane Teresa, il padre che se va, gli approfittatori che lavorano nel centro, il fidanzato albanese, sono figure insicure, disonesti, ipocriti, traditori, detentori di un’autorità usurpata, vengono sistematicamente meno alla responsabilità vera: il romanzo illustra il collasso delle pretese morali dell’autorità maschile. A Teresa, a File, più che alle donne costrette dalle, e vittime delle, aspettativi maschili, viene affidato il compito di fare da levatrici dell’unico futuro possibile, quello incerto ma che, solo, può salvare della disumanità montante del presente. Presente provvisorio, presente sotto continua emergenza, e perenne condizione umana: “escono tutti dallo stesso buco e finiscono tutti sotto la stessa terra” (pag. 123). Quando coloro che guadagnano dalla sofferenza del prossimo non ci saranno più, quando i guadagni illeciti saranno stati spesi, gli uomini e le donne continueranno a nascere e a morire.
Sotto questo aspetto, il titolo del libro oltrepassa l’ironia dell’attualità, ed esprime una dolente, amara presa d’atto del mercimonio che gli uomini hanno fatto del dovere sacro, prima che etico, della relazione di ospitalità, e proprio in nome di quella religione che dello straniero fa il prossimo. Nel romanzo Dio non parla, non c’è, fugge dalle istituzioni che gli uomini fabbricano in suo nome per dissimulare miseria, la loro miseria, e sopraffazione. Sarebbe facile arrestarsi alle considerazioni di un umanesimo laicista, la religione come superstizione, strumento di dominio, imposizione sulle coscienze, e certo Morale condivide questo clima intellettuale, ma l’immediatezza delle sofferenze rappresentate in Acasadidio chiama il compito urgente della compassione, più che dell’analisi razionale. Compassione assente in tutti i volontari del centro, tranne che in Teresa, che accanto alla compassione per l’altro impara la compassione per se stessa.
Forte di questo sentimento, Teresa al termine del romanzo compie l’unico autentico atto di libertà, decidendo di lasciare l’impiego e portare a termine la gravidanza, pur senza la presenza di un compagno e di sicurezza economica. Teresa è testimone e custode del dolore dell’oggi e dell’attesa del domani. È una degna conclusione di un romanzo toccante, in cui Morale descrive con competenza, senza compiacimento né sensazionalismo, i meccanismi di sfruttamento “legale” degli “sfigati” così come quello illegale delle giovani nigeriane e albanesi (ma potrebbero provenire da tante altre parti del mondo) nel micidiale cozzo tra strutture familiari arcaiche e la seduzione pornografica predominante nella comunicazione sociale. È la persistente materia umana della violenza e dello sradicamento. Sono i paralleli dell’inganno, dell’ipocrisia perbenistica del “padre spirituale” per nulla devoto allo spirito, della preside del collegio di suore, e dei finti fidanzati delle ragazze mandate al mercato (che diventa macello) del sesso. Le famiglie, tutte, sono acquiescenti, corrive, impotenti di fronte al male.
Le famiglie tutte. Il romanzo descrive noi, e descrive gli altri che saranno noi nel tempo di una generazione, perché la società oggi si muove in fretta, e tutto assimila. La vita più intima di tutti i personaggi di Acasadidio è inestricabilmente intrecciata con lo straniero, con l’immigrato, che già straniero non è più.
Per chi ci sarà domani, saranno duri da affrontare i risentimenti, le scie di malcontento che la nostra cecità, le nostre furbizie stanno ora depositando, con la rinuncia preventiva, stupida, demagogica, autolesionistica, al tentativo di formare una società meno ingiusta di questa.
Dobbiamo essere grati a Giorgio Morale e al suo Acasadidio per ricordare, con sobrietà e molta fermezza, queste ovvie verità.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/21/recensioni-incrociate-n-8-giorgio-morale-roberto-plevano/feed/ 147
RECENSIONI INCROCIATE n. 7: Marino Magliani, Stefania Nardini http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/31/recensioni-incrociate-n-7-marino-magliani-stefania-nardini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/31/recensioni-incrociate-n-7-marino-magliani-stefania-nardini/#comments Tue, 31 Mar 2009 19:50:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/31/recensioni-incrociate-n-7-marino-magliani-stefania-nardini/ recensioni-incrociate.jpgNuova puntata delle “recensioni incrociate” di Letteratitudine. Gli scrittori/ospiti coinvolti sono Marino Magliani e Stefania Nardini.

I libri oggetto delle recensioni sono ”La tana degli Alberibelli“ (di Marino Magliani) e “Gli scheletri di via Duomo” (di Stefania Nardini).

Due libri diversi, ma che hanno tratti in comune…

La Liguria di Magliani a confronto con la Campania della Nardini; un incrocio tra Napoli e una città della costa ligure; due noir, due romanzi incentrati sull’indagine e sulla ricerca della verità.

E proprio la ricerca della “verità” – basata sull’indagine, ma non solo – potrebbe essere uno dei temi che lega i due libri…
Così vi domando:
quali sono i principali limiti della ricerca della verità (nella vita e in letteratura)?
spesso la verità è sfuggente, multiforme, difficilmente individuabile… ma esistono situazioni oltre le quali la verità assume una veste univoca e incontrovertibile?

Di seguito potrete leggere le recensioni incrociate dei due scrittori/ospiti di questa puntata.

Vi chiedo di interagire con Marino Magliani e Stefania Nardini, che parteciperanno alla discussione. Che ciascuno di voi – se vi va – faccia il giornalista culturale e ponga delle domande per scoprire (insieme) cosa offrono questi due libri. Chi ha già avuto modo di leggerli è pure invitato a esprimere la propria opinione.

Massimo Maugeri

——————

La tana degli Alberibelli – Marino Magliani – Longanesi, 2009 – euro 18 – p. 329

MAGLIANI, LA FORZA DEL ROMANZO MEDITERRANEO
di Stefania Nardini

Bella e misteriosa.
Azzurra da far sognare, verde per darti il senso della vita. Terra di confine, di streghe, di gente con la faccia bruciata dal sole. Di mare, un mare che ne inghiotte il mistero. E’ la Liguria di Marino Magliani che torna con il suo nuovo romanzo: “La Tana degli Alberibelli” (ed. Longanesi). Romanzo “ad alta definizione” di questo narratore che ha fatto della scrittura il suo viaggio, il suo percorso, con lo spirito di chi non vuole sottrarsi alla realtà fermandosi su cio’ che è poesia dell’esistente.
Magliani ci racconta una bella storia. Una storia il cui protagonista è un giovane olandese, ufficialmente archeologo alla ricerca di un oggetto abbandonato dai disertori nella battaglia di Marengo, in realtà un investigatore inviato da un ufficio antifrode per avere informazione sui fondi dirottati su un porto turistico che si preannuncia il più grande del Mediterraneo.
E Magliani mette nelle mani del protagonista, nel suo duplice ruolo, passato e presente di un Ponente Ligure dove riaffiora il “non detto” (aspetto questo che troviamo anche nel suo precedente romanzo “Quella notte a Dolcedo”) della Storia. Una storia in cui la verità è rimasta spesso sepolta tra i rovi di queste montagne dove la guerra è stata povertà, morte, ma anche esplosione di miserie umane che sono ancora oggi nella memoria. Magliani non esita a rivisitare la metamorfosi di quelli che furono i partigiani, con i loro nomi di battaglia, con i loro nomi di protagonisti “eccellenti” quando poi la guerra divenne un ricordo. Come in un’operazione chirurgica estrae pezzi di memoria che ricostruiscono l’identità. E lo fa mettendo insieme il dato storico e una penetrante osservazione sul particolare, su cio’ che meglio arricchisce l’atmosfera ruvida e al tempo stesso dolce.
E’ un romanzo che parla del mare “La Tana degli Alberibelli”, di un mare visto dalla prospettiva dei villaggi arroccati sulla roccia. Un osservatorio da cui è possibile immaginare un futuro imminente legato a grandi interessi economici, in cui in nome della speculazione si sta per compiere lo scempio. Santaleula non è solo l’idea di realizzare il grande porto. Ma l’uso della più bieca persecuzione a colpi di ordinanze e carte bollate, per eliminare tutto cio’ che puo’ “interferire”. E’ cio’ che scoprirà il giovane Jean Martin, giunto in terra ligure dopo la misteriosa morte dell’agente suo collega con il quale manteneva segretamente i contatti, è l’intreccio tra passato e presente, tra gli strani segni lasciati da un partigiano cattolico in una grotta e mai decifrati, e gli “avvertimenti” che riceve quotidianamente mentre è pedinato da una Volvo bianca.
Un noir. Anche. Ma soprattutto un libro in cui la vera denuncia è in un disperato grido per salvare la ricchezza umana di questa terra, al di là di quell’apparente immagine sorniona di villaggi dove il tempo sembra scivolare senza lasciare traccia. Una ricchezza che Magliani mostra attraverso la forza della natura, delle parole, ricorrendo, senza esitazioni, a Francesco Biamonti di “Vento Largo”.
Un romanzo mediterraneo, che a tratti ci riporta a Braudel, come alla Marsiglia di Izzo , mantenendo un sua fisionomia precisa, nuova , che ne fa un testo maturo, saldamente collocato nello stile e nei contenuti.
Marino Magliani ha scritto una vera lettera d’amore alla sua terra. Mettendoci, come si fa con un’amata, la passione, l’amarezza, e una ribelle dolcezza.
E questa è una grande novità. Cercare in letteratura la verità senza rinunciare alla bellezza.

——-

Gli scheletri di via Duomo – Stefania Nardini – Pironti, 2008 – euro 10 – p. 111

QUANDO GLI SCHELETRI NON SONO NELL’ARMADIO
di Marino Magliani

In tempi in cui diventa ormai un genere parlare della Napoli quotidiana e di usare tutti gli ingredienti di cui si sa, una scrittrice, una giornalista, come si suol dire, prestata alla letteratura, decide di consegnarci squarci di una Napoli appena trascorsa eppure lontanissima. E non le basta, la morte sulla quale indaga l’io narrante, un giovane cronista del Mattino, é addirittura archeologica. Si tratta di due scheletri ritrovati nell’intercapedine di un palazzo che ha conosciuto momenti migliori. Il palazzo si trova in via Duomo al civico 214 e dá il titolo al libro. Gli scheletri di Via Duomo.
L’autrice é Stefania Nardini, che ha pubblicato lavori con Newton Compton e questo é il suo secondo romanzo con l’editore Tullio Pironti, un buon editore, storico, al quale si sono legati grandi nomi della narrativa italiana e internazionale e del giornalismo. L’altro romanzo della Nardini é Matrioska ed é stato addirittura tradotto in Ucraina, cosa piú unica che rara nella narrativa italiana contemporranea.
Leggendo questo romanzo pensavo a Morte annunciata di Marquez, non perché ci assomigli ( anche se in quest’aria di Napoli andata e lontana, a tratti magica, qualcosa di latinoamericano si riesca a respirare ), ma per la perfezione della costruzione, per come entrambi gli autori, Marquez e la Nardini riescano a ubbidire e a stupire il lettore nello stesso tempo. Per come a parlare siano i colori e i respiri, e per come passo passo le ipotesi sappiano ridare vita e rimettere carne intorno agli scheletri di Via Duomo.
Il professor Improta, come sempre attentissimo lettore, recensendo questo libro ha fatto notare che in questa indagine, la polizia non gioca un ruolo. Ed é vero, si direbbe di piú una questione privata, iniziata chissá quando e mai interrotta, un rapporto senza mediazioni, tra il giornalismo e la cittá di Napoli.
Alla fine questa diventa la ricerca di un giornalista che aveva capito che indagando su due scheletri si poteva indagare sul cadavere di una cittá.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/31/recensioni-incrociate-n-7-marino-magliani-stefania-nardini/feed/ 113
RECENSIONI INCROCIATE n. 6: Francesco Forlani e Lidia Riviello http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/23/recensioni-incrociate-n-6-francesco-forlani-e-lidia-riviello/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/23/recensioni-incrociate-n-6-francesco-forlani-e-lidia-riviello/#comments Fri, 23 Jan 2009 16:47:53 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/23/recensioni-incrociate-n-6-francesco-forlani-e-lidia-riviello/ recensioni-incrociate.jpgNuova, particolarissima, puntata delle “recensioni incrociate”.
Dico particolarissima perché oggetto dell’ “incrocio”, stavolta, sono un’opera di narrativa e una silloge di poesie.
I due autori/recensori invitati sono lo scrittore Francesco Forlani (redattore storico di Nazione Indiana e de La poesia e lo spirito) e la poetessa Lidia Riviello.

I libri oggetto delle recensioni sono “Autoreverse” (di Francesco Forlani) e “Neon 80” (di Lidia Riviello).

Il volume della Riviello beneficia di una nota di Edoardo Sanguineti e offre, per dirla con le stesse parole dell’autrice, “materiali sparsi, volutamente accennati e provvisori. Accennati e provvisori come sono stati gli anni Ottanta, nei quali, io bambina e adolescente, mi iniziavo come potevo e soprattutto mi “cominciavo” a scrivere. Il neon era la non-illuminazione che rendeva le nostre città, uffici, i centri commerciali, gli ingressi dei palazzi dei non luoghi, scenografie ripetitive di uno scenario un tempo spento, ora acceso dalle nuove tecniche di illuminazione. Un piatto e lineare “luogo standard” dentro il quale prendevano vita eccentrica i feticci delle nostre società di consumo. Se ci sono stati dei non luoghi ci sarà stata una luce radicalmente “autonoma e immortale” a isolare tempo e spazio. Con questo “gas nobile, inerte, quasi incolore”, si spegneva il sole”.

I protagonisti del romanzo di Forlani (vi invito ad ascoltare l’intervista che l’autore ha rilasciato alla trasmissione Fahrenheit di Radio Rai Tre) si chiamano Angelo e François. Si sono conosciuti alla reception dell’Hotel Roma, l’albergo dove Cesare Pavese si è suicidato. Lì Angelo, immigrato meridionale, fa il portiere di notte e François ha prenotato per la sua ultima notte in Italia la camera “di Pavese”: era qui alla ricerca dell’unica registrazione, forse dispersa, con la voce dello scrittore. I due fanno amicizia e, come in un vecchio nastro, le loro voci si alternano e si incrociano: si raccontano dei rispettivi paesi, delle loro vite, delle occasioni avute e di quelle perse… ma i loro discorsi tornano sempre a lui, a Pavese, alla sua scrittura, ai suoi amori infelici. Come quello per Constance Dowling, l’attrice americana alla quale fu legato e la cui figura è divenuta per François altrettanto ossessionante della voce dello scrittore. E poco per volta la vita di Pavese diventa sempre più presente nella quotidianità dell’albergo, permeando le storie di dipendenti e ospiti, tra amori e matrimoni, eventi apparentemente misteriosi, speranze e tradimenti…” (nota al libro).

Due testi diversi, legati dalla comune esigenza della ricerca.

Vi invito a interagire con gli autori ponendo loro domande. E poi, come sempre, tenterò di organizzare discussioni “collaterali” sui temi trattati dai libri proposti. Così vi chiedo…

Come sono stati, per voi, gli anni ‘80? Come li ricordate? Quali sono stati i pro e i contro? (libro della Riviello)

Ascoltare la voce di uno scrittore, di un poeta… udirne il suono… può consentire di conoscere meglio le sue opere? Oppure c’è il rischio che, in qualche modo, quell’ascolto possa esercitare una funzione “sviante”… (libro di Forlani)

Seguono le recensioni incrociate.

Massimo Maugeri

——————————-

“NEON 80″ di Lidia Riviello - Casa editrice Zona, 2008 - euro 10 - pagg. 60
recensione di Francesco Forlani

C’est à partir du jour où l’on peut concevoir un autre état de choses qu’une lumière neuve tombe sur nos peines et sur nos souffrances et que nous décidons qu’elles sont insupportables.

L’Être et le Néant” (1943), Jean-Paul Sartre

Il neon (o neo) è un elemento chimico della tavola periodica degli elementi, che ha come simbolo Ne e come numero atomico 10. Gas nobile, quasi inerte, incolore. Il neon possiede una distintiva incandescenza rossastra quando è utilizzato in un tubo a scarica o nelle lampade dette, appunto, “al neon”. È presente in tracce nell’aria (definizione wikipedia).
Tra i punti deboli dei movimenti avanguardistici in Italia ne va segnalato uno in particolare: neo. E’ un punto debole perché con un colpo al cerchio e uno alla botte, si finge nuovo partendo dal vecchio. In questo libro prezioso, Neon 80, di Lidia Riviello (casa editrice Zona), come solo un libro di poesia può e sa esserlo, accade invece che i due tempi e dunque i mondi che quei tempi sottintendono, si scontrino tra di loro, e nella fragilità dell’oggetto – cosa di più fragile che non una poesia?- si entra solo a patto di fare attenzione, esercizio di consapevolezza.
Molti ricorderanno come, sul finire degli anni Settanta, le illuminazioni delle case degli italiani si annientarono in nome del risparmio energetico. E di colpo le cose si intubarono, come nelle corsie degli ospedali, nelle aule di scuola, anticipando il secolo a venire della medicalizzazione delle vite e delle relazioni. La pellicola non era più il supporto dell’imagerie collettiva ma un involucro, un muro per quanto trasparente tra le le persone e le cose. La mutevolezza dei tempi, il trasformismo degli anni Ottanta, come in certi apparecchi elettronici dell’epoca, indicava la funzione, mute e spingeva le voci più forti a starsene zitte, mute. La voce di Lidia Riviello non tace. Si algoritma, si espande, che nemmeno ne senti l’odore da subito, ma poi ti impregna e nella geometria dei versi ritrovi la tua voce – la composizione si avvale di fughe e contrappunti prevedendo ad ogni apertura del discorso una chiusa che ti lascia senza voce, senza parole.
“Società perfetta, di tutti, dei morti soprattutto, dei morti con nessuno in casa” recita un verso, e la couleur della poetica è annunciata. E’ dello stesso colore del ghiaccio. Lo vedi.
Si dice di un verso, spesso, di come esso sia toccante. E a volte mi chiedo se sia possibile toccare un verso – i poeti si sa hanno poco tatto, in generale – e come per i gas, sembra che sia difficile. Ecco allora che la parola poetica di Lidia Riviello si inguaina, s’impellicola, e di colpo la vedi, la tocchi, la spingi in ogni angolo della memoria. E’ una parola critica, dissidente, ma che mai diserta il mondo. Nemmeno quando questo sembra senza senso. Quando il mondo non si lascia più decodificare, vedere, esperire, cosa resta?
- Vedo il finale- e non so decifrare nessun segno di dissidenza sui muri- la parola non resta fedele alla parola data

Uno dei dischi più venduti nell’ottanta fu Tubular Bells, di Mike Oldfield. Sicuramente non il migliore del polistrumentista, ma del resto anche gli anni Ottanta non sono stati un decennio memorabile.

Come in un quadro di Magritte, l’oggetto appariva sospeso e allo stesso tempo slegato dalla realtà. Come se il poetico Fluxus – la straordinaria performer Lidia Riviello appartiene piuttosto a questa tradizione che non a quella dei professori della neo-avanguardia – la vena aurea della sperimentazione, sociale e poetica, si fosse recisa.

L’ottanta,
(così li chiama Lidia Riviello, lungo tutta la silloge, ndr)
è un anno singolare
merce confusa al disastro, la tenerezza
sotto quota annuale di corruzione
noi in fuga dagli altari della patria e dai padri
davanti il muro rosa colossale delle madri in attesa

“Neon 80″, di Lidia Riviello è un’opera oltre che preziosa, necessaria. Per capire innanzitutto come e perché la luce avesse smesso di illuminare, e l’esperienza, perfino della felicità, che può essere tale solo se condivisa, isolata dal collettivo e piegata a mero fatto privato.
“non c’è neon che si sia spento senza un perchè ”
Vorrei allora concludere questa mia nota con un appunto e una voce.
L’appunto concerne il suono della parola neon e contaminazione sonora con il francese néant. Etimologicamente, la parola ha la sua origine nel latino volgare, ne gentem, ovvero nessuno. In Francia si trova sulle carte d’identità per indicare la totale assenza di segni particolari. Signes particuliers: néant. Louis Aragon scriveva che bisognava “guardare in faccia il “nulla” (néant) per saperlo sconfiggere (pour savoir en triompher).
Viviamo un’epoca di Re-vival (redivivi) e di Re-minders. (Rammendi). E solo una poetessa poteva narrare lo strappo che c’era stato tra i due decenni, il Settanta e il Novanta. Solo un verso, in ogni senso raccontare la ferita, il taglio – nell’Ottanta i miseri abitanti dell’Italia, a novembre, studiavano i segni lasciati sulle pareti dal terremoto per confidare o meno nella solidità delle proprie abitazioni scosse. E’ un grazie, di nulla, gridato a quei miseri anni.
La voce, è quella di Lidia Riviello, che nella Cronologia finale dell’opera dice:
Non ci hanno liberati per essere liberi. Negli anni dell’intrattenimento franano interi paesi, si esplode in volo, s’invadono le terre, gli uomini di governo mordono tutte le metà della mela rimaste, le ragioni dei disastri non vengono più chiarite. Pensavamo che sarebbero durati per sempre quegli anni, ecco perché quelli della mia generazione sono ancora freschi di primavere congelate. L’ibernazione, una pratica semplice quando è ben chiaro l’obiettivo dell’operazione. Ibernare per conservare inattivo e puro, dunque inattivo, ogni elemento. Così la mia generazione non ha preso parte ai lavori di scavo, ma solo a quelli di restauro.
Francesco Forlani

—————-

“AUTOREVERSE” di Francesco Forlani – L’Ancora del Mediterraneo, 2008 - euro 13,50 – pagg. 157

recensione di Lidia Riviello

E’ il 1948, quando con lo swing all’italiana Addormentarmi cosi’, le signorine pallide che indossano gonnelline di pura lana “italica, mugugnano teneri sensi di colpa, diventando rosse come mai erano state le loro madri ( forse meno…?) ai primi contatti “bocca a bocca”, “morendo insieme” al compagno di balera, “labbra sulla labbra”. Chi aveva voce cantava per configurare un paese che ancora non c’era, chi non l’aveva stava a guardare un’Italia fatta di guerra che non riusciva a dormire. E poi c’era chi, di voce, ne aveva avuta in quantità “esistenziale” per parlare e soprattutto per scrivere, ma forse in parte se ne vergognava e due anni dopo se ne sarebbe andato via da quel mondo “senza finire l’anno”. Questi era Cesare Pavese.
E’ il duemilasette, quando Francesco Forlani indossa una vita, quella del sopradetto e sempre discusso, Cesare Pavese, e va alla ricerca della sua viva voce, in un romanzo, “Autoreverse” che sconvolge i canoni della rituale e convenzionale biografia. Spesso le biografie sono gonfie, come se l’autore, identificandosi nel personaggio di cui “tradisce” la storia/vita, si sostituisse a questi, provocando fuoriuscite di altre vite che bloccano il traffico delle parole. Sottolineando contorni che il “bio-grafato” aveva impiegato tutta la vita ad assottigliare, oppure trascurando, con narcisistica interpretazione, l’essenziale esistenziale cosi’ essenziale per quella vita/opera. Forlani non occulta nessuna vita di poeta, sa che tutto è stato scritto ma nulla è stato ancora ascoltato. La voce del poeta è inascoltata, perché dice quello che non sempre scrive, sfugge ai recintori, scusate, recensori, ed è piena di errori. Sgrammaticata, perché vorrebbe solo cantare, tradisce l’immaginario dei lettori/uditori che vorrebbe le voci dei poeti sempre in “stato di grazia” ed invece eccole nella permanente resistenza alla idealizzazione, al plagio. Eccole in serie le voci dei poeti: rauche, sofferenti, sgraziate, piene di tosse, riottose, che dicono no, infantili, stridule, oppure cosi’ mute da lasciarti senza poesia. E piene di una vita di cui la poesia è solo al servizio.
La voce è quel corpo che non cede al tempo, contraria all’immagine convenzionale, allo streotipo in vita e in morte, al “pettegolezzo” che tanto Pavese temeva, perché quelle del pettegolezzo, della mondanità reiterante, sono le voci del campo, del cortile. La sua era una voce fuori campo. Ed è questa che cerca Francois, lo scrittore che viene da Parigi, che Forlani sceglie come suo “alter reggo” giocoso, intuitivo, gentile, ma che non ha remore a effettuare incursioni a sorpresa ovunque vi sia sentore di un Pavese mai sentito prima, di un altro Cesare. Cerca la voce originale, autentica, l’unica registrazione, forse persa, del poeta, un documento, dunque, ma presto si rende conto che per arrivare a trovare la voce di Pavese deve attraversare tutta Torino, città che ti sfugge e ti “stanca”, che se non la tieni ti lascia. Senza ansia di protagonismo ma con una sete struggente segue le tracce che partono dalla sua idea di Pavese, che è piu’ di un’idea, è un desiderio. Mosso da desiderio arriva in un profondo Nord fatto di un profondo Sud all’ Hotel Roma di Torino, dove Pavese si suicido’ nel 1950 e dove Francois vuole passare la sua notte. Nella stanza 313 udrà forse “la voce di dentro” di Cesare? Dentro una sola stanza Moby Dick, La bella estate, La luna e i falo’, il cinema, la “spassosa musica americana”, le donne che nascono da dentro e che prendono forma lasciando sguardi di approdo.
All’Hotel Roma ci lavora un uomo semplice, diretto ed enigmatico allo stesso tempo, l’altro alter reggo di Forlani, Angelo di Casapulla (Caserta) che ha “la voce di fuori”, le chiavi in mano. E’ il portiere di notte dell’albergo, che subito smitizza lo slancio figurativo e l’identificazione fra finzione letteraria e condizione umana di Francois: la stanza non è piu’ la 313, quella in cui il poeta si lascio’, ma la 346. La ricerca, “uaglio’ ” è lunga, la strada afosa, il poeta senza voce. Fra i due s’instaura una istintiva complicità, un dialogo fino al termine della notte, un intreccio di due opposte e cosi’ animate vite. Nonostante le due ricerche si snodino autonome, sul disco dell’epoca nostra e dell’epoca di Pavese, suonano le loro narrazioni in prima persona.
In realtà anche Francois e Angelo cercano la loro voce disseminata nelle caotiche pulsioni dell’Esperienza. Le donne, le avventure del dialogo, la conoscenza dell’altro. Francois segue corsi d’inglese, punta la luce sul volto di una donna, cerca attraverso documenti, amici di Pavese, lettere del poeta stesso, ricostruzioni, registrazioni del premio Strega (che Pavese vinse nel 1950) di rintracciarne il corpo vitale . Tutto questo con desiderio ma anche discrezione, perché Pavese è imprendibile. Tutti parlavano di lui e lui non si è fatto “prendere”.
Angelo ama il corpo delle cose, si disfa delle cose che non lo appassionano, sa di affaracci e crimini e misfatti della sua terra e si ritrova dentro un giallo vero e proprio, e s’innamora pure della bellezza, della straniera, di un’altra voce che non lo nasconda ma lo accolga cosi’ com’è: Angelo Cocchinone, ed è il primo a dire che questo Hotel Roma, noto per la morte del poeta, è un luogo di cui liberarsi e liberare Pavese, ché su questo dramma si è fatto del marketing. Sia Francois che Angelo devono liberarsi e liberare, attraverso il racconto in prima persona, una terza persona: Cesare.
Ma chi aiuterà infine Francois a trovare ( se la trovera’) la voce di Pavese incisa su nastro?La Rai teche? La storia letta dai giornalisti? L’editore che attende lo scoop? Pavese stesso? Francois riporta Pavese dentro casa, fuori dalla stanza del dolore. Lo libera dallo stereotipo dagli inde-fessi critici annoiati del tempo, dalle attrici americane volubili. Come la Dowling, Constance senza sostanza.
“Se mai riuscirò a sentire la voce di Pavese come farò a descriverla?”. Sarà questa domanda che il nostro si porra’ infine al termine della notte di questo romanzo. Difficile Francois, difficile. Perchè quando lo scrittore cerca l’uomo trova ancora, sempre, il poeta.
Lidia Riviello

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/23/recensioni-incrociate-n-6-francesco-forlani-e-lidia-riviello/feed/ 113
RECENSIONI INCROCIATE n. 5: Francesco Di Domenico e Enrico Gregori http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/03/recensioni-incrociate-n-5-francesco-di-domenico-e-enrico-gregori/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/03/recensioni-incrociate-n-5-francesco-di-domenico-e-enrico-gregori/#comments Fri, 02 Jan 2009 23:33:06 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/03/recensioni-incrociate-n-5-francesco-di-domenico-e-enrico-gregori/ Nuova puntata delle “recensioni incrociate”.

I due autori/recensori invitati sono Francesco Di Domenico e Enrico Gregori.

I libri oggetto delle recensioni sono “Storie brillanti di eroi scadenti” (di Francesco Di Domenico) e “Doppio Squeeze” (di Enrico Gregori).

Due libri diversi che ci vengono qui (reciprocamente) presentati da due scrittori che si conoscono bene e… si stimano? (lo vedremo).

Il libro di Di Domenico è composto da una serie di racconti umoristici alla Woody Allen/Groucho Marx, con prefazione curata da Maurizio de Giovanni. Il romanzo di Gregori è una spy story ambientata nella Roma di oggi; il titolo (doppio squeeze) si rifà a una manovra nel gioco del bridge nella quale un giocatore costringe gli avversari a disfarsi di carte vincenti.

Di seguito troverete la doppia recensione – a entrambi i libri – di Gea Polonio, che mi darà una mano a moderare il dibattito.

Invitati speciali: il già citato Maurizio de Giovanni e Simonetta Santamaria. Ma siete tutti invitati a dialogare con i due autori protagonisti di questo post.

Massimo Maugeri

__________________

STORIE BRILLANTI DI EROI SCADENTI di Francesco Di Domenico – Cento Autori, 2008 – pagg. 160 – euro 12

recensione di Enrico Gregori

Volete ridere? Volete ridere e pensare? Volete, nel ridere, sentirvi anche un po’ intelligenti?
Sembra assurdo, conoscendolo, ma allora dovete affidarvi a Francesco (didò) Di Domenico e al suo “Storie brillanti di eroi scadenti” (Edizioni Cento Autori).
Immaginate gli interventi che Didò fa qui e nei vari blog. Ebbene, sono miccette. Il libro è il Capodanno a Piedigrotta: fuochi d’artificio che scoppiano e sbottano luci colorate in un susseguirsi di battute (anche amare) che sono un viaggio attraverso la geografia e la storia dell’Italia.
Nessuna lezione, vivaddio, ma una doccia di umorismo che affonda le sue radici nel “Travaso”, nel “Marc’Aurelio” e, via via, fino a “Il Male”.
Persino i nomi dei personaggi fanno ridere. E ci si diverte a vedere manie, difetti, tic e fuffa di una società che, nei suoi aspetti ridicoli, non è mai cambiata. Il tutto in una ventina di racconti che scorrono come un “fumetto”, ma di classe intendiamoci. Dalla politica al calcio, dall’amore al sesso, dall’arte alla cialtroneria. Una parata di parole e persone che fanno di “Storie brillanti di eroi scadenti” 158 pagine di penna al seltz.
Poteva scriverlo un non-napoletano? Ecco, questo (non per campanilismo d’accatto) è un bel quesito.
Certamente Di Domenico non è un fustigatore, né una sorta di serioso Cesare Baretti.
Lui, tutto sommato, è il primo a mettersi in gioco e a offrire la sua faccia e le sue strampalate idee al pubblico dei lettori.
Comica, infatti, persino la biografia dell’autore “dal 1975 pioniere delle radio libere napoletane”. E via, avanti, fino a pubblicazioni improbabili in occasioni altrettanto improbabili. Una lunga biografia, insomma, di uno che non ha mai combinato un cazzo. Vuoi mettere?

__________________

DOPPIO SQUEEZE di Enrico Gregori – Bietti, 2008 – pagg. 212 – euro 15

recensione di Francesco Di Domenico

Laura è un cadavere che cammina.
Ha vent’anni, una vita (quasi) inutile, ai margini della società omologata, eppure è il trait d’union di una storia verosimile, di una formidabile spy story che Enrico Gregori disegna.
All’inizio non lo credi che il personaggio della ragazza, insignificante, tratteggiato crudamente come orpello di altre cose, possa essere utile alla storia e, alla fine, ci stai ancora pensando e devi chiudere il libro per comprenderlo, piacevolmente.
E difficile dire cose su un giallo che hai gradito senza scoprirne la trama, la voluttà di raccontarlo è grande, più dell’esegesi surreale a cui si è costretti dal dovere, per questo le recensioni dovrebbero scriverle i professionisti del superfluo, i famosi critici, che sono capaci solo di quello.
A cominciare dal prologo, il libro è un depistaggio continuo, un giocare al gatto e al topo col lettore. Senza inutili tentativi di ricerca di contaminazioni coi grandi del noir americano, io penso subito al numero uno: se è infetta questa storia, allora il contagio si chiama Hitchcock.
Alla stregua del maestro anglo-americano, lo scrittore usa inconsciamente una tecnica tutta hitchcockiana, il “McGuffin”, un espediente per dare importanza ad un oggetto o un personaggio che saranno o ininfluenti o lievemente complementari alla storia, e di McGuffin ne sono seminati a josa nei brani. La suspence c’è ma è morbida, rotonda come l’ambientazione in una Roma color seppia, la capitale barocca in un movie barocco, in una specie di mescolanza col moderno, ecco: un’atmosfera da Batman.
E’ la città che non conosci se non ci sei nato da generazioni. L’autore, scrive come un trucido coatto redento a Regina Coeli, nei tempi morti di un ergastolo, ricama; come se cucire organza e non rapinare banche fosse il suo mestiere e, nonostante questo, lo fa egregiamente. Il tratto surreale e ruvido di Gregori nel “The prima di morire”, era come una prova generale ad un gran premio di formula uno. Molti avevano pensato: “Okay Gregori è in pole-position, ma la corsa vera la vince un altro”, invece con questa seconda opera è tra i primi; se non un’assoluta novità nel giallo d’autore italiano.
Sembra anche un racconto “interno”, scritto da un vice-questore, tanta è la precisa descrizione dell’attività poliziesca; la rappresentazione simenoniana delle stanze dell’intelligence, dei metodi, ma conoscendo l’antica professione di “topo di questura” del grande redattore di “nera” possiamo agevolmente comprendere la sua navigazione sicura. Forse, di Simenon, usa lo stesso metro nella ricerca dei nomi, l’elenco del telefono per quelli italiani, i telefilm per quelli stranieri, ma la loro semplicità non è un limite, forse un valore aggiunto per non perdersi nella trama che si dipana nei vicoli di una Roma altra da come la conosciamo, una Roma romana.

—————-

Doppio squeck sberequeck: le gea-recensioni
di Gea Polonio

Mica facile recensire ’sti libri, degna progenie di due ingombranti personalità, tanto diverse quanto unite dal comune denominatore dell’intelligente ironia.
In Enrico è lo sguardo, distaccato ma mai distante, sull’umanità con tutte le sue sfaccettature, con i suoi limiti, le sue ferite, le sue crudeltà più o meno innocenti a seconda.
In Didò prende la forma di un’esplosione di parole in libertà, una valanga di comicità: uno stand up comedian cresciuto ad avanspettacolo e woody allen.

”Doppio squeeze” è, rispetto al precedente ”Un tè prima di morire”, secondo me più maturo. Sia come scrittura che come sviluppo. La struttura è sempre quella, ormai marchio di fabbrica del Greg: i personaggi vengono seguiti singolarmente in un concatenarsi quasi cinematografico di scene, di momenti della loro vita che ce li fanno conoscere a fondo in poche righe.
Qui sta la mano felice di quest’uomo: nella capacità di rendere vivi e tangibili protagonisti e comprimari con poche pennellate, qualche dialogo, un’osservazione buttata là. Il tutto in una lingua scarna, dura quasi, ma mai povera.
Funziona, funziona bene. La proverbiale attenzione del Nostro per i dettagli delle tecniche investigative e per i meccanismi nascosti dei Servizi si sposa con un buon ritmo narrativo, il tutto a insaporire una trama decisamente avvincente.

”Storie brillanti di eroi scadenti” è Didò allo stato puro: fuochi d’artificio verbali al servizio di racconti assurdi nati da spunti di vita: storia, letteratura, sesso, emozioni; il tutto visto con gli occhi di un travolgente genio. Qualcosa che sta tra lo humour ebraico newyorkese e la grassa commedia popolare napoletana, situato in un luogo dello spirito da qualche parte tra Queens e Mergellina.
La sur-realtà di Francesco è fatta di citazioni, di ricordi, di invenzioni passate al setaccio di un cervello che ha delle ragioni che la ragione non conosce.
Maurizio de Giovanni, che non è un fesso, sostiene nella prefazione che l’uomo è folle, e a dimostrazione porta inoppugnabili pezze d’appoggio. Non me la sento di contestarlo, perchè gli voglio bene e Maurizio è un uomo d’onore (nel senso shakespeariano del termine, non vi venissero idee) e pure perchè oggettivamente non saprei come farlo.
È pazzo sì, probabilmente.
Ma è anche un genio.
E un poeta.

In conclusione, e da lettore con come unica referenza l’amore che ci metto e la voracità.
Questi energumeni hanno prodotto due libri molto belli, secondo me.
Semplicemente molto belli.

——–

il_prof_001_elemonsina.JPG

(Marassi ritrae Francesco Di Domenico – 1988 – l’immagine è stata usata per la quarta di copertina del volume “‘Storie brillanti di eroi scadenti”)

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/03/recensioni-incrociate-n-5-francesco-di-domenico-e-enrico-gregori/feed/ 257
RECENSIONI INCROCIATE n. 4: Valter Binaghi e Franz Krauspenhaar http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/24/recensioni-incrociate-n-4-valter-binaghi-e-franz-krauspenhaar/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/24/recensioni-incrociate-n-4-valter-binaghi-e-franz-krauspenhaar/#comments Sat, 24 May 2008 16:41:48 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/24/recensioni-incrociate-n-4-valter-binaghi-e-franz-krauspenhaar/ Nuova puntata delle “recensioni incrociate”.

I due autori/recensori invitati sono Valter Binaghi e Franz Krauspenhaar.

I libri oggetto delle recensioni sono Era mio padre di Franz Krauspenhaar e Devoti a Babele di Valter Binaghi.

Due libri diversi che ci vengono qui (reciprocamente) presentati da due scrittori che si conoscono bene e si stimano.

Franz ci racconta la storia di suo padre: un tedesco nato in Italia negli anni Venti, combattente della Wehrmacht, l’armata di Hitler, durante la seconda guerra mondiale.

Valter, nel suo nuovo romanzo, ci presenta uno personaggio molto peculiare: Arvo. Chi è Arvo? Lo scopriremo insieme. 

Vi invito a dialogare con entrambi gli autori (che parteciperanno al dibattito).

Massimo Maugeri

________________________

ERA MIO PADRE di Franz Krauspenhaar, Fazi Editore, 2008, pagg. 281, euro 16,50  di Valter Binaghi 

Franz Krauspenhaar, scrittore milanesissimo eppure di origine tedesca, al suo quarto romanzo. Ma sarà poi un romanzo, un libro interamente dedicato alla memoria del padre dell’autore (“un uomo ormai maturo che ha nel suo cuore ancora questo lutto scosceso che passa per il suo sterno, e talvolta prova ancora dolore”)? Sì che lo è. Ed è il romanzo di ogni uomo, se è vero come è stato detto che la vita spirituale è una lunga, inesausta ricerca del Padre. Non che qui si stia raccontando di uno qualunque: Krauspenhaar senior, combattente tedesco nella seconda guerra mondiale, imprenditore in Italia, ostinatamente onesto come solo certi tedeschi sanno essere, morto in circostanze drammatiche che hanno sconvolto la vita dei familiari superstiti, è in realtà soprattutto per noi un grande personaggio, le cui memorie s’intrecciano a quelle del figlio in uno di quei dialoghi tra vivi e morti che furono impossibili nella vita ma che l’immaginario della vera letteratura restituisce, all’autore e attraverso lui a tutti noi, ché abbiamo nell’Ade i nostri fantasmi senza pace. Krauspenhaar lo sa bene, sa che in questa inestinguibile smania di dipanare le nostre origini, di seguire la polla vitale che è scorsa dal genitore a noi, di riconoscerne la continuità e insieme affermare rabbiosamente la differenza, sta la cifra simbolica di ogni ricerca: “Sì, questo libro è un salvataggio estremo. Un mio bisogno che spero attiri altri bisognosi”. Qui si tratta di evocazione, niente di meno, e di una scrittura che torna ad ammettere la propria origine sciamanica: “scrivo con la matita dell’improvvisatore, ho gli occhi bendati, vago per la notte della scrittura”. E senza tanti fronzoli, prende il lettore per la collottola e lo attira a sé: “Voglio che ti prendi una vacanza dall’intrattenimento, dalle storielle sordide di morti ammazzati di carta, dallo stile ben temperato, dalle passioni inventate di sana pianta, in interni borghesi indecenti di sozzura e pulizie di primavera. …Il romanzo è diventato un genere di conforto, non d’indagine. Io qui sperimento me stesso, io sono il topo da laboratorio che corre drogato per la gabbia, io sono il topo di fiume che viene colpito dai Flobert dei ragazzacci sporchi di dura terra”.

Come si scrive un libro del genere, con questa spudorata fragilità (lo sai, Franz, c’è chi dirà che non sai più cosa inventarti, che ti spogli in pubblico: ma io dirò a questi che ci vuole grande cuore per un grande canto, la falsa modestia è solo dei mediocri), come riescono a convivere la tenerezza del figlio e la freddezza del cronista e creditore? “Papà… non credeva più di tanto nel mio talento. Credo avesse ragione, perchè allora di talento ne avevo davvero poco o punto. Quella dose di talento che detengo come un piccolo premio alla carriera l’ho acquistata dal centro di me stesso dopo la sua morte. E’ allora che ho cominciato a fare un po’ più sul serio, con la scrittura. Come se mi fossi liberato di un testimone scomodo: lui”.

Una cosa è certa: Franz Krauspenhaar ci è riuscito, regalandoci un romanzo che non può entrare in uno dei cassetti del merchandising letterario, e pertanto vi consiglio di ritenere per quello che è: un viaggio lucido e febbricitante nell’anima, a spiare lo stato nascente dell’emozione che si fa offerta di canto, della parola che evoca le fiere del dolore per renderle mansuete con la cetra di Orfeo, un’allegoria pagana dei dialoghi nell’Ade, che si apre alla cristiana rivelazione dell’amore che giunge al perdono: l’unica salvezza possibile. “Io ora cammino con te, mio perduto amore. Ti porto alle giostre ma sei troppo piccolo per salirci. Hai caldo, sudi tutto. Sei stanco. Ti prendo in braccio, bambino mio. Ti guardo negli occhi. Mi sorridi. Ti sorrido. Io oggi, papà piccolo, papà bimbo mai visto… io oggi vorrei tanto che tu fossi mio figlio”.

Valter Binaghi 

_________________________

_________________________

DEVOTI A BABELE di Valter Binaghi, Perdisa Editore, 2008, pagg. 122, euro 12 

di Franz Krauspenhaar 

Chi è Arvo, il protagonista del nuovo romanzo di Valter Binaghi, Devoti a Babele, Perdisa Editore, pagg. 122 euro 12,00? Un ragazzo del ‘77, un sopravvissuto al piombo che cadeva sugli omonimi anni, che noi ragazzi nati all’inizio dei Sessanta o ancor meglio verso la fine dei Cinquanta, come il nostro autore, abbiamo assaggiato a lingua protesa, come cani masochisti affamati di quei tempi duri.

Arvo è un piccolo borghese della grande metropoli del nord, una Milano dove alle undici di sera c’è il coprifuoco e per il resto della giornata, se vai in centro, vi trovi più mezzi della celere che taxi, soprattutto nella molto armeggiata Piazza San Babila dei ragazzi nazi dalle scarpe a punta. E’ un ragazzo del suo tempo che tiene in camera i poster dei Rolling Stones e dei Police (siamo all’inizio degli Ottanta e il rock, con la morte di John Bonham dei Led Zeppelin, è per molti ufficialmente morto assieme alla sua epoca) e per il resto si tira in vena appena può la droga dei tempi, l’eroina della botta e via, la “roba” che non ti fa pensare, la droga di chi vuol rallentare le proprie pene e pure il resto fino a rallentarsi anche gli anni di vita; non certo la polvere bianca d’oggi, la cocaina divenuta per tutti i cani e tutti i porci, che ti ingloba ancor di più nel sistema dell’arrampicata mobile e liquida e ti fa accelerare la corsa verso il successo, fino al bang a testa sotto nel solito baratro, all’ultimo capitolo della tua tragicommedia d’un uomo ridicolo. Arvo lo seguiamo attraverso i suoi buchi, le sue colazioni a base di caffelatte e krumiri rubate alla povera madre vedova, lo seguiamo nei suoi accampamenti a Piazza Vetra alla ricerca della maledettissima roba in cambio di stereo “zanzati”. Nella seconda parte, il ragazzo finisce finalmente in una comunità terapeutica, Castalia. Se prima, all’inizio degli ‘80, siamo alla fine di un’epoca fotografabile tra il multicolor della psichedelia di massa e il nero buco di una Vermicino dove si consuma una morte in diretta del tutto simile a quella che troviamo in uno dei  capolavori “neri” di Billy Wilder, L’asso nella manica (1951) e si prospetta a larghe falde di spot ramazzotteschi fighettismo e berlusconismo strafottuto da bere, deglutire e -perdio- vomitare, ora siamo arrivati alla fine di questo decennio buggerone e  corto, in una succursale fantastica ma anche parecchio brianzola di quel farabuttificio globalizzato che è Dianetics. A seguire il Programma, del quale Arvo diventa sostenitore e in seguito, uscito dal megatraforo della dipendenza, istruttore. Un Programma di normalizzazione ma anche di risucchio dell’anima, cosicchè è vero che si esce dalla schiavitù della droga, ma pagando il prezzo di un abbandono totale della propria indipendenza psicologica, della propria effettiva libertà di scegliere. La terza parte, trattata intelligentemente e abilmente da Binaghi con altro passo stilistico, perchè i tempi lo richiedono per via di un’accelerazione del ritmo della comunicazione, trova Arvo, nel frattempo sposato e inquadrato nella vita piccolo borghese di quasi tutti, alle prese con una nuova, potentissima dipendenza: quella della Rete, delle ossessioni psicodrammatiche del virtuale. Una caduta, la sua, dal virtuale dell’endovena cosmica al virtuale della comunicazione illusoriamente totale, con Arvo – personaggio  simbolico di una generazione di figli dei figli della guerra che in una sorta di effetto rebound hanno sconfessato gli sforzi e il sudore e le lacrime dei loro padri – che chiede amore ed erotismo via blog a una sconosciuta che sempre tale rimarrà, ectoplasma danzante nel liquido fintamente amniotico di una blogosfera megafono di semplici, banali sospiri di desiderio. Sarà la famiglia, banalmente ma realisticamente, a raddrizzare la via del protagonista verso una grigia ma solida salvezza dall’ultima dipendenza.

Un romanzo compatto e molto ben riuscito, dalla scrittura – tipica di quest’autore – che s’imbeve di una religiosità affannata e del senso di colpa di un’intera generazione che si è fin troppo stordita con cose che meritavano certamente meno attenzione, e nessuna passione; così che i libri di Binaghi, sempre più lontani, passo dopo passo, cioè libro dopo libro, da qualsiasi “genere” codificato, diventano ben strutturati apologhi di una generazione cardine e certamente più interessante di altre, nella quale si trova successo pieno in una società opposta a quella vagheggiata in anni ben distanti, e al contempo continue ricadute nel bisogno di stordimento, nella vecchia droga, sul filo di un istinto di autodistruzione divenuto purtroppo di massa, in certo senso seminato a rattrappite mani alle nuove generazioni.

Franz Krauspenhaar 

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/24/recensioni-incrociate-n-4-valter-binaghi-e-franz-krauspenhaar/feed/ 108
RECENSIONI INCROCIATE N. 3: Salvo Zappulla, Roberto Mistretta http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/28/recensioni-incrociate-n-3-salvo-zappulla-roberto-mistretta/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/28/recensioni-incrociate-n-3-salvo-zappulla-roberto-mistretta/#comments Mon, 28 Apr 2008 13:05:35 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/28/recensioni-incrociate-n-3-salvo-zappulla-roberto-mistretta/

Nuova puntata delle “recensioni incrociate”.
I due autori/recensori invitati sono entrambi siciliani e – tra le altre cose - si occupano di critica letteraria sulle pagine culturali del quotidiano “La Sicilia”.

Tutti e due sono legati alla piccola casa editrice di Caltanissetta Terzo Millennio (ci spiegheranno loro stessi in che modo).

I libri, oggetto delle recensioni a incrocio, sono “In viaggio con Dante all’Inferno” di Salvo Zappulla e “Il canto dell’upupa” di Roberto Mistretta.

Vi invito a dialogare con entrambi gli autori (che parteciperanno al dibattito).
Massimo Maugeri

____________

 

In viaggio con Dante all’Inferno” di Salvo Zappulla – Fermento – 164 pag. – € 12

recensione di Roberto Mistretta

Ci sono libri che hanno la capacità di stemperare nell’ironia gli italici vizi e l’imperante corruttela riprendendo l’antico motto: “Una risata vi seppellirà”. E Salvo Zappulla, prolifico autore di Sortino sostiene questo dono con scrittura elegante e scorrevole che rendono la sua prosa godibile e arguta.
Come abbiamo già scritto in altre occasioni, Zappulla coltiva, con la notte in generale e i sogni in particolare, rapporti privilegiati, appartenendo a quella categoria di scrittori visionari che hanno raccolto, nella normalità dell’assurdo, la lezione di Dino Buzzati e, nell’autocostruzione continua dell’universo, l’insegnamento di Italo Calvino.
In questo esilarante romanzo, leggero nella forma ma corposo nella sostanza, torna il sogno. Dante Alighieri in piena notte si presenta al protagonista, lo sveglia e gli intima di seguirlo all’Inferno: ha necessità di riscrivere alcuni capitoli del suo immortale capolavoro adeguandolo al mutar dei tempi.
Protagonista e insperato compagno di viaggio del Sommo poeta, il gigionesco Salvo Zappulla non si lascia sfuggire l’occasione per ironizzare sul malcostume e incidere con inchiostro avvelenato sulle nequizie di politicanti di professione, corruttori ambiziosi e tutta l’assortita umanità dei potenti di turno che affollano i gironi. Dante ha necessità di trovare posto ai nuovi misfatti e confida a Zappulla: “Giungevano all’Inferno frotte di politici. Nei primi tempi è stata dura. Che fare? mica potevamo rimandarli indietro! Era gente che si era ben guadagnata la dannazione eterna. Ladrocini, intrallazzi, corruzione, clientelismo, associazione a delinquere. Autentici artisti della criminalità. Con quale coraggio avremmo negato loro una sede idonea? E poi siamo onesti, al giorno d’oggi una bolgia non si nega a nessuno”.
Un libro da leggere accanto al presepe, per contrasto e per sorridere amaro.

Roberto Mistretta

____________

Il canto dell’upupa di Roberto Mistretta – Cairo editore – pagg. 253 – euro 15

recensione di Salvo Zappulla

Con questo romanzo Roberto Mistretta entra da protagonista sulla scena del noir italiano. Lo scrittore di Mussomeli, paesino a due passi dal paese di Camilleri (sarà solo un caso?), imbastisce trame avvincenti, veri dipinti neorealistici, alternando momenti venati di tenera ironia e tinte nere dal violento impatto emotivo. C’è un maresciallo lunatico e sempre ossessionato da diete mai rispettate, ci sono i suoi collaboratori con le loro manie. E c’è tanto orrore infiltrato negli abissi dell’anima, dove si annidano le voglie e i desideri più turpi. I personaggi di Mistretta sono autentici, scolpiti nelle pietre di Villabosco. E sono destinati a rimanere scolpiti anche nella mente dei lettori, perché difficilmente si possono dimenticare. Il pregio maggiore di questo giovane scrittore è la capacità di dare alle sue storie una costruzione così articolata, così certosina che sembrano quasi un lavoro di ricamo, dove nulla è lasciato al caso. Non una svista, non una incongruenza. Mistretta è scrittore impegnato, non scrive per diletto o per il piacere di evadere dalla realtà; ne “Il canto dell’upupa” la realtà, in tutte le sue misere sfaccettature, è sempre presente, diventa materia letteraria, plasma sanguigno da offrire ai lettori. Il romanzo tratta argomenti scabrosi che spesso si preferirebbe far finta di ignorare e voltare il capo colpevolmente dall’altra parte, tratta la pedofilia e l’incesto, ce li pone davanti, ci costringe a respirarne l’odore rancido di uomini andati a male. E lo fa con rabbia e indignazione. E’ sofferenza autentica la sua, un urlo che si leva dal cuore, un cancro che vorrebbe estirpare. Ma Mistretta è scrittore, non un magistrato o un chirurgo, usa la penna al posto del bisturi e incide, scava nei recessi più reconditi delle umani aberrazioni fino a tirarne fuori tutto il marcio. Il suo è uno stile accattivante, da professionista che conosce alla perfezione il proprio mestiere, sa come costruire un giallo che tenga in sospeso il lettore fino all’ultima pagina, con colpi a effetto, pause di studiata meditazione e di profonde riflessioni. Svia, indaga, ci porta lontano con falsi indizi, per poi piazzare il colpo di coda che lascia di stucco. Un libro bello. Bello e coinvolgente. Sicuramente non facile, che vale la pena di leggere.

Salvo Zappulla

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/28/recensioni-incrociate-n-3-salvo-zappulla-roberto-mistretta/feed/ 131
RECENSIONI INCROCIATE. Laura et Lory, Sabrina Campolongo http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/07/recensioni-incrociate-laura-et-lory-sabrina-campolongo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/07/recensioni-incrociate-laura-et-lory-sabrina-campolongo/#comments Mon, 07 Apr 2008 13:34:27 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/07/recensioni-incrociate-laura-et-lory-sabrina-campolongo/ Vi è mai capitato di leggere una recensione e pensare: “e se il critico è un amico dell’autore recensito”?

Vi è mai capitato di pensare: “va be’, magari si sono messi d’accordo”?

Potrebbe accadere.

Non sarebbe molto corretto, vero? Bene. Letteratitudine, va oltre.

Inauguro, oggi, una nuova rubrica che si intitolerà, per l’appunto, Recensioni incrociate. Di volta in volta chiederò a due autori di recensirsi reciprocamente. Nella maggior parte dei casi l’oggetto delle recensioni saranno i loro libri, in altri casi potrebbero essere “le loro rispettive… figure“.

Saranno credibili, queste recensioni?

Lo giudicherete voi!

Intanto, dopo quelle di Enrico Gregori e Vito Ferro, ho il piacere di presentarvi le recensioni incrociate di Sabrina Campolongo e Laura et Lory (Laura Costantini e Loredana Falcone).

Naturalmente siete tutti invitati a interagire con le “autrici/critiche”. Ponete domande sulle loro opere e sulle loro recensioni incrociate.Ovvero… tartassatele.

Massimo Maugeri

___________

___________

Sabrina Campolongo, “Il cerchio imperfetto“, Edizioni Creativa, 2008, pagg. 182, euro 12
recensione di Laura et Lory

Un libro sulle donne, scritto da una donna e scelto da un’altra donna per una collana che si dichiara Declinata al Femminile. Sono caratteristiche, queste, salienti per analizzare Il cerchio imperfetto, eppure vorremmo evitare la catalogazione nella cosiddetta letteratura femminile perché il romanzo di Sabrina Campolongo è soprattutto un viaggio all’interno di un universo che ci riguarda tutti, uomini e donne. Si parla di paura di vivere, dei sensi di colpa, del sentirsi inadeguati. Di più, imperfetti.
Sabrina usa i suoi personaggi per tratteggiare la difficoltà di relazione che caratterizza il nostro mondo. Tra Marga, Francesca, Viola, Massimo, nessuno ha la capacità di gestire serenamente un rapporto con l’altro, sia esso d’amicizia o d’amore. Nessuno riesce a trovare il coraggio di accettare l’altro come un dono, perché troppo forte è la paura di doversi dare fino in fondo, fino al confine tra il donarsi e il perdersi. Eppure tutti, indistintamente, hanno un disperato bisogno di amore.
Ha bisogno d’amore Margherita, Marga per le amiche. Lei che colleziona scopate come alcune donne fanno con le scarpe, o con le borsette. E’ spinta verso il sesso da una fame compulsava, non molto diversa da quella che da ragazzina la trascinava in ginocchio, davanti al frigorifero aperto, nel cuore della notte, a ingollare tutto ciò che le capitava sotto tiro.
Marga che ha gli occhi come pozzi verde cupo quando nella sua bulimia erotica incappa in un uomo violento. Un uomo che non ha capito.
Di uomini che non hanno capito ce ne sono molti nelle pagine di Sabrina.
C’è il marito di Francesca, Carlo, che non riesce a capire il bisogno di una madre di macerarsi nel senso di colpa per un figlio imperfetto. Un figlio che l’ha abbandonata alla solitudine, come tutti coloro che sono stati importanti nella sua vita. Francesca è un’artista, ma il linguaggio dei colori non basta a dissipare il buio che si porta dentro quando la giornata si svuota di colpo. Davanti solo un deserto spaventoso, incolmabile. Poter tornare a letto… E’ impossibile dipingere, è impossibile uscire di casa, lavarmi i capelli. Impossibile sollevare il ricevitore del telefono, impossibile sostenere una qualunque conversazione.
E’ la depressione il demone di Francesca. Un’ombra scura che la insegue e la precede schiacciandola in devastanti crisi di panico. Eppure a sconfiggere il mostro basta poco.
- Ciao, ti ho svegliata?
La sua voce, la voce di Massimo.
Vuoto nello stomaco, cuore che sbatte contro le sbarre della sua gabbia d’ossa, cercando di schizzarne fuori. E quel nodo implacabile che si scioglie, restituendomi lo spazio per gonfiare i polmoni.

Le donne amano così.
Eppure Massimo, il ragazzo che ha aperto uno spiraglio nella vita sentimentalmente irrisolta di Francesca, non capisce. O meglio, non vuole capire. Perché anche qui il rischio è il passaggio tra ciò che si ha e ciò che si potrebbe avere.
Lo sa bene Viola, che è nata con il corpo di un uomo, si è venduta per rendere visibile al mondo la femminilità della sua anima, ma non può accettare un amore vero. Un amore da donna. Perché lui non capisce. Pensa solo di fare un grande gesto romantico, non capisce e non gli interessa nemmeno di capire. Non sa cosa ci succederà. Non può capire, come te. Te lo ripeto Francesca: non posso andare a vivere nelle case popolari. I poveri non hanno pietà per quelle come me.
La pietà, la capacità di accettarsi per ciò che si è, manca a tutti i protagonisti di questo cerchio imperfetto.
Il libro di Sabrina Campolongo ha il pregio di descrivere, con la naturalezza del vissuto, stati d’animo che difficilmente vengono raccontati da chi ha la sfortuna di provarli. E’ un libro che scava in zone buie e forse, proprio per questo, il quadro che ne esce racconta di un’umanità fragile e dolente. Un’umanità che non riesce a trovare una rivincita, che non lotta fino in fondo, che si accontenta di un non detto.
Ti amo. Potrei dirti.
Potrei dire ti amo e non cambierebbe nulla.
Non aggiungerebbe nulla.
Posso dirtelo, non credo che lo farò mai.

E’ la sanzione di una sconfitta. Accettata con la strana gioia di una saggezza che, ancora una volta, parla della nostra profonda incapacità.

Laura et Lory

__________

__________

Laura Costantini e Loredana Falcone, “Roma 1944 – lo sposo di guerra“, Maprosti & Lisanti editore, 2007, pagg. 480, euro 15
recensione di Sabrina Campolongo

Due donne, al centro di questo romanzo, due sponde dello stesso fiume. Da una parte Camilla, ruspante ragazza del popolo, impegnata a tempo pieno a “risolversi la giornata” (vedi mettere assieme un pasto almeno al giorno), dall’altra Ottavia, la contessa Visconti-Parini, assediata nel suo stesso palazzo dalle truppe americane che ne hanno preso possesso, con suo malcelato fastidio.
Due binari, due destini, quello della popolana rimasta sola al mondo, e quello della nobildonna abbandonata da un marito fascista e puttaniere, che in un altro momento storico non si sarebbero mai incrociati, limitandosi a guardarsi dalle due opposte, seppur vicine, tribune: quella dei servi e quella dei padroni.
Ma, in questo particolare dove e quando, tutto, forse, può accadere: Roma, giugno 1944.
Siamo nel cuore di una “città eterna” ferita e umiliata, che deve piegare la testa e accogliere nella sua carne truppe straniere che la proteggano da se stessa, una città costretta ad accettare di farsi salvare a colpi di coprifuoco e restrizioni, siamo in una Roma alla fame, che piange i suoi morti e i suoi palazzi distrutti, e si interroga su un futuro ancora incerto.
In questo sbando totale, non sorprende che i ruoli diventino elastici. Attraverso le pareti sbrecciate, le cuciture che cedono, che si sfilacciano, ecco che Camilla e Ottavia si trovano a essere prima di tutto due donne sole, e poi, solo sullo sfondo, una serva e una padrona.
Pur nella paura del futuro, pur nelle difficoltà, queste due donne, fino ad allora chiuse dentro due vite cucite loro addosso, rigide come gabbie da cui non si può scappare, si trovano tra le mani, quasi loro malgrado, l’occasione unica e irripetibile di essere se stesse.
Non ci sono madri, mariti, o fratelli a controllarle da vicino, nella lotta per la quotidiana sopravvivenza come nelle notte solitarie nella roccaforte del palazzo, non ci sono uomini a imporre, a vietare, a proteggere, a salvare.
Sono sole, sole come si può esserlo quando si è sopravvissuto a una guerra, sole come dopo l’abbandono di tutti, sole come chi non ha più nulla, a parte se stesso, da perdere.
Sole, all’apparenza, finché si innamorano (eh già) di due uomini, due dei “salvatori” americani. Ma sole, mi sembra di poter dire, anche, e dolorosamente, dopo.
Perché, se Camilla e Ottavia sono cresciute, nella consapevolezza di sé, durante questi mesi di solitudine e lotta per la sopravvivenza (materiale e/o spirituale), lo stesso non si può dire degli uomini di questa storia, il giovane Michael che ama Camilla in buona fede, ma, alla fine come un bell’oggetto da possedere e riportarsi in patria intatto, e il colonnello Samuel Kilpatrick, che si concede il diritto di vivere con Ottavia quell’amore totale che il rispetto delle convenzioni gli ha fino ad allora negato, ma senza mai dubitare nel profondo che sarà di nuovo in quella direzione, in quella degli obblighi familiari, che i suoi piedi volgeranno, alla fine della guerra.
Nemmeno il finale (che non svelerò) se pur con un avvicinamento, riesce a sanare la frattura, tra queste donne che lottano per la propria integrità e il proprio diritto a essere se stesse, e questi uomini che non riescono ad amare alla pari, uomini mossi da onesto desiderio, ma anche da ansia di “salvare”, di controllare, di imporre le proprie decisioni.
Il che è indubbiamente coerente con il momento storico. Difficile credere nella possibilità di un vero rivolgimento, è corretto quanto inevitabile il finale “convenzionale” di queste storie. Alla fine, la libertà selvaggia e pericolosa sperimentata in quei giorni lascerà segni profondi, nelle vite dei protagonisti, ma non stravolgerà il paradigma.
Gli uomini continueranno a prendersi la libertà come un diritto sacrosanto, e le donne continueranno ad accettare gli addii, e ad accogliere, e a perdonare.
Eppure, si intuisce che la consapevolezza è diversa: le donne, le sopravvissute, quelle che hanno lavorato nelle fabbriche, quelle che hanno dato da mangiare ai figli quando i mariti erano al fronte, quelle che hanno preservato la propria anima sottraendola alle violenze del corpo, cominciano a mostrare insofferenza, verso quelle figure maschili che vorrebbero tornare a decidere delle loro vite. Ma i tempi, nel 1944, non sono ancora maturi. Forse di questo Laura Costantini e Loredana Falcone ci racconteranno in un prossimo romanzo.
Intanto, quello che resta, dopo la lettura di questo “Roma 1944”, al di là delle vicende individuali e sentimentali dei protagonisti, è l’affresco dolente ma anche vitale (a tratti decisamente divertente) di una città e dei suoi abitanti, sanguigni e beffardi, violenti e disarmanti, acciaccati, ma mai disposti a chinare la testa, ironici anche mentre si svendono, capaci, li si direbbe, di prendere in giro persino la morte.

Acconciarle i capelli in morbidi riccioli era sempre stato il compito di sua madre, fin dalla prima volta, il giorno della Prima Comunione. Sentì le lacrime pungerle gli occhi mentre la nostalgia per Assunta le scavava un dolore sordo nello stomaco, le sembrò quasi di vederla alle sue spalle, riflessa nello specchio della toeletta, con i suoi capelli grigi annodati in una crocchia sulla nuca, la sopravveste bianca quando andava a servizio da donna Matilde, la madre della contessa Ottavia. Le sembrò di sentire la carezza delle sue dita sui capelli e la sua voce che le sussurrava: “Sta’bbona fija mia, nun piagne…ce n’avrai de tempo pe’ disperatte nella vita…”

Sabrina Campolongo

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/07/recensioni-incrociate-laura-et-lory-sabrina-campolongo/feed/ 182
RECENSIONI INCROCIATE (di Enrico Gregori e Vito Ferro) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/26/recensioni-incrociate-di-enrico-gregori-e-vito-ferro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/26/recensioni-incrociate-di-enrico-gregori-e-vito-ferro/#comments Wed, 26 Sep 2007 21:35:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/26/recensioni-incrociate-di-enrico-gregori-e-vito-ferro/ Ho incontrato Enrico Gregori e Vito Ferro in maniera rocambolesca.

Stavo per eliminare le mail raccolte nella cartella spam del mio account quando, tra una promozione del viagra e una missiva in cui mi informavano che avrei vinto un milione di euro se (non ho continuato la lettura), scorgo – uno sull’altro – i messaggi di posta elettronica dei due suddetti individui.

Mi accorgo che le mail sono state inviate quasi contestualmente (a distanza di pochi minuti) e contengono informazioni sui libri di cui parleremo in questo post.

Dal breve scambio epistolare intuisco che Enrico e Vito sono accomunati, oltre che dall’essere riconosciuti come “spam” dal mio account di posta elettronica, da uno spiccato senso dell’umorismo.

Così ho pensato bene di metterli in contatto.

Volete che parli dei vostri libri? Facciamo così: spediteveli reciprocamente e recensitevi a vicenda.

Così ho detto, così hanno fatto.

Insomma, quelle che vi propongo sono recensioni incrociate. Vito recensisce il libro di Enrico e viceversa.

Saranno recensioni credibili? Si saranno messi d’accordo?

Leggete e giudicate.

E poi parlatene con gli interessati.

(Massimo Maugeri)

P.s. Guarda cosa si deve inventare uno per parlare di libri in maniera alternativa!

————————————————

Un tè prima di morire (di Enrico Gregori) – Editore Bietti, 2007, euro 10, pagg. 138

recensione di Vito Ferro

In un albergo americano che sarà la sede di un importante summit di potere e finanza, un probabile attentatore sanguinario è pronto a colpire il suo bersaglio, un uomo spregevolmente ricco, odiato da tutti. L’albergo, il prestigioso Manovar, diventa così una fortezza presidiata da poliziotti e cecchini, artificieri e agenti antiterrorismo. C’è tensione nell’aria e tutti gli ospiti dell’albergo, gli inservienti, gli abitanti della cittadina attendono un qualcosa che di tragico e devastante dovrà avvenire. E’ questo, in sintesi, l’incipit del bel romanzo di Enrico Gregori, giornalista e scrittore di Roma, che pubblica con Bietti (il libro è acquistabile tramite il sito della casa editrice www.bietti.it) questo avvincente noir (ma vedremo presto quanto l’etichetta stia stretta, molto stretta…) composto da ampie finestre narrative, squarci di vita narrati con lucidità, immediatezza, incisivo fervore. Il libro è, come dicevamo, difficilmente inscrivibile nel genere di thriller canonico: sembra anzi che la vicenda primaria della storia (l’attesa lunga della strage), sia quasi soltanto pretesto e stimolo per mostrarci, vivisezionata alla perfezione, l’esistenza delle singole persone che abitano l’albergo e le pagine del libro, tasselli e ingranaggi di un puzzle o di un meccanismo che mostra e scandisce il tempo verso l’ineluttabile (?), verso l’apoteosi. Si muovono come esseri umani veri, questi personaggi di carta, con le loro ansie, le loro paure, le gioie preservate nell’intimo e le loro missioni: ognuno di loro ha infatti una missione particolare, un senso da dare alla sua immediatezza, uno scopo profondo. C’è chi deve portare a compimento l’attentato, chi deve impedirlo, c’è chi è destinato a subirlo in quanto vittima sacrificale nel gioco dei poteri e della ricchezza, chi si trova nel luogo e sente di essere costretto a dovervi partecipare senza averne ragione o colpa. Dopo l’undici settembre, una vicenda come quella narrata da Gregori, acquista uno spessore e un valore di verità decisiva: figlia dei tempi ormai giunti, la paura e l’attesa (spesso risolta nel dramma, nel sangue) da Deserto dei Tartari, è l’aura che circonda la nostra consapevolezza, ormai certi di poter essere tutti bersaglio della follia terroristica e pagare colpe più grandi, avviluppati nella scacchiera sporca di una politica senza scrupoli, deviata e criminale. Ma il libro va oltre, e la metafora a cui rimanda è quella dell’eterno gioco tra la vita e la morte, la dinamica propria ad ogni esistente che cerca con il proprio particolare agire (e con la rimozione volontaria della consapevolezza che la fine di tutto sia in agguato, dietro l’angolo, dentro ogni passo, movimento, scelta), di scacciare il senso di inevitabile che ci condiziona e marchia tutti. Dentro l’albergo della storia quindi, soggiorniamo tutti noi. Chiunque di noi, che sia povero o ricco, abbia scopi nobili o perversi, provenga da un passato oscuro o abbia condotto la sua vita irreprensibilmente, che sia in fuga o in ricerca, è accumunato dall’avere una stanza nel Manovar (il nome del’albergo che ricorda l’espressione Man on War: uomo in guerra: uomo in guerra costante con se stesso e la vita). Lo scrittore riesce così, grazie ad un linguaggio diretto, franco, vivo, di mostrarci l’intima reazione di ognuno alla paura, a quella paura atavica che ci costringe a guardare al fondo di noi stessi e a fare i conti con una certezza che si preferisce evitare. Densi di un’umanità in affanno, capace di inventarsi manovre e speranze diverse, i personaggi del libro, ci sembrano così vicini, così veri: i poliziotti che maledicono il rischio che devono correre compiendo il loro dovere, l’uomo che sogna un amore e lo coltiva nel suo silenzio, la coppia adulterina sospesa tra desiderio e rimorso, il musicista che insegue la sua passione al di sopra di tutto, la poetessa in cerca del dialogo più intimo, più sincero, gli attori di teatro persi dentro la confusione di un ruolo, e ancora i magnati potenti invischiati nelle lotte per la supremazia disumana, il magnate, Colin Mallory, il bersaglio, lo spietato squalo che odiano tutti e che sembra destinato a scontare la pena accumulata in un vivere amorale, senza regole. E c’è anche, come personaggio aggiunto, il senso di pericolo incombente di cui si ignora quale faccia abbia, quale strategia. In un collage da reality veritiero sono i gesti, i tic, le ansie, le parole cariche di sospiro e trepidazione a connotare questi soggetti come ben altro da semplici comparse. Sono loro il libro, sono le loro interazioni, lo scorrere metodico di tante vicende che si accavallano, sino a sfumare e forse risolversi una volta finita la storia. Bene o male? Non lo dirò mai, ovviamente. Ma solo ricordo e ribadisco quanto il bene e il male, in questa vicenda, si smarriscano uno dentro l’altro, fino a perdere i netti contorti, fino a confondere alibi, ragioni, sentimenti, certezze. Proprio come nella vita di tutti i giorni, dove una colpa è spesso soltanto l’altra faccia di una ingenuità portata all’estremo. Ottima prova del Gregori, quindi, libro avvincente e tagliente, frutto di una capacità di resa narrativa che gli viene sicuramente dal suo lavoro di giornalista e dalla sua esperienza di conoscitore d’uomini. Ma sa anche giocare, e bene, Gregori con questa sua capacità, stravolgendo caratteri e cliché, infarcendoli di un ironia, a volte amara, a volte esilarante: crea un genere a sé che sta a metà strada tra la commedia umana e il noir più tradizionale. E questo grazie ad un linguaggio che non gira attorno alla sua materia in una costante rincorsa narcisistica, ma da essa proviene e ad essa si attiene: la materia dell’amore, del sesso, della morte, della ricerca, della violenza. Sono tutte con l’iniziale minuscola. Sono tutte le cose di cui ci circondiamo, e che, alla resa dei conti, abitano la nostra esistenza. E così come sono ce le presenta l’autore offrendoci questo Tè prima di morire.

Vito Ferro

_______________________________________________

L’ho lasciata perché l’amavo troppo (di Vito ferro) – Coniglio Editore, 2007, euro 6,50, pagg. 93

recensione di Enrico Gregori

Un libro di circa 100 pagine pieno di pretesti per lasciare lei o per farsi da lei lasciare. Tale codardo volumetto non poteva che essere pubblicato dall’editore “Coniglio”(www.coniglioeditore.it). Sotterfugi, giustificazioni incredibili, situazioni paranormali. Tutto questo, forse, per non dirsi semplicemente “è finita”.

Vito Ferro ci regala questo manuale che, epidermicamente, pare un libro di barzellette sui carabinieri oppure un diario scolastico d’ultima generazione.

Io, ritenendo che la fantasia può rendere gradevole anche l’orario dei treni, dico che Vito di fantasia ne ha usata a profusione. Quindi, tra battute, monologhi, dialoghi e fandonie, “L’ho lasciata perché l’amavo troppo” è un esercizio cerebrale affrontato con cura e intelligenza. Volendo si ride, volendo si riflette.

Chi ne ha voglia potrebbe anche spulciare nelle psicologie, nelle timidezze, nei diversi approcci che maschietti e femminucce hanno nei confronti dell’abbandono. Io, esprimendo a Vito la mia ammirazione, vorrei semplicemente dire che non è facile, non è affatto facile costruire 100 pagine su un unico concetto.

Fantasia, dunque, e tanto di cappello al giovane autore. Anche con un pizzico di invidia perché se, ad esempio, avessi affontato io il medesimo cimento, avrei scritto un libro di tre sole righe.

Io: “Chi ha composto Eleonor Rigby”?

Lei: “George Michael?”

Io: “Vaffanculo!”

Enrico Gregori

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/26/recensioni-incrociate-di-enrico-gregori-e-vito-ferro/feed/ 115