LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » OMAGGI, RICORRENZE, ANNIVERSARI E CELEBRAZIONI http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 CENTO ANNI DALLA NASCITA DI MARIO RIGONI STERN http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/11/01/cento-anni-dalla-nascita-di-mario-rigoni-stern/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/11/01/cento-anni-dalla-nascita-di-mario-rigoni-stern/#comments Mon, 01 Nov 2021 12:41:26 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8890 Mario Rigoni Stern.jpgRicordiamo Mario Rigoni Stern in occasione del centenario della sua nascita, riproponendo questa bellissima intervista rilasciata a Andrea Di Consoli (e pubblicata su Letteratitudine il 26 giugno del 2007).

In occasione della sua morte, invece (avvenuta il 16 giugno 2008), pubblicammo questo articolo

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Mario Rigoni Stern (Asiago, 1º novembre 1921 – Asiago, 16 giugno 2008) è stato un militare e scrittore italiano.
Il suo romanzo più noto è Il sergente nella neve (1953), un’autobiografia della ritirata di Russia. Legatissimo alla sua terra, l’altopiano di Asiago, era il discendente dell’ultimo cancelliere della federazione dei Sette Comuni. Primo Levi lo definì “uno dei più grandi scrittori italiani”.

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LE VALLI MALEDETTE DI MARIO RIGONI STERN (di Andrea Di Consoli)

Andrea_di_consoliDietro le quinte del teatro “Persiani” di Recanati, in attesa che Mario Rigoni Stern venga chiamato da Paola Pitagora, conduttrice del premio letterario Recanati (che ha vinto Mario Rigoni Stern), e presentato da Ernesto Ferrero (che dice, non appena lo chiamano: “Parlare di Mario è come essere a casa, come arrivare a baita”), il grande scrittore de Il sergente della neve e del recente Stagioni se ne sta seduto da solo su una sedia e guarda buono, con le mani in grembo, verso il palcoscenico. Gli domando se da Asiago è venuto in macchina o in treno. “In macchina” mi dice, “mi sono venuti a prendere”. Mi fa cenno di sedermi al suo fianco e mi domanda, con estrema semplicità, il nome (non mi domanda chi sono, ma come mi chiamo), mi chiede da dove vengo e, quando sente che sono lucano, lui subito mi parla della Basilicata, e mi dice che è stato a Bernalda, a Matera e, quarant’anni fa, a Metaponto: “A Metaponto ci sono stato a ferragosto. Non c’era nessuno. C’eravamo soltanto io e i grilli. Era come stare fuori dal mondo”. Adesso, invece, a Metaponto, a ferragosto, è impossibile trovare un angolo non turistico. E gli domando del Sud (a lui che è così indissolubilmente legato a un’idea forte di Nord): “Il Sud è bellissimo” mi dice, “ma più di tutto amo la Sicilia. La Sicilia è meravigliosa”.

Il teatro è caldo, sudiamo, ma per non fare rumore siamo sempre più vicini, parliamo fitto fitto; a bruciapelo gli domando se la neve – che lui ha “cantato” in tutti i modi – sia guerra o pace. Rigoni Stern curva la mano e la posa sull’orecchio – forse, per l’imbarazzo, ho parlato troppo a bassa voce. Gli rifaccio la domanda. Mi guarda e risponde con sicurezza: “La neve non è né buona né cattiva. Non è mai colpa della neve. E’ sempre colpa degli uomini se la neve è cattiva”.

Ma si può impazzire in guerra? Cosa è stata la campagna di Russia? E si può amare la neve dopo averla vista azzannare le gambe dei propri compagni? Nel giro di pochi minuti ci troviamo lontani dalla festa letteraria di Recanati e immersi in una strana intimità pensosa. Mi dice Rigoni Stern: “Certo che si impazzisce sul fronte. Soprattutto per il poco dormire. Ci provi a non dormire per otto giorni. Io forse ero impazzito. Mi ero sdoppiato. In quei giorni mi sembrava che un altro Mario mi dicesse le cose che dovevo fare. La vera guerra è stata in Russia”. Prima di essere chiamato sul palco dalla Pitagora ci diamo appuntamento per la mattina successiva, nella sala colazioni dell’albero dove Rigoni pernotta.

Durante la notte, prima di addormentarmi, penso allo strano destino critico di Mario Rigoni Stern, uno scrittore che è sempre rimasto schiacciato tra due categorie abbastanza anguste (“scrittore di guerra”, o “di testimonianza”, e “scrittore della natura”; eppure “guerra” e “natura” non sono sempre topoi logori e prevedibili); penso, invece, alla durezza della sua narrativa poetica, al suo guardare sempre in faccia il dolore e, direi, il controdolore – non c’è niente di “naif” nella sua scrittura, anche perché la natura non dà mai davvero risposte consolatorie, anzi, è più “muro” del “muro” del pensiero filosofico – anche la guerra è un “muro” nel pensiero. Rivedo, prima di prendere sonno, il viso buono di sua moglie, e risento le parole di Rigoni Stern su Roma: “Roma me la sono goduta nel 1973, quando c’è stata la crisi petrolifera. Non circolava neanche una macchina. Me la sono girata tutta a piedi. Quel giorno andai anche a trovare Walter Binni e Emilio Lussu”.

La mattina mi sveglio in ritardo e scendo di corsa. Lo trovo che beve un caffè al bar. Mi saluta e mi indica un tavolo all’aperto. Accendo una sigaretta e gli domando se ha mai fumato. “In guerra fumavo le ‘Makorka’, le sigarette dei kulaki. Ho fumato tantissimo, ma poi ho smesso, perché ho avuto problemi di cuore. Ho avuto un arresto cardiaco. Quel giorno sentivo i medici che dicevano che ero morto. Non è stata una brutta sensazione. La morte non è brutta. E’ la sofferenza che fa paura”. A Recanati c’è un dolcissimo vento che ci scompiglia i capelli. Bevo un caffè e, mentre apro il taccuino, Rigoni mi dice che a Recanati c’era stato altre volte: “E’ un grande poeta, Leopardi, ma la sua opera più importante è Lo Zibaldone. Tanti anni fa, visitando la sua casa, mi attardai di sera nella sua biblioteca. Per me fu una grande emozione rimanere lì nella penombra”.

I ricordi di Rigoni si sciolgono: “La mia famiglia era abbastanza benestante prima della guerra. A casa nostra di libri ce ne sono sempre stati. C’era dimestichezza con i libri. Mio fratello maggiore ha anche pubblicato un libro di poesie: sonetti enigmistici”. E in guerra? Serve la letteratura in guerra? Davvero può aprire un varco di salvezza come nel “Canto di Ulisse” di Primo Levi? Rigoni Stern non ha dubbi: “Certo che serve la letteratura. Io avevo con me la Divina Commedia e L’Orlando furioso. La letteratura aiuta a superare i momenti brutti. Quando ero in Albania c’era un compagno militare, che faceva il pastore, che mi diceva ‘dai Rigoni, fammi contento, leggimi la Divina Commedia’.

La guerra è l’ossessione di Rigoni Stern: “I russi stavano attaccando. Avevo la responsabilità di 70 uomini. Li ho riportati vivi in Italia. E’ stato il più grande capolavoro della mia vita. C’era un sergente che ricevette una lettera dalla sua fidanzata. Eravamo sul Don. Nella lettera la fidanzata gli diceva di non amarlo più, e di aver trovato un altro uomo. Dopo aver letto questa lettera il sergente fece azioni di guerra disperate. Cercò la morte. L’ha cercata con tutto se stesso, la pallottola che lo ha ucciso. Si chiamava Achille, quest’alpino. Lui almeno è morto per amore. Noi, per quale amore siamo morti noialtri?”

“Natura” e “guerra” s’intrecciano come due serpenti poco pacificati; e sono due serpenti che ora sembrano nemici, e ora si avvinghiano in amore (un amore vischioso): “La natura non ha sentimenti, la natura dobbiamo accettarla. Dobbiamo salvarla, dobbiamo rispettarla. Non possiamo piantare il frumento al Polo. Però non c’è solo la rosa, non c’è solo la valle fiorita, ci sono anche le valli maledette. La nostra fortuna è stata quella di aver perso la guerra, così è finito il nazismo e il fascismo. Ma chi ricorda la grande battaglia del 1943 in Russia? Ci pensa? Un milione contro un altro milione di soldati. Milioni di persone morivano e nessun giornale ne parlava”.

E dopo? Dopo la guerra? Dopo c’è stata la prigionia in Austria, nel 1944, in una miniera di ferro (“era quasi bello stare in miniera, dopo la guerra, ma è stato anche duro, con quel poco che ci davano”); ci sono stati i libri da Einaudi, ma anche l’impiego come diurnista di terza categoria presso l’amministrazione finanziaria dello Stato, e poi la famiglia, la moglie, i tre figli, le passeggiate nei boschi, “fare legna”.

E la morte? Rigoni Stern è lapidario: “I giovani muoiono meglio dei vecchi, perché i giovani hanno tanta vita. I vecchi, invece, sono attaccati fino alla fine all’unico barlume di vita che rimane”.

La tranquillità domenicale di Recanati – la sua ritrosia indecifrabile e suggestiva – è spezzata, nella mia mente, dalle dure parole di Rigoni (il racconto degli arti congelati dei soldati); eppure c’è, nonostante tutto, una possibilità di tranquillità nello stare al fianco di Rigoni (nel suo correre in albergo alla ricerca della moglie, nel far giocare mio figlio con la sua barba bianca, nel suo fare colazione con pane e formaggio). E’ una tranquillità che colpisce per l’estrema semplicità. Poi, però, non appena si parla dell’uomo in pericolo, della guerra, della natura, il volto di Rigoni Stern diventa “freddo” e solenne. In certi momenti è normale pensare a Omero.

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La scheda del libro: “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern (Einaudi)
Ricordi della ritirata di Russia

«Una parola definitiva sulla pietà e sulla misericordia che consentono agli uomini di continuare a guardarsi in faccia senza vergogna». Eraldo Affinati

I ricordi della ritirata di Russia scritti in un Lager tedesco dall’alpino Rigoni Stern nell’inverno del 1944 vennero pubblicati da Einaudi nel 1953 nei «Gettoni» diretti da Vittorini sotto il titolo Il sergente nella neve. Apprezzato inizialmente soprattutto per il valore della testimonianza, il romanzo ha mostrato le sue grandi qualità espressive con la progressiva distanza temporale dai drammatici avvenimenti narrati. E ormai è giustamente considerato un classico del Novecento: per la lingua intensa e sempre concretissima, per l’alta moralità di fronte a esperienze estreme, per la totale mancanza di enfasi retorica, per il candore e la forza con cui viene rappresentata la lotta dell’uomo per conservare la propria umanità.

Cronologia della vita e delle opere a cura di Giuseppe Mendicino.

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Mario Rigoni Stern esordì con Il sergente nella neve (1953), una delle più notevoli testimonianze letterarie della seconda guerra mondiale, alla quale l’autore partecipò con gli alpini sul fronte russo. Dopo anni di silenzio Rrigoni Stern è tornato alla narrativa con i racconti Il bosco degli urogalli (1962) e i romanzi La guerra della naia alpina (1967), Quota Albania (1967), Ritorno sul Don (1973), Storia di Tönle (1978, premio Campiello), emblematica biografia di un solitario montanaro durante la grande guerra, uno dei suoi esiti più alti. Successivamente, accanto a nuovi romanzi, L’anno della vittoria (1985) e Amore di confine (1986), lo scrittore ha pubblicato diverse opere che testimoniano di una sua crescente adesione al mondo della natura: Uomini, boschi e api (1980), Il libro degli animali (1990), Arboreto selvatico (1991). In Le stagioni di Giacomo (1995, premio Grinzane) ha raccontato i luoghi d’origine. Nella produzione successiva tornano i suoi temi dominanti: Sentieri sotto la neve (1998), Tra due guerre e altre storie (2001), Stagioni (2006), I racconti di guerra (2006).

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OMAGGIO A ANDREA ZANZOTTO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/10/10/omaggio-a-andrea-zanzotto/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/10/10/omaggio-a-andrea-zanzotto/#comments Sun, 10 Oct 2021 05:08:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3619 Ricordiamo Andrea Zanzotto nel centenario della sua nascita e a dieci anni dalla sua morte

Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 – Conegliano, 18 ottobre 2011) poeta italiano tra i più importanti della seconda metà del Novecento

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[Rimettiamo in primo piano questo post pubblicato il 18 ottobre 2011]

Oggi, 18 ottobre 2011, ci ha lasciati un gigante della letteratura: il poeta Andrea Zanzotto. Era nato a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, il 10 ottobre del 1921 (dunque, aveva da poco compiuti i novant’anni). Era ricoverato da alcuni giorni all’ospedale di Conegliano (soffriva da tempo di problemi di natura cardiaca e respiratoria).
A lui, e alla sua memoria, questo “spazio”. Un omaggio, ma anche un’occasione per far conoscere Zanzotto a chi non ha ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.
Chiedo a tutti di contribuire lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione, informazioni biografiche… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare Andrea Zanzotto e la sua produzione letteraria.
Vi ringrazio in anticipo!

Di seguito, l’articolo pubblicato su La Stampa.it e il video “Ritratti – Andrea Zanzotto” (di Marco Paolini, regia di Carlo Mazzacurati, 2009).

Massimo Maugeri
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da LA STAMPA.IT

Morto Zanzotto, il cantore del tempo. Il grande poeta aveva appena festeggiato 90 anni: al compleanno l’omaggio di Giorgio Napolitano

E’ morto il poeta Andrea Zanzotto. Era stato ricoverato ieri, per problemi ai polmoni, all’ospedale di Conegliano. Pochi giorni fa Padova aveva festeggiato i 90 anni dell’autore, in passato più volte indicato come candidato al Nobel. Originario di Pieve di Soligo, ha saputo trasformare il dialetto in un linguaggio universale, straordinario e ironico cantore del tempo di lunga e generosa militanza poetica. Formatosi a lezione di Concetto Marchesi, Manara Valgimigli e Diego Valeri tra il 1938 e il 1942, fu sostenuto negli esordi come poeta da Giuseppe Ungaretti e da Alfonso Gatto. Fu partigiano nelle file di Giustizia e libertà ed è famoso il sodalizio che ebbe con Federico Fellini. Per celebrare i suoi 90 anni sono usciti diversi libri (compreso un Oscar Mondadori), una raccolta di inediti (Interlinea editore) e un numero speciale della rivista «Autografo» fondata da Maria Corti.
Pochi giorni or sono, nel festeggiare il suo compleanno con la consegna del «Leone del Veneto», la massima onorificenza della Regione Veneto, è stata letta la lettera che gli ha scritto il capo dello Stato Giorgio Napolitano «Le sono vicino, caro Zanzotto – ha scritto ricordando i comuni trascorsi studenteschi a Padova negli anni della guerra e dell’antifascismo – nella visione della poesia come sentimento del tempo, e sono tra i tanti che ammirano la ricchezza di motivi ispiratori e di accenti con cui l’ha come tale rappresentata. Nell’orizzonte più vasto, poi, dei suoi interessi culturali e civili, ritrovo i fili, a me familiari, non solo di un percorso tra politica e utopie come quello da lei rievocato, ma dell’ancoraggio alla Resistenza e alla Costituzione, e dell’idea di un’unità del paese, messa in campo fin dal Medioevo sul terreno della storia letteraria».
«E colgo in lei – prosegue il messaggio di Napolitano – la vigile attenzione e il fermo richiamo a valori essenziali dinanzi ai guasti subiti dalla società e dallo Stato, al diffondersi non solo della corruzione ma di una volgarità fatua e rissosa, di spinte sgangherate e di bassi sentimenti. La ringrazio per questa severità appassionata dei suoi messaggi, per l’amore che rivolge alla natura ferita così come alla gente del suo Veneto – una volta povera e serva – sempre faticatrice, ora anch’essa presa in quel “progresso scorsoio” che turba noi tutti. Continui, caro Zanzotto, a farci sentire questa sua limpida voce».
Il poeta, presente in videoconferenza al Pedrocchi, si è detto molto toccato: «Tutto ciò – ha sottolineato con voce incerta ma sguardo intenso e penetrante – viene ad alleviare il corredo dell’età a volte così inclemente». E prima di dare voce ad alcuni versi scritti in memoria del padre «al quale devo moltissimo», Zanzotto ha tratto un suo personale consuntivo: «Non potevo attendermi una miglior verifica di aver investito in ideali e valori», capaci di restituire coerenza e unità ai «cocci» del vivere quotidiano.
Zanzotto era il poeta delle cose semplici ma complesse, indicato dalla critica come continuatore della linea ungarettiano-ermetica. Un poeta delle parole cesellate e comprese dal loro interno. Mai magniloquenti ma sempre cariche di una forza in grado di cristallizzare l’emozione in un verso.
Il poeta nasce nel 1921 a Pieve di Soligo. La sua famiglia è apertamente antifascista. La formazione scolastica avviene a Treviso, successivamente sarà all’Università di Padova che Zanzotto consegue la laurea in Lettere forgiando la propria conoscenza abbeverandosi alle lezioni del latinista Concetto Marchesi e del poeta, Diego Valeri. Fu proprio Valeri a spingerlo a conoscere i poeti simbolisti francesi, da Baudelaire e Rimbaud.
Laureato, Zanzotto inizia ad insegnare nella sua Marca, in quel di Valdobbiadene. Fu arruolato nel 1943 e partecipò attivamente alla Resistenza veneta. Dagli anni ‘60 inizia il percorso poetico che lo condurrà a collaborare a numerosissime riviste letterarie, tra cui ‘Il Caffé’ che riuniva gli esponenti di spicco del panorama letterario italiano, tra cui Calvino, Ceronetti e Volponi.
Nel 1969 pubblica Gli sguardi, i fatti e Senhal dedicato allo sbarco sulla luna. Ma è nel 1976 che Zanzotto fa un incontro cruciale, quello con il regista Federico Fellini con il quale collabora al Casanova. Con il cineasta riminese, Zanzotto collaborò anche alla sceneggiatura de La città delle donne. Per Fellini scrisse ancora i Cori per E la nave va del 1983. In quell’anno, fertile e denso di novità, Zanzotto pubblica un’altra opera fondamentale: I Fosfeni, secondo libro di trilogia grazie al quale conquista il premio ‘Librex Montale’.
Iniziano in questo periodo i problemi di depressione che affliggeranno, periodicamente, il poeta gettandolo spesso in un cupo e ripiegato silenzio. Gli ultimi anni vedono Zanzotto al lavoro sulla lingua veneta, nel 2001 esce Sovrimpressioni, meditazioni attorno alla distruzione del paesaggio. Poi nel 2005 è la volta dei Colloqui con Nino, una sorta di introspezione nel passato e nell’educazione sentimentale. Il 2009 segna l’uscita di In questo progresso scorsoio. Un testamento spirituale in cui il poeta esprime l’angoscia del tempo presente.
La poetica di Andrea Zanzotto è fortemente innovativa e declina un’avanguardia estremamente personale. Una rarefazione del linguaggio frutto di un intervento di pulizia e recupero di fonemi ascrivibili quasi a un linguaggio infantile ma al contempo colto. Amplissime e frequenti le sue incursioni nell’universo semantico del greco classico, che il poeta sa intrecciare con visionaria precisione dell’etimo al suo verso sempre misura, sempre minutamente cesellato.
Zanzotto non è un oratore civile, a differenza da altri protagonisti, nel panorama letterario italiano che gli furono pure amici. Ma non mancò proprio nel giorno del suo ultimo compleanno, sul limitare dell’intera sua esistenza, di intervenire con parole nette e vibranti su di un tema di stringente attualità nel dibattito politico. Ebbe a dichiarare in un’intervista al nostro quotidiano La Stampa: «Mi ha fatto molto piacere sentire il Capo dello stato riaffermare l’unità d’Italia e liquidare certi giochi di parole che negli anni avevano creato un imbroglio. La Padania non esiste, il popolo padano neppure. Questa è una storia più che ventennale di equivoci e spettri. La riaffermazione di Napolitano potrà darci il senso di una tregua. E sono convinto che piano piano questo fantasma sparirà».
(da La Stampa.it del 18/10/2011)

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QUARANT’ANNI DALLA MORTE DI EUGENIO MONTALE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/09/12/quarantanni-dalla-morte-di-eugenio-montale/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/09/12/quarantanni-dalla-morte-di-eugenio-montale/#comments Sun, 12 Sep 2021 09:12:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8848 In occasione dei quarant’anni dalla morte di Eugenio Montale riproponiamo questa breve intervista televisiva (la riportiamo in forma di testo) che il poeta rilasciò per la rubrica televisiva “Arte & Scienza” del 1959.

Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981),  poeta e scrittore italiano, ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel 1975.

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A PROPOSITO DI POESIA: intervista a Eugenio Montale

- Montale, lei ha scritto che il poeta è colui che coglie la palla al balzo. Può spiegarci il senso di questa frase?
Nel mio caso, e anche nel caso di altri, credo che si tratti di una situazione linguistica. Ci sono delle cose che non possono essere dette che in un determinato tempo e con determinate parole. Colui che si rende conto prima di questo fatto è anche lo stesso che poi realizza qualcosa in questa direzione. Insomma ci sono possibilità da essere prese tempestivamente… diciamo così.

- Lei crede in una distinzione ancora valida tra poesia e prosa, o crede che i due fatti espressivi si vadano via via identificando?
Diciamo che la poesia va diventando certamente sempre più prosastica, ma credo che rimarrà sempre una distinzione dato il carattere più sintetico della poesia.

-Che cosa pensa della frattura tra poesia e pubblico? Esiste cioè un pubblico della poesia?
Forse no. Forse no perché i poeti sono così tanti che formano un pubblico. Escono migliaia di libri di versi all’anno. È probabile che questi poeti siano anche i clienti di se stessi; cioè che comprino essi stessi i libri di poesia. Ma dubito che esista veramente un pubblico per la poesia moderna. Forse esiste più in Italia che altrove.

- Potrebbe indicarci almeno tre opere poetiche di autori contemporanei degni, a suo giudizio, di restare nella storia della nostra poesia?
Io salverei le opere di Ungaretti e le opere di Saba. I critici dicono anche le mie, ma non potrei giudicare il mio caso. Ci sono poi poeti più giovani come Luzi, Sereni, Caproni, Pasolini e altri che sono molto apprezzabili e promettenti.

- Qual è il suo giudizio sulla produzione poetica degli autori delle ultime generazioni?
Se per ultime  generazioni devono intendersi quella posteriore alla mia, direi che si stanno facendo degli sforzi molto interessanti; ma è un po’ presto per giudicare. Gli strumenti stilistici e linguistici ereditati da questi giovani non sono del tutto idonei a una poesia di impegno realistico e sociale diretto. E quindi è probabile che avverrà una certa frattura che potrà durare qualche anno. In sostanza devono rinnovarsi le idee, ma anche gli strumenti.

- E qual è il suo giudizio su Montale pittore?
Dipingendo ho cercato di ritrovare una certa ingenuità che avevo perduto scrivendo versi. Credo di averla trovata. Ecco, mi diverto più a dipingere che a scrivere, ma se insistessi molto forse non mi divertirei più nemmeno a dipingere.

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PER PAOLO BORSELLINO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/07/19/per-paolo-borsellino/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/07/19/per-paolo-borsellino/#comments Mon, 19 Jul 2021 05:00:01 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2320 BorsellinoIN MEMORIA DI PAOLO BORSELLINO

Il 19 luglio del 1992, moriva Paolo Borsellino. Dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, si era recato insieme alla sua scorta in via D’Amelio, dove viveva sua madre.

Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione, con circa 100 kg di esplosivo a bordo, deflagrò al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta.

In memoria e onore di Paolo Borsellino – eroe italiano e vittima della mafia – dedichiamo questo spazio di Letteratitudine, rimettendo in primo piano questo post pubblicato originariamente nel 2010 e dedicato alla sua figura.

All’interno del post, in cui ragionavamo anche sul senso e sul valore della memoria, c’è un bel racconto della scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono.

Massimo Maugeri


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FUOCHI D’ARTIFICIO

di Simona Lo Iacono

I pochi gesti che compio stamattina non hanno niente a che fare col buio. Sono gesti intagliati in un sole che assorbe tutto.
Apro il balcone mentre alle mie spalle lei dorme ancora. Conosco la piega che prende il lenzuolo tra i due seni, l’arsura che le si incolla sulle gambe e le fa spostare il ginocchio in su. Non ha mai saputo che la osservo per ore mentre dorme, e neanche i miei figli lo sanno, perché il sonno è un segreto che può violare solo chi ama, ma di nascosto, senza farsene accorgere. Sarebbe come rubare l’anima mentre si acquatta e impigrisce, e io non ho mai saputo sottrarre niente a nessuno. Non ora, poi, che la notte è un nemico che mi inchioda solo poche ore, e insiste a trasformarsi in una veglia perpetua e piangente, che consumo bevendo caffè, lucidando i ricordi e assestando gli ultimi colpi a queste carte.
Nei primi tempi le impilavo ovunque, in spiaggia, tra le sdraio che lei ha sempre voluto di fronte, a specchio, per guardarmi lavorare. E in bagno, dove lasciavo che la sigaretta mi pencolasse consumandosi da sola, sbriciolando cenere e saliva. Poi, col tempo, ho preso a selezionare. Pochi documenti, scelti col fiuto di un presentimento.
Ma questa mattina non cederò ai presentimenti. Scenderò in mare con la barca. Slitterò piano sulle onde.
Il giornale lo comprerò prima. All’edicola sotto casa, da solo.
Non voglio che i ragazzi mi accompagnino. Fa caldo, ed è una bella domenica. Che stiano a letto ancora un’ora.
Citofoneranno alle nove, come al solito. E come al solito vedrò avvitarsi sulla mia ombra la loro, tesa come un legaccio.
Li osservo cingermi a cerchio, fare scudo sul niente.
La calma ci fa paura più di ogni altra cosa, più del traffico che esplode a mezzogiorno, o più dell’autostrada che cuoce imbrumandosi di un odore greve, di spazzatura.
A volte ne ridiamo. Fingiamo di essere sulla volante solo per gioco, o per una vacanza, dice qualcuno. E se la sirena urge sul cielo, ci cantiamo sopra, azzardiamo una barzelletta.
Siamo bravi a distrarre la morte.
Giovanni ci sapeva fare più di ogni altro. Non faceva scongiuri ma sosteneva con una punta di orgoglio che nessuno, ormai, muore così. Coi fuochi d’artificio che bombardano l’aria. E intanto accarezzava la borsa porta documenti, faceva schioccare la serratura con due dita. Salta in un secondo, diceva. Ma non rideva più.
La barca è pronta. Solo un giro nel porto ho detto, ma seguendo i gabbiani che si inarcano verso gli scogli. Voglio vederli planare.
Intanto a casa le melanzane friggono sull’olio. Lei sa rosolarle perfettamente, lasciando che la crosta che le circonda crocchi tra le labbra. Mi ama silenziosamente questa donna china sulla padella, che non chiede niente se non vedermi tornare.
La cingo da dietro e le bacio la nuca, i resti delle melanzane ancora tra i denti.
Vado a riposare, le dico, e nel sorriso che adesso copre coi capelli, leggo tutti questi anni. Ti sveglio alle quattro, risponde. E io sussulto. E’ come se contasse alla rovescia.
L’ultimo abbraccio glielo do sull’uscio di casa. I ragazzi già mi aspettano con la portiera aperta, le pistole d’ordinanza sotto le camicie estive.
Bacio di fretta anche i miei figli perché ultimamente so che il tempo è spigoloso, tende trappole e salta segnali.
E poi. Mia madre mi aspetta. Avrà messo la vestina nera, come la chiama lei. Le calze, anche se è luglio.
L’agente scelto mi dice: aspetti dottore, lei rimanga qui che citofono io.
Mia madre è pronta già da mezz’ora, e posso quasi vederla rispondere sì scendo, tremare un poco sulle gambe, sovrapporsi al viso di mia moglie, e dei miei figli, i loro occhi che inondano adesso questa macchina, le melanzane che ballano sull’olio, la barca che pedina gabbiani.
Allora è vero, era un conto alla rovescia, anche se non è come immaginavo, non è un boato, piuttosto un respiro lungo a scuoterci, e lapilli che infestano l’aria, e poi i balconi delle case, e l’agente scelto che viene spinto in avanti, mentre di tutto quello che credevo di ricordare non resta che questa stanchezza forse un po’ perplessa e triste, nomi, una data, un luogo, fuochi d’artificio, come diceva Giovanni.

Via D’Amelio, 19 Luglio 1992. Paolo Borsellino.

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ADDIO A FRANCO BATTIATO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/05/18/addio-a-franco-battiato/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/05/18/addio-a-franco-battiato/#comments Tue, 18 May 2021 17:05:06 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8796 Ci lascia all’età di 76 anni uno dei più grandi artisti italiani: Franco Battiato (Ionia, 23 marzo 1945 – Milo, 18 maggio 2021). Gli dedichiamo questa pagina, con una nota biografica e link a vari approfondimenti

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Su LetteratitudineNews, l’intervento del poeta Sebastiano Burgaretta

Segnaliamo inoltre la nuova puntata della nostra rubrica “Di-versi irrequieti” (curata da Daniela Sessa) dedicata a Franco Battiato

Il video con l’omaggio del TG1 delle 13:30

Il ricordo di Elisabetta Sgarbi nell’intervista a la Repubblica

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Approfondimenti su: la Repubblica, Il Corriere della Sera, Ansa, La Stampa, La Sicilia, RaiNews, RaiNews(2), Il Fatto Quotidiano, Il Mattino, SkyTg24, Il Messaggero, RollingStone, Enciclopedia Treccani

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Franco Battiato, ha fatto parlare di sé per il grande numero di stili che ha approfondito e combinato tra loro in modo eclettico e personale: dopo l’iniziale fase pop degli anni sessanta, è passato al rock progressivo e all’avanguardia colta nel decennio seguente. Successivamente, è ritornato sui passi della musica leggera approfondendo anche la canzone d’autore. Fra gli altri stili in cui si è cimentato vi sono la musica etnica, quella elettronica e l’opera lirica. Lungo la sua carriera, in cui ha ottenuto un vistoso successo di pubblico e critica, si è avvalso dell’aiuto di numerosi collaboratori fra cui il violinista Giusto Pio e il filosofo Manlio Sgalambro (coautore di molti suoi brani). I suoi testi riflettono i suoi interessi, fra cui l’esoterismo, la teoretica filosofica, la mistica sufi (in particolare tramite l’influenza di G.I. Gurdjieff) e la meditazione orientale. Il musicista si è anche cimentato in altri campi come la pittura e il cinema. È uno tra gli artisti con il maggior numero di riconoscimenti da parte del Club Tenco, con tre Targhe e un Premio Tenco.

Tra novembre 2012 e marzo 2013 ha portato avanti una brevissima esperienza in qualità di assessore al turismo della Regione Siciliana nella giunta di centrosinistra del presidente Rosario Crocetta dichiarando di non voler ricevere alcun compenso.

(Fonte: Wikipedia Italia)

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Alcuni dei messaggi su Twitter dedicati a #FrancoBattiato

@Quirinale
Presidente #Mattarella: profondamente addolorato dalla morte di #FrancoBattiato, artista colto e raffinato. Con il suo inconfondibile stile musicale,frutto di intenso studio e febbrile sperimentazione,ha affascinato un vasto pubblico, anche al di là dei confini nazionali.

Laura Pausini – @LauraPausini
Per avere cura di qualcuno bisogna andarlo a cercare.
In un momento storico dove la mediocrità la fa da padrona, #FrancoBattiato ci lascia le sue opere d’arte per non abbandonarci all’approssimazione.
Andiamo a cercarlo, per avere cura di noi…
Buon Viaggio Maestro
#rip

Diodato – @DiodatoMusic
Non ho mai avuto la fortuna di incontrarlo, ma ho avuto la fortuna di vivere il suo tempo.
A questa strana primavera mancherà il suo sguardo, la sua splendida, vivace intelligenza, la sua gentilezza.
Mani giunte #francobattiato

Francesco Gabbani – @frankgabbani
Oh Maestro tu ci lasci … ma il tuo lascito all’ umanità resta incommensurabile. Grazie per avermi dedicato quei momenti intimi. Pace all’infinito e alla vita che avrai.
#francobattiato

Enrico Ruggeri – @enricoruggeri
Una persona speciale, un genio pieno di contenuti, cultura e senso dell’umorismo.
Parlare con lui ti arricchiva e ti mostrava altre prospettive.
Sommerso da immondizie musicali ricordo commosso il grande patrimonio che ci ha lasciato.
Che bella persona.
#francobattiato

Elisabetta Sgarbi – @bettywrong
Mi hai insegnato a cercare l’alba dentro l’imbrunire. Oggi è difficile ma per te ci proverò.
Grazie #FrancoBattiato, buon viaggio.

Luca Barbarossa – @LbarbarossaLuca
Adorato Franco,
in questo sorriso c’è tutta la tua grandezza. Doloroso addio a un artista immenso, verso il quale siamo tutti debitori.
#francobattiato

dodi battaglia – @dodibatt
Addio Franco, genio infinito.
Ci mancherai…
Dodi
#DodiBattaglia #FrancoBattiato

Raffaella Carrà – @raffaella
Sto provando un grande dolore e ti accompagno con le mie preghiere. #francobattiato

Nicola Savino – @NicoSavi
“Si salverà chi non ha voglia di far niente e non sa fare niente”.
#francobattiato

ANNALISA – @NaliOfficial
Il mio centro di gravità permanente non l’ho ancora trovato, ma mi piace continuare a cercarlo
Grazie maestro #FrancoBattiato

Giorgio Panariello – @GioPanariello
Sul ponte sventola bandiera bianca.
#francobattiato

[pagina in aggiornamento]

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LA BIOGRAFIA DI FRANCO BATTIATO

La canzone di protesta e il periodo romantico (1965-1969)
Il pittore Giuseppe Frascaroli con Franco Battiato il 1 settembre 2013 (cropped).jpgFranco Battiato nasce il 23 marzo 1945 a Riposto, allora Ionia, in provincia di Catania. Dopo aver conseguito la maturità al Liceo Scientifico “Archimede” di Acireale, e a seguito della morte del padre (camionista e scaricatore di porto a New York), nel 1964 si trasferisce dapprima a Roma per poi stabilirsi a Milano. In merito al periodo lombardo l’artista ricorda: «Milano allora era una città di nebbia, e mi sono trovato benissimo. Mettevo a frutto la mia poca conoscenza della chitarra in un cabaret, il “Club 64″, dove c’erano Paolo Poli, Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Renato Pozzetto e Bruno Lauzi. Io aprivo lo spettacolo con due o tre canzoni siciliane: musica pseudobarocca, fintoetnica. Nel pubblico c’era Giorgio Gaber che mi disse: “Vienimi a trovare”. Il giorno dopo andai. Diventammo amici».
Dopo aver interrotto gli studi universitari per seguire la sua passione musicale, pubblica due singoli per la rivista Nuova Enigmistica Tascabile (NET) verso la metà degli anni sessanta, che proponeva come allegati dischi di canzoni celebri interpretate da cantanti poco conosciuti. In queste due occasioni l’artista appare in copertina col nome di battesimo Francesco Battiato. Il primo singolo contiene un brano presentato al Festival di Sanremo 1965 da Beppe Cardile e Anita Harris, L’amore è partito. Il secondo riprende una canzone portata al successo da Alain Barrière: …e più ti amo, tradotta in italiano da Gino Paoli. Il brano verrà riproposto, in una nuova versione, nell’album Fleurs 2 del 2008.
L’esordio televisivo di Battiato, nella trasmissione Diamoci del tu (1967).
Insieme al compaesano Gregorio Alicata, forma nel 1967 il duo de “Gli Ambulanti”. I due artisti si esibiscono davanti alle scuole, con un proprio repertorio di canzoni di protesta. In questa fase, sarà proprio l’amico Giorgio Gaber a lanciarli, proponendo i loro brani alla casa discografica di Nanni Ricordi. Durante le fasi di lavorazione affiorano diverse incomprensioni che portano il duo a sciogliersi e Battiato decide di proseguire singolarmente la carriera di musicista. Sempre Gaber procura a Battiato un contratto con la casa discografica Jolly, che inserisce la figura dell’artista nel filone di “protesta”, all’epoca assai in voga e presente in molte produzioni cantautorali. I primi singoli incisi ufficialmente sono La torre e Le reazioni. A questi seguono Il mondo va così e Triste come me. Il singolo La torre accompagna la prima apparizione televisiva dell’artista, avvenuta il 1º maggio del 1967. Il programma è intitolato “Diamoci del tu” ed è condotto da Giorgio Gaber in coppia con Caterina Caselli. Nel corso della puntata si esibisce un altro giovane cantautore ancora sconosciuto: Francesco Guccini. E proprio in questa occasione l’artista milanese propone a Battiato di cambiare il nome da Francesco a Franco, proprio per non confondersi con Guccini. «Da quel giorno in poi tutti mi chiamarono Franco – ricorderà il musicista – persino mia madre». Sempre con Gaber collabora alla stesura del brano …e allora dai!, presentato al Festival di Sanremo 1967, e Gulp Gulp, sigla della già citata trasmissione televisiva “Diamoci del tu”.
Nel 1968 cambia casa discografica, passando alla Philips, con l’intento di abbandonare il genere di protesta per incidere dischi dal sapore romantico, allo scopo di raggiungere un pubblico più vasto e generalista. In questo periodo collabora con il chitarrista Giorgio Logiri (alcune canzoni scritte dai due vengono incise da altri artisti, come ad esempio A lume di candela, cantata da Daniela Ghibli). Registra altri due brani che la casa discografica pubblica soltanto nel 1971 (Vento caldo e Marciapiede) e ottiene un discreto consenso con È l’amore, canzone che diverrà in breve il primo successo commerciale dell’artista con oltre centomila copie vendute. Nel 1969 il musicista partecipa a un Disco per l’estate con il brano Bella ragazza che verrà, in seguito, escluso dalla competizione. Sempre nello stesso anno partecipa alla Mostra Internazionale di Musica Leggera presentando il brano Sembrava una serata come tante.

Musica sperimentale e avanguardia colta (1971 – 1975)
A partire dal 1971 l’artista abbandona il formato canzone per dedicarsi completamente alla musica sperimentale, facendo un uso costante di strumenti e sonorità elettroniche. In questo periodo pubblica, lungo la prima metà degli anni settanta, alcuni album per l’etichetta indipendente Bla Bla fra cui l’esordio Fetus (recante in copertina l’immagine di un feto, all’epoca censurata) che vende circa 7000 copie. Del disco viene registrata una versione in lingua inglese intitolata similarmente Foetus. L’album, considerato un’opera molto originale e innovativa nel panorama della canzone italiana, contiene brani dal sapore mediterraneo (Una Cellula, Energia, Mutazione), intermezzi surreali (la title-track, Cariocinesi) e brani per chitarra e sintetizzatore (Fenomenologia, Anafase e Meccanica).
Il disco è una sorta di viaggio interiore psichedelico con balzi dal microscopico della cellula all’infinito dello spazio, e trae la sua ispirazione dall’opera letteraria Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley. Battiato delinea un concept-album ambiguo e dissacrante, sospeso fra canzone d’autore e krautrock. Di lui, il critico musicale Riccardo Bertoncelli ha affermato che “è sempre stato inclassificabile, nei settanta entrava in scena, accendeva uno stereo con musica assurda e se ne andava. Il pubblico lo rincorreva inferocito.
Il successivo, Pollution, continua il percorso già tracciato dall’album precedente, e ottiene maggior successo, risultando il 59º album più venduto dell’anno. Forte delle nuove esperienze internazionali (come i concerti in supporto di Brian Eno, Magma, Tangerine Dream, John Cale e Nico), e in base alle lezioni musicali del maestro Karlheinz Stockhausen, Battiato si converte a una forma d’avanguardia ancora più intellettuale e intimista rispetto all’esordio. Nel 1973, pubblica Sulle corde di Aries considerato il suo lavoro più riuscito di questa prima fase. Convergono in questo LP la sperimentazione ripetitiva tipica del minimalismo e una particolare forma di musica acustica che si rifà alla tradizione araba, sebbene non manchino strumenti elettronici. Continuando il suo percorso sperimentale, l’artista priva l’album dei classici strumenti rock quali chitarre, bassi e batteria in favore di fiati, oboe, violoncello, mandola, calimba e piano preparato. Il brano più celebre è l’ipnotica Sequenze E frequenze.
Il disco seguente, Clic, pubblicato nel 1974, è interamente dedicato al musicista e amico Karlheinz Stockhausen. L’album segna l’allontanamento dell’artista dalle sonorità progressive e sperimentali dell’esordio a favore dell’avanguardia contemporanea e contiene Propiedad prohibida, brano che è stato utilizzato come sigla d’apertura del programma Tg2 Dossier.
L’album viene in seguito ristampato in Inghilterra, con l’aggiunta di Aria di rivoluzione (tradotta in copertina dalla Island come Revolution in the air). L’opera successiva, M.elle le “Gladiator”, presenta circa dieci minuti di esperimenti e sovraincisioni (molto più duri e disarmonici di quelli di Clic), che danno spazio a circa venti minuti di suoni d’organo, registrati nella cattedrale di Monreale.

Esperimenti d’avanguardia in collaborazione (1971 – 1975)
Nello stesso periodo, il nome di Franco Battiato appare in molti album scritti e lanciati da altri artisti, e tutti riconducibili al circuito dell’etichetta Bla Bla. Nel 1971 presenzia come coautore del singolo Tarzan, brano lanciato dal complesso Capsicum Red; contemporaneamente fonda la band degli Osage Tribe (il suo primo gruppo musicale), in cui figura come leader e voce solista. Con questi incide, sempre nel 1971, il 45 giri Un falco nel cielo, la cui copertina, raffigurante una testa di bambola con bocca sanguinante, acquista in breve tempo molta notorietà. La canzone viene scelta come sigla del quiz televisivo Chissà chi lo sa?, entrando anche a far parte del canzoniere degli scout.
L’anno dopo gli Osage Tribe pubblicano un LP di jazz rock progressivo, intitolato Arrow Head; Battiato non fa più parte del gruppo, ma compare nel disco in veste di coautore del brano Hajenhanhowa. Successivamente, sotto lo pseudonimo di Genco Puro & Co, collabora al disco Area di servizio, inciso nello stesso anno da Riccardo Pirolli. In questo LP Battiato canta in tre canzoni: Giorno d’estate, Nebbia e Biscotti e the. In seguito, realizza altre produzioni minori usando svariati pseudonimi come Springfield, Ixo e Colonnello Musch (in quest’ultimo caso collaborando con il musicista Pino Massara).
Nel 1973 supporta la band musicale dei Jumbo nel loro album intitolato Vietato ai minori di 18 anni?, aggiungendo al brano Gil specifiche sonorità grazie al suo EMS VCS3 (sintetizzatore analogico molto versatile, generatore di particolari effetti elettronici). Altrettanto importante è la sua partecipazione al disco La finestra dentro, dell’amico Juri Camisasca, album tra i più noti della musica d’avanguardia dell’epoca. Nel 1975 partecipa al progetto progressivo/sperimentale Telaio Magnetico, per la durata di un piccolo tour nel Sud Italia, insieme a Juri Camisasca, Mino Di Martino, Terra Di Benedetto, Roberto Mazza e Lino Capra Vaccina. A testimonianza di ciò, viene registrato l’apposito LP Live ‘75, pubblicato nel 1995 da Musicando e ristampato da Black Sweat Records nel 2017 con l’aggiunta di una traccia inedita.

Le pubblicazioni per la Ricordi e l’incontro con Giusto Pio (1975 – 1978)
Nell’estate del 1975 presenzia al Festival del proletariato giovanile tenutosi a parco Lambro, sotto l’organizzazione della rivista Re Nudo. Il nome del musicista compare assieme ad alcuni fra i più noti artisti della musica italiana del periodo, quali Francesco Guccini, Lucio Dalla, Giorgio Gaber, Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Lo stesso Battiato ricorderà il periodo della controcultura con queste parole:
«Trent’anni fa era molto più facile. Pollution è stato in classifica ai primi posti. Oggi non troverei chi me lo pubblichi. Ai miei tempi nei festival se vedevano un bollino di Coca-Cola si sfasciava tutto. Oggi siamo all’apologia del marchio.»
Nel 1976 con la chiusura della Bla Bla passa alla Dischi Ricordi e prosegue il suo percorso nell’avanguardia colta iniziato con Clic e M.elle le “Gladiator” con tre album dalla scarsa eco commerciale e poco apprezzati dalla critica. Il primo di questi è Battiato, uscito nel 1977, contenente Cafè-Table-Musik, collage sonoro della durata di venti minuti, la cui locuzione riprende un’espressione dello scrittore Marcel Proust. Battiato si avvicina intanto al genere teatrale portando in scena, nel febbraio dello stesso anno, l’opera musicale Baby Sitter. Lontano da qualsiasi forma di piece tradizionale, lo spettacolo è un puzzle di accadimenti scenici senza alcun canovaccio di sorta, ispirato al concetto di ready-made, teorizzato da Marcel Duchamp. Sempre nel 1977 produce il disco d’esordio dell’artista Alfredo Cohen, denominato Come barchette dentro un tram.
In quel periodo il cantautore conosce il musicista Giusto Pio, con il quale stringerà un proficuo sodalizio artistico; lo stesso Giusto Pio gli impartirà, negli anni a venire, molte lezioni di violino. Sempre per la Ricordi esce, l’anno seguente, Juke Box, prima collaborazione con il violinista e pensato come colonna sonora del film tv Brunelleschi (in seguito rifiutato dai produttori). Sempre nel 1978, produce il primo disco del musicista veneto dal titolo Motore immobile. L’ultimo album pubblicato con la Dischi Ricordi è L’Egitto prima delle sabbie. Con l’omonima traccia (brano di 14 minuti di pianoforte che ripete un solo accordo per tutta la durata della traccia), si aggiudica, nel 1979, il Premio Stockhausen di musica contemporanea. Nello stesso periodo, insieme a Giusto Pio, assume la direzione musicale dello spettacolo Polli d’allevamento, scritto e diretto dall’amico Giorgio Gaber. Il duo si occupa prevalentemente degli arrangiamenti, utilizzati anche nel disco live tratto dallo spettacolo.

Il ritorno alla musica pop (1978 – 1979)
Nel 1978 pubblica un nuovo 45 giri usando lo pseudonimo Astra. I due brani, scritti con Pio, si intitolano Adieu e San Marco (entrambi con un testo in francese). L’anno dopo riprende la stessa musica di Adieu per una nuova canzone dal titolo Canterai se canterò, incisa da Catherine Spaak (presente nel retro del 45 giri Pasticcio); e la riprenderà ancora anni dopo, nel 1989, per la canzone Una storia inventata, contenuta nel disco Svegliando l’amante che dorme di Milva. Torna intanto a collaborare con l’artista abruzzese Alfredo Cohen, firmando assieme a Giusto Pio le musiche dei brani Roma e Valery (il cui testo, modificato dallo stesso Battiato, darà vita anni dopo alla più nota Alexander Platz). Questa serie di brani porranno le basi per l’ascesa cantautorale del musicista, che da qui in avanti tornerà in maniera definitiva alla forma tradizionale della canzone.
Nel 1979, grazie all’interessamento di Angelo Carrara, che sarà il suo manager e produttore fino al 1986, passa alla EMI Italiana, decretando il suo ritorno alla canzone pur mantenendo vivo il suo interesse per la musica orientale. Tale fascinazione lo avvicinerà concretamente all’esperienza spirituale del sufismo, praticata in prevalenza dai martiri del misticismo islamico. Non a caso, si iscriverà con convinzione all’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, coltivando finanche lo studio della lingua araba. Così facendo, nell’autunno dello stesso anno, registra, presso gli Studi Radius, L’era del cinghiale bianco, che contiene riferimenti alle idee esoteriche dello scrittore e intellettuale René Guénon. Dell’album viene registrata una prima versione, assai diversa da quella definitiva, in cui si evince l’assenza di strumenti rock come il basso e la batteria, e che lascia notevolmente insoddisfatti gli autori. Vengono quindi chiamati per la realizzazione di una seconda registrazione i musicisti Tullio De Piscopo e Julius Farmer. Una volta completata la nuova incisione, il disco viene presentato ai dirigenti della EMI, che si rivelano fin da subito molto riluttanti alla sua pubblicazione. Bruno Tibaldi, presidente della casa discografica, decide ugualmente di procedere all’immissione dell’album su tutto il territorio nazionale. Nonostante il modesto riscontro di vendite e varie critiche provenienti da alcuni ambienti della carta stampata, il mensile Nuovo Sound definisce il disco “l’LP italiano più bello dell’anno”, sulla base del parere di una giuria musicale di cui facevano parte tra gli altri Renzo Arbore, Sergio Bardotti, Paolo Giaccio e Sergio Mancinelli.
L’opera, nel complesso, presenta numerosi elementi che in futuro formeranno lo stile e la poetica di Battiato fra cui gli esotismi, i riferimenti letterari e gli scanzonati giochi linguistici. Ne sono un esempio i brani: Strade dell’est (sulle vicende del leader kurdo Mustafa Mullah Barazani), Magic shop (ironico pamphlet contro la commercializzazione dell’arte) e la stessa title-track, contraddistinta dal riff di chitarra e violino. Il riferimento geologico ad un’imprecisata “era del cinghiale bianco” proviene da un’antica leggenda celtica, che vedeva nel “sacro animale” l’emblema assoluto del sapere spirituale. Si segnalano anche la strumentale Luna indiana, Il re del mondo, considerata il capolavoro del disco e Stranizza d’amuri: prima traccia dell’autore interamente scritta in lingua siciliana. Segue un tour di quindici date, caratterizzato da una discreta presenza di pubblico, cui partecipa il tastierista Filippo Destrieri, che collaborerà con Battiato per tutti gli anni ottanta e novanta.

Una nuova idea di canzone (1980)
Il primo album di Battiato degli anni ottanta è Patriots del 1980, che in origine doveva chiamarsi I telegrafi del martedì grasso. A differenza del precedente, il disco ottiene un discreto successo arrivando fino alla trentesima posizione in classifica. L’album contiene il singolo Up patriots to arms, il cui titolo dal significato ermetico è stato descritto in questo modo dal suo autore:
«L’idea risale al 1975, quando in un pub di Birmingham ho un visto un cartellone con la scritta “Up patriots to arms”. All’inizio mi faceva un po’ ridere, poi ho pensato che una frase del genere, se rivoltata e intesa in modo positivo, può essere un buon inizio per cominciare a fare delle cose nuove, per tentare dei cambiamenti.»
Oltre ad Up patriots to arms l’album contiene almeno due brani destinati a diventare dei classici del cantante siciliano fra cui Prospettiva Nevski (riferita alla strada principale di San Pietroburgo) e Le aquile (con testo ispirato al romanzo Statue d’acqua, della scrittrice svizzera Fleur Jaeggy). Il disco contiene anche Venezia-Istanbul (con finale ripreso dal Canto dei lavoratori di Filippo Turati), Arabian song (primo brano in cui l’artista si rapporta alla cultura islamica), nonché Frammenti e Passaggi a livello, entrambe contrassegnate da un ampio uso di citazioni letterarie che richiamano passi di poeti e scrittori quali Marcel Proust, Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli e Giosuè Carducci.
I cambi di registro sia testuali sia musicali, e il ricorso alla citazione e al frammento sono alla base della nuova idea di canzone proposta da Battiato. L’autore non racconta una storia, né affronta una tematica, ma utilizza frasi e situazioni prive di nesso causale. Quello che nasce è un componimento inedito e complesso, dove le parole fanno da ponte verso la musica, mentre questa spiega e struttura i versi stessi. In questo modo l’artista realizza una risposta italiana alle trasformazioni internazionali della popular music. Nel merito il musicista disse:
«Una ragazza di quindici anni mi ha scritto dicendo che non le frega niente di quello che dico, che comunque le piace da pazzi. Per me questo è il massimo, perché non voglio dire niente, oppure tutto.»
E ancora:
«Credo, al contrario di quelli che non hanno capito niente dei miei testi e li giudicano una accozzaglia di parole in libertà, che in essi ci sia sempre qualcosa dietro, qualcosa di più profondo [...] Quando si intende adattare un testo alla musica si scopre che non è sempre possibile. Finché non si fa ricorso a quel genere di frasi che hanno solo una funzione sonora. Se si prova allora ad ascoltare e non a leggere, perché il testo di una canzone non va mai letto ma ascoltato, diventa chiaro il senso di quella parola, il perché di quella e non di un’altra. Per capire bisogna ascoltare, serve animo sgombro: abbandonarsi, immergersi. E chi pretende di sapere già rimane sordo.»
Questa nuova fase lo portò a collaborare con altri artisti, su tutti con la cantante Alice, con la quale scrisse, nello stesso anno, Il vento caldo dell’estate, prima affermazione del nuovo suono di Battiato; originato da un’intuizione sua e del violinista Giusto Pio, decisi a fermare la ritmica durante l’inciso, aggiungendovi in successione degli accordi d’organo.

Gli anni del grande successo (1981 – 1982)
L’artista pubblicò il suo album di maggiore fortuna critica e commerciale nel 1981, La voce del padrone, il cui titolo richiama il pensiero dello scrittore Georges Ivanovič Gurdjieff e al contempo rappresenta un’ironica allusione all’omonima casa discografica. Il disco porta alla massima espressione il gioco di “contaminazione” iniziato con L’era del cinghiale bianco e messo in evidenza in Patriots. L’album, dai toni colti e raffinati ma orecchiabile, contribuì ad aumentare gli ammiratori. Il nuovo LP viene promosso al programma musicale Discoring, e prima ancora alla Mostra Internazionale di Musica Leggera, attraverso il singolo di lancio Bandiera Bianca. Battiato presenta il brano sopra un ipotetico palco elettorale utilizzando un megafono e attorniato da diversi madrigalisti atti a cantare le strofe del ritornello. Il refrain in questione è mutuato dalla poesia L’ultima ora di Venezia di Arnaldo Fusinato, e rappresenta un esplicito segno di resa nei confronti della società che l’autore accusa di essere troppo attaccata al denaro. Altra canzone altrettanto celebre è Centro di gravità permanente, basata sulle teorie psicofisiche del filosofo Georges Ivanovič Gurdjieff, inerenti alle difficoltà dell’essere umano a trovare il “proprio centro interiore”, indispensabile al controllo delle pulsioni emotive e irrazionali. A favore del mistico armeno il cantautore dichiara:
«Il vero cambiamento della mia via, il più grande, lo debbo alla scoperta di Gurdjieff. Da solo con un’esperienza da autodidatta avevo scoperto quella che in Occidente, si chiama meditazione trascendentale, ma nel pensiero di Gurdjieff vidi disegnato perfettamente un sistema che già avevo intuito e frequentato. Esistono tante vie, esiste Santa Teresa e San Francesco; quella di Gurdjieff mi era molto congeniale. Una specie di sufismo applicato all’Occidente, all’interno di una società consumistica.»
L’intero LP reca canzoni divenute classici della musica italiana fra cui, oltre alle già citate, Cuccurucucù (titolo che riprende la famosa canzone di Caetano Veloso), nel cui coro è presente Giuni Russo (non citata nei crediti), e Segnali di vita, preludio al pop più riflessivo degli album immediatamente successivi.
Dopo un timido successo, nel febbraio del 1982 l’album inizia a scalare la classifica, raggiungendo la prima posizione nel mese di marzo, e mantenendo ininterrottamente il primato fino a inizio autunno solo per cederlo al successivo album dello stesso autore. A fine anno risulterà essere il primo album italiano ad aver oltrepassato (circostanza avvenuta tra settembre e ottobre) il milione di copie vendute, superando ogni aspettativa dell’autore e della casa discografica. Tra i vari attestati, riceve nella città di Venezia il premio Gondola d’oro come miglior album dell’anno. Il disco è collocato al secondo posto, dalla rivista Rolling Stone, nella lista dei 100 album italiani più belli di ogni tempo.
Risultati commerciali altrettanto notevoli vengono raggiunti da L’arca di Noè, pubblicato nel 1982, che in poche settimane vende circa 550.000 copie, risultando il disco italiano più venduto nell’anno, preceduto soltanto dal celebre Thriller di Michael Jackson. Il nuovo LP, dal tenore pessimista e apocalittico, presenta canzoni di stampo ironico e graffiante. Fra queste vi sono Scalo a Grado (dove viene cantata la trascrizione latina dell’Agnus Dei), L’esodo e Clamori, queste ultime due musicate su testi del mistico e scrittore Tommaso Tramonti. Radio Varsavia (singolo apripista dell’album) è il brano più controverso e Gianfranco Manfredi de La Stampa accusa Battiato di avere inserito nel disco «la cultura della nuova destra». In risposta, l’artista dichiara di non aver capito “cosa ci trovino nelle sue canzoni che si possano avvicinare alla loro ideologia che è esattamente all’opposto di ciò che dico io. All’opposto.” La apprezzata Voglio vederti danzare, diventata fra le più suonate dal vivo durante i concerti del cantante, cita l’abilità artistica dei “dervisches tourneurs”, danzatori mistici che soliti esibirsi con movimenti circolari ossessivi: simbolo di ricerca spirituale e introspettiva. Nello stesso periodo esce Legione straniera dell’amico musicista Giusto Pio, con la collaborazione di Battiato in tutte le tracce, così come nel successivo Restoration.
Considerato un cantautore innovativo ed eclettico, Battiato ha avviato una ricerca personale che spazia tra soluzioni sonore molto eterogenee, comprendenti l’uso dell’elettronica e la citazione della musica classica, elaborando testi che sono dei veri e propri pastiche letterari contenenti citazioni colte, terminologie pop e svariati riferimenti filosofici. Anche la sua insolita voce desta molta attenzione, facendo leva su una timbrica nasale molto particolare, assai vicina alla tecnica vocale del falsetto.

La successiva produzione discografica (1983 – 1987)
Nell’autunno del 1983 esce il dimesso Orizzonti perduti che presenta un massiccio uso di musica elettronica e si distingue per la totale assenza di strumenti acustici. Nell’opera, le abituali tematiche si declinano in una “mistica del quotidiano” che procede delineando immagini di natura domestica e popolare. Di conseguenza, descrizioni di vita quotidiana si palesano nei brani: Tramonto occidentale, Zone depresse, Gente in progresso e in particolar modo nell’autobiografica Campane tibetane. Il disco è lanciato dal singolo La stagione dell’amore, altro “classico” della sua produzione.
Nel 1984 il cantante siciliano decide di ridurre notevolmente l’attività concertistica. Fa eccezione la sua partecipazione all’Eurovision Song Contest in coppia con Alice. I due artisti si esibiscono cantando I treni di Tozeur, che si piazza al quinto posto e ottiene un elevato successo di vendite in tutta Europa. Il brano fa riferimento a Tozeur, antico centro commerciale del Jerid, posto ai margini del deserto del Sahara. La zona è circondata da un lago salato (cit. «distese di sale…») le cui esalazioni conducono i viandanti ad avere allucinazioni e miraggi. Se un tempo si parlava di carovane in lontananza, oggi quei miraggi possono essere visti e confusi come treni all’orizzonte. Da qui l’origine del titolo. Nello stesso anno è impegnato in un progetto messo in atto al programma televisivo Mister Fantasy, che prevede un concerto telematico con l’esecuzione del brano Propiedad Prohibida (eseguito dal musicista e da cinque suoi collaboratori situati in cinque luoghi diversi).
Già in estate, annuncia l’uscita di tre nuovi album, per il mercato italiano, spagnolo e inglese. Il disco per il mercato italiano, Mondi lontanissimi, esce nell’aprile del 1985. Questo nuovo lavoro, uscito durante gli anni in cui nasceva la letteratura cyberpunk, si caratterizza per lo scenario fantascientifico e presenta un elevato uso di suoni computerizzati a cui fanno da contraltare melodie di stampo classico. La copertina mostra l’artista che apre una finestra in cui compare il profilo di Saturno. Secondo l’artista, i “mondi lontanissimi” sono i pianeti del nostro Sistema Solare, e anche (in seconda lettura) i “mondi interiori” della nostra coscienza, dove regnerebbero livelli di consapevolezza ancora ignoti e inesplorati. Anticipato dai singoli No Time No Space/Il re del mondo e Via Lattea/L’animale, raggiunge il terzo posto in classifica risultando il ventitreesimo LP più venduto in Italia. Uno dei brani più noti del disco è No Time No Space, che vorrebbe rappresentare i misteri dell’Universo, ed è costruito sul ritmo serrato delle percussioni che si contrappongono alle sonorità armoniche e sinfoniche degli arrangiamenti. Lo stile postmoderno del lavoro di Battiato si evidenzia in varie tracce tra cui: Risveglio di primavera, Temporary Road e Chan-son egocentrique (già incisa con Alice nell’album Azimut).
Con la raccolta Echoes of Sufi Dances, Battiato tenta di affacciarsi ai mercati discografici spagnoli e inglesi. Mentre in Spagna il cantautore ottiene un buon riscontro di vendite, negli Stati Uniti il disco non supera le diecimila copie vendute. Sebbene fosse inizialmente entusiasta all’idea di avvicinarsi al pubblico statunitense Battiato non dedicherà più attenzione al progetto, anche a causa delle condizioni impostigli dal produttore della EMI americana, che avrebbe preteso il suo trasferimento a Los Angeles per fini promozionali.
Poco più tardi, il cantautore dà inizio a una carriera parallela di compositore colto, che porterà alla pubblicazione di alcune opere di matrice sacra e accademica. La prima di queste è Genesi del 1986, caratterizzata in gran parte da sonorità sintetiche ed elettroniche. Il progetto viene curato dallo stesso Battiato, già dal 1983. Dopo aver eseguito saltuariamente in concerto alcuni pezzi dell’opera, la prima rappresentazione ufficiale avviene presso il Teatro Regio di Parma il 26 aprile 1987.

Dall’album “Fisiognomica” al primo live “Giubbe Rosse” (1988-1990)
Battiato è tornato al formato canzone con Fisiognomica che, nonostante ciò, apre a un’impostazione classica e accademica non del tutto avulsa da un certo afflato spirituale e filosofico: un ripiegamento interiore che si rifletterà anche nella vita privata dell’artista, che deciderà di trasferirsi da Milano a Milo, in Sicilia. Il quindicesimo album in studio del cantautore è ispirato all’omonima opera di Aristotele e contiene alcune ballate come E ti vengo a cercare e Secondo imbrunire, che fondono la canzone d’amore tradizionale a tematiche prettamente esistenziali. Il mito dell’amore invece parte da sequenze per tastiera per paesaggi sonori per tastiera, il tutto accompagnato da cori lirici che approdano a un finale per chitarra elettrica e organo da chiesa. Uno dei brani più apprezzati è però L’oceano di Silenzio, che unisce tastiere e orchestra in un andamento calmo e ipnotico, che anticipa le sacrali sonorità del successivo album Come un cammello in una grondaia. Altri brani contenuti in Fisiognomica sono Nomadi, scritta da Juri Camisasca, e Veni l’autunnu, un omaggio alla terra d’origine, cantata con fonemi in lingua araba e siciliana.
Nonostante la scarsa accessibilità delle musiche, il disco vende oltre 300.000 copie, divenendo uno dei maggiori successi dell’anno a cui fa seguito un tour svoltosi anche al di fuori dei confini nazionali. Grazie a questo nuovo LP, nel 1989 Battiato viene chiamato da papa Giovanni Paolo II ad esibirsi in Vaticano, divenendo il primo cantante di musica leggera a tenere un concerto nella Città del Vaticano.
Il successivo Giubbe rosse, uscito nel 1989, è il primo album dal vivo del musicista e raccoglie registrazioni effettuate nella sezione invernale del Fisiognomica Tour nei rispettivi teatri d’Italia, Francia e Spagna. Il disco attraversa gran parte della carriera del cantautore, dalla sperimentazione anni settanta alla più recente fase degli ottanta. L’opera contiene l’inedito Giubbe Rosse, Alexander Platz (già cantata da Milva), Mesopotamia, versione modificata del brano Che cosa resterà di me (scritto per l’album Dalla/Morandi) e Lettera al governatore della Libia, anch’essa modificata e già scritta nel 1980 per Giuni Russo. La cantante siciliana comparirà come seconda voce anche in questa nuova versione. La collaborazione tra Giuni Russo e Battiato risale ai primi degli anni ottanta, lo stesso musicista scrive per la giovane artista l’intero album Energie, uscito nel 1981. In un periodo coevo all’uscita di Giubbe rosse, il cantautore compone in parallelo musiche per il cinema, scrivendo l’inedita partitura del film Una vita scellerata (uscito nel 1990), incentrato sulla figura dell’artista fiorentino Benvenuto Cellini.

Gli ultimi album da solista (1991-1994)
Il decennio si apre con la pubblicazione di Come un cammello in una grondaia, che in breve tempo vende oltre 25.000 copie. Il titolo allude a una citazione di al-Biruni, scienziato persiano vissuto nel XII secolo, che era solito pronunciare tale frase per indicare l’inadeguatezza della propria lingua nel descrivere argomenti di carattere scientifico. Registrato presso gli Abbey Road Studios l’album segna un ulteriore avvicinamento verso certe sonorità religiose e spirituali. L’idea di eliminare in fase di registrazione le componenti della sezione ritmica conduce il disco a risultati ancor più lontani dal formato canzone rispetto al precedente Fisiognomica Così facendo, l’artista avvicina la musica leggera al formato della sinfonia classica.
Ne risulta un album di difficile fruizione, in cui il canto è accompagnato dal pianoforte e da rari e impercettibili accordi di tastiera che confluiscono in un tappeto sonoro a cui ha contribuito l’orchestra nazionale di Londra. Nell’album sono presenti quattro lied classici di Richard Wagner, Vicente Martín y Soler, Johannes Brahms e Ludwig van Beethoven, uniti ad altrettanti inediti del cantautore. Il brano più famoso del disco è l’invettiva politica di Povera Patria, che si aggiudica nel 1992 la Targa Tenco come miglior canzone dell’anno. Ad esse seguono l’austera Le sacre sinfonie del tempo e l’invocazione de L’ombra della luce.
Dopo la sua partecipazione al Concerto di Baghdad, tenuto con l’orchestra nazionale irachena nel 1992 (trasmesso in mondovisione e pubblicato in DVD), l’autore torna in Italia presentando un nuovo LP di inediti recante il titolo Caffè de la Paix. Il disco riprende la pop del Battiato anni ottanta, filtrandole con tematiche di natura teologica, già affrontate nei lavori precedenti. L’album reintegra batteria, basso, chitarre, tastiere e computer, che accompagnano arrangiamenti classici e strumenti tradizionali arabi, adattando lo stile del cantautore alla world music. Alle ormai solite espansioni tastieristico-orchestrali con testi onirici (Sui giardini della preesistenza, Ricerca sul terzo, Haiku) si intervallano una serie di ballate al contempo moderne e classiche. Oltre al richiamo arabo di Fogh in Nakhal, vi sono la vivace title-track, e la religiosa Lode all’inviolato, con andamento incalzante, sovente dettato da sonorità rock. Altre canzoni da segnalare sono il dittico storico-mitologico: Atlantide e Delenda Carthago. Quest’ultima, oltre a richiamare il popolare monito di Marco Porcio Catone, contiene un passo tratto dal Libro III delle Elegie, scritte dal poeta latino Sesto Properzio. Si rileva, in aggiunta, un riferimento al mondo magrebino, dove donne con le “dita colorate di henna”, realizzano sulla pelle particolari incisioni (simili agli odierni tatuaggi), all’epoca patrimonio esclusivo del corpo femminile.
L’opera si classifica Miglior Disco dell’Anno nel referendum di Musica e dischi e risulta il trentaseiesimo album più venduto in Italia del 1993. Il Caffè de la Paix, citato nell’omonima canzone, è un locale parigino, progettato da Charles Garnier (lo stesso architetto dell’Opéra national de Paris), inaugurato nel lontano 1862; luogo dove Georges Ivanovič Gurdjieff intratteneva lezioni ai vari adepti del suo pensiero. Dell’anno successivo sono il live Unprotected e la nuova Messa arcaica, composizione religiosa per soli coro e orchestra, portata in giro in varie chiese d’Italia riscuotendo un buon successo. Sempre sulle orme della musica classica, è uscita l’opera in due atti Gilgamesh, basata sulla mitologia sumera. La prima rappresentazione ufficiale si tiene al Teatro dell’Opera di Roma, la sera del 5 giugno 1992.

Sodalizio artistico con Manlio Sgalambro (1994-1997)
A partire dal 1994 inizia la collaborazione con il filosofo Manlio Sgalambro, conosciuto l’anno precedente nella sua Sicilia, durante una presentazione, assieme all’editore Scheiwiller, di una raccolta di poesie del poeta Angelo Scandurra. I primi frutti di questa collaborazione sono l’opera teatrale Il cavaliere dell’intelletto e l’album L’ombrello e la macchina da cucire, edito dalla casa discografica EMI. Quest’ultimo, fra le opere meno conosciute dell’artista, contiene brani dai connotati estremamente intellettuali e lontani da ogni intento di carattere commerciale. Il titolo del disco riprende una frase contenuta nel poema epico in prosa Canti di Maldoror, del poeta francese Lautréamont.
Nell’autunno del 1996, per la nuova casa discografica Mercury, pubblica L’imboscata, il cui successo commerciale restituisce a Battiato la popolarità raggiunta negli anni passati. Il disco si piazza al secondo posto nella classifica FIMI Album divenendo, per il mercato italiano, il nono album più venduto dell’anno. La caratteristica copertina riporta un dipinto di Antoine-Jean Gros, raffigurante Napoleone Bonaparte mentre arringa l’esercito prima della battaglia delle piramidi. L’Imboscata, rinnova il percorso sperimentale del cantautore, con un massiccio impiego di sintetizzatori e sonorità elettroniche. Si crea così una linea compositiva incentrata sull’utilizzo preminente della chitarra elettrica, atta a conciliare musica da camera, accelerazioni ritmiche e improvvise asperità rock. Sul versante dei testi, i testi aulici e raffinati di Sgalambro non disdegnano soluzioni vicine al plurilinguismo (alcune tracce recano passaggi in inglese, francese, portoghese e tedesco). Pubblicato anche in Spagna, l’album contiene La cura, una delle sue tracce più note e apprezzate. Il brano viene certificato, lo stesso anno, disco di platino con oltre 30.000 copie vendute.
Il primo singolo di lancio, Di passaggio, presenta un intervento di Sgalambro che legge in greco antico un frammento di Eraclito e il testo è permeato dalle riflessioni dello stesso. La traccia si chiude con un altro frammento (nel caso un epigramma di Callimaco), cantato a due voci da Battiato e Antonella Ruggiero. A seguire troviamo la più “rockeggiante” Strani giorni, Amata solitudine e la ballata dal sapore iberico Segunda Feira. Il testo lusitano parla di un Mediterraneo dell’età classica, dove il mare diviene il ricordo di luoghi esotici come il porto di Singapore, il corallo delle Maldive e l’isola di Macao. Unica traccia non presente nell’album e pubblicata come singolo è Decline And Fall Of The Roman Empire, in larga parte tratta dai testi letterari di Sgalambro dove vengono richiamate opere diametralmente opposte come L’anatomia dell’urina di James Hart e il Vangelo secondo S.Matteo. Sull’onda del rinnovato successo partecipa al Festivalbar e, ancor prima, al Concerto del Primo Maggio, dove riceve inaspettati fischi per un guasto agli amplificatori presenti sul palco.

Esplorazione rock di “Gommalacca” e ritorno all’avanguardia (1998-2000)
Proseguendo la sua ricerca sonora in territori rock ed elettronici, l’artista pubblicò Gommalacca, uscito nell’autunno del 1998, che rappresenta uno dei massimi successi dell’artista, e al tempo stesso, uno dei suoi più arditi esperimenti musicali. Fra i brani contenuti nel disco vi è la dura Il mantello e la spiga, l’apparentemente soave Casta Diva (in cui “acuti” di chitarra elettrica avrebbero dovuto accompagnare gli acuti campionati di Maria Callas, poi sostituiti in fase di pubblicazione con la voce di un altro soprano per la mancata autorizzazione da parte degli eredi della Callas) e Auto Da Fe’, incentrata sull’interazione fra la chitarra elettrica e il sintetizzatore. Il titolo del brano richiama la cerimonia pubblica dell’autodafé (letteralmente atto di fede), processo istituito dall’inquisizione spagnola, dove venivano comminate pene e condanne di varia natura. I brani più famosi sono invece Il ballo del potere e Shock in my town. La prima unisce percussioni d’andamento tribale con cori campionati, aprendo al contempo a melodie anni trenta, mentre la seconda, si struttura secondo un riff di chitarra dove in sottofondo si sovrappongono numerosi suoni e distorsioni, cori spettrali, e spunti elettronici. Lo “shock addizionale” riportato nel testo della canzone, si riferisce all’elemento cardine della “legge dell’Ottava” (teorizzata da Gurdjieff), ossia la spinta che evita alle correnti di cambiare direzione e che tiene quindi salde le nostre intenzioni e il nostro agire. Tale spinta esorta al risveglio la forza del serpente “Kundalini” (anch’esso citato nel testo), che secondo certe culture yogi rappresenta l’energia vitale, sopita alla base della colonna vertebrale. Il basso è suonato da Morgan, che Battiato ammirava e al quale propose di collaborare.
Non vanno trascurate altre composizioni quali La preda (che descrive minuziosamente un’estasi tantrica) e l’apocalittica Quello che fu. Nella più pacata Vite parallele Battiato affronta il tema della reincarnazione (già argomentato in Caffè de la Paix), della quale il cantautore è un fermo sostenitore. Nel corso dell’anno, il disco viene promosso in molte trasmissioni musicali, aggiudicandosi nel 1999 la Targa Tenco come miglior album dell’anno. I brani Shock in my town, Il mantello e la spiga e Vite parallele furono eseguiti da Battiato, come opite fuori gara, al quarantanovesimo Festival di Sanremo, alla presenza del filosofo Manlio Sgalambro e con Giusto Pio alla direzione dell’orchestra. Con questa rassegna Giusto Pio si ritirò a vita privata, dopo aver accompagnato nelle composizioni, negli arrangiamenti e nelle direzioni d’orchetra la produzione artistica di Battiato per oltre vent’anni.
Con la fine del millennio, l’artista rifugge nuovamente il formato canzone e su commissione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino incide per la Sony i sette movimenti sperimentali che compongono il disco Campi Magnetici. L’opera è un momentaneo ritorno alle tendenze avanguardiste dei primi anni settanta, ora filtrate dall’uso della moderna tecnologia digitale. Nell’album si alternano a continui flussi elettronici e campionamenti, improvvisi attacchi di percussioni che lasciano spazio a incisi lirici e pianistici. Non mancano parti recitate che trattano in special modo di scienza empirica. Nello stesso anno, nel marzo del 2000, giunge per l’artista siciliano il premio Librex Montale, nella specifica sezione versi per musica; riconoscimento assegnato nella stessa edizione anche al poeta fiorentino Alessandro Parronchi.

Trilogia dei Fleurs (1999-2008)
Nell’autunno del 1999, il cantautore siciliano pubblica un nuovo album dal titolo Fleurs, interamente sorretto da soli pianoforte e quartetto d’archi. Si tratta di un “concept cover album” composto (oltre che da due inediti) da dieci canzoni altrui, in prevalenza risalenti agli anni cinquanta e sessanta, tutte arrangiate per ensemble da camera. Il disco raccoglie Era de maggio del poeta napoletano Salvatore Di Giacomo e Ruby Tuesday, successo degli anni sessanta targato Rolling Stones.
Battiato si confronta così con pezzi di altri artisti prediligendo canzoni di natura sentimentale, sia italiane (presenti due cover di Sergio Endrigo: Aria di neve e Te lo leggo negli occhi) che straniere (J’entends siffler le train di Richard Anthony, Che cosa resta (Que reste-t-il de nos amour) di Trenet e La canzone dei vecchi amanti (La chanson des vieux amants) di Jacques Brel).
L’opera è soprattutto l’occasione per omaggiare la recente scomparsa del cantautore Fabrizio De André, incidendo e reinterpretando due dei suoi brani più celebri: La canzone dell’amore perduto (traccia d’apertura del disco) e Amore che vieni amore che vai (presentata con commozione al concerto tributo a Fabrizio De André, tenutosi il 12 marzo 2000 al Teatro Carlo Felice di Genova). Altra cover dell’artista promossa da Battiato, sarà, anni più tardi, Inverno, contenuta nell’album Inneres Auge – Il tutto è più della somma delle sue parti. Inoltre, nel novembre del 2011, il musicista partecipa al disco celebrativo Sogno nº 1, omaggio della London Symphony Orchestra al cantautore genovese. La voce di Battiato compare nel brano Anime salve, sostituendosi a quella del partner originale Ivano Fossati. Tornando al disco, si sottolineano i brani scritti con Sgalambro dal titolo: Medioevale e Invito al viaggio, quest’ultimo direttamente ispirato all’omonima poesia di Charles Baudelaire. L’album riscuote successo, anche in virtù dell’inedita operazione che vede il musicista misurarsi con autori e brani del tutto estranei alla sua linea musicale. Il titolo è un chiaro omaggio alla dolcezza e poesia delle canzoni.
Il 30 agosto del 2002, anche su pressione dei produttori visto il successo del primo Fleurs, esce Fleurs 3, numerato in maniera insolita per evitare, come afferma l’autore, la possibilità di una terza futura uscita. La smentita avverrà sei anni più tardi con la pubblicazione di Fleurs 2. Nel disco sono presenti due canzoni scritte dall’artista: Come un sigillo, cantata con Alice e Beim Schlafengehen, dall’omonima composizione di Richard Strauss su un testo dello scrittore Hermann Hesse. Sigillata con un bacio è la versione italiana di un brano americano originariamente intitolato Sealed With a Kiss. Molte le canzoni da ricordare: Perduto amor, di Salvatore Adamo, Se mai (versione italiana del brano Smile di Charlie Chaplin), Impressioni di settembre della PFM e Insieme a te non ci sto più, di Paolo Conte (già ripresa dal regista Nanni Moretti nel film La stanza del figlio). Anche in questo lavoro, c’è spazio per omaggiare altri musicisti della scuola genovese con un rifacimento dei brani Il cielo in una stanza e Ritornerai, rispettivamente di Gino Paoli e Bruno Lauzi.
Nel 2008 si ha la temporanea conclusione di quella che parrebbe essere una vera trilogia, con l’uscita di Fleurs 2, contenente il singolo Tutto l’universo obbedisce all’amore, eseguito con la cantautrice Carmen Consoli. Tra le cover da ricordare si annoverano It’s five o’ clock degli Aphrodite’s Child, Bridge over troubled water di Simon & Garfunkel, La musica muore di e con Juri Camisasca e ancora un rifacimento di un brano di Sergio Endrigo dal titolo Era d’estate.

Ferro Battuto, Dieci stratagemmi, Il vuoto (2001-2010)
Battiato affronta l’inizio del millennio con un nuovo lavoro sospeso fra pop e sperimentazione dal titolo Ferro battuto, uscito nuovamente per la EMI nella primavera del 2001. Nel disco troviamo un duetto con il leader e cantante dei Simple Minds Jim Kerr, presente nella canzone di lancio Running against the grain. Segue Bist du bei mir, brano latineggiante dove l’autore affronta vari registri linguistici cantando sia in italiano che in tedesco, così come in Personalità empirica, dove alterna italiano e francese, con una parte recitata dal filosofo Sgalambro. Si segnalano Il cammino interminabile e Sarcofagia (ispirata al trattato animalista Del mangiar carne, elaborato e scritto dal filosofo Plutarco). Trova campo un omaggio al noto chitarrista Jimi Hendrix con un rifacimento della sua Hey joe. Chiude il disco Il potere del canto dove si accentuano ancor di più i vari suoni da campionatura, proprio come era accaduto in Gommalacca, nell’ultima traccia Shakleton.
Due anni più tardi, nel maggio del 2003, riceve dal Presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi la Medaglia ai benemeriti della cultura e dell’arte, ritirata nel Palazzo del Quirinale insieme ad altri artisti quali Katia Ricciarelli e Susanna Tamaro. L’anno successivo partecipa alla prima edizione del Festival teatro canzone Giorgio Gaber, promossa e organizzata nel ricordo dell’amico e cantautore milanese. Nella circostanza sale sul palco assieme al collega Roberto Vecchioni cantando il brano La libertà.
Nell’autunno del 2004 esce Dieci stratagemmi, prodotto dalla Sony Music. Il cantante, per la scelta del titolo, ha preso spunto da I 36 stratagemmi di Gianluca Magi (libro a sua volta ispirato a L’arte della guerra, antico trattato militare attribuito al generale cinese Sun Tzu). Il sottotitolo dell’album Attraversare il Mare per ingannare il Cielo è il primo dei 36 stratagemmi che compongono il libro di Gianluca Magi. I 10 stratagemmi del disco sono, naturalmente, le dieci canzoni presenti in esso.
Nel corso dell’anno vengono estratti i singoli discografici Tra Sesso e Castità, Le Aquile Non Volano a Stormi, Ermeneutica e Odore di polvere da sparo. Tra i vari collaboratori (tracce cinque, otto e nove), vi sono i Krisma, amici di lunga data dell’artista (di Battiato sono alcuni pezzi scritti per Maurizio Arcieri alla fine degli anni sessanta). Inoltre, partecipano all’album la cantante dei Lacuna Coil Cristina Scabbia (che interviene nel brano I’m that) e la cantante giapponese Kumi C. Watanabe: sua la voce nei brani Le aquile non volano a stormi, Ermeneutica e Apparenza e realtà. Degna di nota la melodica Fortezza Bastiani, diretta citazione del romanzo Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Chiude il disco La Porta dello spavento supremo (Il Sogno) , con parte recitativa interpretata dal filosofo Sgalambro, autore del testo assieme a Fleur Jaeggy.
Nel frattempo, vengono registrati i rispettivi live: Last Summer Dance e Un soffio al cuore di natura elettrica, quest’ultimo riguarda esclusivamente il concerto tenutosi al Nelson Mandela Forum, in data 17 febbraio 2005. Nel febbraio del 2007 il cantautore pubblica un nuovo album dal titolo Il vuoto, che vede l’abituale presenza ai testi del filosofo Manlio Sgalambro. Dal disco vengono estratti i singoli radiofonici Il vuoto, Aspettando l’estate e Niente è come sembra. L’opera presenta la partecipazione delle Mab, complesso femminile di origini sarde votato all’hard rock. Due anni dopo, esattamente il 13 novembre 2009, è la volta di Inneres Auge – Il tutto è più della somma delle sue parti, antologia contenente due brani inediti, alcune cover e nuove versioni di varie hits del passato. In un’intervista rilasciata ai microfoni de il Fatto Quotidiano, alla domanda: Che significa “Inneres Auge”?, Battiato ha risposto: «Occhio interiore. Ma lo preferisco in tedesco. In italiano si dice “terzo occhio”, ma non mi piace, fa pensare a una specie di Polifemo. I tibetani hanno scritto cose magnifiche sull’occhio interiore, che ti consente di vedere l’aura degli uomini: qualcuno ce l’ha nera, come certi politici senza scrupoli, mossi da bassa cupidigia; altri ce l’hanno rossa, come la loro rabbia».
La canzone è un nuovo atto d’accusa del musicista nei confronti del potere politico. L’occasione è servita per ribadire il concetto di “cantautore impegnato”: «Per il tipo che dovrei essere, no. Ma non sopporto i soprusi e ogni tanto coercizzo il mio strumento. Il pretesto di “Inneres Auge”, che ha origini più antiche, è arrivato quest’estate con lo scandalo di Bari, delle prostitute a casa del premier. E con la disinformazione di giornali e tiggì che le han gabellate per faccende private. Ora, a me non frega niente di quel che fanno i politici in camera da letto. Mi interessano quelli che influenzano la vita pubblica, con abusi di potere, ricatti, promesse di candidature, appalti, licenze edilizie in cambio di sesso e di silenzi prezzolati. Questa è corruzione, a opera di chi dovrebbe essere immacolato per il ruolo che ricopre». La canzone dialettale U cuntu, altra traccia originale dell’album, è stata una delle cinque canzoni finaliste al Premio Mogol nel giugno del 2010.

Ultima collaborazione con Sgalambro (2011-2012)
Il nuovo decennio si apre con l’insolita partecipazione dell’artista al Festival di Sanremo, condotto dall’amico e cantante Gianni Morandi. Nell’occasione sale sul palco nella doppia veste di concorrente e direttore d’orchestra, accompagnando il cantautore siciliano Luca Madonia con cui presenta il brano L’alieno. Nell’autunno seguente pubblica un nuovo concept-album, incentrato sulla figura del filosofo cosentino Bernardino Telesio. L’opera lirica (come indica il sottotitolo di copertina: in due atti e un epilogo), si apre con un prologo per pianoforte e archi, con voce dello stesso Battiato che recita una serie di parole tra le quali: Temperamento, Colerico, Sanguigno. Umore, Allegro, Lo spirito anima la Terra e le piante, La pietra grezza e altre ancora. Questo nuovo lavoro è accompagnato da vari pensieri del filosofo Sgalambro (suo il relativo libretto), il tutto sorretto da musiche orientali, canti lirici intrecciati e atmosfere elettroniche che fanno da sfondo alle note del pianoforte. L’opera, andata in scena per la prima volta al Teatro Rendano di Cosenza il 6 maggio 2011, ha la peculiarità di essere la prima pièce olografica a livello mondiale ad essere presentata in tre dimensioni, davanti a un pubblico di spettatori paganti.
Un anno più tardi, il 23 ottobre del 2012, a cinque anni di distanza dall’ultimo album di inediti, esce Apriti sesamo, che si aggiudica, con oltre 30.000 copie vendute, il disco d’oro. L’opera ha accenti fortemente polemici contro la classe politica oltre alle consuete ricerche musicali morali e spirituali. Il compositore asserisce che, “se la materia è corrotta, la spiritualità è il luogo eletto nel quale rifugiarsi, oppure dal quale ripartire nel processo di miglioramento di sé e del mondo”. Tra i brani Passacaglia (ispirata alla composizione Passacaglia della vita del sacerdote seicentesco Stefano Landi), Il serpente (invettiva contro il denaro), e La polvere del branco.
Dal punto di vista musicale, Apriti Sesamo non si discosta né da Dieci Stratagemmi né da Il Vuoto; il pop sperimentato dall’artista è sorretto, come sempre, da esplorazioni elettroniche. I testi, a contrario, aprono le porte, in maniera più decisa, al disagio sociale, senza abbandonare gli usuali termini colti e poliglotti. Ne sono dimostrazione i brani: Caliti Junku, Un richiamo, Aurora e Testamento. L’album è l’ultima opera dove compare la collaborazione del filosofo Manlio Sgalambro. Due anni più tardi, il 6 marzo 2014, lo scrittore siciliano morirà nella sua Catania (all’età di 89 anni), ponendo fine ad un sodalizio durato oltre vent’anni.

Ultimi progetti e il ritiro dalle scene (2012-2019)
Nel 2012 Battiato partecipa artisticamente alla creazione di una serie di CD musicali di musica contemporanea dedicati all’Oriente. Promotore di questa iniziativa è la formazione italiana degli Stenopeica, fondata da Martino Nicoletti e Roberto Passuti, che da anni si muove nella ricerca sperimentazione musicale, affiancando una profonda conoscenza dei patrimoni musicali dell’Asia con la creazione di musica etnica e contemporanea. Da questa collaborazione, a cui partecipano tra l’altro anche Teresa De Sio e Giovanni Lindo Ferretti, nascono, nel 2012, due CD: Kathmandu: eclissi delle due lune e Kathmandu: Disiecta membra, nonché un CD-book, dal titolo Kathmandu: diario dal Kali Yuga (2016). Le opere traggono ispirazione dal volume di poesia e fotografia di Martino Nicoletti: Kathmandu: lezioni di tenebre, dedicato alla metropoli himalayana e pubblicato in Italia nel 2012.
Il 6 agosto 2013 è protagonista del concerto/tributo in ricordo di Lucio Dalla, tenutosi nell’anfiteatro di Milo, paese caro ad entrambi i cantautori. L’arena siciliana, intitolata per l’occasione al cantautore bolognese, viene inaugurata dallo stesso Battiato poco prima dell’inizio del concerto. Alla kermesse partecipano Noemi (con cui canta La cura), Enrico Ruggeri, Erica Mou, Gianluca Grignani, e Luca Carboni. Il 26 novembre dello stesso anno esce il live Del suo veloce volo, con l’omonima canzone e numerosi classici del musicista reinterpretati assieme al gruppo musicale Antony and the Johnsons. Le registrazioni dell’album riguardano esclusivamente il concerto tenutosi all’Arena di Verona il 2 settembre 2013, cui ha partecipato anche Alice in veste di special guest.
Nei mesi di luglio e agosto del 2014 promuove un tour di vari concerti presentando un progetto di musica elettronica dal titolo Joe Patti’s experimental group. Il musicista sale sul palco armato di soli sintetizzatore, tastiera e pianoforte. La serie di eventi è prodromica all’uscita del relativo album che viene pubblicato il 16 settembre successivo, confermando un ritorno dell’artista alla musica sperimentale. Al tour estivo vengono aggiunte nuove date nei mesi di ottobre e novembre. Durante le tappe successive, il 16 marzo 2015 (al Teatro Petruzzelli di Bari), il cantautore rimane vittima di un incidente sul palco, cadendo su una cassa monitor e procurandosi una frattura del femore a pochi giorni dal compimento del suo settantesimo anno di età.[97] Il 6 novembre 2015 dà alle stampe una nuova raccolta dal titolo Anthology – Le nostre anime, con l’omonimo nuovo singolo trasmesso in radio dal 16 ottobre 2015.
Da febbraio ad aprile 2016 è impegnato con Alice nel tour di successo Battiato e Alice: trentadue date italiane quasi tutte sold out, con l’accompagnamento della Ensemble Symphony Orchestra. Lo spettacolo alterna momenti in cui i due artisti si esibiscono singolarmente a numerosi duetti (fra cui E ti vengo a cercare, Nomadi, I treni di Tozeur). Il tour viene riproposto a luglio e nell’autunno dello stesso anno viene pubblicato un cofanetto contenente DVD e CD dal titolo Live in Roma.
Sempre nel 2016 Battiato partecipa artisticamente alla creazione di un’opera letteraria e musicale (libro co CD) della formazione italiana degli Stenopeica (fondata da Martino Nicoletti e Roberto Passuti). Il volume, intitolato “Kathmandu: diario dal Kali Yuga” (Parigi, Le loup des steppes, 2016), rappresenta un tributo artistico alla splendida metropoli himalayana, lacerata tra una storia sacra lunga di millenni e l’aggressione della più feroce modernità. La creazione di quest’opera vede inoltre la partecipazione di Teresa De Sio e Giovanni Lindo Ferretti.
Il 17 settembre 2017 tiene il suo ultimo concerto al Teatro romano di Catania; le ultime quattro date del tour vengono annullate per motivi di salute.
A fine agosto 2019 viene annunciata l’uscita dell’ultimo album prima del ritiro dalle scene, dal titolo Torneremo ancora e che segna il ritorno di Battiato alla Sony Music dopo quindici anni. Il lavoro, pubblicato il 18 ottobre 2019, consta di un’antologia di brani classici del cantautore in nuove versioni orchestrali eseguite con la Royal Philharmonic Concert Orchestra durante le prove di alcuni concerti del 2017 e di un brano inedito, Torneremo ancora, che dà il nome all’album. Il brano è frutto di una complessa opera di assemblaggio, la voce di Battiato è stata registrata due anni prima, nel 2017, mentre la musica che accompagna il brano è stata registrata nel maggio del 2019. L’album segna un ritorno alle origini e rappresenta una sorta di “testamento musicale” suggellato dall’inedito che, dalle parole del co-autore del brano, Juri Camisasca, “nasce dalla consapevolezza che tutti noi siamo esseri spirituali in cammino verso la liberazione. La trasmigrazione delle anime in transito verso la purificazione è l’idea di base che ispira questa canzone. I migranti di Ganden sono qui chiamati a rappresentare il percorso delle anime al termine della vita terrena e le vicissitudini che questa nostra esistenza comporta. Nel contesto del brano, la migrazione non va interpretata nell’ottica delle problematiche politiche. Migrante è ogni essere senziente chiamato a spostare la propria attenzione verso cieli nuovi e terre nuove, piani spirituali che sono dimore di molteplici stati di coscienza e che ogni essere raggiunge in base al proprio grado di evoluzione interiore”.
Ad ottobre 2019 il manager Francesco Cattini, in occasione della promozione dell’ultimo album, ne annuncia il ritiro dalle scene.

[da Wikipedia Italia]

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27 GENNAIO: GIORNO DELLA MEMORIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/26/giorno-della-memoria/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/26/giorno-della-memoria/#comments Tue, 26 Jan 2021 13:15:42 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2950 Il post annuale di Letteratitudine dedicato al “Giorno della Memoria”

GIORNO DELLA MEMORIA 2021 – nuovi libri per non dimenticare. Su LetteratitudineNews promuoviamo la lettura di nuovi libri incentrati sulla tragedia della Shoah

anna-frank-se-questo-e-un-uomo1«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati
Quello che avete appena letto è il testo dell’articolo 1 della legge n. 211 del 20 luglio 2000 con cui il nostro paese ha aderito alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio come giornata in commemorazione delle vittime del nazionalsocialismo e del fascismo, dell’Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati (l’art. 1 evidenzia, appunto, le finalità del Giorno della Memoria).

Tra i commenti, lo storico dibattito online dedicato al Giorno della Memoria partendo dall’esame (o dal riesame) di due opere che, da questo punto di vista, possono considerarsi come libri-simbolo: “Il Diario di Anne Frank” e “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

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OMAGGIO A PATRICIA HIGHSMITH http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/20/omaggio-a-patricia-highsmith/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/20/omaggio-a-patricia-highsmith/#comments Wed, 20 Jan 2021 14:00:56 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8689 https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/1d/Patricia-Highsmith-1962.jpgRicordiamo Patricia Highsmith in occasione del centenario della sua nascita

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Patricia Highsmith, pseudonimo di Mary Patricia Plangman conosciuta anche col nome di Claire Morgan (Fort Worth, 19 gennaio 1921 – Aurigeno, 4 febbraio 1995), è stata una scrittrice statunitense noir.

Nota per i suoi thriller psicologici da cui sono stati tratti più di 24 adattamenti cinematografici; il suo primo romanzo, Delitto per delitto, è stato adattato sia per il palcoscenico che come film più volte, in particolare da Alfred Hitchcock nel 1951.

Oltre alla sua serie di cinque romanzi con Tom Ripley come protagonista, ha scritto 18 romanzi aggiuntivi e molti racconti.

Di seguito, una biografia e le schede dei libri della Highsmith pubblicati in Italia da La nave di Teseo

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Patricia Highsmith viene cresciuta da sua nonna, dimostrando fin dalla giovane età una grande tendenza verso la scrittura. Il suo primo romanzo, Sconosciuti in treno, è del 1950 e alla sua prima apparizione negli Stati Uniti non riscuote un grande successo; tuttavia il grande regista Alfred Hitchcock ne fa il soggetto per il suo film L’altro uomo. Forse anche a causa delle sue tematiche costantemente forti e talora disturbanti, la scrittrice è stata apprezzata dalla critica statunitense meno che da quella europea ed in Europa la Highsmith ha vissuto dal 1963 sino alla sua morte.

Nella sua casa ad Aurigeno, nel comune di Maggia, e poi in quella di Tegna, entrambe in Svizzera, ha trascorso gran parte della sua vita appartata e lontana dai riflettori della notorietà, coltivando anche diverse relazioni omosessuali. Tra i suoi personaggi più noti c’è l’amorale Tom Ripley, truffatore, assassino, protagonista di cinque romanzi dell’autrice e portato più volte anche sugli schermi del cinema da famosi registi, da René Clément (Delitto in pieno sole) ad Anthony Minghella (Il talento di Mr. Ripley), passando per Wim Wenders (L’amico americano), Hans Geißendörfers (Il diario di Edith), Todd Haynes (Carol) e Liliana Cavani (Il gioco di Ripley).

(Fonte: Wikipedia)

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In occasione del centenario della nascita di Patricia Highsmith, per i tipi de La nave di Teseo è uscita la raccolta di racconti (alcuni dei quali del tutto inediti in Italia) “Donne” (traduzione di Lorenzo Matteoli, Sergio Claudio Perroni, Hilia Brinis)

Prima di raggiungere il successo nel 1950 con il suo romanzo d’esordio, “Sconosciuti in treno”, Patricia Highsmith scrisse una serie di racconti noir: Donne ne raccoglie sedici, alcuni del tutto inediti per i lettori italiani. In queste storie, ambientate a New York e nei suoi sobborghi tra gli anni Quaranta e Cinquanta, le figure femminili sono la chiave di volta delle vicende, anche quando non ne sono le reali protagoniste. Un’insegnante di ginnastica trae piacere dal tormentare le proprie allieve, una bambina appena trasferitasi in città con i genitori alla ricerca di una vita migliore viene umiliata da una coetanea, una moglie rovina per sempre l’acquisto di un quadro al marito perché considera sbagliato il colore con cui sono dipinti i fiori. I protagonisti sono provati dalle tempeste della vita, ma tutti sperano che il vento possa ancora cambiare. Lasciano così le vecchie abitudini, un lavoro, una persona o un luogo per ricominciare. Anche se, per un senso beffardo che attraversa tutti i racconti, ciò che un personaggio desidera, un altro lo vive e lo detesta.

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TUTTI I LIBRI DI PATRICIA HIGHSMITH pubblicati in Italia da La nave di Teseo

Il talento di Mr. Ripley - Patricia Highsmith - copertinaIl talento di Mr. Ripley
Traduttore: Maria Grazia Prestini

Torna finalmente in una nuova edizione rivista il capolavoro di Patricia Highsmith, il romanzo che ha scolpito per sempre nella storia della letteratura un personaggio indimenticabile: Tom Ripley.

Napoli, anni cinquanta. Il giovane e spiantato Tom Ripley sbarca da New York in missione per conto del ricco Mr. Greenleaf. Deve convincere il figlio di lui, Dickie, a ritornare in America. Ma l’incontro con Dickie, un ragazzo bellissimo che dalla vita ha avuto tutto, fa nascere un’idea nella mente di Tom: non potrebbe sostituirsi a lui e vivere una vita senza problemi? È l’inizio di un’avventura insieme terribile e coinvolgente, in cui Patricia Highsmith conduce per mano il lettore nei percorsi mentali di un assassino senza scrupoli, e forse proprio per questo irresistibile.

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Il diario di Edith - Patricia Highsmith - copertinaIl diario di Edith
Traduttore: Marisa Caramella

Una nuova edizione per uno dei romanzi più amati della regina del thriller, un viaggio nella mente di una donna, nelle sue paure e nella sua sfrenata fantasia.

Edith è una donna apparentemente forte, allegra e sorridente, ma qualcosa di oscuro si annida dentro di lei. Cerca di non dare troppo peso a quei momenti di buio che a volte l’assalgono senza una ragione precisa, e con questa serenità affronta anche il divorzio dal marito. Edith, per sfuggire al grigiore della propria esistenza, incomincia a costruirsi un’altra vita nelle pagine del suo diario, in cui il figlio scapestrato è un brillante ingegnere con una moglie carina e una nipotina adorabile. Forse una semplice valvola di sfogo, se non fosse che nella vita reale Edith comincia a sentirsi strana, come se qualcosa si stesse lentamente incrinando dentro di lei.

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Carol - Patricia Highsmith - copertinaCarol
Traduttore: H. Brinis

Therese, diciannove anni, è un’apprendista scenografa che, per raggranellare qualche soldo, accetta un lavoro temporaneo in un grande magazzino durante il periodo natalizio. Il suo rapporto sentimentale con Richard si trascina stancamente, senza alcuna passione tra voglia di coinvolgimento e desiderio di fuga. La vita le appare come una nebulosa, come un’enorme incognita che non sa affrontare, finché in una gelida mattina di dicembre, nel reparto giocattoli dove lavora, non compare una donna bellissima e sofisticata, in cerca di doni per la figlia. I grigi occhi della sconosciuta catturano Therese, la turbano e la soggiogano e d’un tratto la giovane si ritrova proiettata in un mondo di cui non sospettava nemmeno l’esistenza. È l’amore, delicato e titubante, languido e diverso, disperato e segnato da crisi e recriminazioni, eppur sempre sconvolgente come la vicenda che le due donne si apprestano a vivere…

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Sconosciuti in treno - Patricia Highsmith - copertinaSconosciuti in treno
Traduttore: Ester Danesi Traversi

“Io ucciderò sua moglie e lei ucciderà mio padre. Ci siamo incontrati in treno e nessuno sa che ci conosciamo. Un alibi perfetto.” Avvicinato da uno sconosciuto in uno scompartimento di un treno con una proposta decisamente inconsueta, e molto pericolosa, l’insicuro e tormentato Guy Haines si trova, quasi contro la sua volontà, invischiato in un incubo da cui non potrà più sottrarsi. Il romanzo d’esordio di Patricia Highsmith, che ha ispirato il film di Alfred Hitchcock “L’altro uomo”, è un thriller a orologeria su un delitto perfetto e, insieme, un’indagine nel profondo della psiche dei due protagonisti, due uomini legati da una complicità che li porterà a superare ogni limite.

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Il sepolto vivo - Patricia Highsmith - copertinaIl sepolto vivo
Traduttore: Roberto Mussapi, Marisa Caramella

Nel secondo romanzo del ciclo di Tom Ripley, Patricia Highsmith costruisce una storia ipnotica e avvolgente, nella quale il protagonista non si fermerà davanti a nulla per difendere la sua trama di bugie.

Sullo sfondo di una colossale truffa ambientata nel mondo del collezionismo d’arte, si fronteggiano due uomini: Tom, irriverente viveur, sempre pronto a ideare nuove strategie per arricchirsi, e Bernard, pittore votato alla coscienza tragica della propria debolezza, il quale accetta la parte di esecutore della truffa e dipinge alcuni falsi quadri d’autore. La scoperta casuale dell’inganno dà il via non soltanto agli ineluttabili scenari del crimine, ma anche al confronto sul filo del rasoio (o meglio, dell’abisso) di due caratteri e atteggiamenti opposti: l’amoralità machiavellica di Tom e gli scrupoli ritardatari di Bernard, la determinazione naturale dell’uno e la paura dell’altro.

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L' amico americano - Patricia Highsmith - copertinaL’ amico americano
Traduttore: Tullio Dobner

Nel terzo romanzo del ciclo di Tom Ripley – da cui Wim Wenders ha tratto l’omonimo film con Dennis Hopper e John Malkovich – ritroviamo il personaggio più amato di Patricia Highsmith al suo meglio. Spietato e ironico, Tom Ripley detesta gli omicidi. A meno che non siano assolutamente necessari.

Jonathan Trevanny è un uomo comune con una moglie, un figlio e un lavoro che ama ma economicamente poco soddisfacente. Quando scopre di essere affetto da una terribile malattia, cerca di continuare la sua esistenza nella normalità più assoluta, senza rivelare il segreto di cui solo la moglie è informata. Ma un giorno viene avvicinato da uno sconosciuto che, venuto a conoscenza della grave malattia da cui è stato colpito, gli offre un’ingente somma di denaro per uccidere due uomini. Jonathan rifiuta sdegnato, ma quella proposta lo turba profondamente. Comincia a pensare che quei soldi servirebbero ad assicurare alla sua famiglia una tranquillità economica dopo il suo trapasso. Dopo una tormentata riflessione, accetta l’offerta, entrando cosi a contatto con un mondo inquietante che lo fa sentire di nuovo padrone della sua vita. Da quel momento, piccoli mutamenti, prima impercettibili, poi sempre più evidenti, avvengono nella coscienza esaltata di Trevanny, fino a trasformare un uomo comune in un killer spietato.

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Vicolo cieco - Patricia Highsmith - copertinaVicolo cieco
Traduttore: Marisa Caramella

Vicolo cieco esplora le oscure ossessioni che si nascondono dietro persone apparentemente normali, Patricia Highsmith ancora una volta si diverte con i suoi personaggi ad attraversare pericolosamente il confine tra immaginazione e realtà.

“Non c’è nessuno bravo come Patricia Highsmith a scovare il male che si nasconde anche nelle migliori famiglie.” – Time
Il giovane avvocato Walter Stackhouse è stato per anni un marito fedele e affettuoso, ma ora il matrimonio con Clara, una donna nevrotica e distaccata, è entrato in crisi. Quando viene trovato il corpo senza vita della moglie – in circostanze simili a quelle in cui un’altra donna è stata uccisa dal proprio marito – Walter si trova così al centro dei sospetti della polizia. Dalle indagini emergono inquietanti parallelismi tra la vita delle due coppie e Walter, sotto pressione, inizia a commettere una serie di errori che mettono a rischio la sua carriera e la sua reputazione, lo allontanano dagli amici, e minacciano la sua stessa vita. Vicolo cieco esplora le oscure ossessioni che si nascondono dietro persone apparentemente normali, Patricia Highsmith ancora una volta si diverte con i suoi personaggi ad attraversare pericolosamente il confine tra immaginazione e realtà.

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Il ragazzo di Tom Ripley - Patricia Highsmith - copertinaIl ragazzo di Tom Ripley
Traduttore: Marisa Caramella

Il personaggio più amato di Patricia Highsmith, che ritorna in questo romanzo per proteggere e iniziare alla vita un giovane miliardario, Frank, convinto di avere causato la morte del padre invalido e tormentato quindi dai sensi di colpa.

“Tom Ripley è immancabilmente un discendente di Gatsby, uno spiantato senza passato che non si fermerà davanti a niente” – Frank Rich, The New York Times Magazine
Si può avere ucciso, e vergognarsene. O avere ucciso più volte, e costruire su quegli omicidi difendibili e anzi necessari un modello di vita, una coerente visione etica del mondo. È così per Tom Ripley, il personaggio più amato di Patricia Highsmith, che ritorna in questo romanzo per proteggere e iniziare alla vita un giovane miliardario, Frank, convinto di avere causato la morte del padre invalido e tormentato quindi dai sensi di colpa. Sotto la guida di Tom, Frank compie un viaggio di formazione, dalla Francia a una Germania pullulante di imbroglioni, rapitori e terroristi, imboccando una spirale di delitti, inganni e tradimenti che lascia senza fiato. Grazie al talento di un personaggio innamorato della vita e capace di uccidere per essa, il gioco a due fra maestro e seguace, tra amante e amato, tra vittima e carnefice, si trasforma lentamente in un duello psicologico snervante, che non lascia dubbi sul genio della scrittrice che Graham Greene ha definito “la poetessa dell’inquietudine”.

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Ripley sott'acqua - Patricia Highsmith - copertinaRipley sott’acqua
Traduttore: Hilia Brinis

Tutto fila liscio nella vita di Tom Ripley: abita in una lussuosa villa vicino a Fontainebleau, ha una moglie bellissima e innamorata, un cospicuo conto in banca e nessun senso di colpa per i suoi trascorsi non proprio immacolati. Fino a quando si imbatte in David Pritchard, un eccentrico vicino, che intuisce l’origine illecita del benessere e della felicità di Tom ed è determinato a scavare nel suo passato. Pritchard comincia così a indagare su Ripley, dapprima spiandolo tra le mura domestiche e poi seguendolo in Marocco, fino a scoprire un corpo che Ripley vorrebbe rimanesse per sempre nascosto sul fondo di un canale. Vecchi delitti che riaffiorano dal passato, pedinamenti ossessivi, il rischio costante di essere scoperti: il quinto e ultimo capitolo della saga di Tom Ripley avvolge il lettore in una spirale di inquietudine crescente, tessuta come la tela di un ragno dalla maestria di Patricia Highsmith.

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Urla d'amore - Patricia Highsmith - copertinaUrla d’amore
Traduttore: Sergio Claudio Perroni

“Miss Highsmith è una crime novelist i cui libri possono essere riletti molte volte. Sono pochi gli autori di cui si può dire altrettanto. È una scrittrice che ha creato un proprio mondo – un mondo claustrofobico e irrazionale nel quale ogni volta entriamo con una sensazione di pericolo personale, con il capo mezzo girato all’indietro, persino con una certa riluttanza, giacché quelli che stiamo per sperimentare sono piaceri crudeli, finché, più o meno intorno al terzo capitolo, la frontiera si chiude alla nostre spalle, non possiamo ripiegare, e fino alla fine del racconto siamo destinati a vivere a contatto con un altro dei suoi tanti ricercati. La tensione aumenta col fatto che non siamo mai sicuri se anche il peggiore di essi, come il talentuoso Mr. Ripley, riuscirà a cavarsela o se il relativamente innocente soffrirà come il pasticcione Walter sulla relativamente colpevole fuga insieme a Sydney Bartleby in Senza pietà. Questo è un mondo senza conclusioni morali. Non ha nulla in comune con il mondo eroico dei suoi simili, Hammett e Chandler, e i suoi investigatori (talvolta mostri di crudeltà, come l’americano Tenente Corby di Vicolo cieco, oppure i buffi personaggi razionali come l’inglese Ispettore Brockway) non hanno nulla in comune con il romantico e disincantato private eye che sempre, lo sappiamo, finisce per trionfare sul male e provvedere affinchè giustizia sia fatta, anche a costo di spedire l’amante sulla sedia elettrica. Nulla più è sicuro quando abbiamo valicato questa frontiera. Non è il mondo come una volta credevamo di conoscerlo, ma per noi è paurosamente più reale dell’appartamento del vicino. Le azioni sono improvvise e improvvisate, e spesso le loro ragioni sono talmente inesplicabili che dobbiamo semplicemente accettarle sulla fiducia.” (Dalla prefazione di Graham Greene)

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La follia delle sirene - Patricia Highsmith - copertinaLa follia delle sirene
Traduttore: L. Matteoli

Una lucida analisi della natura umana sotto stress, dei suoi meccanismi, della crisi di tutti i principi etici della vita associata. Undici racconti, scritti tra il 1970 e il 1985, per un mosaico di inquietanti personaggi borderline. Un fascio di avventure e disavventure che nascono dai casi assurdi della vita e fanno emergere creativi semi di pazzia, che mettono in discussione in maniera grottesca le “normali” categorie del bene e del male.

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CENTO ANNI DALLA NASCITA DI LEONARDO SCIASCIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/08/cento-anni-dalla-nascita-di-leonardo-sciascia/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/08/cento-anni-dalla-nascita-di-leonardo-sciascia/#comments Fri, 08 Jan 2021 09:40:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8675 https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/f/fb/Sciascia_palazzolo.jpgIn occasione del centenario della nascita di Leonardo Sciascia, pubblichiamo questo articolo del saggista e critico letterario Giuseppe Giglio.

Ne approfittiamo per segnalare questo articolo di Antonio Di Grado (su Sicily Mag), l’iniziativa de La strada degli scrittori e altri approfondimenti da varie testate.

Di seguito: un video e la biografia di Sciascia

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Approfondimenti su: la Repubblica, Il Corriere della Sera, L’Espresso, Il Fatto Quotidiano, Vanity Fair

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Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989) è stato uno scrittore, giornalista, saggista, drammaturgo, poeta, politico, critico d’arte e insegnante italiano.
Spirito libero e anticonformista, lucidissimo e impietoso critico del nostro tempo, Sciascia è una delle grandi figure del Novecento italiano ed europeo. All’ansia di conoscere le contraddizioni della sua terra e dell’umanità, unì un senso di giustizia pessimistico e sempre deluso, ma che non rinuncia mai all’uso della ragione umana di matrice illuminista, per attuare questo suo progetto. All’influenza del relativismo conoscitivo di Luigi Pirandello si possono ricondurre invece l’umorismo e la difficoltà di pervenire a una conclusione che i suoi protagonisti incontrano: la realtà non sempre è osservabile in maniera obiettiva, e spesso è un insieme inestricabile di verità e menzogna.
Ebbe anche un’attività politica importante, attestato su posizioni di socialismo democratico e marxismo moderato, poi di radicalismo liberale, garantismo e socialdemocrazia. Dapprima fu consigliere comunale a Palermo (1975-1977) per il Partito Comunista Italiano, ed in seguito (dal 1979 al 1983) deputato in Parlamento per il Partito Radicale, infine fu simpatizzante del Partito Socialista.

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Leonardo Sciascia nasce l’8 gennaio 1921 a Racalmuto, in provincia di Agrigento, primo di tre fratelli, figlio di un impiegato, Pasquale Sciascia, e di una casalinga, Genoveffa Martorelli. La madre proviene da una famiglia di artigiani mentre il padre è impiegato presso una delle miniere di zolfo locali e la storia dello scrittore ha le sue radici nella zolfara dove hanno lavorato il nonno e il padre. Trascorre l’infanzia circondato da zie e zii nella casa di Racalmuto di via Regina Margherita, 37 (oggi via Leonardo Sciascia), aperta al pubblico nel luglio del 2019 da privati e inserita nel percorso turistico “Strada degli scrittori”.

Gli studi: il periodo nisseno
A sei anni Sciascia inizia la scuola elementare a Racalmuto. Nel 1935 si trasferisce con la famiglia a Caltanissetta dove si iscrive all’Istituto Magistrale “IX Maggio” nel quale insegna Vitaliano Brancati, che diventerà il suo modello e che lo guida nella lettura degli autori francesi, mentre l’incontro con un giovane insegnante, Giuseppe Granata (che fu in seguito senatore comunista), gli fa conoscere l’illuminismo francese e italiano. Egli forma così la propria coscienza civile sui testi di Voltaire, Montesquieu, Cesare Beccaria, Pietro Verri.
Nel capoluogo nisseno trascorrerà gli anni più indimenticabili della sua vita, come lui stesso confessa nella sua autobiografia, fatti delle prime esperienze e delle prime scoperte della vita oltre a rafforzare la sua formazione culturale.
Intanto intrattiene un rapporto epistolare con Giuseppe Tulumello, compaesano di Racalmuto, con cui si scambiava giudizi sui film. Un’amicizia fraterna, questa, che lo accompagnerà fino alla morte.
Richiamato alla visita di leva viene considerato per due volte non idoneo, ma alla terza viene accettato e assegnato ai servizi sedentari.
Nel 1941 consegue il diploma magistrale e nello stesso anno si impiega al Consorzio Agrario, occupandosi dell’ammasso del grano a Racalmuto, dove rimane fino al 1948. Ebbe così modo di avere un rapporto intenso con la piccola realtà contadina.
Nel 1944 sposa Maria Andronico, maestra nella scuola elementare di Racalmuto. Dalla loro unione nasceranno due figlie, Laura e Anna Maria.
Nel 1948 Leonardo Sciascia rimane scosso dal suicidio dell’amato fratello Giuseppe.

Le prime opere: poesie e saggi
Nel 1950 pubblica le “Favole della dittatura”, che Pier Paolo Pasolini nota e recensisce. Il libro comprende ventisette brevi testi poetici, “favole esopiche” classiche, con morali chiare, di cui sono protagonisti animali. Venti di questi testi erano apparsi tra il 1950 e l’estate del 1951 su “La Prova” fondato a Palermo dal politico democristiano Giuseppe Alessi, periodico politico con il quale Sciascia inizia a collaborare fin dal primo numero firmando il 15 marzo 1950 il necrologio “Molto prima del 1984 è morto George Orwell”.
Nel 1952, esce la raccolta di poesie La Sicilia, il suo cuore, che viene illustrata con disegni dello scultore catanese Emilio Greco.
Nel 1953 vince il Premio Pirandello, assegnatogli dalla Regione Siciliana per il suo saggio “Pirandello e il pirandellismo”.
Inizia nel 1954 a collaborare a riviste antologiche dedicate alla letteratura e agli studi etnologici, assumendo l’incarico di direttore di «Galleria» e de «I quaderni di Galleria» edite dall’omonimo Salvatore Sciascia di Caltanissetta.
Nel 1954 Italo Calvino scrive, riferendosi a un’opera di Sciascia:
«Ti accludo uno scritto d’un maestro elementare di Racalmuto (Agrigento) che mi sembra molto impressionante» (Lettera di Italo Calvino a Alberto Carocci, 8 ottobre 1954)
Nel 1956 pubblica “Le parrocchie di Regalpetra”, una sintesi autobiografica dell’esistenza vissuta come maestro nelle scuole elementari del suo paese. Nello stesso anno viene distaccato in un ufficio scolastico di Caltanissetta.
Nell’anno scolastico 1957-1958 viene assegnato al Ministero della pubblica istruzione a Roma e in autunno pubblica i tre racconti che vanno sotto il titolo “Gli zii di Sicilia”. La breve raccolta si apre con “La zia d’America”, un tentativo di dissacrare il mito americano dello “Zio Sam”, visto come dispensatore di doni e libertà.
Il secondo racconto è intitolato “La morte di Stalin”, nel quale, ancora una volta, il personaggio è un mito, quello del comunismo che viene incarnato, agli occhi del siciliano Calogero Schirò, da Stalin. Il terzo racconto, “Il quarantotto”, è ambientato nel periodo del Risorgimento (tra il 1848 e il 1860) e tratta del tema dell’unificazione del Regno d’Italia vista attraverso gli occhi di un siciliano. Nel racconto l’autore vuole mettere in evidenza l’indifferenza e il cinismo della classe dominante affrontando un tema già trattato da Federico De Roberto ne I Viceré (1894) e da Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo.
Alla raccolta si aggiunge, nel 1960, un quarto racconto, “L’antimonio”, che ebbe favorevole consenso della critica e al quale Pasolini dedicherà un articolo sulla rivista Officina. In esso si narra la storia di un minatore che, scampato ad uno scoppio di grisou (chiamato dagli zolfatari antimonio), parte come volontario per la guerra civile in Spagna.

A Caltanissetta: i romanzi
Sciascia rimane a Roma un anno e al suo ritorno si stabilisce con la famiglia a Caltanissetta, assumendo un impiego in un ufficio del Patronato scolastico.
Nel 1961 esce Il giorno della civetta col quale lo scrittore inaugura una nuova stagione del giallo italiano contemporaneo. Al romanzo si ispira il film omonimo del regista Damiano Damiani, uscito nel 1968.
Gli anni sessanta vedranno nascere alcuni dei romanzi più sentiti dallo stesso autore, dedicati alle ricerche storiche sulla cultura siciliana.
Nel 1963 pubblica Il consiglio d’Egitto, ambientato in una Palermo del ‘700 dove vive e agisce un abile falsario, l’abate Giuseppe Vella, che “inventa” un antico codice arabo che dovrebbe togliere ogni legittimità ai privilegi e ai poteri dei baroni siciliani a favore del Viceré Caracciolo.

Il ritorno al saggio
Nel 1964 pubblica il breve saggio o racconto, come dice lo stesso Sciascia nella prefazione alla ristampa del 1967, Morte dell’Inquisitore, ambientato nel ‘600, che prende spunto dalla figura dell’eretico siciliano fra’ Diego La Matina, vittima del Tribunale dell’Inquisizione siciliana, che uccide Juan Lopez De Cisneros, inquisitore nel Regno di Sicilia.
La Compagnia del Teatro Stabile di Catania, diretta da Turi Ferro, mette in scena “Il giorno della civetta”, con la riduzione teatrale di Giancarlo Sbragia.
Risale al 1965 il saggio “Feste religiose in Sicilia”, che fa da cornice alla presentazione ad una raccolta fotografica ad opera di Ferdinando Scianna, fotografo di Bagheria, dove torna l’accostamento della Sicilia alla Spagna, soprattutto per quanto riguarda il valore e l’importanza, in ambedue le società, della superstizione religiosa e del mito.

Sempre nel 1965 esce la sua commedia L’onorevole che è un’impietosa denuncia delle complicità tra governo e mafia.

Nel 1966 ritorna con un romanzo, A ciascuno il suo, che riprende le modalità del “giallo” già utilizzate ne Il giorno della civetta.
La vicenda narrata è quella di un professore di liceo, Paolo Laurana, che inizia per curiosità personale le indagini sulla morte del farmacista del paese e dell’amico dottore, ma che si scontra con il silenzio di tutti i paesani, silenzio dovuto alla paura e alla corruzione. Come commento alla tenacia nelle indagini del professore e alla sua tragica fine, l’explicit del libro si risolve in una frase lapidaria:
«”Era un cretino.” disse don Luigi»
Dal romanzo, il regista Elio Petri trae, nel 1967, il film omonimo.


Le analisi sull’arte

Leonardo Sciascia si dedicherà all’analisi critica della pittura, e in particolare al siciliano Mario Bardi, asserendo nel 1967: “Non c’è niente nella pittura di Bardi, che non possa spiegarsi con la pittura. E tuttavia non c’è niente nella sua pittura che la Sicilia, a riscontro, non possa spiegare: e non soltanto negli avvenimenti, nei fatti, ma anche e soprattutto nel modo di essere. E nel suo modo di essere pittore”.
L’interesse di Leonardo Sciascia, si estende verso gli incisori jugoslavi Makuc, Jaki, Gliha… anche se la sua attenzione si focalizza sempre più sugli artisti di origine siciliana come Mario Bardi, Bruno Caruso, Piero Guccione, Andrea Vizzini.

A Palermo
Nel 1967 si trasferisce a Palermo per seguire negli studi le figlie e per scrivere. Esce intanto per l’editore Mursia un’antologia Narratori di Sicilia, curata da Sciascia in collaborazione con Salvatore Guglielmino.
Nel 1969 inizia la sua collaborazione con il Corriere della Sera e pubblica Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D., che racconta, attraverso una rappresentazione teatrale, la controversia per la vendita di una partita di ceci per la quale il vescovado di Lipari non vuole pagare la tassa (siamo all’inizio del ‘700). Il vescovo aveva scomunicato i gabellieri, ma il re, mediante l’appello per abuso, aveva annullato la scomunica. La storia, apparentemente banale, in realtà denuncia i rapporti tra Stato-guida dell’ex Urss e gli Stati satelliti. Le iniziali A.D. identificano Alexander Dubček, che fu protagonista nel 1968 della Primavera di Praga.

La pensione
Nel 1970 Sciascia va in pensione e pubblica la raccolta di saggi “La corda pazza”, nella quale l’autore chiarisce la propria idea di “sicilitudine” e dimostra una rara sensibilità artistica espressa per mezzo di sottili capacità saggistiche. Quest’opera riporta, già dal titolo, a Luigi Pirandello che nel suo libro “Berretto a sonagli” sostiene che ognuno di noi ha in testa “come tre corde d’orologio, quella “seria”, quella “civile”, quella “pazza”".
Sciascia vuole indagare sulla “corda pazza” che, a suo parere, coglie le contraddizioni e le ambiguità ma anche la forza razionalizzante di quella Sicilia che è tanto oggetto dei suoi studi.
Il ritorno al genere poliziesco
Il 1971 è l’anno de “Il contesto”, con il quale l’autore ritorna al genere poliziesco. La vicenda si svolge intorno all’ispettore Rogas che deve risolvere una complicata vicenda che origina da un errore di giustizia e una serie di omicidi di giudici. Benché il romanzo sia ambientato in un paese immaginario, il lettore riconosce senza sforzo l’Italia contemporanea. Il libro desta molte polemiche, più politiche che estetiche, alle quali Sciascia non vuole partecipare, ritirando così la candidatura del romanzo al premio Campiello.
Dal romanzo venne ispirato il film di Francesco Rosi, uscito nel 1976 e intitolato Cadaveri eccellenti.
Con gli “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel” del 1971, si comprende che in Sciascia la propensione ad includere la denuncia sociale nella narrazione di episodi veri di cronaca nera si fa sempre più forte. Così sarà ne “I pugnalatori” del 1976 e ne “L’affaire Moro” del 1978.
Nel 1973 pubblica “Il mare colore del vino” e scrive la prefazione ad un’edizione della “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, in cui scrive: «Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, Manzoni alle responsabilità individuali».
Nel 1974 pubblica la prefazione ad una ristampa dei “Dialoghi” dello scrittore greco Luciano di Samosata dal titolo “Luciano e le fedi”.
Esce intanto Todo modo, un libro che parla “di cattolici che fanno politica” e che viene stroncato dalle gerarchie ecclesiastiche. Il racconto, di genere poliziesco, è ambientato in un eremo/albergo dove si effettuano esercizi spirituali. In questo luogo, durante il ritiro annuale di un gruppo di “potenti”, tra i quali cardinali, uomini politici e industriali, si verifica una serie di inquietanti delitti.
Anche da questo romanzo verrà tratto un film dallo stesso titolo diretto dal regista Elio Petri nel 1976.

L’impegno politico
Alle elezioni comunali di Palermo nel giugno 1975 lo scrittore si candida come indipendente nelle liste del PCI; viene eletto con un forte numero di preferenze, ottenendo il secondo posto come numero di preferenze dopo Achille Occhetto, segretario regionale del partito, e davanti ad un altro illustre candidato, Renato Guttuso.
Nello stesso anno pubblica La scomparsa di Majorana, un’indagine sulla scomparsa del fisico Ettore Majorana avvenuta negli anni trenta.
Nel 1976 esce una ristampa delle commedie L’onorevole e Recitazione della controversia liparitana con l’aggiunta de I mafiosi. Nello stesso anno pubblica l’indagine I pugnalatori, un libro inchiesta su una vicenda avvenuta a Palermo nel 1862 che vide uccise a pugnalate 13 persone.
All’inizio del 1977 Sciascia si dimette dalla carica di consigliere del Partito Comunista Italiano. La sua contrarietà al compromesso storico e il rifiuto per certe forme di estremismo lo portano infatti a scontri molto duri con la dirigenza del Partito.
Nel 1978 pubblica L’affaire Moro sul sequestro, il processo e l’omicidio nella cosiddetta “prigione del popolo” di Aldo Moro organizzato dalle Brigate Rosse.
Nel giugno del 1979 accetta la proposta dei Radicali e si candida sia al Parlamento europeo sia alla Camera. Eletto in entrambe le sedi istituzionali resta a Strasburgo solo due mesi e poi opta per Montecitorio, dove rimarrà deputato fino al 1983 occupandosi dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro (con una forte critica rivolta alla cosiddetta “linea della fermezza”, difatti Sciascia si era prodigato perché si trattasse con le Brigate Rosse per liberare Moro) e sul terrorismo in Italia. Da una parte si trova in lui il rifiuto della violenza, dall’altra una costante critica del potere costituito e dei suoi segreti inconfessabili. È inoltre membro della commissione agricoltura e della bicamerale antimafia.
Si espresse anche contro la legislazione d’emergenza, che istituiva poteri speciali e inaspriva molte fattispecie di reato; egli era inoltre contrario al “pentitismo” (sia per il terrorismo sia per la mafia), in quanto premiava troppo un colpevole in cambio di rivelazioni che potevano essere fallaci, anche a danno di innocenti. Fu inoltre uno dei primi a ravvisare lati oscuri nel rapporto tra il terrorismo e lo Stato.

I contatti con la cultura francese
In questi anni aumenta i suoi viaggi a Parigi e si intensificano i contatti con la cultura francese.
Nel 1977 pubblica “Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia”, dove è chiaro il riferimento al “Candido” di Voltaire.
Esce in quell’anno “Nero su Nero”, una raccolta di commenti ai fatti relativi al decennio precedente, “La Sicilia come metafora”, un’intervista di Marcelle Padovani e “Dalle parti degli infedeli”, lettere di persecuzione politica inviate negli anni cinquanta dalle alte gerarchie ecclesiastiche al vescovo Patti, con il quale inaugura la collana della casa editrice Sellerio intitolata “La memoria” che festeggia nel 1985 la centesima pubblicazione con le sue “Cronachette”.
Nel 1980 pubblica “Il volto sulla maschera” e la traduzione di un’opera di Anatole France, “Il procuratore della Giudea”.
Nel 1981 pubblica “Il teatro della memoria” e, in collaborazione con Davide Lajolo, “Conversazioni in una stanza chiusa”.
Nel 1982 esce “Kermesse” e “La sentenza memorabile”, nel 1983 “Cruciverba”, una raccolta di suoi scritti già pubblicati su riviste, giornali e prefazioni a libri.
Pubblica nel 1983 “Stendhal e la Sicilia”, un saggio per commemorare la nascita dello scrittore francese.
Gli ultimi anni di vita
In quegli stessi anni gli fu diagnosticato il mieloma multiplo. Sempre più spesso fu costretto a lasciare la Sicilia per Milano per curarsi ma lo scrittore continuò, sia pure con fatica, la sua attività di scrittore.
Nel 1985 pubblica “Cronachette” e “Occhio di capra”, una raccolta di modi di dire e proverbi siciliani, e nel 1986 “La strega e il capitano”, un saggio per commemorare la nascita di Alessandro Manzoni.
Carichi di tristi motivi autobiografici sono i brevi romanzi gialli “Porte aperte” del 1987, “Il cavaliere e la morte” del 1988 e “Una storia semplice”, ispirato al furto della Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi del Caravaggio, che uscirà in libreria il giorno stesso della sua morte.
Nel 1986 Sciascia scrive a Bettino Craxi, comunicandogli di aver votato per il PSI nelle elezioni regionali siciliane di quell’anno e invitando il leader socialista a favorire il ricambio della classe dirigente siciliana del partito.
Nel 1987 cura una mostra molto suggestiva, all’interno della Mole Antonelliana a Torino, dal titolo “Ignoto a me stesso” (aprile-giugno). Erano esposte quasi 200 rare fotografie scelte da Leonardo Sciascia e concesse in originale da importanti istituzioni di tutto il mondo. Si tratta di ritratti di scrittori famosi, dai primi dagherrotipi ai giorni nostri, da Edgar Allan Poe a Rabindranath Tagore a Gorkij a Jorge Luis Borges. Il catalogo viene stampato da Bompiani e oltre il saggio di Sciascia “Il ritratto fotografico come entelechia” contiene 163 ritratti e altrettante citazioni dei relativi scrittori. La chiave della mostra è forse la citazione di Antoine de Saint-Exupéry:
«Non bisogna imparare a scrivere ma a vedere. Scrivere è una conseguenza»

Una delle sue ultime battaglie politiche fu in difesa di Enzo Tortora (suo amico di lungo corso, vittima di errore giudiziario e divenuto anch’egli un militante radicale) e il sostegno dato ad Adriano Sofri, accusato nel 1988 dell’omicidio Calabresi (Sciascia chiese anche che si facesse finalmente luce sulla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli del 1969).
Pochi mesi prima di morire scrive “Alfabeto pirandelliano”, “A futura memoria (se la memoria ha un futuro)”, che verrà pubblicato postumo, e “Fatti diversi di storia letteraria e civile” edito da Sellerio.

La morte
La tomba di Leonardo Sciascia accanto a quella della moglie, Maria Andronico, presso il cimitero di Racalmuto.
Leonardo Sciascia morì a Palermo il 20 novembre 1989, in seguito a complicazioni della malattia che lo affliggeva (nefropatia da mieloma multiplo con insufficienza renale cronica, per cui si sottoponeva spesso a emodialisi), e chiese i funerali in Chiesa, per “non destare troppo scandalo” attorno alla famiglia a Racalmuto. Con lui nella sua bara la moglie e gli amici vollero mettere un crocifisso d’argento, simbolo che egli rispettava, pur non essendo un credente in senso stretto (ma nemmeno ateo: «mi guidano la ragione, l’illuministico sentire dell’intelligenza, l’umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni», scrisse. Al funerale viene ricordato da numerose parole di stima, fra cui quelle del grande amico Gesualdo Bufalino.
È sepolto nel cimitero di Racalmuto, suo paese natale; sulla lapide bianca una sola frase:
«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta»
(Epitaffio sulla tomba di Sciascia, la citazione è di Auguste de Villiers de L’Isle-Adam).

[Fonte: Wikipedia Italia]

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ADDIO A PAOLO ROSSI, leggenda della Nazionale italiana di calcio http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/12/10/addio-a-paolo-rossi-leggenda-della-nazionale-italiana-di-calcio/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/12/10/addio-a-paolo-rossi-leggenda-della-nazionale-italiana-di-calcio/#comments Thu, 10 Dec 2020 06:23:31 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8660 https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/d/d3/Paolo_Rossi_Pallone_d%27oro.jpgDEDICHIAMO QUESTA PAGINA A PAOLO ROSSI (Prato, 23 settembre 1956 – Siena, 9 dicembre 2020)

Su LetteratitudineNews, le prime pagine dell’autobiografia di Paolo Rossi, scritta insieme alla moglie Federica Cappelletti, intitolata: “Quanto dura un attimo” (Mondadori)

Paolo Rossi è stato una vera e propria leggenda del calcio italiano. Campione del Mondo ai campionati spagnoli del 1982 e Pallone d’Oro proclamato nello stesso anno.

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Paolo Rossi, mitico attaccante della Nazionale italiana di calcio, soprannominato Pablito, lo si ricorda principalmente per le sue prodezze e per i suoi gol al Mondiale 1982 dove, oltre a vincerlo, si aggiudicò anche il titolo di capocannoniere. Nello stesso anno vinse anche il Pallone d’oro (terzo italiano ad aggiudicarselo). Occupa la 42ª posizione nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo pubblicata dalla rivista World Soccer. Nel 2004 è stato inserito nel FIFA 100, una lista dei 125 più grandi giocatori viventi, selezionata da Pelé e dalla FIFA in occasione del centenario della federazione. È risultato 12º nell’UEFA Golden Jubilee Poll, un sondaggio online condotto dalla UEFA per celebrare i migliori calciatori d’Europa dei cinquant’anni precedenti.

Insieme a Roberto Baggio e Christian Vieri detiene il record italiano di marcature nei Mondiali a quota 9 gol, ed è stato il primo giocatore (eguagliato dal solo Ronaldo) ad aver vinto nello stesso anno il Mondiale, il titolo di capocannoniere di quest’ultima competizione e il Pallone d’oro.

[Fonte: Wikipedia Italia, a cui rinviamo per l'intera biografia]

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Approfondimenti su: Ansa, La Gazzetta dello Sport, Corriere dello Sport, Il Corriere della Sera, la Repubblica, Il Giornale, RaiNews, Tuttosport

Alcune delle uscite su stampa e media internazionali: BBC, CNN, El Pais, Le Figaro,

Video consigliati su YouTube:

- Addio a Paolo Rossi: il servizio del TG1 delle 13:30 del 10.12.2020

- La leggenda azzurra: intervista a Paolo Rossi

- Paolo Rossi – Eroi Azzurri

- Mondiali 1982: Italia – Brasile 3-2

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40 ANNI DALLA MORTE DI JOHN LENNON http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/12/07/40-anni-dalla-morte-di-john-lennon/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/12/07/40-anni-dalla-morte-di-john-lennon/#comments Mon, 07 Dec 2020 14:52:19 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8655 40 ANNI DALLA MORTE DI JOHN LENNON (Liverpool, 9 ottobre 1940 – New York, 8 dicembre 1980)

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Avevo 12 anni quando, la sera dell’8 dicembre 1980, John Lennon fu assassinato da Mark Chapman. L’ultimo album dell’ex-Beatle, “Double Fantasy“, era uscito poche settimane prima. Quella sera John e Yoko stavano rientrando alla loro residenza a palazzo Dakota, sulla 72ª strada, nell’Upper West Side a New York, di fronte al Central Park. Alle 22:51, questo folle omicida venticinquenne, colpì Lennon con quattro dei cinque colpi esplosi dalla sua pistola.
La corsa al Roosevelt Hospital fu inutile. Uno dei più grandi geni del XX secolo non avrebbe mai visto il giorno successivo, né quelli a venire.
La follia di Chapman stroncò la vita di John privando la sua famiglia di un marito e di un padre, cancellando un punto di riferimento per milioni di fan di tutto il mondo e negando all’intero pianeta la possibilità di poter fruire di altre geniali composizioni musicali che avrebbero potuto vedere la luce da quel momento in poi.
Il decesso fu dichiarato alle 23.07. L’artista di Liverpool aveva solo quarant’anni.

Devo tanto alla musica di John. I miei libri contengono molti riferimenti alle sue canzoni. Su tutti, “Cetti Curfino” (La nave di Teseo)… di cui propongo, qui in lettura, la postfazione del libro (dedicata, appunto, a John Lennon e a alla sua “Woman is the Nigger of the World”).

Nei possimi giorni, su LetteratitudineNews, conto di pubblicare un paio di articoli relativi ad alcuni dei libri su John Lennon usciti in occasione di questa triste e dolorosa ricorrenza.

Massimo Maugeri

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DIEGO ARMANDO MARADONA: quando il calcio diventa letteratura http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/11/25/diego-armando-maradona-quando-il-calcio-diventa-letteratura/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/11/25/diego-armando-maradona-quando-il-calcio-diventa-letteratura/#comments Wed, 25 Nov 2020 20:37:51 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8642 https://64.media.tumblr.com/694cfa11aa520777eaabca379b7615eb/040c9f1849889eff-c8/s2048x3072/971a9f645551269c00915cd75db841625f28f4f8.jpg


ADDIO AL PIU’ GRANDE CALCIATORE DI TUTTI I TEMPI (primato da sempre conteso tra lui e Pelè)

(A Letteratitudine vogliamo ricordarlo così)

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MARCO SANTAGATA con “Come donna innamorata” (Guanda) in radio a LETTERATITUDINE: puntata dedicata allo scrittore scomparso il 9 novembre http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/11/18/marco-santagata-con-come-donna-innamorata-guanda-in-radio-a-letteratitudine/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/11/18/marco-santagata-con-come-donna-innamorata-guanda-in-radio-a-letteratitudine/#comments Wed, 18 Nov 2020 15:46:11 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8635 MARCO SANTAGATA con “Come donna innamorata” (Guanda), ospite del programma radiofonico Letteratitudine trasmesso su RADIO POLIS (la radio delle buone notizie). Puntata dedicata allo scrittore scomparso il 9 novembre 2020

marco-santagata

In streaming e in podcast su RADIO POLIS

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e postproduzione: Federico Marin

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PER ASCOLTARE LA PUNTATA CLICCA SUL PULSANTE “AUDIO MP3″ (in basso), O CLICCA QUI

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Ospite della puntata: lo scrittore e saggista Marco Santagata e il suo romanzo intitolato “Come donna innamorata” (Guanda, 2015).
Dedichiamo questa nuova puntata di Letteratitudine al caro Marco Santagata scomparso il 9 novembre scorso per complicanze dovute alla pandemia da Covid-19.

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La scheda del libro: “Come donna innamorata” di Marco Santagata (Guanda)

Come si può continuare a scrivere quando la morte ti ha sottratto la tua Musa? È questo l’interrogativo che, l’8 giugno 1290, tormenta Dante Alighieri, giovane poeta ancora alla ricerca di una sua voce, davanti alle spoglie di Beatrice Portinari. Da quel momento tutto cambierà: la sua vita come la sua poesia. Percorrendo le strade di Firenze, Dante rievoca le vicissitudini di un amore segnato dal destino, il primo incontro e l’ultimo sguardo, la malìa di una passione in virtù della quale ha avuto ispirazione e fama. È sgomento, il giovane poeta; e smarrito. Ma la sorte gli riserva altri strali. Mentre le trame della politica fiorentina minacciano dapprima i suoi affetti – dal rapporto con la moglie Gemma all’amicizia fraterna con Guido Cavalcanti – e poi la sua stessa vita, Dante Alighieri fa i conti con le tentazioni del potere e la ferita del tradimento, con l’aspirazione al successo e la paura di non riuscire a comporre il suo capolavoro… È un Dante intimo, rivelato anche nella sua fragilità, e nelle sue ambiguità, quello che Marco Santagata mette in scena in un romanzo che restituisce le atmosfere, le parole, le inquietudini di un Medioevo vivido e vicino. Il sommo poeta in tutta la sua umanità: lacerato dall’amore, tormentato dall’ambizione, ardentemente contemporaneo.

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Marco Santagata (Zocca, 28 aprile 1947 – Pisa, 9 novembre 2020) è stato uno scrittore, critico letterario e accademico italiano, vincitore del Premio Campiello nel 2003 con Il maestro dei santi pallidi e del Premio Stresa di Narrativa con L’amore in sé nel 2006. Nel 2015 è stato finalista al Premio Strega con il romanzo Come donna innamorata. Come italianista è tra i massimi esperti di lirica classica italiana, di Dante e di Petrarca e petrarchismo.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e post produzione: Federico Marin

PER ASCOLTARE LA PUNTATA CLICCA SUL PULSANTE “AUDIO MP3″ (in basso), O CLICCA QUI

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È possibile ascoltare le precedenti puntate radiofoniche di Letteratitudine, cliccando qui.

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ADDIO A MARCO SANTAGATA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/11/09/addio-a-marco-santagata/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/11/09/addio-a-marco-santagata/#comments Mon, 09 Nov 2020 14:09:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8625 È scomparso lo scrittore e critico letterario Marco Santagata. Lo ricordiamo dedicandogli questa pagina

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Marco Santagata (Zocca, 28 aprile 1947 – Pisa, 9 novembre 2020) è stato uno scrittore, critico letterario e accademico italiano, vincitore del Premio Campiello nel 2003 con Il maestro dei santi pallidi e del Premio Stresa di Narrativa con L’amore in sé nel 2006. Nel 2015 è stato finalista al Premio Strega con il romanzo Come donna innamorata. Come italianista è tra i massimi esperti di lirica classica italiana, di Dante e di Petrarca e petrarchismo.

Approfondimenti su: “Il Corriere della Sera“, “la Repubblica“, “Il Fatto Quotidiano“, “La Nazione“, “Il Tirreno“, SkyTg24

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[youtube https://www.youtube.com/watch?v=bnNrEMci...]

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[youtube https://www.youtube.com/watch?v=QWzhl6gm...]

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Marco Santagata, laureatosi alla Scuola Normale, ha insegnato Letteratura italiana all’Università di Pisa. Dal 1984 al 1988 ne ha diretto l’Istituto di letteratura italiana, ed è stato poi direttore del Dipartimento di Studi italianistici.
È stato visting professor in molti atenei prestigiosi come la Sorbona, l’Università di Ginevra, la UNMA di Città del Messico e Harvard.
La sua attività di studioso è stata rivolta soprattutto alla poesia dei primi secoli, con una particolare attenzione a Dante e a Petrarca.
Su Dante, di cui ha curato per i Meridiani Mondadori l’edizione commentata delle Opere, ha scritto il libro L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante (il Mulino, 2011) e la biografia Dante. Il romanzo della sua vita (Mondadori, 2012). Tra i lavori petrarcheschi si segnalano il commento al Canzoniere (Mondadori, 2004) e il libro I frammenti dell’anima (il Mulino, 2011).
Si è inoltre occupato di Leopardi (Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, Il Mulino, 1994) e della poesia fra Otto e Novecento (Per l’opposta balza. “La cavalla storna” e “Il commiato” dell’”Alcyone”, Garzanti, 2002). Accanto a quella scientifica ha svolto anche l’attività di narratore: con il romanzo Il Maestro dei santi pallidi (Guanda) ha vinto il premio Campiello 2003. Suoi anche Papà non era comunista (Guanda, 1996), L’amore in sè (Guanda, 2006), Il salto degli Orlandi (Sellerio, 2007), Voglio una vita come la mia (Guanda, 2008), Come donna innamorata (Guanda, 2015) grazie al quale entra nella cinquina dei finalisti del Premio Strega, e Il movente è sconosciuto (Guanda, 2018). Inoltre, ha scritto con Alberto Casadei il Manuale di letteratura italiana medievale e moderna (Laterza, 2007) e il Manuale di letteratura italiana contemporanea (Laterza, 2009). Per Mondadori è uscito inoltre il saggio a tema scientifico Un meraviglioso accidente, del quale è coautore insieme a Vincenzo Manca.
Nel 2020 è uscito Il copista (Guanda).

Aveva da poco consegnato a Guanda il suo nuovo romanzo, ​in cui per la seconda volta attinge alla vita di Dante, e che vedrà la luce nella prossima primavera.

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Il comunicato del Premio Campiello

Venezia, 9 novembre 2020

Quello di oggi è un giorno davvero triste per tutta la cultura italiana: Marco Santagata era un intellettuale di altissimo livello – tra i massimi studiosi di Dante – ed un personaggio eclettico, tanto da aver conquistato i lettori anche con le sue opere di narrativa. Era lui stesso a raccontare di come praticasse due tipi di scrittura, e di quanto fosse contento che quella “creativa” lo avesse portato a raccogliere un riscontro come quello del Campiello, che vinse nel 2003 con “Il Maestro dei santi pallidi”. La Fondazione Il Campiello esprime il massimo cordoglio per la sua scomparsa, ricordandolo sempre con profonda stima e affetto.

La Fondazione Il Campiello

Il Comitato di Gestione Premio Campiello

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Tutti i libri di Marco Santagata

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Il nuovo libro di Marco Santagata: “Il copista. Un venerdì di Francesco Petrarca” (Guanda)

Marco Santagata trasforma in romanzo la fantasia di una giornata di Petrarca, di cui restituisce un ritratto profondamente umano.

In un freddo e nebbioso venerdì di ottobre, Francesco Petrarca si sveglia afflitto da dolori allo stomaco. Il cantore di Laura è intento a scrivere una canzone destinata a confluire nel libro delle rime. Tuttavia, la composizione si trasforma ben presto nella personale e tormentata via crucis di un uomo ormai invecchiato e logorato dalle perdite della sua vita. La morte del figlio Giovanni e del nipotino Francesco, portati via dalla peste (come prima la stessa Laura), e poi la fuga del giovane copista Giovanni Malpaghini lo lasciano sempre più solo nella casa di Padova, con l’unica compagnia della serva Francescona. Così, a mano a mano che i versi prendono forma, Petrarca si rivela una persona inquieta e contraddittoria, che ha perdutola fede fino ad essere incapace di credere alla sopravvivenza dell’anima. Con una narrazione malinconica e a tratti impietosa, Marco Santagata trasforma in romanzo la fantasia di una giornata di Petrarca, di cui restituisce un ritratto profondamente umano.

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OMAGGIO A SEBASTIANO ADDAMO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/15/il-giudizio-della-sera-di-sebastiano-addamo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/15/il-giudizio-della-sera-di-sebastiano-addamo/#comments Wed, 15 Jul 2020 16:40:29 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1099 In occasione del ventennale della morte di Sebastiano Addamo (Catania, 18 febbraio 1925 – Catania, 9 luglio 2000) mettiamo in primo piano questo post (con relativo dibattito online) incentrato sull’opera principale dello scrittore catanese: “Il giudizio della sera”

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IL GIUDIZIO DELLA SERA di Sebastiano Addamo

È arduo pensare di riproporre ai lettori di oggi un romanzo uscito senza alcun clamore 35 anni fa. Arduo se non altro perché le novità editoriali sono tante da creare tempeste sui banconi dei librai. Eppure la qualità letteraria di alcuni vecchi libri è tale da giustificare l’azzardo.
Con queste parole Matteo Collura inizia la recensione del romanzo “Il giudizio della sera”, di Sebastiano Addamo (nella foto), ripubblicato da Bompiani nel 2008 a cura di Sarah Zappulla Muscarà (originariamente pubblicato, nel 1974, da Garzanti).
Poi, lo stesso Collura, nella suddetta recensione (pubblicata sul Corriere della Sera del 14 ottobre 2008) conclude: Non è da credere in un successo postumo di questo narratore, che fu preside di liceo e fine intellettuale, ma in una sua giusta collocazione nell’ambito dei valori letterari del secondo Novecento italiano, sì. E va dato atto alla Bompiani di tentarci (…).

Sebastiano Addamo, mio conterraneo, è nato a Catania, nel 1925 e ivi si è spento nel 2000. Non lo so se – riprendo le parole di Collura – il successo postumo arriderà ad Addamo, ma (nel mio piccolo) avverto l’esigenza di fare quanto possibile per divulgare la conoscenza di questo autore e delle sue opere; proprio a partire da questo romanzo: “Il giudizio della sera”.

Sulla nota in quarta di copertina del libro, leggiamo quanto segue: “Narratore, poeta, saggista, Sebastiano Addamo ha percorso un cammino coerente, sostenuto sempre da rigore stilistico e morale. È l’universo siciliano a nutrire l’immaginario dello scrittore, che già pienamente si esprime in questo romanzo di formazione, toccando corde tematiche di grande intensità emotiva: il viaggio di conoscenza reale e simbolico di cinque adolescenti. La Catania di Addamo non è quella “molle e pastosa” che da l’impressione di “camminare in mezzo al sole” di Vitaliano Brancati, né quella aperta sul mare, “luccicante sotto il sole a picco” di Ercole Patti, ma quella misera, squallida, del quartiere della prostituzione, teatro della guerra e del fascismo. Un quartiere che diviene il simbolo del degrado del nostro tempo.”
Vi invito a leggere questo post, e a discutere di questo libro e della figura Sebastiano Addamo, partendo dai contributi che troverete di seguito: la recensione di Laura Marullo (che mi darà una mano a coordinare e a moderare il post), quella – già citata – di Matteo Collura e la prefazione della curatrice del libro: Sarah Zappulla Muscarà.
Inoltre, come sempre, mi piacerebbe avviare una discussione parallela a quella sul libro. Mi colpisce molto il titolo di questo romanzo di Addamo (Il giudizio della sera). Un titolo che – come meglio evidenziato dai contributi a seguire – ha una forte valenza “nicciana”.
A me il giudizio della sera evoca l’immagine di uno specchio in cui ciascuno di noi – volente o nolente – è costretto a guardarsi… alla fine di un giorno della nostra vita, o di un periodo, o di un’esistenza intera.
Vi chiedo di affondare lo sguardo in quello specchio e vi domando (domanda difficilissima): qual è il giudizio della vostra sera?
(chi avrà il coraggio di rispondere?)
E poi (domanda più generica): il giudizio della sera è più un trampolino di lancio o un ostacolo per il giorno (o il periodo) che verrà?
Attendo i vostri contributi.
Massimo Maugeri

* * *

Sebastiano Addamo, “Il giudizio della sera”, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Milano, Bompiani, 2008, pp. 159.

recensione di Laura Marullo


Una deflagrante ansia di annientamento sottende il vitalistico moto di rivolta di cinque adolescenti lentinesi contro la tanatofila “era dei Padri” di una Catania asservita al fascismo e sconciata dal secondo conflitto mondiale nel romanzo di Sebastiano Addamo “Il giudizio della sera”, apparso da Garzanti nel 1974 ed ora pubblicato per i tipi di Bompiani a cura di Sarah Zappulla Muscarà. Un’opera di rilevante interesse nell’ambito della letteratura siciliana di fine secolo per avere indagato, con impietoso mordente demistificatorio, la crisi dei sistemi di valore di una società e di un’intera epoca, la delusione ideologica del Novecento che apre inaspettatamente alla speranza sia pure attraverso la freudiana esperienza, dolorosa ma necessaria, del “parricidio”. Vi riconduce il nicciano titolo che, per il tramite dell’ambigua immediatezza dell’aforisma, forma prediletta perché assiduamente praticata da Addamo, immette nella dimensione dell’attivismo superomistico che invita a superare l’inquietudine esistenziale provocata dalla guerra ed affermare l’esigenza di un radicale rinnovamento etico.
Romanzo di formazione in cui fa incursione l’autobiografia, “Il giudizio della sera” ripercorre il tortuoso itinerario di conoscenza dei giovani protagonisti, Gino, “alter ego” dello scrittore, Pippo, Carletto, Gianni e Morico, in un’avventura vitale alla scoperta del sesso che si contrappone allo scenario di “morte immanente” di cui è espressione il capillare luridume del quartiere a luci rosse di San Berillo, “regno delle prostitute”, dove aleggia “odor di cesso e di piscio di gatto […], odore di putrefazione e di liquami infetti”, funerea metafora del degrado materiale e morale di un “mondo borghese che ancora non sapeva di contemplare la propria morte”. Come sottolinea la curatrice nel lucido saggio introduttivo, “l’istintualità esuberante, il febbrile desiderio di sperimentazione fortemente collide con la sempre più stagnante, fatiscente, truce atmosfera cittadina soffocata dal giogo del fascismo e della guerra”. Immersa nel torpore e nell’indolenza, la “vecchia siciliana malinconia della morte e del disfacimento”, in quell’oblomovismo che afferma l’esistere astenendosi dall’agire, la Catania di Addamo, materica più che immaginifica, esibisce i sintomi di quella letale “malattia che era la guerra” già impressi sui volti di un’umanità derelitta, di esseri disperati preda di un’ancestrale inedia, in cui la reificazione e la mercificazione sanciscono l’alienazione e l’angoscia del nulla. Ne emerge un’antropologia negativa, ritratta con cruda deformazione espressionistica ma sempre con forte partecipazione emotiva, in cui orde fameliche di prostitute sciamano, lasciando echi lugubri e perverse, lungo le vie del sesso, via delle Finanze, via Coppola, via Di Prima, via di Sangiuliano, imbrattate di quel “vasto putrescente addobbo escrementizio” che è a un tempo simbolo e rifiuto della guerra: “Tutto divenne guerra. […] Sopravvenne l’odore di piscio. Inopinatamente, senza alcun preavviso, dilagò, s’impose, si impossessò della città. […] La guerra dilagò con tale odore”. È una ferale sociologia degli odori quella di cui si serve Addamo per mostrare le ferite suppuranti di una città ammorbata e ribadire il suo atto di accusa nei confronti delle distorsioni del potere e dell’abiezione della guerra. Ma la guerra, osserva acutamente Sarah Zappulla Muscarà, “non è quella di lunghe, inespugnabili trincee, di mirabolanti avanzate, di manovre vittoriose propagandate da mendaci bollettini del regime. […] È quella delle ‘carte da lutto’ affisse alle porte delle vedove ridotte alla prostituzione, dei volti sformati, disperati di creature forsennate”.
Accentuando una disposizione analitica favorita dal fertile humus di Lentini, patria di Gorgia, Sebastiano Addamo, “poeta-pensatore” come non a caso lo definì Leonardo Sciascia cui lo unì una comunione d’intenti letterari ed esistenziali, l’impegno civile, la tensione morale, il pessimismo ontologico, armato degli strumenti della riflessione filosofica, evidenti in un tessuto narrativo intramato da un fitto citazionismo puntualmente decriptato dalla curatrice che ne individua la fonte nell’opera di Kirkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Heidegger, Husserl, Sartre, fra gli altri, ingaggia una strenua lotta di liberazione da tutte le forme di ipocrisia sulle quali ha allignato la civiltà occidentale e la cultura meridionale. Lo documenta la dissacrazione di archetipi a falsi miti di cui è sconcertante metafora l’insano amplesso del giovane Gino con la degenere, laida figura materna della padrona della squallida pensione e infine lo scenario apocalittico del bombardamento aereo su Catania che traduce l’attesa palingenetica di un mondo migliore da quello consegnato dai Padri.
L’ironia provocatoria, il raziocinare pensoso, il moralismo risentito, innervano un impianto narrativo sdoppiato nei piani paralleli della memoria e della riflessione, destrutturando la tradizionale forma romanzesca mediante l’intervento di “chiose spiegative” che, come un manzoniano “cantuccio dell’autore”, danno voce al grido di protesta di quei “chierici traditi”, quegli intellettuali ai quali, ribadisce lo scrittore, bisogna “guardare per sapere quale è la posizione più utile”.
Sospinto da un sentimento di “laica trascendenza” che miri alla rivelazione dell’“oltre” a partire dall’oscurità in cui vive l’uomo moderno in seguito al crepuscolo degli idoli, come il nicciano viandante con la lanterna in mano, Sebastiano Addamo stana, lumeggiandola con i lampi della sua scrittura, la scotofilia di anonimi piccolo-borghesi, sempre animato dal raggiungimento di un superiore imperativo etico che dà corpo alla cifra stilistica di tutta l’opera sua.
Laura Marullo

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Addamo, la Sicilia come filosofia

di Matteo Collura

da il Corriere della Sera del 14-8-2008

È arduo pensare di riproporre ai lettori di oggi un romanzo uscito senza alcun clamore 35 anni fa. Arduo se non altro perché le novità editoriali sono tante da creare tempeste sui banconi dei librai. Eppure la qualità letteraria di alcuni vecchi libri è tale da giustificare l’ azzardo. È il caso del breve romanzo di Sebastiano Addamo dal bel titolo Il giudizio della sera, pubblicato da Garzanti nel 1974 e ora ristampato da Bompiani (pp. 159, 8,60), con una nota critica di Sarah Zappulla Muscarà, cui certamente si deve la riproposta. Addamo racconta di una comunità siciliana negli anni della Seconda guerra mondiale vista con gli occhi di alcuni adolescenti. Una sorta di romanzo di formazione, dove prevale l’ abilità narrativa, senza eccessivi ricami e tuttavia complessa, piena, fortemente evocativa e in grado di restituire il senso di un momento storico in quel particolare luogo, Catania. Niente a che vedere – sia ben chiaro – con Brancati o con Ercole Patti o con Vittorini (e facciamo questi nomi perché il luogo di cui Addamo racconta è una città della Sicilia orientale e perché nella scoperta del sesso, evento centrale nel romanzo, si potrebbe pensare al Garofano rosso); niente a che vedere altresì con i narratori siciliani oggi più presenti nell’ attenzione dei lettori e della critica. Con questo romanzo, Sebastiano Addamo riesce a dare – ecco giustificata appieno la scelta della casa editrice Bompiani – un ritratto primigenio dell’ isola e nello stesso tempo attuale: di una attualità chiarificatrice per chi vuol darsi la pena di capire la patria di Gorgia e di Pirandello, oltre che gustarla nel suo sconcertante esotismo. In questo romanzo troverete inserti o pause esplicative non dico indispensabili, ma certamente utili a meglio comprendere la contorta filosofia siciliana, mostrandola nelle sue semplici impalcature primitive. Un esempio: «Al mio paese, ma in molti paesi, e specie del Sud e della Sicilia, come c’ era un fascismo d’ accatto, miserabile, fatuo e minchionesco, così c’ era un’ opposizione pure d’ accatto, molto misteriosa, quasi inutile, risentita, e sia pure onesta. Ma come il marxismo fu la coscienza del proletariato e diventò la coscienza per la stessa borghesia – il neocapitalismo cosiddetto che cosa è, se non appropriazione e uso del marxismo ma nel senso contrario? -, così, all’ inverso, un sistema ridicolo e imbelle produce un’ opposizione se non ridicola certo imbelle». O ancora: «Nella prevalenza della natura c’ è esattamente il limite della storia. Forse per questo la Sicilia sta ancora attendendo la “sua” storia». Ecco, forse Corrado Alvaro può andar bene se proprio si vogliono trovare apparentamenti all’ autore del Giudizio della sera, o Sebastiano Aglianò, cui dobbiamo la sempre utile inchiesta rudemente intitolata Che cos’ è questa Sicilia?. Anche se nella descrizione delle plebi catanesi e delle prostitute sospinte nel baratro dell’ abiezione si coglie una luciferina cifra narrativa che potrebbe far pensare a Curzio Malaparte. Ma Addamo – e si vedrà meglio se altri suoi libri verranno riproposti – ha lasciato una sua personale impronta letteraria. Alcuni suoi titoli vanno ricordati: Un uomo fidato, 1978; I mandarini calvi, 1978; I chierici traditi, 1978; Le abitudini e l’ assenza, 1982, Palinsesti borghesi, 1987. Carlo Bo, esattamente trent’ anni fa, annotava: «Addamo è uno scrittore che aspetta ancora il suo momento, un momento che forse non verrà mai, data la natura del giuoco letterario predominante e dato anche il carattere estremamente riservato dello scrittore». Non è da credere in un successo postumo di questo narratore, che fu preside di liceo e fine intellettuale, ma in una sua giusta collocazione nell’ ambito dei valori letterari del secondo Novecento italiano, sì. E va dato atto alla Bompiani di tentarci, così come sta facendo con altri autori per fortuna tra noi, come Giuseppe Bonaviri di cui sono appena usciti i racconti fantastici raccolti sotto il titolo L’ infinito lunare (p. 288, 9,20).
Matteo Collura

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Come i neofiti dell’oscuro
di Sarah Zappulla Muscarà

Il giudizio della sera. Chi ripensa all’opera della sua giornata e della sua vita, quando è arrivato stanco alla fine, giunge di solito ad una malinconica considerazione: tuttavia la colpa di ciò non sta nel giorno e nella vita, bensì nella stanchezza. Immersi nell’attività, non abbiamo di solito il tempo per esprimere giudizi sulla vita e sull’esistenza, e neppure quando siamo nel pieno del godimento: ma se una volta arriviamo a far ciò, non diamo più ragione a colui che ha aspettato il settimo giorno e il riposo per trovare molto bello tutto ciò che esiste, – egli ha perduto il momento migliore”. Così Friedrich Nietzsche con la frantumazione, l’ambiguità, l’immediatezza dell’intuizione dell’aforisma che è, osserva Sebastiano Addamo, “come il lampo nella notte: la illumina vivissimamente, ma subito dopo rende il buio più denso e compatto”.
Dettato da acre riflessione critica sulla condizione della società italiana sconvolta dalla drammaticità degli eventi bellici del secondo conflitto mondiale, dall’esigenza di fornire una risposta all’angoscia nichilista e all’inquietudine esistenziale scaturite dal disfacimento etico, ideologico e religioso dell’Occidente, metafora della negazione della cultura dei padri, dell’alienazione e della reificazione, Il giudizio della sera (apparso per la prima volta nel 1974, per i tipi di Garzanti) è dolente allegoria della variegata fenomenologia umana contemporanea sospesa in perpetuo travaglio tra bene e male, luce e buio, slancio vitale e meditazione sul nulla. Una dialettica di antinomie tesa a superare il pessimismo, il male di vivere, la crisi del potere con i suoi frutti avvelenati, per affermare l’esigenza di un radicale rinnovamento, di un energico ribaltamento di valori, contrapporre con Albert Camus al mito di Sisifo l’uomo in rivolta, addomesticare l’“assurdo”, sancire la fine di un’epoca e il palesarsi di un’altra. Per non perdere “il momento migliore”. Fosse pure quello del “parricidio”.
Sorretto da salda cultura filosofica e letteraria, lucida, cartesiana razionalità, sfiduciata visione del mondo, Sebastiano Addamo, d’impervia e contratta malinconia, ripercorre, con occhi invasi di smagato, irredimibile risentimento, il viaggio di conoscenza reale e simbolico di cinque adolescenti siciliani, braccati dai demoni di una città e di un presente di illusori miraggi, che si traduce in una vera e propria discesa agli inferi.
Al Bildungsroman, romanzo di formazione e generazionale, in Il giudizio della sera si affianca, in termini manifesti, la prospettiva dell’autobiografia. Gino, alter ego dello scrittore, Pippo, Carletto, Gianni, e Morico, abbandonata Lentini per seguire gli studi liceali a Catania, avviano un tortuoso processo di crescita attraverso l’impatto con le due traumatiche esperienze della sessualità e della guerra.
Stagliata sullo sfondo delle tiepide atmosfere serotine di un “ridolente autunno”, immota nel pantano di un’atavica, secolare ignavia, sonnecchiante in “quel tempo friabile”, in quella vita “eterna”, ingannata dalle menzogne del fascismo, oltraggiata dalla crescente miseria, violata dalle bombe, Catania, dapprima “tenera e profonda”, poi “tetra e raggomitolata”, è teatro del rituale di morte e risurrezione di una cultura e di una società, scenario apocalittico di una “laica Pasqua” (Vincenzo Consolo), di un canto del cigno di quel “mondo borghese che ancora non sapeva di contemplare la propria morte”. Quel “mondo borghese” che s’accampa con insistenza opaco nella narrativa successiva dello scrittore, da Un uomo fidato a I mandarini calvi a Palinsesti borghesi.
L’istintualità esuberante, l’ebbrezza dionisiaca, il febbrile desiderio di sperimentazione dei giovani protagonisti fortemente collide con la sempre più stagnante, fatiscente, truce atmosfera cittadina soffocata dal giogo del fascismo e della guerra, segnata dal degrado materiale e morale. Ma è un mesto picarismo la brama di conoscenza filtrata dalla spasmodica ricerca del sesso. Alle scorribande notturne, alle ricognizioni fugaci, ai primi acerbi approcci si alternano malinconiche riflessioni, enigmatici dubbi, dilanianti interrogativi da cui erompe l’aspirazione al cambiamento che si fa rabbia, l’energia distruttrice che si fa ribellione, l’apertura alla speranza che si fa attesa palingenetica. La storia “è solo un’occasione, che si tratta di rendere feconda con una rivolta vigile”, ancora con Camus. È il cruento trapasso generazionale dall’“era dei Padri” all’“età del parricidio”. L’acquisizione della maturità – “imparare il mondo” – di Gino si consuma infatti tra le macerie di una umanità corrotta e corruttrice, sotto un bombardamento che si traduce in atto di accusa di ogni totalitarismo familiare, politico, etico, dando corpo all’angoscia di annientamento sottesa al tragico sentimento della “morte immanente”.
Scaturita dall’incandescente rovello filosofico sul disagio della civiltà conseguente alla crisi dei sistemi di valore, l’analitica esistenziale di Addamo, nel solco del pensiero di autori a lui cari, Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Heidegger, Husserl, Sartre, fra i principali, ma pure intrisa della linfa della consuetudine mediterranea alla riflessione, si dispiega in termini demistificanti. Una demistificazione di pregiudizievoli, vetusti retaggi culturali finalizzata alla conquista del senso autentico dell’individualità al di là di ogni pastoia. È la “lacerazione del velo di Maya” di cui parla Schopenhauer, la necessità di sollevare la spessa coltre di inibizioni, districare l’intricata tramatura di falsi miti che bloccano, mortificandone lo spirito dionisiaco, le pulsioni vitali e la tensione conoscitiva verso l’essenza più profonda dell’uomo.
Si dipana nei meandri della geografia dell’“oscuro” l’itinerario gnoseologico tracciato dall’autore secondo cui l’uomo è “origine e nulla” e la contemporaneità “il luogo per ogni anacronismo”. In un’epoca lacerata dal nicciano grido “Dio è morto”, compito dello scrittore non è “tranquillizzare”, bensì “inquietare”, scuotere dal torpore di metafisiche certezze, ma soprattutto, “contaminandosi con la laidezza quotidiana, fraternamente coinvolta nella rissa giornaliera degli uomini”, rivelare “l’oscurità che è nell’uomo, nei suoi gesti, nel suo tessuto emozionale” e restituire infine “la vigile inquietudine per una realtà altra”. In precario equilibrio sull’incerto discrimine fra narrazione realista e saggio filosofico, percorso da un sentimento di “laica trascendenza”, Il giudizio della sera è animato da quella spinta verso l’“oltre” che è a un tempo deiezione del principio heideggeriano dell’“essere” e dolorosa coscienza del nulla, dell’“essere-per-la-morte”.
Acuita da vigile percezione sensoriale, l’attività euristica dei giovani adolescenti approda alla sinistra consapevolezza del potere “nientificante” della morte. È soprattutto l’odorato ad incidere più profondamente nella sfera psichica penetrando fino alle radici della vita. “Il naso, che è veicolo o tramite” presiede infatti alla scoperta dell’orrore per la condizione stessa dell’esistere. Agente di un processo di trasferimento di senso che rinvia a precisi significati metaforici, l’odore acquista un’importanza primaria nel modello di scepsi delineato da Addamo, che scoperchia il maleodorante quartiere di San Berillo, dove aleggia “odor di cesso e di piscio di gatto”, “odore di putrefazione e di liquami infetti”. L’odore tristo, fetido, turpe, individua “l’evento”, eccita gli impulsi sessuali, palesa la guerra. Ne guizzano funebri lampi di “cedimento, corruzione, abominio, disordine e talvolta anche rivolta” (Oltre le figure). Il puzzo, che già con Dante “’l profondo abisso gitta”, è sublimazione di “terrori senza speranza”. Evoca “l’oscuro, l’infero”. Certifica il decesso. È l’“olor de la muerte” di Ernest Hemingway. Ha valenza teologica, testimoniando il “giudizio di Dio”, secondo Fedor Dostoevskij.
Un nauseabondo, funereo lezzo di decomposizione soffia nel quartiere di San Berillo, “regno delle prostitute”, “vecchie, giovani, scarmigliate e feroci”, “melma oscena, tenebrosa e virulenta di un torrente che però […] nasceva certo dall’Es singhiozzante e spasmodico, ma certo pure dal mondo stesso dove la merce governa più che esservi governata”. Labirinto che si accende nell’oscurità diramandosi in vicoli bui, sordidi, disfatti, via delle Finanze, via Coppola, via Maddem, via Di Prima, via Rapisarda, via di Sangiuliano, pullulanti di protettori, ruffiani, deboli, perdenti, deturpati da immedicabili ferite, ammorbati dalla miseria, dal fetore, dal disordine. “Prima forma di baratto” la prostituzione, secondo l’annotazione di Carl Marx, posta in epigrafe al romanzo. E Walter Benjamin: “L’ambiente oggettivo degli uomini assume sempre più scopertamente la fisionomia della merce”. Fedele all’istanza lukacsiana dell’arte come “rispecchiamento”, Addamo denuncia, con l’incedere serpeggiante della corruzione, la mercificazione, l’alienazione, le distorsioni della logica capitalistica che, come avverte Alain Robbe-Grillet, conducono alla progressiva reificazione ed eclisse della persona di fronte al predominio acquisito, per contro, dalle cose. E così se le “puttane” divengono “oggetti, merce, e mezzi di merce”, gli aranceti, immagine della conquista della verghiana “roba” da parte dei contadini proletari, ma pure “ruolo”, “status”, “filosofia e visione della vita”, perdono l’attributo di prodotti trasfigurandosi in “esseri vivi e volitivi”, in venerati “feticci”, l’odore del loro succo in odore di “sangue, odore di fatiche e di miseria”.
All’universo derelitto, emarginato delle prostitute l’autore guarda con scettico disincanto e implicazione empatica, sempre tuttavia con tormentato sentimento della tragicità della vita e della morte. Quello stesso sotteso alla descrizione, permeata di plastica sensibilità pittorica, della Visita di Henri de Toulouse-Lautrec nel racconto Lo zio Isidoro, confluito nella silloge Palinsesti borghesi: “Le solite puttane che il mostriciattolo sapeva raccogliere. Le puttane stavano con la veste rialzata in attesa della visita periodica: i volti guardai, ma soprattutto le pance delle due donne, dove niente dava adito alla pietà […] e nemmeno all’orrore, ma c’era la giovinezza e la vecchiaia, la ferocia di quel volto di ragazza che non guardava verso nessuna parte sicura soltanto di sé, la sua pancia tesa e tonda come un cocomero che a passarci l’unghia si spacca; e la fine di tutto segnata sull’altro volto, la fine di tutto segnata da quella pancia che sbandava da tutti i lati, la stanchezza d’una memoria che non ha più orizzonti”. Una bruciante pietas, una teologia negativa, in cui l’autore si carica del dramma dell’uomo orfano di Dio, promana dalla pagina di Addamo: “una pietà anche eccessiva vale sempre più della crudeltà assoluta”. Scrive Fedor Dostoevskij: “Uomo, uomo, non si può vivere del tutto senza pietà”. E Georges Rouault, a proposito della potente bellezza che trasuda dalla feroce crudezza del polittico dell’Altare di Isenheim: “Per rifare il terribile crocifisso di Matthias Grünewald, che con le sue mani contratte, i piedi torti, rattrappiti, fa piegare la croce, per rinnovare il dramma in una parola, bisognerebbe avere ancora in cuore una fede simile alla sua”.
Persuaso con Leonardo Sciascia che la letteratura è “luogo di svelamento della realtà anche morale”, in linea con il principio dell’“ethos della scrittura”, cifra di tutta l’opera sua, Sebastiano Addamo, dinnanzi alla decadenza della carne e all’abbrutimento morale, si fa veemente difensore del valore supremo della dignità: “Soltanto avanti negli anni avrei imparato che anche una puttana fa parte della razza umana, ed è questa a secernere se stessa e il proprio contrario, secerne bile e amore e sventura; il terrore e i sogni; la spada e l’ostensorio; il male e il bene; secerne anche dignità, e perciò essa – la dignità – si può trovare dappertutto, innocente sempre e sempre colpevole in ogni luogo”. Con tassativa asciuttezza, ne La metafora dietro a noi: “È il vuoto. L’assenza dell’assenza” la condizione del suo esistere. Anche Pierre-Joseph Proudhon addita nella prostituzione “il sacrificio della dignità umana all’egoismo, alla cupidigia, all’orgoglio, al piacere, a tutte le seduzioni inferiori”. Oggetto di divagazioni oniriche, di “voglie oscure e trepidanti”, di malsana sessualità, le prostitute assurgono ad emblema del “tragico dilemma esistenziale” del catanese: il sesso “dispotico e aspro”, freudiano principio del piacere in cui sembra consistere l’essenza della vita, perseguito con accanimento, voracità, avidità e al contempo velato di malinconie repentine, ansie funeste, “sensi di colpa”, “ancestrale memoria di madri e alvei”, come pure di deterrenti icone di santi. Con la secca perentorietà di quello stile aforistico prediletto da Addamo, Nietzsche annota: “Il cristianesimo, col suo disprezzo del mondo, ha fatto dell’ignoranza una virtù, l’innocenza cristiana, forse perché il più frequente risultato di questa innocenza è […] il senso della colpa”. “Il sesso e l’utilizzo dei suoi strumenti non sono che il compenso del vuoto dell’inedia, della solitudine”, chiosa lo scrittore. Desiderio di morte dietro cui si cela il perenne bisogno di un appagamento che la realtà non può offrire. Irrisione di falsi pudori, stanco filisteismo, l’insano, dissacratore amplesso del giovane Gino con la laida figura materna della padrona infrange archetipi e tabù nel furore iconoclasta che investe istituti familiari e religiosi.
L’atmosfera del romanzo alterna all’iniziale vago senso d’allegrezza, esplicitato attraverso la descrizione dei luoghi “asettici” di via Etnea, con le scintillanti cupole dei Minoriti, della Collegiata, del Duomo, da cui promana il “rumore pulsante della vita”, viale XX Settembre, avvolto da un “silenzio pulito ed elegante”, da una “calma lunga e sicura che si diradava all’intorno come zagara”, il presagio minaccioso, lugubre, ferale della “fine”. Sono, ancora una volta, empiristiche sensazioni, primordiali rielaborazioni dell’esperienza sensibile, di cui l’autore si serve per liberare la ragione da ogni passiva acquiescenza alla tradizione e ad ogni autorità, a veicolare i segni della diffusione, sempre più invasiva, nella vita quotidiana di quella letale “malattia che era la guerra”. Catania come Orano de La Peste di Camus è infettata da un morbo funesto di cui è sintomatico l’afrore del capillare luridume che assedia la città: “Tutto divenne guerra. […] Sopravvenne l’odore di piscio. Inopinatamente, senza alcun preavviso, dilagò, s’impose, si impossessò della città. […] La guerra dilagò con tale odore”. Con Aristotele: “Nihil in intellectu quod prius non fuit in sensu”. E in rapida escalation “dopo l’urina venne la merda”. Ma “l’analità” costituisce a un tempo simbolo e rifiuto della guerra: “lasciti immondi e impuri […] densi quasi di una ideologia […], incaricati – nella loro degradante inerzia di degradazione – d’una speranza che a nessuno era chiara”.
La guerra non è quella di lunghe, inespugnabili trincee, di mirabolanti avanzate, di manovre vittoriose propagandate dai mendaci bollettini del regime. È quella dei marciapiedi imbrattati di un “vasto putrescente addobbo escrementizio”, delle “carte da lutto” affisse alle porte delle vedove ridotte alla prostituzione, dei volti sformati, disperati di creature forsennate. È monito contro l’asservimento al potere, contro la falsificazione della realtà. Per Leone Tolstoj: “la storia sarebbe una gran bella cosa, se solo fosse vera”. Ha radici lontane nel tempo la guerra, è la lotta verghiana per la sopravvivenza, ricerca affannosa di cibo, pugnace desiderio di primitività. Il vero nemico da sconfiggere “la vecchia sorella fame”.
L’amaro disincanto dell’autore nei confronti della storia, “luogo dell’inesistente”, è ferma condanna dell’immobilismo, del trasformismo della politica siciliana. Il ritardo e la diversità s’intitola significativamente la lettera che Sebastiano Addamo indirizza a Pier Paolo Pasolini, dalle pagine della rivista “Nuovi Argomenti” (poi ne I chierici traditi), sottolineando tuttavia in tale binomio una rivendicazione di alterità, il segno peculiare del vivere in Sicilia. La “Sicilia afosa, calda, luminosa, ma dove la troppa luce – abbacina, stordisce, macera […] – diventa spesso densa e oscura nube di scirocco”, generando “una specie di alterazione ottica” secondo cui “le polemiche arrivano già quasi scontate, i clamori attutiti, quasi spenti, chiusi in una soffice nebbia, rarefatti, remoti e quasi incredibili”, dove perciò “il ritardo non sempre implica negatività, ma quasi sempre implica ‘diversità’”. L’isola, dove “l’unica cosa che veramente si muove è la terra quando distrugge il Belice o sono gli emigranti”, ribadisce con forza lo scrittore nel romanzo, “sta ancora attendendo la ‘sua’ storia”.
Con lento ma affilato bisturi, Addamo scava solitudini, piaghe, attossicamenti, intramando all’asprezza del giudizio morale i toni di una smorzata ironia. Alla scrittura il compito di ‘sublimare’ il bottino di sofferenze lasciato dalla guerra. Ma la scrittura, avverte, “può valere non tanto ad accreditare fede nella parola, bensì a tener conto della sua disperata impotenza” (Vittorini e la narrativa siciliana contemporanea). Di fronte alla sofferenza e alla morte la parola si assottiglia, si radicalizza, diviene lamento. O urlo d’inesprimibile dolore. Come quello di Edvard Munch. E infine silenzio: “Il silenzio comincia a essere l’unico modo di parlare, lo spazio del soggetto si restringe, la parola come espressione di reagire e modo di solidarietà, si spezza. Le ragioni dell’individuo collimano con l’afasia” (Oltre le figure).
Moderno aruspice dello scacco storico del nostro tempo, con prosa scettica, a tratti barocca, d’indignata razionalità nelle zone parenetiche, l’autore de Il giudizio della sera, innestandosi in una illustre tradizione siciliana di realismo, se ne discosta in virtù di un’aggressiva dilatazione espressionista che forza il dato reale caricandolo di significati che sfiorano il simbolo. Una galleria di squallidi ritratti di una società in putrefazione accoglie maschere raccapriccianti, dalle sconciature fisiognomiche, dai profili slabbrati, dalle devastazioni crudeli. E sono seni che divengono “otri spenti”, o “molli globi dove le vene azzurre si frastagliavano, quasi la carne si fosse assottigliata sotto quei vermi lunghi che la ingoiavano”, corpi trasfigurati in sacchi pieni di “ossa ammassate e lacerate” o in “carne malata”.
Di forte valenza evocativa la scala cromatica della tavolozza di Addamo. Come la pittura di Renato Guttuso in cui taluni giardini del pittore di Bagheria, intrisi di “serena mestizia”, “celano e svelano nel loro tripudio la vecchia siciliana malinconia della morte e del disfacimento”. L’armonia coloristica di stampo mediterraneo, con le “accese policromie del carretto”, con il “rosso e il giallo dell’arancia, il verde lucente delle sue foglie, oltre al turchino del cielo e del mare”, si spegne nella fredda monocromia dei toni del grigio che appannano la vista come il grigio del fumo derivante dalla deflagrazione delle bombe. Un fumo grigio era, non a caso, l’originario titolo del romanzo.
È la Sicilia a nutrire l’immaginario di Sebastiano Addamo. La sua Catania non è tuttavia quella “città sdraiata a terra, peggio: coricata a terra!”, la cui aria “molle e pastosa” dà l’impressione di “camminare in mezzo al miele”, di Vitaliano Brancati, né quella aperta sul mare, “luccicante sotto il sole a picco”, su cui volano “gabbiani roteanti”, “calma e accogliente” di Ercole Patti. Ma non appare, d’altra parte, la luce della Sicilia ai suoi scrittori soltanto in apparenza dispiegata solarità, costantemente insidiata com’è dalla tenebra? Essa stessa lutto? La luce e il lutto intitola Gesualdo Bufalino una raccolta di articoli che ci restituiscono le due facce contrastanti, ossimoriche dell’isola. Come i “neofiti dell’oscuro” fra bagliori di luce nelle tenebre della notte (Il giro della vite).

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(post pubblicato originariamente il 22 settembre 2009)

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A un anno dalla scomparsa, avvenuta il 25 maggio 2019, rimettiamo in primo piano questo spazio dedicato allo scrittore e traduttore Sergio Claudio Perroni. Il 28 maggio uscirà il libro postumo di Sergio Perroni: “L’infinito di amare. Due vite, una notte” (La nave di Teseo).

Ne parleremo su LetteratitudineNews con il contributo della poetessa Cettina Caliò Perroni, consorte di Sergio.


* * *

Nel giorno successivo alla scomparsa Sergio Claudio Perroni è stato ricordato, tra gli altri, da: Sandro Veronesi, Vittorio Sgarbi e Pietrangelo Buttafuoco

* * *

a cura di Massimo Maugeri

imageQuesta poesia si intitola “Un altro vuoto“. Sergio Claudio Perroni l’ha recitata in pubblico nel 2018, in occasione del Premio Cavallini che gli è stato tributato. La poesia è tratta dall’opera di Perroni “Entro a volte nel tuo sonno” (La nave di Teseo – prefazione di Sandro Veronesi).

La gente se ne va, smette di colpo, lascia in asso cuori,
persone appena cominciate, bambini da finire, tutte cose
che non potranno più esserlo, che fingeranno di esserlo,
che lo saranno solo per mancanza e mai per presenza,
perché lasciare altri a metà è quello che riesce meglio a
tutti, finiscono per farlo tutti, lasciare qualcuno solo,
lasciarlo ancora più solo, finché non toccherà anche a lui
andarsene, lasciare un altro solo, lasciare un altro vuoto,
d’altronde siamo qui per questo, siamo fatti per questo,
per andarcene sul più bello di qualcun altro, promesse
d’assenza sempre mantenute, cose che non smettono mai
di essere state
“.

Suona quasi come una sorta di “ultimo messaggio”, questa poesia. Fa male sentirla decantare. Fa male leggerla.

Fa male, come solo i capolavori riescono a far male.

“Le gente se ne va, smette di colpo, lascia in asso cuori”. È quel che ha fatto anche Sergio, lasciando un altro (enorme) vuoto. Mi piace però evidenziare la chiusura della poesia; perché non siamo solo “promesse d’assenza sempre mantenute”, ma anche “cose che non smettono mai di essere state”. E la consapevolezza di non smettere mai di essere stati, in qualche modo, ci “eterna”.

Il giorno in cui ho appreso della scomparsa di Sergio sono stato malissimo (ancora adesso sto male) convinto che sarebbe stato impossibile trovare le parole per esprimere questo “male” e questo “altro vuoto”.

Il giorno successivo, però, ho scritto sul mio profilo Facebook quanto segue…

imageIeri non trovavo le parole. Pensavo non ce ne fossero. Mi sbagliavo.
Mi sbagliavo perché la chiave di tutto è proprio nelle parole.
Per chi crede e per chi non crede.
Nel tuo libro forse più rappresentativo mi hai scritto questa dedica: “A Massimo, in barca insieme”.
È vero. Siamo tutti nella stessa barca.
Quella dell’esistenza.
A volte ci sorprende la tempesta. A volte abbiamo la sensazione di annegare.
A volte anneghiamo.
Ma poi, in un modo o nell’altro, torniamo a galla. Anche quando varchiamo la soglia, la nostra essenza torna a galla.
Nei ricordi di chi ci ha amato.
E nelle parole.
Le tue riecheggiano con forza dalle pagine dei tuoi libri.
Da quelle pagine continui a parlarci, a dirci.
A stare con noi.
E questo nessuno mai potrà togliertelo.
E togliercelo.
Che la terra ti sia lieve.
Che le tue parole possano continuare a librarsi.
Riposa in pace, caro Sergio.

Il libro a cui mi riferivo era, per l’appunto, il già citato “Entro a volte nel tuo sonno” (su cui riproporrò qui di seguito qualche considerazione): un capolavoro, contenitore di capolavori.

E sì, Sergio Claudio Perroni non smetterà mai di essere stato.

* * *

Sergio Claudio Perroni non smetterà mai di essere stato uno scrittore raffinato ed un eccellente traduttore. Nella biblioteca di ogni famiglia, giusto per dirne una, non dovrebbe mancare la sua magnifica traduzione del capolavoro assoluto di John Steinbeck: “Furore. Chi volesse gustarsi la storia di un incontro tratteggiata con delicatezza e maestria invidiabili (e non l’avesse ancora fatto), per dirne un’altra, troverebbe soddisfazione nella lettura del suo recente romanzo: “Il principio della carezza” (La nave di Teseo, 2016). Senza dimenticare, naturalmente, le pubblicazioni precedenti: Non muore nessuno (2007), Raccapriccio. Mostri e scelleratezze della stampa italiana (2007), Leonilde. Storia eccezionale di una donna normale (2010), Nel ventre (2013), Renuntio vobis (2015). E il recentissimo La bambina che somigliava alle cose scomparse (La nave di Teseo, 2019). Tutte letture consigliate.

Prima, però, vecchi e nuovi lettori dei testi di Sergio Claudio Perroni e delle opere da lui tradotte, farebbero bene a procurarsi quello che considero come il suo libro più rappresentativo: “Entro a volte nel tuo sonno” (La nave di Teseo), che si presenta con questo potente esergo: Ama impetuosamente / senti forsennatamente / non c’è altra vita.

Sergio Claudio PerroniC’è amore, dunque, in questo libro di Perroni. E sentore. E vita. E molto, molto altro.
C’è una fitta e ampia geografia del pensiero e dei sentimenti, racchiusa nelle circa 170 pagine di “Entro a volte nel tuo sonno” (titolo, peraltro, dotato di grande intensità espressiva e su cui ci si potrebbe soffermare per vagliarne a fondo il significato. Chi volesse saperne di più è invitato a leggere “Madrigale – Madre io stesso”, a pag. 36).
Come leggiamo sulla bandella del libro, “Entro a volte nel tuo sonno” ci fa esplorare, come in un ideale atlante dell’anima, tutte le variazioni dell’esistenza – tra paure e passioni, volontà e istinti, mancanze e rinascite – per ricomporre i frammenti dei nostri discorsi interiori quotidiani, e donarci le parole esatte per saperli riconoscere e, finalmente, dire“.
Non stiamo parlando di un romanzo, non stiamo parlando di un saggio. Non si tratta nemmeno di una silloge di poesie in senso stretto. In questo libro, Sergio Claudio Perroni sperimenta una forma letteraria “altra” (e alta) che unisce al largo respiro della prosa la profondità della poesia, ponendosi di fronte al lettore come una sorta di specchio su cui riflettere pensieri/parole/emozioni che attraversano la nostra condizione di esseri umani. Ogni pagina di questo libro offre un titolo incisivo e uno sviluppo letterario che si trasforma, a sua volta, in occasione di viaggio fuori e dentro di noi.

Nella  postfazione Sandro Veronesi ci rivela che la sua preferita è “Sapere la strada”. Ci dice che l’ha letta solo cinque o sei volte (“ma metti pure dieci, son sempre poche, perché andrebbe imparata a memoria, da tanto è bella, da tanto è vera“, scrive Veronesi).  E già ripensa – continua Veronesi – a tutto quello che ha letto in vita sua, a tutto quello che ha scritto, e a quel che ha fatto di buono e di cattivo. E già ripensa – sono ancora parole di Veronesi – a tutto quello cui si possa ripensare, di fatto e di non fatto, da lui e da chiunque altro, come al frutto di quell’attimo.
Riporto, a mia volta, il testo di “Sapere la strada” (che qui diventa, dunque, citazione di citazione) per dare ulteriore risalto alle considerazioni appena esposte:

“Ti muovi nel buio e non ti trovi, cammini piano tra le
pareti di casa ma ciò che ti aspettavi non lo tocchi, ciò
che sfiori è inatteso, arriva troppo presto, troppo tardi,
ha spigoli nuovi, profili inauditi, allora cerchi a tentoni
l’interruttore più vicino, accendi un attimo la luce per
orientarti, solo un attimo per non svegliarti del tutto, e
quell’attimo ti basta per individuarti, per riconoscere il
tragitto un istante prima che scompaia, per incidere nella
tua mente la planimetria del buio, e riprendi ad avanzare
con la certezza di ogni passo, di ogni gesto, tra forme di
cui ti fidi, convinto di sapere la strada nell’invisibile, ma
a farti andare avanti è solo il ricordo di quell’attimo, a
guidarti è solo la memoria della luce”.

Un titolo, dicevo. E insieme a ogni titolo, la premessa (e la promessa) di un viaggio. “Entro a volte nel tuo sonno” ci consente di percorrere all’incirca 160 di questi itinerari. Il lettore può intraprenderli in sequenza, o senza rispettare un ordine prestabilito.

Sono viaggi intensi che ti lavorano dentro, trasportandoti in una dimensione introspettiva dall’altissima densità letteraria. Sono esperienze di lettura che vanno consumate più volte per poterne beneficiare appieno; perché ogni lettura e ogni rilettura può offrire una percezione diversa, una nuova prospettiva di visione.

Mi incanto di fronte a un titolo: “Il profilo delle parole“. Mi ci soffermo, perché – alla fine – è di parole che stiamo parlando. È un titolo che mi incuriosisce, che m’inchioda. Mi domando: anche le parole, dunque, hanno un profilo? Leggo il testo e inizio il mio viaggio che qui, adesso, voglio condividire:

“Certi giorni cadono senza fare rumore come oggetti su
un panno, come pensieri che rimbalzano sull’acqua, certi
giorni sono uno specchio strabico, ti ci vedi ma non riesci
a riconoscerti, ti ricordi qualcuno ma non pensi di esserlo,
non potresti mai esserlo, hai già smesso di esserlo, certi
giorni la tua forma è un riflesso lontano, un’increspatura
di nebbia che vorrebbe farsi pioggia, muovi la mano ma il
gesto non ti segue, scrivi ma sono solo bucce d’inchiostro
intorno al bianco, parli ma senti solo il profilo delle tue
parole, allora ti agiti, ti sbracci, ti avventi, e la realtà non
reagisce, si lascia attraversare come se non avessi corpo,
si richiude intorno a te come se non avessi volume, certi
giorni sono come persone, ti sfiorano senza vederti, certi
giorni sono come gli anni, passano senza lasciarti esistere”.

Leggo e rileggo. E mi sembra di rivivere l’esperienza descritta da Sandro Veronesi. Non ho dubbi: “Il profilo delle parole” sta parlando di me, sta parlando a me. È uno specchio. È, appunto, il percorso di un viaggio.
Sono grato al profilo delle parole di Sergio Claudio Perroni, agli itinerari che segnano, alle emozioni che suscitano.
E mi ritorna alle orecchie la voce dell’esergo:
Ama impetuosamente / senti forsennatamente / non c’è altra vita.

* * *

Come già accennato, l’ultimo libro di Sergio Claudio Perroni si intitola: La bambina che somigliava alle cose scomparse.

Il giorno successivo alla scomparsa, Elisabetta Sgarbi ha lasciato queste parole – in ricordo di Sergio – sulle pagine del Corriere della Sera

___

Caro Sergio,
Eugenio e io dovremo rileggere la “Bambina che somigliava alle cose scomparse”. – E dovremo incontrarla questa bambina.-  Solo in questo modo potremo ritrovarti. – Così, credo, farà Cettina.- Elisabetta Sgarbi.

Milano, 25 maggio 2019
___

Si tratta di una fiaba non convenzionale che commuove e diverte adulti e bambini (arricchita dalle illustrazioni di Leila Marzocchi). La protagonista di questa storia (che è dedicata “A chi ha ancora in sé il sorriso del neonato“) si chiama Pulce, ha sette anni ed è dotata di caratteristiche molto particolari…

Tempo fa ho avuto modo di incontrare Sergio… e gli ho chiesto di raccontarci qualcosa su questa sua nuova opera letteraria: La bambina che somigliava alle cose scomparse. Lascio, dunque, la parola a lui…

* * *

«Quella di Pulce è la storia di una bambina alle prese con gli adulti; una favola che, come tutte le favole, si può leggere a vari livelli», ha detto Sergio Claudio Perroni, «ogni età ha modo di cogliervi una metafora e di ritrovarsi in un aspetto diverso. D’altronde, per riprendere una bella definizione di Carolina Pernigo, La bambina che somigliava alle cose scomparse è “una storia di formazione a doppio senso”; le vicende di Pulce, infatti, raccontano una duplice evoluzione: da un lato la sua nel corso della storia raccontata, e dall’altro, fuori campo, quella dei genitori, cui il timore di averla perduta fa scoprire l’aspetto positivo proprio di quelle sue caratteristiche che fin lì avevano ritenuto difetti.

È la storia di una bambina che per dissapori famigliari scappa di casa e, nel suo girovagare, si ritrova la strana capacità (strettamente collegata ai suddetti dissapori) di assomigliare a cose cruciali perdute dalle persone che incontra. La metamorfosi in sé è sempre un pretesto per raccontare un contesto – l’amore di due vecchietti, il rapporto difficile di una ragazza con il proprio aspetto, la vita problematica di un nonnino che si sente di peso in casa del figlio e della nuora… – ma nel caso della mia protagonista richiama anche il contesto in cui la maggior parte di noi affronta la vita intesa come rapporto tra la propria identità e il prossimo.

Quasi nessuno di noi, infatti, da adulto è davvero se stesso. Cerchiamo sempre di assomigliare a un io che non siamo, che pensiamo ci rappresenti meglio rispetto a come siamo davvero o a come sentiamo di essere davvero. È un processo di estraniazione che Pirandello avrebbe dovuto ambientare già nella culla, perché inizia sin dall’infanzia, quando i genitori inculcano nei figli l’insoddisfazione di sé invitandoli a seguire esempi circostanti. Ma Pulce è ancora una bambina soddisfatta di sé (ha imparato che “la fiducia in se stessi è un ingrediente fondamentale per averla anche nella vita”), e, stufa di essere sollecitata dalla mamma o dalla nonna ad assomigliare ad altro da ciò che è – ossia a prendere esempio dai fratellini, dai cuginetti o dalle compagne di scuola più disciplinate –, decide di assomigliare a chi vuole lei e per motivi che garbano a lei: sciogliere un dolore, raddrizzare un torto, rimediare in qualche modo a una perdita… E queste cose non le vive con lo spirito della benefattrice o della giustiziera, perché Pulce non è una super-eroina: è solo una bambina curiosa (“quegli occhi lunghi che volevano sempre andare più in là di ciò che vedevano”), e la curiosità, insieme all’infanzia, è uno dei super-poteri più trascinanti. Tant’è vero che Pulce non è consapevole delle metamorfosi con cui diventa ciò che occorre per rasserenare le figure che incontra: è come se dentro di sé desiderasse così intensamente “materializzare” l’oggetto del rimpianto del suo interlocutore, da prenderne la forma, quasi che all’improvviso incarnasse il proprio desiderio di essere d’aiuto a quel personaggio in difficoltà.

Di fatto, Pulce non rinuncia mai alla propria identità, anzi: il suo assomigliare di volta in volta a ciò di cui la vita ha privato quei personaggi è un’involontaria affermazione della sua libertà di essere Pulce senza doversi adeguare ai modelli che cercano di imporle i genitori. Tra l’altro, essendo ancora priva di sovrastrutture, sa bene che quei modelli non sono affatto positivi come sembrano ai “grandi” nella loro miopia (“i bambini sono un concentrato di occhi, mentre gli adulti ne hanno solo due che guardano quasi sempre nel posto sbagliato”). Ed è proprio questa consapevolezza a spingerla a ribellarsi, piccola anarchica che rifiuta l’idiozia conformista di un certo mondo adulto – ossia quello stesso arkè contro il quale si battono de sempre i bambini di ogni epoca. Vincendo solo nelle favole, purtroppo».

(Riproduzione riservata)

© Sergio Claudio Perroni

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La bambina che somigliava alle cose scomparse(La nave di Teseo)

L’icipit del libro e il primo disegno di Leila Marzocchi

Pulce


Pulce aveva sette anni, gli occhi color tatuaggio e un caratterino vivace. A scuola andava bene ma in casa era una peste, o almeno così dicevano i genitori, che la rimproveravano spesso per le sue monellerie. Ma Pulce non se la prendeva: ascoltava i rimproveri con aria contrita, annuiva paziente, scontava l’immancabile punizione… e ricominciava a fare di testa sua.
C’era però una cosa che non riusciva proprio a sopportare, ed era quando la mamma, il papà, o peggio ancora la nonna (che, diversamente dalle nonne delle favole, era come la mamma e il papà centrifugati), invece di lamentarsi per quello che faceva si lamentavano per quello che era. Anzi, che non era.
“Perché non sei come il fratellino, che è così buono?”, “Perché non somigli alla sorellina, che è così brava?”, “Perché non prendi esempio dai cuginetti, che sono tanto educati?”. Quando le dicevano così, per Pulce era come se si rinfacciassero a vicenda di avere ordinato una bambina sbagliata; e temeva che un giorno o l’altro decidessero di impacchettarla e rispedirla al mittente per farsi mandare quella giusta. Allora, preoccupatissima, andava a specchiarsi nell’anta dell’armadio grande e si chiedeva cos’avesse di sbagliato: se fosse colpa di quelle gambette che non riuscivano a stare mai ferme, o magari di quegli occhi lunghi che volevano sempre andare più in là di ciò che vedevano; e, soprattutto, si chiedeva perché mai dovesse imitare quel piscialletto del fratellino, o quella strega della sorellina, o quei due sgorbi dei cuginetti, che la nonna trovava tanto educati solo perché non vedeva le smorfie che le facevano dietro le spalle. Ma siccome era una bambina volenterosa, strizzava forte forte gli occhi e lì, davanti all’anta a specchio dell’armadio grande, cercava di diventare come la sorellina o come il fratellino (i cuginetti no, a diventare come loro non ci provava neppure).
Poi però le sembrava una pretesa troppo assurda farla smettere di essere Pulce per trasformarsi in quei marmocchi rumorosi e inconcludenti, in quella gentaglia che non sapeva neanche fare il giro del salotto saltando da un mobile all’altro o giocare a nascondino con la propria ombra. Allora chiudeva l’armadio e correva a fare apposta qualche monelleria, per riaffermare la propria immutata e incorreggibile natura di Pulce. E così, puntualmente, ricominciava la solita trafila di strilli, rimproveri e punizioni.
Finché un giorno, stufa di sentirsi dire che doveva essere come qualcun altro, Pulce decise di fare quello che sua madre minacciava sempre e non faceva mai. Decise cioè di “prendersi una vacanza”.

(Riproduzione riservata)

© 2019 La nave di Teseo editore, Milano
Disegni © 2019 Leila Marzocchi

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Nell’aprile del 2016 chiesi a Sergio Claudio Perroni di raccontarmi in maniera “artistica” (e “alternativa”) qualcosa del suo nuovo romanzo che era appena uscito: “Il principio della carezza” (La nave di Teseo). Sergio mi sorprese e accolse la mia proposta approfittandone per dare spazio a un personaggio letterario che, in un certo senso, era stato “fatto fuori” nel corso della scrittura del romanzo. Il personaggio in questione si chiama Puck. Eccolo qui di seguito, dalla penna di Sergio Claudio Perroni, a raccontarci “Il principio della carrezza”.

(Massimo Maugeri)

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SERGIO CLAUDIO PERRONI racconta il suo romanzo IL PRINCIPIO DELLA CAREZZA (La nave di Teseo)

Sergio Claudio Perroni

Opinione di un personaggio cancellato
(timido tentativo di risarcire un personaggio del Principio della carezza soppresso per motivi che non è il caso di spiegare)

di Sergio Claudio Perroni

Boh, io so solo che l’autore prima mi aveva messo e poi mi ha tolto. In realtà il libro aveva cominciato a scriverlo senza di me, ma dopo una decina di pagine si è reso conto che Ninfa, la protagonista, vivendo da sola ed essendo un’intellettuale tendente al malinconico, non poteva non avere un cane. Allora ha deciso di far entrare in scena me – Puck, bassotto fulvo. Per un po’ gli sono andato bene, perché sono un cane molto riservato e laconico (“Ma il suo cane non abbaia?” “No, mai. Anche lui ha capito che tanto non cambia niente.”). E così ha lasciato che ascoltassi il monologo che Ninfa sta scrivendo per il teatro e che ogni giorno ripete ad alta voce davanti allo specchio, e mi ha fatto anche assistere al suo incontro con Angelo, il lavavetri che, appollaiato sulla facciata, pulisce le finestre del palazzo.
Angelo, a furia di guardare dall’esterno la vita degli altri, ha sviluppato una visione dell’esistenza molto particolare, e si esprime con un misto di saggezza e candore che me l’ha reso subito simpatico, anche in virtù del fatto che ha un debole per i bassotti (“Mi piace quella loro aria da alti, sempre impettiti anche se gli striscia la pancia per terra. È gente che non si lascia condizionare da come l’ha fatta la natura.”). Pure la mia padrona è rimasta colpita dalla filosofia spiccia di Angelo, forse perché sente che dietro la sua apparenza solare si annida un dolore ben più concreto di quelli, tutti mentali, che vive lei. E, nonostante sia affetta da mille paranoie, l’ha addirittura invitato a entrare in casa per offrirgli un caffè. Ma lui, per motivi di servizio, non può mai lasciare la sua gondola da lavavetri, e così si danno appuntamento ogni giorno a quella finestra, lei dentro e lui fuori, per delle chiacchierate con cui credo che l’autore volesse confrontare due sensibilità, quella di chi si rifugia nel passato per evadere dal presente e quella di chi si proietta nel futuro per sfuggire al passato (lo so, è un’interpretazione troppo intellettualistica per un bassotto, ma non dimenticate che, anche se solo per una ventina di pagine, sono stato pur sempre il bassotto di una scrittrice).
In questi loro incontri – cui ho assistito solo in parte ma dei quali mi sono fatto un’idea sbirciando la scaletta dell’autore, e che culminano in uno strano picnic sul tetto del palazzo –, Ninfa e Angelo affrontano gli argomenti più disparati, come fa in genere la gente quando cerca di parlare di sé senza accorgersene. Parlano del sopra delle nuvole, della bellezza delle cose nascoste, di come sono nate le domande, delle cose che piacciono senza motivo, di isole che si credono continenti, di parole scritte sul vetro o lette sulle labbra. Parlano di gioie perdute, parlano di paura, di morte. Quindi anche di amore, presumo, ma non posso garantirvelo, perché sono stato cacciato dal testo prima che lo facessero. E secondo me il motivo di questa brutale espulsione non è affatto, come sostiene l’autore, la mia presunta “invadenza drammaturgica” (che non so cos’è ma suona come una brutta malattia). No, la verità è che Perroni mi ha cancellato dal suo libro perché si è reso conto che rischiavo di rubare la scena ai suoi protagonisti, visto che su quegli argomenti noi animali siamo molto più preparati di loro.
Sono un bassotto laconico, certo, ma a questo punto non posso farne a meno:
Grrr.

(Riproduzione riservata)

* * *

Il libro
Una donna, un uomo, una città deserta, una finestra che separa mondi e unisce solitudini. Con questi semplici elementi, Sergio Claudio Perroni costruisce una storia che racchiude fiaba e tragedia, come la vita. Lei, scrittrice disincantata, e lui, lavavetri sognatore, non potrebbero essere più diversi, ma hanno due cose in comune: un passato da rimarginare, un presente che intreccia amarezza e amore.
Il principio della carezza è la storia del loro incontro, dunque del loro destino.

“Quand’eri piccola, guardavi le persone come se fossero cose da raggiungere. Traguardi. Tua madre: un traguardo. Tua nonna: un traguardo. Persino la portinaia, con quel suo modo così sicuro di sfilare i saliscendi e spalancare le imposte sulla strada: un traguardo. Guardavi quelle facce ed era come se misurassi la distanza da saltare per poter diventare come loro. Per lasciarti alle spalle la piccola te che eri e diventare finalmente loro. Poi, via via che smettevi di essere piccola senza mai diventare grande, hai scoperto che il vero traguardo eri tu, non loro. E hai capito che la distanza da saltare era incolmabile.”


* * *

Questa pagina è suscettibile di aggiornamenti e integrazioni a testimonianza del fatto che, nonostante tutto, Sergio Claudio Perroni continua a essere qui con noi con le sue parole, i suoi pensieri e i suoi personaggi. E questa consapevolezza potrà forse renderci meno dolorosa la sua mancanza.

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Rimettiamo in primo piano questo “spazio” dedicato alla memoria di Giovanni Falcone, scomparso nella strage di Capaci il 23 maggio 1992.

* * *

Dove eravate quel 23 maggio del 1992? Come avete reagito alla notizia?

Cosa scrivereste, oggi, a Giovanni Falcone se potesse leggervi?

Chiedo a tutti di contribuire lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare Giovanni Falcone e il suo impegno per la lotta alla mafia.

Segnalo i due seguenti libri…

Cose di Cosa Nostra

Cose di Cosa Nostra
di Giovanni Falcone, Marcelle Padovani – BUR Biblioteca Univ. Rizzoli – 2012

La penna è quella della giornalista francese Marcelle Padovani, ma la voce narrante è quella di Giovanni Falcone. Le venti interviste diventano materiale per dettagliate narrazioni in prima persona che si articolano in sei capitoli, disposti come altrettanti cerchi concentrici attorno al cuore del problema-mafia: lo Stato. Un’analisi che parte dalla violenza, dai messaggi e messaggeri, per arrivare agli innumerevoli intrecci tra vita siciliana e mafia, all’organizzazione in quanto tale, al profitto – sua vera ragion d’essere – e, infine, alla sua essenza: il potere. Una testimonianza resa da Falcone dopo aver lasciato Palermo nel 1991.

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La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia

La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia
di Giovanni Falcone – BUR Biblioteca Univ. Rizzoli – 2010

Trattamento e attendibilità dei pentiti, carcere duro ai mafiosi, intercettazioni telefoniche, separazione delle carriere: le proposte di Giovanni Falcone nella lotta alla mafia hanno contribuito allo sviluppo democratico del nostro Paese. A distanza di anni il suo pensiero sempre lucido è rimasto assolutamente attuale, e la sua lungimiranza lo ha portato ad affrontare quelle questioni che sono oggi al centro del dibattito politico. Oltre al Maxiprocesso e al patrimonio di conoscenze che ci ha tramandato su Cosa Nostra, questa raccolta di scritti ne restituisce le opinioni, le intuizioni, i progetti e le strategie per gestire e migliorare l’organizzazione della giustizia italiana. Finalmente un’immagine a tutto tondo del grande magistrato, ulteriore testimonianza della straordinaria passione civile che l’ha sempre animato e della sua perspicacia nell’individuare debolezze e criticità del nostro Stato. Una nuova edizione, perché le sue parole e le sue conquiste non siano perdute, dimenticate o, peggio, piegate a interessi particolari. (Presentazione di Giuseppe D’Avanzo; prefazione di Maria Falcone)

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Grazie in anticipo a chi potrà contribuire a riempire questo spazio di contenuti.

Massimo Maugeri

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P.s. Questo post è stato pubblicato originariamente il 24 maggio del 2012.

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Mattarella: «Ragazzi, siate fieri dell’esempio di Falcone e Borsellino e ricordatelo sempre»

Messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai giovani delle scuole coinvolti nel progetto “La nave della legalità”, nel 28° anniversario della strage di Capaci

Il Presidente Sergio Mattarella«A ventotto anni dalla strage di Capaci invio un saluto caloroso a tutti i giovani delle scuole coinvolti nel progetto “La nave della legalità”, che ricorda Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E, con loro, Francesca Morvillo e gli agenti Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Rocco Dicillo, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Claudio Traina.

I due attentati di quel 1992 segnarono il punto più alto della sfida della mafia nei confronti dello Stato e colpirono magistrati di grande prestigio e professionalità che, con coraggio e con determinazione, le avevano inferto durissimi colpi, svelandone organizzazione, legami, attività illecite.

I mafiosi, nel progettare l’assassinio dei due magistrati, non avevano previsto un aspetto decisivo: quel che avrebbe provocato nella società. Nella loro mentalità criminale, non avevano previsto che l’insegnamento di Falcone e di Borsellino, il loro esempio, i valori da loro manifestati, sarebbero sopravvissuti, rafforzandosi, oltre la loro morte: diffondendosi, trasmettendo aspirazione di libertà dal crimine, radicandosi nella coscienza e nell’affetto delle tante persone oneste.

La mafia si è sempre nutrita di complicità e di paura, prosperando nell’ombra. Le figure di Falcone e Borsellino, come di tanti altri servitori dello Stato caduti nella lotta al crimine organizzato, hanno fatto crescere nella società il senso del dovere e dell’impegno per contrastare la mafia e per far luce sulle sue tenebre, infondendo coraggio, suscitando rigetto e indignazione, provocando volontà di giustizia e di legalità.

I giovani sono stati tra i primi a comprendere il senso del sacrificio di Falcone e di Borsellino, e ne sono divenuti i depositari, in qualche modo anche gli eredi.

Dal 1992, anno dopo anno, nuove generazioni di giovani si avvicinano a queste figure esemplari e si appassionano alla loro opera e alla dedizione alla giustizia che hanno manifestato.

Cari ragazzi, il significato della vostra partecipazione, in questa giornata, è il passaggio a voi del loro testimone.

Siate fieri del loro esempio e ricordatelo sempre».

Roma, 23/05/2020

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CIAO, LUIS http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/04/17/ciao-luis/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/04/17/ciao-luis/#comments Fri, 17 Apr 2020 13:33:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8464 https://66.media.tumblr.com/100ede8dc41f9910bc6ec672a8c6f6da/6c15907a108f1138-1a/s1280x1920/e928258ec924988812d9c0e2aa9bc2a99fc4c00e.jpg

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Il nostro omaggio al grande Luis Sepúlveda

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OMAGGIO A LEONARDO SCIASCIA (e al crollo del Muro di Berlino) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/11/18/muro-e-sciascia/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/11/18/muro-e-sciascia/#comments Mon, 18 Nov 2019 15:57:11 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1304 30 ANNI SENZA MURO, 30 ANNI SENZA SCIASCIA

muro-e-sciascia

Nel novembre del 2009 pubblicai il post che potete leggere di seguito, unendo due ricorrenze molto importanti.

La prima (come scrissi nel post in questione) riguardava un evento epocale, uno dei più importanti della storia recente: il crollo del Muro di Berlino, avvenuto il 9 novembre del 1989 (la ricorrenza del trentennale è stata celebrata qualche giorno fa).

La seconda segnava l’anniversario della morte di un grande della nostra letteratura, che si celebrerà tra un paio di giorni: Leonardo Sciascia (scomparso il 20 novembre del 1989).

Vi ripropongo il post in questione.

Massimo Maugeri

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sciascia-muro-berlino1Ci voglio provare. Voglio provare a unire due ricorrenze che si incrociano in questo mese di novembre dell’anno 2009.
La prima riguarda un evento epocale, uno dei più importanti della storia recente: il crollo del Muro di Berlino (avvenuto il 9 novembre di vent’anni fa).
La seconda segna il ventennale della morte di un grande della nostra letteratura: Leonardo Sciascia (scomparso il 20 novembre del 1989).
Due eventi collegati dal decorso di due decadi, ma non solo (in un modo o nell’altro, sia Sciascia, sia la caduta di quel muro, hanno contribuito all’abbattimento di barriere).

Sciascia morì undici giorni dopo la caduta del muro di Berlino. Mi chiedo se ebbe il tempo (e la possibilità) di ragionare con il dovuto grado di analisi sulla portata storica dell’evento. Un evento che riunificava una città (Berlino), una nazione (la Germania), un continente (l’Europa) segnati da una piaga profonda e dolorosa.
Un evento che avrebbe rivoluzionato gli equilibri geopolitici del pianeta.
Vi domando…
Che effetto vi fa, oggi, ripensare alla caduta del Muro di Berlino?
Cosa pensaste – e provaste – quel giorno?
Le speranze che ne conseguirono, fino a che punto si sono tramutate in realtà? Quali, tra queste speranze, sono rimaste disattese?


Di seguito, alcuni video… (vi invito a riportate citazioni e contributi di qualunque tipo su questo evento). Nel corso della discussione ne approfitterò anche per presentarvi un doppio sogno che lega Europa e Letteratura…

E poi vi invito a ricordare Leonardo Sciascia (riportate pure citazioni e contributi a lui dedicati).

Anche in questo caso vi (pro)pongo alcune domande…

Qual è, a vostro avviso, l’eredità principale che ha lasciato Sciascia?

Tra le sue opere, qual è quella che preferite?

E quella che – a prescindere dalle preferenze personali – considerate la più importante?

Quale libro di Sciascia proporreste a un/a ragazzo/a che non lo ha mai letto?

Tra i video disponibili ho scelto questo (sul “rapporto tra democrazia e assolutismi”;  in coda al post ne troverete un altro su “la Sicilia come metafora”).

Di seguito segnalerò alcune pubblicazioni, in tema con questo post… tra cui il volume “Sciascia e la cultura spagnola” (Edizioni La Cantinella) di Estela Gonzàlez de Sande – di seguito recensito da Laura Marullo – e l’audiolibro di “A ciascuno il suo” (Il Narratore audiolibri) di Leonardo Sciascia. Ma è possibile che questa sezione verrà aggiornata nel corso della settimana. Non è esclusa, inoltre, la partecipazione di ospiti speciali.
Massimo Maugeri

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«Leonardo Sciascia e la cultura spagnola» di Estela González De Sande
Hispanidad ovvero sicilitudine

di Laura Marullo

sciascia-e-letteratura-spagnola“Avevo la Spagna nel cuore” scriveva Leonardo Sciascia confessando, con inconsueto slancio emotivo, una bruciante passione per quel luogo dell’anima e “morada de la vida”, in cui “hispanidad” fa rima con “sicilitudine”, considerato non a caso rifrazione speculare della Sicilia, poiché “se la Spagna è, come qualcuno ha detto, più che una nazione un modo di essere, è un modo di essere anche la Sicilia; e il più vicino che si possa immaginare al modo di essere spagnolo”. L’amore di Sciascia per la Spagna è oggetto dell’interessante volume di Estela González De Sande, “Leonardo Sciascia e la cultura spagnola”, edito da la Cantinella con introduzione di Sarah Zappulla Muscarà e fotografie di Giuseppe Leone (pp. 240), che registra puntualmente gli innumerevoli segni di un sentimento che si colora di svariate sfumature, trascorrendo dalla “fraternità” intellettuale alla passione civile alla denuncia del dolore umano, cementato da esperienze storiche e letterarie di cui è traccia nell’affollato citazionismo di un autore che ha fatto del “riscrivere” la sua cifra poetica.
Seppure meno nota rispetto alla discendenza francese, l’influenza della cultura spagnola è parimenti fondamentale nella formazione umana e intellettuale di Sciascia, offrendogli più efficaci strumenti per quella ricerca della “verità” costantemente al centro del suo impegno di uomo e di scrittore. Lo documenta l’analisi comparativa di Estela González De Sande, Docente di Lingua e Letteratura Italiane nell’Università di Oviedo (Spagna) che a Sciascia ha dedicato importanti contributi, avviando una ricognizione capillare dell’opera del racalmutese di cui rubrica il dialogo ininterrotto con una cultura consustanziale a quella siciliana che risuona degli echi di antiche affinità elettive.
Suddiviso in due parti, la prima dedicata alla conoscenza della storia, della lingua, delle tradizioni, dell’arte spagnole e la seconda rivolta all’individuazione della pervasiva presenza della letteratura spagnola nella produzione dello scrittore siciliano, l’itinerario critico della studiosa getta fasci di luce su questioni cruciali dell’esegesi sciasciana, dimostrando come la specola ispanica nutra istanze letterarie, ideologiche, morali che l’autore sottopone a verifica proprio nell’approcciarsi alla Spagna, modello gnoseologico, mitico, interpretativo, cui rivolgerà sempre un culto devoto.
È infatti dall’Inquisizione come dalla guerra di Spagna che scaturisce il suo atto d’accusa nei confronti dell’impostura della storia, mentre la lezione dei grandi classici ne sostanzia il disincantato raziocinare: Cervantes col suo “libro unico” che dà “la gioia delle illusioni”, Ortega y Gasset da cui apprende la “capacità di spiegare tutto, di chiarire”, Castro riconosciuto “tra i pochi e i buoni maestri che ho avuto”, Azaña di cui ammira “ragione e diritto nella lotta”. E ancora, fra i numerosi altri, Unamuno e il suo razionalismo angosciato, la “splendida pleiade della generazione del ‘27″, e infine Borges, “lo scrittore più significativo del nostro tempo, delle nostre vertigini”, e l’amico Montalbán.
Uno “straordinario viaggio di conoscenza”, per usare la felice immagine di Sarah Zappulla Muscarà che sottolinea come la scoperta della Spagna, “corteggiata con lucida passione dall’innamorato Sciascia”, faccia prevalere, “come un primo amore intenso e disperato”, una componente emozionale tenacemente controllata dalla vigile attività censoria della controparte illumista.
Entelechia di una appassionata storia d’amore, le splendide immagini di Giuseppe Leone, l’amico fotografo che ha accompagnato Sciascia nel suo viaggio in terra iberica del 1984, restituiscono, nella duplice identità documentaria e narrativa, la singolare esperienza viatoria del partire per restare, per meglio conoscere, attraverso la Spagna, la Sicilia.
Laura Marullo
Da LA SICILIA del 7 giugno 2009

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Leonardo Sciascia – A ciascuno il suo
Audiolibro
Voce narrante: Massimo Malucelli
Durata: 4h 19’
Prezzo CDMP3: 19.99 €

aciascunoilsuo_cdowIn occasione del ventesimo anniversario della morte del grande scrittore e intellettuale siciliano, il Narratore propone in audiolibro (lettura di Massimo Malucelli) uno dei romanzi più conosciuti e apprezzati di Leonardo Sciascia. Pubblicato nel 1966, A ciascuno il suo traccia, attraverso l’indagine di un tranquillo uomo qualunque su un duplice omicidio apparentemente inspiegabile, il profilo di una mafia che ha ormai intriso l’intero sistema di potere, non soltanto la politica e l’economia siciliane, ma la stessa amministrazione centrale, i partiti politici e la burocrazia romana. Sullo sfondo, l’analisi minuziosa dell’animo siciliano, la contiguità di vita e morte, il mito carnale della donna. (Per dettagli e info, cliccare qui e qui).

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Il muro di Berlino. 13 agosto 1961-9 novembre 1989 (Mondadori)
di Taylor Frederick

Nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, nell’inquietante scenario di un mondo sull’orlo della distruzione atomica, Berlino venne tagliata in due da un reticolo di filo spinato che separò, talvolta per sempre, genitori e figli, fratelli, amici e amanti. L’operazione, tanto inattesa quanto fulminea, riuscì grazie alla perfetta efficienza con cui fu compiuta. Lo scopo dichiarato di Walter Ulbricht, il leader tedesco orientale che l’aveva ordinata, era porre fine al continuo esodo di popolazione verso la parte occidentale della città (ancora controllata dalle forze armate di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia), unico ponte per raggiungere la ricca Germania Ovest. La mossa si rivelò vincente: nonostante l’angosciato sgomento di 4 milioni di berlinesi e lo sdegno dell’opinione pubblica mondiale, divenne subito chiaro che ogni reazione era di fatto impossibile, e comunque troppo rischiosa. Intrecciando dati ufficiali, fonti d’archivio e testimonianze personali, Frederick Taylor racconta tre decenni della storia di una capitale e di una grande nazione europea che, in un lungo e tormentatissimo dopoguerra, improvvisamente si trovarono spaccate a metà. Oltre che sulle trame politiche, l’interesse di Taylor si concentra sulla vita quotidiana, sulle paure e sulle speranze dei berlinesi prigionieri che, con sempre più ingegnosi e disperati tentativi di fuga, favorirono paradossalmente la trasformazione dell’originario reticolato nell’alto muro che li avrebbe privati a lungo della libertà.

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AGGIORNAMENTO DEL 23/11/2009

Aggiorno il post per presentare altri due ospiti (nella parte del dibattito dedicato a Sciascia): Marcello Benfante e Daniela Privitera, autori di due libri dedicati a Leonardo Sciascia (seguono schede). Avremo modi di conoscere i due autori nell’ambito della discussione già sviluppatasi in questo post.

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LEONARDO SCIASCIA di Marcello Benfante
Gaffi editore, Prezzo: 13.50 Euro, pagg. 182, 2009

Leonardo Sciascia. Appunti su uno scrittore eretico - Marcello Benfante - copertinaA vent’anni dalla morte (Palermo 20/11/1989), una riflessione appassionata e puntuale sul valore civile della scrittura e sull’enorme apporto di Leonardo Sciascia all’Italia del Secolo Breve. Un bilancio sul segno lasciato da questa scomparsa in venti anni di storia contemporanea passata solo apparentemente senza lasciare traccia. Chi è oggi “l’autore”? Che rapporto ha con la politica, la società, i suoi stessi lettori? Ha ragione chi pensa a Roberto Saviano come all’erede dello scrittore di Racalmuto?
Il dibattito culturale e quello politico, la cronaca e la letteratura, le querelles sulla mafia e la giustizia, confermano continuamente l’acutezza e la lungimiranza del suo sguardo critico e del suo pessimismo analitico, non cessando di causare scandalo e aspri contraddittori.

A metà strada tra critica militante e analisi letteraria, questo profilo esamina le diverse sfaccettature della sua poliedrica opera e della sua scomoda personalità di intellettuale disorganico: la produzione narrativa e quella saggistica, gli interventi giornalistici e le controverse polemiche, la sua tormentata riflessione sui temi del diritto e quella più olimpica sulla tradizione culturale. Ne emerge un appassionante ritratto icastico, chiaroscuro, di uno scrittore complesso e sofferto, diviso tra pessimismo e impegno civile, moralismo e disincanto, distacco ironico parodico e coinvolgimento nella tragedia umana. (Chiara Di Domenico)

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Il giallo siciliano da Sciascia a Camilleri. Tra letteratura e multimedialità, di Daniela Privitera (Kronomedia, 2009,euro 10, pagg. 134)

Il saggio di Daniela Privitera è una breve escursione nei territori del giallo.
Dopo una sintetica ed agile presentazione della storia del poliziesco classico, la diegesi narrativa si concentra sulla peculiarità del giallo siciliano che, secondo l’autrice, si rivela come un genere letterario ad alto livello di entropia, in quanto scardina gli automatismi strutturali del romanzo a circuito chiuso, tipici del poliziesco. Partendo da Sciascia (maestro esemplare del giallo atipico) e passando per Bufalino, Silvana La Spina, Piazzese, Enna e Camilleri, l’autrice ritrova un filo rosso che lega i giallisti siciliani alla sofferta indagine della problematicità del reale. Il noir siculo insomma, secondo l’autrice, diventa per i Siciliani, un “pre-testo” per disquisire e interrogarsi sui perchè della giustizia (umana o soprannaturale). Il giallo pertanto, per i nostri scrittori, diventa il colore di un popolo che tra le pieghe di una scrittura barocca, ironica, raziocinante e terragna grida la sua piccola ed unica verità: l’accettazione del mistero e la rinuncia all’eterno.
La terza parte del saggio propone una rapida visione dei risvolti del poliziesco nelle realizzazioni teatrali e nelle riduzioni televisive e cinematografiche”.

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OMAGGIO A STEFANO D’ARRIGO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/10/28/omaggio-a-stefano-darrigo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/10/28/omaggio-a-stefano-darrigo/#comments Mon, 28 Oct 2019 14:00:03 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7500 Libro Letteratitudine. Vol. 3 Massimo MaugeriIn occasione della ricorrenza del centenario della nascita del grande Stefano D’Arrigo (Alì Terme, 15 ottobre 1919 – Roma, 2 maggio 1992), autore – tra l’altro – di “Horcynus Orca” (uno dei capolavori mondiali della letteratura del Novecento), riproponiamo la lettera a lui indirizzata dalla scrittrice Tea Ranno, estratta dalla sezione “Lettere a personaggi letterari e autori scomparsi” del volume “Letteratitudine 3: letture, scritture e metanarrazioni” (LiberAria, 2017) che ho avuto il piacere di curare per festeggiare il decennale di vita di questo blog (la suddetta lettera era già stata proposta in occasione del venticinquennale della morte di D’Arrigo).

(Massimo Maugeri)

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LETTERA A STEFANO D’ARRIGO

La vita cammina, il tempo è il suo binario

di Tea Ranno

Non mi permetto il tu, perché a un maestro non si usa l’eccessiva confidenza, e il lei mi pare troppo distante: spesso nei pensieri mi siete, Maestro, nel ragionamento che piglia forma di scrittura e tende a musicare la frase, a darle voce di sirena che incanta o avvelena, ma mai scorre per il rigo indifferente; e dunque è al voi che ricorro, antico retaggio della mia terra dove il rispetto passa intanto per la bocca.
Vi scrivo per dirvi che le parole uscite dalla vostra penna, nei venti e passa anni in cui ’Ndrja Cambrìa attorcigliò il cammino del ritorno, mi sono diventate armamentario di espressione, vocabolario che ha aggiunto colore e intensità alle cose che andavo pensando, a quelle che andavo dicendo e storpiando per piegarle al volere dell’immaginazione. Corona di sogno e guinzaglio, le parole vostre, un fraseggio che deride le mezze menzogne, perché la menzogna, mi avete insegnato, è tale se resta signora della pagina e non serva d’un qualche ragionamento astratto. Mentire e ragionare in contrabbando di evidenza, questo ho imparato; e mistificare, togliere e mettere per alchimie che potenziano l’illusione.
https://img.ibs.it/images/9788817872287_0_0_320_80.jpgVi scrivo per dirvi che ogni volta che traverso il Duemari è a voi che penso, a quel terribilio di sventure che metteste in atto facendo di quel mare teatro di scannatine e affronti, offese, mancanze; per dirvi che trapassando in Continente dall’Isola, e viceversa, continuo ad aspettare le fere, anche una, una soltanto, che mi dia conto di quanto il mare sia rimasto lo stesso, col suo Scilla che abbaia e Cariddi che ingoia e Morgana che distorce la visione. Vi scrivo per dirvi che ogni ferribò che prendo mi pare quello che ha nella pancia le femminote che commerciavano in carne e sale: la carne loro, il sale che riuscivano a fottere in mezzo alla penuria guerresca. Vi scrivo, Maestro, per dirvi che le cose che mi avete insegnato a guardare hanno sempre un’anima scognita che mi spinge a toccare, scavare, mordere per capirne coi denti la consistenza, saperne il sapore e rendermi consapevole di ciò che altrimenti scivolerebbe come cece su pelle d’uovo. Vi dico che a me il discorrere di necessità commerciali – una storia erotica, un giallo, un conversario in salotto ottocentesco – interessa quanto quel cece che scivola su pelle d’uovo; che per me ci vuole lentezza e perseveranza sopra argomenti che trattano l’uomo, la sua capacità di cambiare testa, di trasformare in grandezza la sua pochezza. L’imparai, questo, dalla vostra Nasodicane, dal suo falcidiare fiati e ficcare nel nero sacco senza fondo quanti la sua mano scippa o carezza. Vi scrivo per dirvi che gli occhi vostri mi furono di supporto quando pretesi di guardare la vita e il mondo per raccontarli, ché vita e mondo, mi dicevo, hanno la stessa chiave d’accesso, lo stesso codice di sblocco. Se poi una è più personale e l’altro abbraccia l’estraneo è cosa che non nuoce, piuttosto induce a meglio capire, a intervenire con una zeppa, un cuneo là dove il senso zoppica. E non ci sono certezze. L’unica, forse, è quella Ciccina Circè che intona canti d’ammaliamento e offre la sua barca per un trasbordo vero dove il corpo si fa litania di desideri e il campanello a richiamo di fere è potenza di straniamento che tiene lontani gli affogati e fa meno atroce il passaggio.
Il tempo ci rimane addosso, Maestro. Non possiamo fare altro che cantarlo, anche se non ne siamo degni, se non ne possediamo il metro. La vita cammina, il tempo è il suo binario.
Vi saluto con devozione. Vi auguro mari e fere in quantità, parole tutte quelle che volete, e aria, e respiro. E sigarette, pure. E amici. E millunanotte di domani in domani.

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Tea Ranno è nata a Melilli, in provincia di Siracusa, nel 1963. Dal 1995 vive a Roma. È laureata in giurisprudenza e si occupa di diritto e letteratura. Ha pubblicato per e/o i romanzi Cenere (2006, finalista ai premi Calvino e Berto e vincitore del premio Chianti) e In una lingua che non so più dire (2007). Nel 2012 per Mondadori è uscita La sposa vermiglia, vincitore del premio Rea, e nel 2014, sempre per Mondadori, Viola Fòscari. Nel 2018 con Frassinelli ha pubblicato Sentimi. Per Curcio, ha scritto tre libri per bambini, l’ultimo è Le ore della contentezza. Il più recente romanzo di Tea Ranno è “L’amurusanza” (Mondadori, 2019)

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IN MEMORIA DI TONI MORRISON http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/08/06/in-memoria-di-toni-morrison/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/08/06/in-memoria-di-toni-morrison/#comments Tue, 06 Aug 2019 17:56:05 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8235 È scomparsa all’età di 88 anni la scrittrice afroamericana Toni Morrison. Nel 1993 le è stato conferito il Premio Nobel per la Letteratura. Per il suo romanzo “Beloved (Amatissima)” vinse il premio Pulitzer.

Dedichiamo a Toni Morrison questo spazio di Letteratitudine pubblicando: un video di nostra produzione, approfondimenti e una nota biografica

Approfondimenti su: la Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano, Il Sole 24 Ore, Il Messaggero, Il Secolo XIX, Rai News

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Nota biografica su Toni Morrison

Toni Morrison, pseudonimo di Chloe Anthony Wofford (Lorain, 18 febbraio 1931 – New York, 5 agosto 2019), è stata una scrittrice statunitense.

Il tema fondamentale dei romanzi della Morrison è la perdita d’identità dei neri in quei momenti della storia americana in cui essi hanno subito la maggiore minaccia.

Nata a Lorain, Ohio da una famiglia nera della classe operaia originaria dell’Alabama seconda di quattro fratelli, dimostra subito grande interesse per il mondo letterario. Compie gli studi umanistici alla Howard University, dove si laurea nel 1953 in Letteratura inglese, e alla Cornell University, ai quali farà seguito una carriera accademica all’università del sud del Texas, presso la Howard University, dove avrà tra i suoi studenti Stokely Carmichael, e nel 1989 all’Università di Princeton. Nel 1958 sposa un architetto giamaicano, Harold Morrison, dal quale ha due figli e dal quale in seguito divorzia.

Nel 1965 inizia a lavorare per la casa editrice Random House di New York come editor curando le opere di diversi autori afroamericani come Gayl Jones, Toni Cade Bambara, Angela Davis e Muhammad Alì. Lavora nel frattempo come redattrice presso una prestigiosa rivista letteraria, collabora come critica letteraria e tiene numerose conferenze pubbliche che trattano della cultura afroamericana ottenendo presto la specializzazione in letteratura afroamericana. Nel 1970 compie il suo debutto come romanziera con L’occhio più azzurro (The Bluest Eye), dove viene narrata la storia di una bambina nera che desidera ardentemente assomigliare ai bianchi e vorrebbe avere gli occhi azzurri come Shirley Temple, ottenendo subito largo consenso di pubblico e di critica per il suo stile di spessore epico, per la poetica e per le descrizioni ricche ed espressive dell’America nera.

Nel 1973 pubblica il suo secondo romanzo, Sula dove viene presentato il ritratto di due donne dal carattere opposto, una ribelle e una conformista, e viene narrato il loro percorso di crescita nel periodo dell’ondata di migrazione degli anni quaranta, periodo che incise profondamente nei cambiamenti delle comunità dei neri. L’anno seguente, 1974, cura e pubblica l’antologia The Black Book raccogliendo numerosi documenti a testimonianza di 300 anni di storia afroamericana. Nel 1976 ottiene l’incarico di insegnamento presso l’Università di Yale, dove rimane per tre anni, e nel 1977 pubblica il Canto di Salomone (Song of Solomon) dove racconta le vicende di un ragazzo nero che durante gli anni sessanta parte da Detroit, dove vigevano i diritti civili, per raggiungere il paese mitico del sud da cui proviene la sua famiglia e ritrovare il suo passato razziale.

Il “Book-of-the-Month-Club” sceglie nel frattempo il libro da inserire tra il Libro del Mese e sarà questa la seconda volta, dopo la scelta del 1940 di Paura (Native Son) di Richard Wright, che un romanzo di autore afroamericano viene prescelto. Con Song of Solomon la scrittrice ottiene il National Book Critics Circle Award. Nel 1981 pubblica L’isola delle illusioni (Tar Baby) dove vengono messi in evidenza tutti i pericoli dell’alienazione della cultura nera negli anni ottanta. Diviene nel frattempo membro effettivo dell’Accademia americana delle arti e delle lettere ricevendo numerosi riconoscimenti letterari.

Lasciata nel 1984 la Random House, inizia a lavorare presso la State University of New York di Albany e in quell’anno insegna al “Bard College” e va in scena Dreaming Emmett con la regia di Gilbert Moses. Nel 1987 pubblica Amatissima (Beloved), la storia di una schiava fuggiasca che preferisce uccidere la figlia piuttosto che farle vivere le tremende condizioni della schiavitù. Con Amatissima la scrittrice ottiene nel 1988 il premio Pulitzer. Insegna intanto all’Università di Berkeley. Nel 1989 inizia ad insegnare Studi afroamericani e Scrittura creativa all’Università di Princeton e nel 1990 ottiene il premio internazionale Chianti Ruffino Antico Fattore. Nel 1992 pubblica Jazz e Playing in the Dark (“Giochi al buio”), un volume che raccoglie tutti i testi inerenti alle conferenze tenute presso l’Università Harvard ed esce alle stampe un’antologia di saggi riguardanti il caso Clarence Thomas-Anita Hill (re-Racing Justice, En-Gendering Power). Nel 1993 riceve il premio Nobel per la Letteratura.

Tra i suoi scritti si ricorda ancora Paradiso (1998), romanzo discusso e di non facile lettura, che riproduce oltre due secoli di storia afro-americana e Amore del 2004, che narra la storia di due giovani amiche; romanzo corale che fa uso continuo dei flashback, ed è, oltre che una profonda indagine sulla natura dell’animo umano, un’analisi sociale della comunità afroamericana. Insieme ad Alice Walker, autrice tra gli altri de Il colore viola, la Morrison è considerata tra i massimi rappresentanti della narrativa afroamericana degli ultimi cinquant’anni. Vicina al Partito Democratico, la scrittrice si schiera con Barack Obama in vista delle elezioni presidenziali statunitensi del 2008. Nel 2015 esce in Italia il romanzo Prima i bambini.

Tutti i suoi romanzi sono pubblicati in Italia da Frassinelli Editore.

Si spegne a New York, dopo una breve malattia, il 5 agosto 2019.

(Fonte: Wikipedia Italia e varie)

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OMAGGIO A ANDREA CAMILLERI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/07/17/omaggio-a-andrea-camilleri/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/07/17/omaggio-a-andrea-camilleri/#comments Wed, 17 Jul 2019 08:24:53 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8219

Oggi, 17 luglio 2019, si è spento a Roma il grande Andrea Camilleri (nato a Porto Empedocle il 6 settembre 1925). Un mese fa, la mattina del 17 giugno 2019, era stato ricoverato all’ospedale Santo Spirito di Roma per un arresto cardiorespiratorio. Giunto in condizioni critiche, era stato ricoverato, in prognosi riservata, nel reparto di rianimazione. Si è spento oggi senza mai aver ripreso conoscenza.
Lo ricordiamo proponendo questo video (datato 6 febbraio 2014) pubblicato in occasione del suo 90° compleanno dove il noto scrittore siciliano riceve (nell’ambito del Festival del Noir BCNegra di Barcellona) il prestigioso Premio Pepe Carvalho 2014 in ricordo del personaggio creato dallo scomparso scrittore catalano Manuel Vázquez Montalbán.
Nel video, Camilleri, racconta il suo rapporto con Manuel Vázquez Montalbán, accenna alla nascita del suo personaggio Montalbano e parla della sua opera “Il birraio di Preston”.
A seguire, vari approfondimenti e una scheda biografica.

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Approfondimenti su: la Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Sole 24Ore, La Stampa, Il Giornale, Il Messaggero, RaiNews, Ansa, Il Fatto Quotidiano

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BIOGRAFIA DI ANDREA CAMILLERI

Risultati immagini per andrea camilleriAndrea Camilleri nasce il 6 settembre del 1925 a Porto Empedocle (AG), figlio unico di Carmelina Fragapane e di Giuseppe Camilleri, ispettore delle compagnie portuali che partecipò alla marcia su Roma.
Vive a Roma dalla fine degli anni quaranta e dal 1968 trascorre alcuni mesi l’anno a Bagnolo, frazione di Santa Fiora nel territorio del Monte Amiata in Toscana. Dal 26 settembre 2014 è cittadino onorario del borgo toscano, da lui descritto come suo “luogo del cuore”; il 14 agosto 2017 gli viene intitolato il Teatro Comunale del paese grossetano.

Dal 1939 al 1943, dopo una breve esperienza in collegio vescovile (fu espulso perché lanciò delle uova contro un crocifisso), studia al Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento dove nel 1943 otterrà la maturità senza fare esami, poiché, a causa dei bombardamenti e in previsione dell’imminente sbarco in Sicilia delle forze alleate, le autorità scolastiche decisero di chiudere le scuole e di considerare valido il secondo scrutinio trimestrale.
A giugno dello stesso anno comincia, come ricorda lo scrittore, «una sorta di mezzo periplo della Sicilia a piedi o su camion tedeschi e italiani sotto un continuo mitragliamento per cui bisognava gettarsi a terra, sporcarsi di polvere, di sangue, di paure.» Tra il 1946 e il 1947 vive a Enna, in due misere stanzette prive di riscaldamento, e casualmente, dapprima attirato dal tepore, comincia a frequentare con assiduità la Biblioteca Comunale diretta dall’avvocato Fontanazza. Diventato suo amico questi gli fa conoscere gli scritti originali di due celebrità letterarie locali: Nino Savarese e Francesco Lanza.
Diventa anche amico di Franco Cannarozzo, che poi divenne un famoso scrittore di romanzi di fantascienza con lo pseudonimo di Franco Enna. Camilleri ricorda che il periodo ennese lo indusse a partecipare a certamen letterari, e fu proprio nel 1947, durante il suo periodo ennese, che vinse il Premio Firenze con alcune sue poesie. Camilleri, nel documentario Rai “Il luogo e la memoria” (da lui scritto e letto) attesta il debito letterario verso Enna: «…Ed io, proprio in quelle due stanzette, credo di essermi formato come scrittore.» [7]
Regista
Incomincia a lavorare come regista teatrale nel 1942. Nel 1944 si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo, ma non consegue la laurea. S’iscrive al Partito Comunista Italiano e dal 1945 pubblica racconti e poesie, arrivando anche fra i finalisti del Premio Saint Vincent.
Nel 1949 viene ammesso, unico allievo regista per quell’anno, all’Accademia nazionale d’arte drammatica, dove conclude gli studi nel 1952, contemporaneamente ad allievi attori che diverranno celebri, come Luigi Vannucchi, Franco Graziosi e Alessandro Sperlì, con i quali stringe amicizia; da allora esegue la regia di più di cento opere, soprattutto di drammi di Pirandello. Tra il 1945 e il 1950 pubblica racconti e poesie, vincendo anche il Premio Saint Vincent. Alcune sue poesie vengono pubblicate in un’antologia curata da Giuseppe Ungaretti.
Scrive i suoi primi racconti per riviste e per quotidiani come L’Italia socialista e L’Ora di Palermo.
È il primo a portare Beckett in Italia, di cui mette in scena Finale di partita nel 1958 al Teatro dei Satiri di Roma e poi ne cura una versione televisiva con Adolfo Celi e Renato Rascel. A Camilleri si devono anche le rappresentazioni teatrali di testi di Ionesco (Il nuovo inquilino nel 1959 e Le sedie nel 1976), Adamov (Come siamo stati nel 1957, prima assoluta in Italia), Strindberg, T. S. Eliot. Porta in teatro i poemi di Majakovskij nello spettacolo Il trucco e l’anima.

Nel 1954 partecipa con successo a un concorso per funzionari Rai, ma non viene assunto perché, dice lui, comunista.
Entra alla Rai tre anni dopo. Nel 1957 sposa Rosetta Dello Siesto. Ha tre figlie e quattro nipoti.
Insegna al Centro sperimentale di cinematografia di Roma dal 1958 al 1965 e poi dal 1968 al 1970; è titolare della cattedra di regia all’Accademia nazionale d’arte drammatica dal 1977 al 1997. Scrive su riviste italiane e straniere (Ridotto, Sipario, Il dramma, Le thèâtre dans le monde) e dal 1995 su l’«Almanacco letterario» (Edizione dell’Altana).
Dal 1959 a tutti gli anni sessanta, tra le molte produzioni Rai di cui si occupa come delegato alla produzione hanno successo gli sceneggiati Le avventure di Laura Storm, con Lauretta Masiero, e le fiction con il tenente Sheridan, protagonista Ubaldo Lay (fra cui la miniserie La donna di quadri), ma anche Le inchieste del commissario Maigret, protagonista Gino Cervi.
Nel 1968 cura la regia del teleromanzo Lazarillo, tratto dal romanzo Lazarillo de Tormes, con Paolo Carlini e Vittorio Guerrieri.

Nel 1978 esordisce nella narrativa con Il corso delle cose, scritto dieci anni prima e pubblicato gratuitamente da un editore a pagamento con l’impegno di citare l’editore stesso nei titoli dello sceneggiato TV La mano sugli occhi tratto dal libro che non viene distribuito e rimane ignoto al pubblico dei lettori. Nel 1980 pubblica con Garzanti Un filo di fumo, primo di una serie di romanzi ambientati nell’immaginaria cittadina siciliana di Vigata a cavallo fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Grazie a quest’ultima opera Camilleri riceve il suo primo premio letterario a Gela.

Nel 1984 pubblica, per Sellerio editore, La strage dimenticata, senza successo.

Nel 1992 riprende a scrivere dopo dodici anni di pausa e pubblica La stagione della caccia e nel 1993 La bolla di componenda, entrambe presso Sellerio Editore. Nel 1994 pubblica La forma dell’acqua, primo romanzo poliziesco con il commissario Montalbano e successivamente (1995) Il birraio di Preston, che partecipa al Premio Viareggio e grazie al quale, pur senza classificarsi, riesce a ottenere un discreto successo di pubblico.

Camilleri diventa un autore di grande successo e i suoi libri, ristampati più volte, vendono mediamente intorno alle 60 000 copie, anche se non tutti trovano il consenso unanime della critica che lo accusa di essere a volte ripetitivo.

Dal 1995 al 2003 si amplia il fenomeno Camilleri, che di fatto esplode nel 1998. Titoli come Il birraio di Preston (1995) (quasi 70.000 copie vendute), La concessione del telefono e La mossa del cavallo (1999) vanno a ruba, mentre la serie televisiva su Montalbano, interpretato da Luca Zingaretti, ne fa ormai un autore cult. Nel 2001 viene pubblicato il romanzo Il re di Girgenti, ambientato nel Seicento, interamente scritto in siciliano inframmezzato con lo spagnolo.

Alla fine del 2002 accetta la nomina di direttore artistico del Teatro Comunale Regina Margherita di Racalmuto, inaugurato nel febbraio 2003 alla presenza del Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi.

Pubblica, sempre con Sellerio, altri romanzi: nel 2004 La pazienza del ragno, nel giugno 2005 La luna di carta: tutti con protagonista Salvo Montalbano. A marzo 2005 viene edito Privo di titolo. Tra il 2006 e il 2008, pubblica altri cinque romanzi che hanno per protagonista Montalbano: La vampa d’agosto, Le ali della sfinge, La pista di sabbia, Il campo del vasaio, L’età del dubbio. Nel 2007 vince il Premio letterario “La Tore – Isola d’Elba”.

Il 2009 incomincia con il romanzo La danza del gabbiano, vincitore nello stesso anno della XXVI edizione del Premio Cesare Pavese. Tutti presso Sellerio nella collana La Memoria, fondata da Leonardo Sciascia.

Nel 2010 nella stessa collana escono i successivi romanzi di Montalbano, La caccia al tesoro e Il sorriso di Angelica, ai quali si affianca un terzo romanzo, Acqua in bocca, pubblicato da minimum fax. Scritto insieme con Carlo Lucarelli nella forma “epistolare” già sperimentata con successo ne La scomparsa di Patò, il romanzo vede per la prima volta il commissario Montalbano interagire con un altro investigatore letterario, l’ispettore Grazia Negro creata appunto da Lucarelli.

Nel febbraio 2008 per Mondadori pubblica Il tailleur grigio e nel giugno dello stesso anno con Sellerio Il casellante, secondo romanzo di una trilogia di romanzi fantastici, primo dei quali è il romanzo Maruzza Musumeci pubblicato nel 2007, conclusasi nel 2009 con Il sonaglio. Inoltre, sempre nel 2008, pubblica, per la prima volta sul web (e precisamente sul quotidiano on-line AgrigentoNotizie) un suo racconto, La finestra sul cortile (già apparso in versione cartacea sul mensile Il Nasone di Prati), che vede come protagonista sempre il commissario Montalbano, inserito come appendice nel libro Racconti di Montalbano.

Il 4 settembre 2008 ha vinto il Premio internacional de novela negra RBA con un inedito in lingua spagnola dal titolo La muerte de Amalia Sacerdote che sarà pubblicato in Spagna il 9 ottobre 2008 e in Italia nel 2009 con il titolo La rizzagliata.

Di particolare interesse la serie di romanzi dedicata ai grandi pittori: nel 2007 pubblica per Mondadori Il colore del sole (Caravaggio), nel 2008 per Skira La Vucciria (Guttuso) e nel 2009 sempre per Skira il romanzo ambientato nella “sua” Agrigento Il cielo rubato. Dossier Renoir (Renoir).

Nel 2009 pubblica per Rizzoli il romanzo pirandelliano La tripla vita di Michele Sparacino.

Nel 2010, oltre ai già citati romanzi con protagonista Montalbano, escono presso Sellerio Il nipote del Negus, una divertente storia ambientata nella Vigata del ventennio fascista, e, presso Mondadori, L’intermittenza, thriller ambientato nella Milano odierna.

Nel 2011 Camilleri collabora con Edoardo De Angelis nel brano Spasimo, contenuto nell’album del cantautore romano Sale di Sicilia, insieme con Franco Battiato. Sempre lo stesso anno gli viene conferito il Premio Fondazione Il Campiello.

Nell’album di Daniele Silvestri S.C.O.T.C.H., che vanta la collaborazione di numerosi artisti: Niccolò Fabi, Pino Marino, Diego Mancino, Raiz, Stefano Bollani, Peppe Servillo, vi è anche Camilleri, che compare per la prima volta su un disco, precisamente al termine del brano Lo scotch, dove racconta una storia avvenuta durante un viaggio in treno. Negli anni seguenti sino a oggi Camilleri continua a pubblicare numerosi romanzi con protagonista Montalbano o che trattano eventi storici rielaborati dalla sua fantasia.

Camilleri è stato tradotto in almeno 120 lingue (tra cui inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, irlandese, russo, polacco, greco, norvegese, ungherese, giapponese, ebraico e croato) e ha venduto più di 10 milioni di copie.

Nella nota finale del suo centesimo libro, L’altro capo del filo, pubblicato nel maggio 2016, Camilleri dichiara che questo è «un Montalbano scritto nella sopravvenuta cecità», infatti, a 91 anni ha dovuto dettare il romanzo alla sua assistente Valentina Alferj, «l’unica che sia in grado di scrivere in vigatese.». Nel 2016 ha generato diritti d’autore per 283.000€ posizionando Camilleri al posto n.5 della classifica degli scrittori italiani più ricchi, rispettivamente dietro a Carlo Carmine, Giacomo Bruno, Michele Tribuzio, Alex Abate, autori e talora essi stessi editori, come Giacomo Bruno, per lo più di manuali di vita pratica.

Il filone narrativo del Commissario Montalbano è destinato a una conclusione in quanto nel 2006 Andrea Camilleri ha consegnato all’editore Sellerio l’ultimo libro con il finale della storia, chiedendo che questo venisse pubblicato dopo la sua morte; dichiarerà in proposito:

«Ho scritto la fine dieci anni fa… ho trovato la soluzione che mi piaceva e l’ho scritta di getto, non si sa mai se poi arriva l’Alzheimer. Ecco, temendo l’Alzheimer ho preferito scrivere subito il finale. La cosa che mi fa più sorridere è quando sento che il manoscritto è custodito nella cassaforte dell’editore… È semplicemente conservato in un cassetto.»

“Non può cadere in un burrone come Sherlock Holmes e poi ricomparire in altre forme” racconta lo scrittore, che – rivelando il segreto dell’ultimo libro della serie – assicura: “Montalbano non muore”.

Una caratteristica dei libri di Andrea Camilleri è che hanno tutti una struttura prefissata e ben regolare:
«Per un romanzo di Montalbano diciotto capitoli ciascuno di dieci pagine, ogni pagina nel mio computer vuol dire 23 righe. Un romanzo ben congegnato sta perfettamente in 180 pagine. Per i racconti, 24 pagine, o meglio 4 capitoli di 6 pagine ciascuno. Se non sento questa mia metrica vuol dire che qualcosa non va.»

Una peculiarità di alcuni romanzi di Camilleri è l’uso di un particolare linguaggio commisto di italiano e siciliano. Come sue prime opere letterarie Camilleri scrisse poesie che rispettavano scrupolosamente le regole di composizione e usavano il linguaggio letterario italiano. Le sue poesie furono premiate in concorsi poetici importanti e furono riconosciute come notevoli, tanto che Giuseppe Ungaretti le fece stampare in una sua antologia e lo stesso fece Ugo Fasolo. In seguito lo stesso Salvatore Quasimodo insistette per avere delle sue poesie da pubblicare. Il nuovo interesse per il teatro fece però abbandonare a Camilleri la poesia, anche se continuò con la scrittura di brevi racconti in italiano. Questo fino a quando, avendo deciso di voler rappresentare opere teatrali sue con parole sue, si rese conto di non riuscire a esprimersi in italiano in opere di grande respiro, e così smise di scrivere sia in versi sia in prosa.

Lavorando per il teatro Camilleri s’imbatté nelle opere in dialetto di Carlo Goldoni e del Ruzante e da lì gli nacquero l’amore per Gioacchino Belli e Carlo Porta e la scoperta dell’uso letterario del siciliano, che gli fece tornare la voglia di scrivere.

Il particolare linguaggio di Camilleri si formò quando, assistendo in ospedale suo padre morente, volle raccontargli una storia che avrebbe voluto pubblicare ma che non era capace di comporre in italiano: fu suo padre a suggerirgli di scriverla come gliel’aveva raccontata.

Tuttavia uno scrittore che volesse essere compreso da tutti non poteva esprimersi completamente in siciliano, pertanto occorreva adottare un linguaggio equilibrato dove i termini dialettali avessero la stessa qualità e significanza, la stessa risonanza di quelli italiani. Fu un duro lavoro di elaborazione che continua tuttora, ad esempio nei romanzi scritti in vigatese dove la base del lavoro è sempre una iniziale struttura in lingua italiana, con cui mescolare i termini tratti non dalla letteratura alta ma dai vari dialetti siciliani comunemente parlati.

«… Non si tratta di incastonare parole in dialetto all’interno di frasi strutturalmente italiane, quanto piuttosto di seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura che invece delle note adopera il suono delle parole. Per arrivare ad un impasto unico, dove non si riconosce più il lavoro strutturale che c’è dietro. Il risultato deve avere la consistenza della farina lievitata e pronta a diventare pane.»

Camilleri è stato anche attore, interpretando la parte di un vecchio archeologo nel film del 1999 di Rocco Mortelliti La strategia della maschera. Il film giallo, che ha avuto scarso successo sia presso la critica sia presso il pubblico, narra gli eventi che si svolgono tra la Sicilia e Roma relativi alla sparizione di preziosi reperti archeologici. Ha detto l’esordiente attore che in effetti «Non è la mia prima volta da attore, mi è capitato anni fa in Quel treno da Vienna, secondo di tre film per la televisione tratti dai romanzi di Corrado Augias, con Jean Rochefort. Io facevo il suo capo nei servizi segreti.»

L’11 giugno 2018 ha recitato al Teatro Greco di Siracusa il suo monologo Conversazione su Tiresia in cui ripercorre la vita dell’indovino cieco collegandola alla sua sopravvenuta cecità.

Nel numero 2994 del fumetto Topolino del 16 aprile 2013 appare la storia “Topolino e la promessa del gatto”. Il racconto ambientato in Sicilia vede Topolino aiutare il commissario Salvo Topalbano, parodia del celebre commissario Salvo Montalbano. Un altro personaggio della storia, il signor Patò, è stato disegnato secondo la fisionomia dello scrittore siciliano. La storia, disegnata da Giorgio Cavazzano e tratta dai testi di Francesco Artibani, è stata supervisionata proprio da Camilleri. Lo stesso autore in un’intervista afferma che è la prima volta che il suo personaggio appare in un fumetto nonostante avesse avuto altre offerte in passato.

La mattina del 17 giugno 2019, Camilleri è stato ricoverato all’ospedale Santo Spirito di Roma per un arresto cardiorespiratorio. Giunto in condizioni critiche, viene ricoverato, in prognosi riservata, nel reparto di rianimazione, dove muore il 17 luglio dello stesso anno senza mai aver ripreso conoscenza. Il creatore del commissario Montalbano è stato colpito dal malore mentre si stava preparando a partecipare con la sua Autodifesa di Caino il 15 luglio allo spettacolo che si sarebbe tenuto alle antiche Terme di Caracalla.

(Fonte: Wikipedia Italia)

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50 ANNI DALLO SBARCO SULLA LUNA: 16 libri su Luna e allunaggio http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/07/16/50-anni-dallo-sbarco-sulla-luna/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/07/16/50-anni-dallo-sbarco-sulla-luna/#comments Tue, 16 Jul 2019 17:15:54 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8217

FESTEGGIAMO I 50 ANNI DALLO SBARCO SULLA LUNA proponendo 16 libri (per tutti i gusti e le età)

Tra il 20 e il 21 luglio del 1969 si svolsero eventi cruciali nella storia dell’umanità per quanto concerne il suo rapporto con lo spazio: quelli del primo “approdo” dell’uomo sulla Luna. Proponiamo, di seguito, 15 libri legati a questo grande evento e alla sua ricorrenza

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Luna. Cronaca e retroscena delle missioni che hanno cambiato per sempre i sogni dell'uomo - Bruno Vespa - copertina“Luna. Cronaca e retroscena delle missioni che hanno cambiato per sempre i sogni dell’uomo” di Bruno Vespa (Rai Libri)

Bruno Vespa con Luna ci riporta al 20 luglio 1969, giorno cruciale nella storia dell’umanità, e ci racconta, non senza emozione e con il consueto spirito investigativo, i retroscena dell’avventura che ha segnato la memoria collettiva e i ricordi di ognuno di noi.

Perché fu Neil Armstrong il primo uomo a mettere piede sulla Luna quando sarebbe toccato a Buzz Aldrin? Perché Aldrin dovette aggiustare un contatto elettrico con la punta di una biro evitando il rischio di restare lassù? Perché Collins temette di rientrare da solo sulla Terra? Bruno Vespa, icona massima del giornalismo televisivo, da anni interprete attento e autorevole dei cambiamenti della nostra società attraverso i suoi molti e fortunatissimi libri, con Luna ci riporta al 20 luglio 1969, giorno cruciale nella storia dell’umanità, e ci racconta, non senza emozione e con il consueto spirito investigativo, i retroscena dell’avventura che ha segnato la memoria collettiva e i ricordi di ognuno di noi. Vespa non si ferma tuttavia alla memorabile missione di Apollo 11. Spiega perché, nonostante i sovietici fossero molto più avanti degli americani, furono sconfitti. Perché la conquista di Marte, programmata da von Braun addirittura per la metà degli anni Ottanta, sia stata rinviata di molti decenni. E perché la nostra Samantha Cristoforetti stia studiando il cinese, visto che i prossimi protagonisti dello Spazio verranno dal Paese di Xi Jinping.

Per ulteriori informazioni, cliccare qui.

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Moon. 50 anni dall'allunaggio - Divier Nelli - copertina“Moon. 50 anni dall’allunaggio” a cura di Divier Nelli (Liscianigiochi)

Undici storie, undici autori italiani tra affermati ed esordienti, un unico filo rosso: l’ideale circumnavigazione dello storico allunaggio del 20 luglio 1969, che la RAI immortalò nella epocale e lunga diretta rimasta nella memoria di tantissimi, guidata da Tito Stagno con il mitico Ruggero Orlando in collegamento dagli States. Racconti dei generi più disparati, dalla fantascienza, all’amore, dal fantastico, allo storico, passando per il complottismo. A conclusione, un’appendice di 16 pagine su carta patinata, con splendide fotografie e relative didascalie, ripercorre le fasi salienti della missione di Armstrong, Aldrin e Collins, arricchendo ancor di più il volume.

Dalla diretta televisiva di quell’estate lontana arrivarono immagini in bianco e nero ancora vive nella  memoria di migliaia e migliaia di donne e di uomini.
La conquista della Luna, però, ci riporta subito alla mente altre vicende, in parte anche personali: momenti della vita tristi e lieti, successi e fallimenti, inizio o fine di amicizie o di amori che con la missione lunare di Apollo 11 hanno in comune solo la concomitanza. E proprio questa contemporaneità ci induce pure a ingrandire e attualizzare storie vecchie di mezzo secolo, frutto magari della fantasia o di originali e macchinose teorie complottiste, dissolvendo l’alone siderale che le annebbiava e ridando loro vita.
Molti di questi racconti, scritti utilizzando generi narrativi diversi, meritano di essere raccolti in un libro. Divier Nelli lo ha fatto con “Moon”, questa originale antologia, alla quale hanno collaborato autori come Leonardo Gori, Giulio Leoni, Mariano Sabatini, Giada Trebeschi e altri…
[Da L'uomo della luna - di Tito Stagno].

Per ulteriori informazioni, cliccare qui.

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Conquistati dalla Luna. Storia di un'attrazione senza tempo - Patrizia Caraveo - copertina“Conquistati dalla Luna. Storia di un’attrazione senza tempo” di Patrizia Caraveo (Raffaello Cortina)

La Luna è il corpo celeste che ci è più vicino e la sua “attrazione”, oltre a fare muovere l’acqua degli oceani, agisce da sempre sul nostro immaginario collettivo. Come resistere al richiamo ancestrale di un’eclissi di Sole? In pieno giorno il disco della piccola Luna oscura per pochi minuti il ben più grande Sole. Accade solo sulla Terra e questo ci rende unici nel sistema solare.

La Luna ha affascinato da sempre l’umanità, che l’ha visitata prima con l’immaginazione, poi con la tecnologia. I racconti di poeti, scrittori e artisti ci hanno fatto sognare. La corsa allo spazio ci ha entusiasmato e la conquista, avvenuta 50 anni fa, ci ha arricchito di conoscenza e di consapevolezza. Dalla Luna abbiamo visto, per la prima volta, la nostra Terra e abbiamo percepito quanto sia bella e fragile. Adesso sulla Luna vogliamo tornare per stabilire una colonia permanente. Presto ci saranno imprenditori che vorranno sfruttare le sue risorse minerarie oppure aprirla al turismo spaziale. Bisognerà farlo con grande attenzione, per non rovinare la magnifica desolazione descritta dagli astronauti.

Per ulteriori informazioni, cliccare qui.

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Camminare sulla Luna. Come ci siamo arrivati e come ci torneremo - Piero Bianucci - copertina“Camminare sulla Luna. Come ci siamo arrivati e come ci torneremo” di Piero Bianucci (Giunti Editore)

A cinquant’anni dallo sbarco sulla Luna, la storia, minuto per minuto, di un’avventura indimenticabile.

La conquista della Luna fu un evento epocale sotto tutti gli aspetti: scientifico-tecnologico, storico, politico… La sua portata fu enorme anche dal punto di vista filosofico: in quell’occasione l’uomo, per la prima volta, ha abbracciato la Terra in un solo sguardo – un impulso decisivo per superare nazionalismi miopi e verso una coscienza ecologica globale. A mezzo secolo di distanza, scrive Piero Bianucci, è bene fare il bilancio di quell’impresa, domandarci come influirà sul futuro e trarre profitto dalle grandi idee che le scienze dello spazio mettono a disposizione dell’umanità.

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Missione luna. Con Contenuto digitale per download - Rod Pyle - copertina“Missione luna. Con Contenuto digitale per download” di Rod Pyle (Giunti Editore, Traduzione di Giada Riondino)

Tutto il mondo ha visto l’Apollo 11 atterrare sulla Luna. Ora potremo vivere l’esperienza di quell’irripetibile momento.

«Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un balzo gigantesco per l’umanità.» Sono le parole che pronunciò Neil Armstrong nel momento culminante di una delle avventure più entusiasmanti della storia, inizio di una nuova era. «Missione Luna» ripercorre i tentativi di esplorare questa frontiera, partendo dallo sviluppo dei V1 e V2 tedeschi nei giorni drammatici della Seconda guerra mondiale, attraverso le pionieristiche avventure del programma Apollo, fino alle prospettive future dell’esplorazione lunare con i progetti di Cina, Giappone ed Europa. Un’app gratuita dà vita a pagine interattive, grazie alle quali è possibile assistere ai primi passi di Neil Armstrong sul suolo lunare, esplorare un modulo lunare dell’epoca e avere accesso a rari documenti originali, come se tutta la storia si stesse compiendo sotto i nostri occhi. Attraverso oltre 150 immagini straordinarie, torna in scena il successo dell’Apollo 8, prima navicella dotata di equipaggio a entrare nell’orbita di un corpo celeste, e diventa possibile ripercorrere l’epopea dell’Apollo 11 o condividere la drammatica avventura vissuta dagli astronauti a bordo dello sfortunato Apollo 13.

Per ulteriori informazioni, cliccare qui.

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Il vento della luna - Antonio Muñoz Molina - copertina“Il vento della luna”, romanzo di Antonio Muñoz Molina (66th and 2nd – traduzione di Maria Nicola)

1969. È l’inizio di una nuova era. L’uomo sta per posare il piede sul suolo lunare. Nella piccola città di Mágina un tredicenne assiste palpitante al viaggio dell’Apollo 11. Anche per lui è epoca di cambiamenti: l’infanzia è finita e l’ingresso nella pubertà è segnato dall’affacciarsi di pulsioni fino a quel momento sconosciute e da una crescente insofferenza per l’educazione cattolica, la vita rurale e il ritmo lento delle stagioni che si ripetono, anno dopo anno, sempre uguali. È un tempo tedioso, così diverso dal tempo delle missiobni spaziali, che non si misura in giorni o settimane, ma in ore, minuti e secondi. Le giornate le passa a leggere libri di astronomia, zoologia e botanica che trova nella biblioteca pubblica, isolato dalla quotidianità familiare fatta di duro lavoro e ricordi bisbigliati sulle atrocità della guerra civile, in una Spagna franchista sospesa tra spinta alla modernità e oppressione. Un’atmosfera pesante a cui il giovane protagonista tenta di sfuggire aggrappandosi a questo traguardo dell’ingegno umano, un sogni di libertà che solo la mente di un ragazzino può concepire.

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Dalla Terra alla Luna. Rocco Petrone, l'italiano dell'Apollo 11 - Renato Cantore - copertina“Dalla Terra alla Luna. Rocco Petrone, l’italiano dell’Apollo 11″ di Renato Cantore (Rubbettino)

Rocco Petrone fu il direttore del lancio dell’Apollo 11 da Cape Kennedy il 16 luglio 1969: l’uomo del «go» alla missione che avrebbe portato i primi uomini sulla Luna. Figlio di contadini lucani che avevano cercato fortuna in America, era nato a Amsterdam, New York, nel 1926. Non aveva ancora sei mesi quando il padre morì in un terribile incidente, travolto da un treno. Lo attendeva una vita di sacrifici ai quali non si sottrasse. Imponente nel fisico e vivace nell’intelligenza, si pagò gli studi lavorando. A diciassette anni fu ammesso all’Accademia militare di West Point, dove fece parte della squadra vincitrice del campionato nazionale di football. Diventato ufficiale dell’esercito americano, completò gli studi al Massachusetts Institute of Technology e divenne uno dei maggiori esperti di missili e rampe di lancio. Voluto alla Nasa da von Braun, lavorò alla costruzione del Saturno V e della mitica rampa di lancio 39 da cui partirono gli astronauti verso la Luna. Poi fu promosso direttore del programma Apollo e, al culmine della carriera, divenne il numero tre della Nasa. Mori a ottant’anni a Palos Verdes Estates, una cittadina costiera della California, dove si era ritirato per dedicarsi ai suoi amati studi sulla guerra civile americana. Prefazione di Tito Stagno.

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Sulla Luna. A 50 anni dallo sbarco, un viaggio tra scienza e fantascienza - Carmine Treanni - copertina“Sulla Luna. A 50 anni dallo sbarco, un viaggio tra scienza e fantascienza” di Carmine Treanni (Cento Autori)

“Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità”. Con queste parole, l’astronauta americano Neil Armstrong, e con lui tutta l’umanità, metteva piede sulla Luna il 21 luglio del 1969.
Nel cinquantesimo, storico, anniversario dell’allunaggio, il saggio ripercorre le tappe fondamentali della corsa allo spazio: dal lancio del satellite Sputnik da parte dei sovietici nel 1957 allo sbarco sulla Luna degli americani. Il libro, poi, approfondisce anche come siano infondate le tesi dei cosiddetti “complottisti”, ossia di coloro che asseriscono che sulla Luna non ci siamo mai andati, e racconta cosa ci riserva il futuro dell’esplorazione spaziale e il ruolo centrale che avrà il nostro satellite. A corollario della storia dello sbarco sulla Luna, il libro apre anche una finestra sull’immaginario, raccontando di come la fantascienza abbia rappresentato la conquista della Luna, attraverso romanzi.

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Oltre il cielo. Incontri straordinari con esploratori della Luna e dello spazio - Giovanni Caprara - copertina“Oltre il cielo. Incontri straordinari con esploratori della Luna e dello spazio” di Giovanni Caprara (Hoepli)

Nel 1969 i primi due uomini mettevano piede su un altro corpo celeste, la Luna. Era un passo storico che segnava il ventesimo secolo, esprimendo il lato buono dell’umanità in un periodo tormentato da grandi tragedie. Dopo cinque decenni ci si sta preparando al ritorno sulle sabbie seleniche, ma adesso per rimanerci costruendo una colonia dove gli esploratori del cosmo potranno vivere e lavorare. Gli uomini e le donne che hanno avuto l’intelligenza e l’ardire di affrontare l’uscita dalla Terra, volando oltre il cielo, sono i protagonisti di questo libro. Assieme ci sono coloro che hanno pensato e costruito i mezzi per affrontare le ardue sfide nelle quali spesso era in gioco la vita. Tutti parlano e raccontano direttamente le loro storie in queste interviste frutto di incontri straordinari avvenuti nei luoghi dove le imprese dello spazio si inventavano, prendevano forma o si controllavano. Il libro è una storia dello spazio raccontata dalla voce dei personaggi che l’hanno realizzata. Ed è stato meraviglioso ascoltare la passione, l’entusiasmo, la visione che animavano le loro parole spesso intrise da una sorprendente umiltà. Testimonianze preziose, che ci portano nel futuro volando dalla fantascienza alla realtà.

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Armstrong. L'avventurosa storia del primo topo sulla Luna - Torben Kuhlmann - copertina“Armstrong. L’avventurosa storia del primo topo sulla Luna” di Torben Kuhlmann (Orecchio Acerbo – traduzione di Anna Patrucco Becchi)

Con “Armstrong” Torben Kuhlmann trasporta i lettori sulla luna e oltre, là dove i sogni sono determinati solo dalla grandezza dell’immaginazione. E là dove i più grandi esploratori sono i più piccoli di tutti…

Questa edizione speciale celebra il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla luna, con una nuova copertina, un’introduzione e alcune pagine dedicate all’Apollo 11 e all’allunaggio.

Età di lettura: da 7 anni.

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Luna la prima colonia. Il passato dei pionieri e il futuro degli esploratori. Ediz. illustrata - Gabriele Beccaria,Antonio Lo Campo - copertina“Luna la prima colonia. Il passato dei pionieri e il futuro degli esploratori. Ediz. illustrata” di Gabriele Beccaria e Antonio Lo Campo (Edizioni del Capricorno)

Il 20 luglio 1969, per la prima volta, due uomini lasciarono le proprie impronte sulla Luna. Oggi, a distanza di cinquant’anni da quell’evento epocale che ha mutato per sempre la percezione stessa della nostra presenza nell’universo, l’obiettivo è realizzare basi scientifiche e colonie lunari. Non è più fantascienza, ma una realtà prossima a trovare realizzazione. Anzi, la prospettiva, sempre più concreta, è andare ben oltre: su Marte e magari sulle lune di Saturno. In questo libro, Gabriele Beccarla e Antonio Lo Campo ricostruiscono anzitutto l’epopea della conquista lunare, ripercorrendo la straordinaria sequenza delle missioni Apollo, anche grazie ai racconti di alcuni degli astronauti che ne furono protagonisti, raccolti in interviste realizzate nel corso degli anni, e a un ricco e originale apparato iconografico. Esaminano le ragioni per cui l’URSS, in quegli anni di Guerra Fredda, perse la corsa allo spazio. Smontano le tesi complottiste che continuano a mettere in dubbio la realizzazione dell’impresa. Ma anche e soprattutto fanno il punto sull’attuale situazione dell’esplorazione spaziale: le novità tecnologiche, le poste in gioco – economiche, geopolitiche – le sfide vicine e lontane che ci attendono nel prossimo futuro. Un libro anticipatore e tuttavia di stringente attualità: perché l’euforia per la corsa spaziale sta rinascendo, ed è destinata a crescere. Con un’introduzione di Walter Cunningham, astronauta dell’Apollo 7.

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Storia italiana dello spazio. Visionari, scienziati e conquiste dal XIV secolo alla stazione lunare - Giovanni Caprara - copertina“Storia italiana dello spazio. Visionari, scienziati e conquiste dal XIV secolo alla stazione lunare” di Giovanni Caprara (Bompiani)

La nuova edizione di un libro documentato e appassionante.

La storia italiana dello spazio inizia alla fine del Trecento e ha un’accelerata dopo la Seconda guerra mondiale, quando la Marina e l’Aeronautica arruolano due scienziati tedeschi per sviluppare la tecnologia dei razzi, seguendo l’esempio degli inglesi, i primi a costruirli e a impiegarli a scopo bellico. Sarà però Luigi Broglio, negli anni sessanta, a diventare il vero padre dello spazio italiano, realizzando il primo satellite “San Marco” per indagare l’atmosfera. Un’avventura straordinaria per un’Italia coraggiosa che amava le sfide. La nascita dell’Agenzia Spaziale Italiana nel 1988 darà il via a un vero programma di esplorazione su vari fronti di ricerca e all’importante collaborazione per la stazione spaziale internazionale. La nuova edizione riveduta e aggiornata di questo libro documentato e appassionante racconta proprio questa storia, una storia che, sempre confrontata con le imprese di altre nazioni, ha generato nuova scienza, nuove tecnologie e favorito lo sviluppo del nostro paese a livello internazionale in un campo d’avanguardia.

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Terra chiama luna. L'avvincente storia dell'Apollo 11 - Lara Albanese - copertina“Terra chiama luna. L’avvincente storia dell’Apollo 11″ di Lara Albanese (Editoriale Scienza)

Hai presente il primo passo dell’uomo sulla Luna? Quella grande impronta diventata così famosa? E la frase pronunciata da Neil Armstrong quando ha appoggiato i piedi sul suolo lunare?

L’incredibile avventura spaziale della missione Apollo 11 ebbe inizio il 16 luglio 1969: la navicella spaziale si staccò dal suolo terrestre grazie al razzo Saturn V. A bordo c’erano tre uomini: Armstrong, Aldrin e Collins. Questo albo ci racconta la loro storia attraverso le parole di Lara Albanese, appassionata divulgatrice scientifica, e con le illustrazioni di Jacopo Ghisoni.

Età di lettura: da 9 anni.

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Operazione Luna. Storia, scienza e tecnologie delle conquiste lunari, dall'inizio dell'era spaziale alla conclusione del programma Apollo - Antonio Lo Campo,Carlo Di Leio - copertina“Operazione Luna. Storia, scienza e tecnologie delle conquiste lunari, dall’inizio dell’era spaziale alla conclusione del programma Apollo” di Antonio Lo Campo e Carlo Di Leio (IBN)

Questo libro, scritto da un giornalista specializzato in astronautica e da un ingegnere, vuole ripercorrere le tappe di questa straordinaria impresa.

Esso tuttavia non è solo un libro di carattere storico e, pur usando un linguaggio accessibile anche ad un pubblico non specializzato, si sofferma su dettagli tecnici delle varie missioni.

Vengono quindi descritti i veicoli spaziali, i materiali di cui erano fatti, come funzionavano, quali prestazioni potevano offrire ed altro ancora.

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Il mio viaggio sulla Luna e ritorno. L'avventura dell'Apollo 11 - Buzz Aldrin,Marianne J. Dyson - copertina“Il mio viaggio sulla Luna e ritorno. L’avventura dell’Apollo 11″ di Buzz Aldrin e Marianne J. Dyson (White Star edizioni – illustrazioni di B. Foster)

A cinquant’anni dalla storica missione che portò l’Apollo 11 sul suolo lunare, il leggendario astronauta Buzz Aldrin racconta in prima persona il suo viaggio sulla luna in questo splendido libro pop-up. Un importante apparato di fotografie accompagna il racconto, arricchito in ogni pagina da elaborati pop-up che riproducono gli scenari, gli strumenti, i luoghi e gli oggetti che resero quel 20 luglio 1969 una pietra miliare nella storia dell’uomo. Completano la narrazione una serie di riflessioni e commenti inediti da parte della famiglia di Aldrin e un fantastico modellino in cartone del modulo lunare dell’Apollo 11: per vivere da protagonisti il proprio viaggio sulla luna e ritorno. Età di lettura: da 9 anni.

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Le più belle storie. Sulla luna. Ediz. a colori - copertinaLe più belle storie. Sulla luna. Ediz. a colori (Disney Libri)

Una raccolta che celebra il cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna con una serie di storie in cui i personaggi della banda Disney vivono le loro avventure alla scoperta dello spazio.

Età di lettura: da 9 anni.

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FORZA, MAESTRO! (per Andrea Camilleri) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/06/18/forza-maestro-per-andrea-camilleri/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/06/18/forza-maestro-per-andrea-camilleri/#comments Tue, 18 Jun 2019 05:01:25 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8189 Con grande affetto da parte di tutti gli amici di Letteratitudine e con l’augurio di pronta guarigione.


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OMAGGIO A FRANCO ZEFFIRELLI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/06/16/omaggio-a-franco-zeffirelli/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/06/16/omaggio-a-franco-zeffirelli/#comments Sun, 16 Jun 2019 17:26:10 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8187 Zeffirelli (cropped).jpgLa nuova puntata di Letteratitudine Cinema la dedichiamo alla memoria di Franco Zeffirelli (Firenze, 12 febbraio 1923 – Roma, 15 giugno 2019): regista, sceneggiatore e scenografo italiano.

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L’addio a Franco Zeffirelli. Approfondimenti su: la Repubblica, Il Corriere della Sera, Ansa, La Stampa, Avvenire, Il Sole24Ore, Il Giornale, Il Fatto Quotidiano

I funerali si svolgeranno martedì prossimo, 18 giugno, in Duomo a Firenze. A officiare il rito funebre sarà l’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori.

Il salone dei 500, in Palazzo Vecchio, ospiterà il 17 giugno la camera ardente, dalle 11 alle 23.

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Nato fuori dal matrimonio da Ottorino Corsi, un commerciante di stoffe originario di Vinci, e dalla fiorentina Alaide Garosi Cipriani, ebbe un’infanzia tribolata dovuta al mancato riconoscimento paterno, che avvenne solo a 19 anni, e alla prematura scomparsa della madre. Fino al riconoscimento paterno, il suo nome fu Gian Franco Zeffirelli, a causa di un errore di trascrizione all’anagrafe del cognome scelto dalla madre, Zeffiretti. Giorgio La Pira fu suo istitutore ai tempi del collegio nel convento di San Marco a Firenze, e dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti a Firenze, esordì come scenografo nel secondo dopoguerra, curando una messa in scena di Troilo e Cressida diretta da Luchino Visconti.

Compì, insieme con Francesco Rosi, le prime esperienze nel cinema come aiuto regista dello stesso Visconti in La terra trema e in Senso, nonché di Antonio Pietrangeli ne Il sole negli occhi (1953). Nel 1953 curò bozzetti e figurini per l’Italiana in Algeri per la regia di Corrado Pavolini al Teatro alla Scala di Milano. Negli anni cinquanta esordì come regista sia in teatro sia al cinema.

Al Teatro alla Scala nel 1954 curò la regia di La Cenerentola e di L’elisir d’amore, nel 1955 Il Turco in Italia portata anche in trasferta nel 1957 al King’s Theatre di Edimburgo, nel 1957 La Cecchina, ossia La buona figliuola, nel 1958 Mignon e nel 1959 Don Pasquale, al Teatro Verdi di Trieste nel 1958 Manon Lescaut e al Royal Opera House, Covent Garden di Londra nel 1959 Lucia di Lammermoor portata anche in trasferta al King’s Theatre di Edimburgo nel 1961, Cavalleria rusticana e Pagliacci. Sul grande schermo esordì con Camping (1957), una commedia di ambiente giovanile. Ancora al Covent Garden nel 1960 disegnò i costumi di Joan Sutherland per La traviata.

Ancora al Teatro alla Scala nel 1960 curò la regia de Le astuzie femminili e di Lo frate ‘nnamorato, nel 1963 La bohème e Aida, nel 1964 La traviata, al Teatro La Fenice di Venezia nel 1960 Alcina e nel 1961 Lucia di Lammermoor, a Trieste nel 1961 Rigoletto e nel 1967 Falstaff, al Glyndebourne Festival Opera nel 1961 L’elisir d’amore, a Londra nel 1961 Falstaff, nel 1962 Don Giovanni e Alcina e nel 1964 Tosca, Rigoletto e I puritani, al Wiener Staatsoper nel 1963 La bohème (che fino al 2014 va in scena 410 volte) e al Metropolitan Opera House di New York nel 1964 Falstaff e nel 1966 la prima assoluta di Antony and Cleopatra di Samuel Barber di cui è anche il librettista.

Verso la fine degli anni sessanta si impose all’attenzione internazionale in campo cinematografico grazie a due trasposizioni shakespeariane: La bisbetica domata (1967) e Romeo e Giulietta (1968). Nel 1966 realizzò un documentario sull’alluvione di Firenze intitolato Per Firenze. Negli anni sessanta Zeffirelli diresse alcuni spettacoli memorabili nella storia del teatro italiano, come l’Amleto con Giorgio Albertazzi, recitato anche a Londra in occasione delle celebrazioni shakespeariane nel quattrocentesimo anniversario della nascita del grande drammaturgo (1964), Chi ha paura di Virginia Woolf? con Enrico Maria Salerno e Sarah Ferrati, La lupa di Giovanni Verga con Anna Magnani.

Ancora al Metropolitan nel 1970 curò la regia di Cavalleria rusticana e nel 1972 Otello, alla Scala nel 1972 Un ballo in maschera e nel 1976 Otello, a Vienna nel 1972 Don Giovanni e nel 1978 Carmen e al Grand Théâtre di Ginevra nel 1978 La Fille du Regiment. Nel 1971 diresse Fratello sole, sorella luna, una poetica rievocazione della vita di Francesco d’Assisi. Scenografo e allievo di Luchino Visconti, le sue opere furono sempre accurate nelle ricostruzioni di ambiente, e scelse sempre soggetti di forte impatto emotivo sul pubblico.

Nel dicembre del 1974 curò la regia televisiva in mondovisione della cerimonia di apertura dell’Anno Santo. Nel gennaio del 1976 tornò a collaborare col Teatro alla Scala di Milano, allestendo ancora una volta la sua celebre Aida, diretta da Thomas Schippers e con Montserrat Caballé e Carlo Bergonzi come protagonisti. Il 7 dicembre 1976 firmò regia e scene di una storica edizione di Otello di Giuseppe Verdi che inaugurò la stagione lirica del Teatro alla Scala di Milano, con la direzione di Carlos Kleiber e protagonisti Plácido Domingo, Mirella Freni e Piero Cappuccilli. L’opera venne, per la prima volta, trasmessa in diretta dalla RAI.

Dopo il successo del film televisivo Gesù di Nazareth (1976), una coproduzione internazionale sulla vita di Gesù; realizzò, tra gli altri, Il campione (1979), Amore senza fine (1981), Il giovane Toscanini (1988). Nel 1990 tornò a Shakespeare con un nuovo adattamento cinematografico di Amleto. Nel 1981 curò la regia di Cavalleria rusticana e di Pagliacci alla Scala, 1983 mise in scena Turandot di Giacomo Puccini al Teatro alla Scala, e Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello e nel 1985 Il lago dei cigni alla Scala, al Metropolitan nel 1981 La bohème, nel 1985 Tosca, nel 1987 Turandot e nel 1989 La traviata, all’Opéra National de Paris nel 1986 La traviata e a Trieste nel 1987 La figlia del reggimento.

Ancora al Met nel 1990 curò la regia di Don Giovanni e nel 1996 Carmen e alla Scala nel 1992 Don Carlo e nel 1996 La Fille du Regiment. Nel 1993 tornò al cinema con Storia di una capinera, da Giovanni Verga. Nel 1994 fu eletto senatore della repubblica nelle Liste di Forza Italia della circoscrizione Catania ottenendo un numero record di voti che riconferma con la sua rielezione a senatore del 1996.

Successivamente allestì all’Arena di Verona, nel 1995 Carmen di Georges Bizet ripresa poi nel 1996 e 1997, 1999, 2002 e 2003, 2006, dal 2008 al 2010, 2012, 2014 e nel 2016; nel 2001 Il trovatore opera andata in scena anche nel 2002, 2004, 2010, 2013 e 2016, nel 2002 Aida di Giuseppe Verdi riproposta dal 2003 al 2006, 2010 e 2015; nel 2004 Madama Butterfly andata in scena anche nel 2006, 2010, 2014 e 2017, nel 2010 Turandot di Giacomo Puccini, ripresa nel 2012, 2014 e 2016, e nel 2012 Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart realizzata anche nel 2015.

Tra il 1996 e il 1999 diresse i film Jane Eyre e Un tè con Mussolini, quest’ultimo parzialmente autobiografico. Nel dicembre 1999, tornò a dirigere le riprese televisive della cerimonia di apertura dell’Anno Santo. Nel 2002 sempre per il grande schermo, realizzò Callas Forever, liberamente ispirato alla vita di Maria Callas. Ancora per il Metropolitan nel 2002 cura la regia de Il barbiere di Siviglia al Cunningham Park. Fino al 2014 sono oltre 800 gli spettacoli con la sua regia andati in scena al Met.

Il 24 novembre 2004 la regina Elisabetta II lo nominò Cavaliere Commendatore dell’Ordine dell’Impero Britannico (KBE). Nel 2006 curò il suo quinto allestimento dell’Aida interpretata da Violeta Urmana per l’inaugurazione del Teatro alla Scala. Dal 21 aprile a 3 maggio 2007 andò in scena il suo nuovo allestimento de La traviata di Giuseppe Verdi per il Teatro dell’Opera di Roma, con direzione d’orchestra Gianluigi Gelmetti, soprano Angela Gheorghiu, baritono Renato Bruson, tenore Vittorio Grigolo. La prima dello spettacolo del 21 aprile è stata trasmessa in diretta in ventidue sale cinematografiche. Al Teatro Filarmonico di Verona esordisce nel 2012 con Pagliacci.

Muore la mattina del 15 giugno 2019 nella sua casa di Roma, all’età di 96 anni.

(Fonte: Wikipedia Italia)

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OMAGGIO AD AMOS OZ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/12/31/omaggio-ad-amos-oz/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/12/31/omaggio-ad-amos-oz/#comments Mon, 31 Dec 2018 11:00:26 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8046 RICORDIAMO IL GRANDE SCRITTORE AMOS OZ, morto a Tel Aviv il 28 dicembre 2018 all’età di 79 anni, proponendo questa conversazione radiofonica incentrata su uno dei suoi romanzi più importanti: “Giuda” (Feltrinelli, 2014 – traduzione di Elena Loewenthal). Di seguito: una nota biografica, un articolo dedicato al romanzo e approfondimenti.
http://m2.paperblog.com/i/260/2605571/amos-oz-ospite-di-letteratitudine-in-fm-di-me-L-XV3ZvP.jpeg

Amos Oz (in ebraico: עמוס עוז‎?), nato Amos Klausner (in ebraico: עמוס קלוזנר‎?) (Gerusalemme, 4 maggio 1939 – Tel Aviv, 28 dicembre 2018) è stato uno scrittore e saggista israeliano. Oltre ad essere stato autore di romanzi e saggi, Oz è stato giornalista e docente di letteratura alla Università Ben Gurion del Negev, a Be’er Sheva. Sin dal 1967 è stato un autorevole sostenitore della “soluzione dei due Stati” del conflitto arabo-israeliano.

La minuta attenzione agli aspetti della vita quotidiana, l’esuberanza della scrittura e la volontà di indagare nei malesseri individuali e della società sono i tratti salienti dell’opera di Oz. Fin dagli esordi l’interesse dello scrittore si è rivolto al mondo interiore dei personaggi e alle loro intime contraddizioni, senza trascurare il contesto della realtà israeliana che fa sempre da sfondo alla narrazione.

Nel suo romanzo autobiografico “Una storia di amore e di tenebra”, Oz ha raccontato, attraverso la storia della sua famiglia, le vicende storiche del nascente Stato di Israele dalla fine del protettorato britannico: la guerra di indipendenza, gli attacchi terroristici dei Fedayyin, la vita nei kibbutz. Nella vita dello scrittore è stato determinante il suicidio della madre, avvenuto quando il piccolo Amos aveva appena dodici anni. L’elaborazione del dolore si sviluppa ben presto in un contrasto con il padre, un intellettuale vicino alla destra ebraica. Il contrasto padre-figlio portò alla decisione del ragazzo di entrare nel kibbutz Hulda e di cambiare il cognome originario “Klausner” in “Oz”, che in ebraico significa “forza”.

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Protagonista di questa puntata, lo scrittore di fama internazionale AMOS OZ e il suo nuovo romanzo “GIUDA” (pubblicato in Italia da Feltrinelli – traduzione di Elena Loewenthal).

Grazie all’indispensabile servizio di traduzione e interpretariato, dall’inglese, di Sonia Folin, discutiamo con l’autore di questo suo nuovo romanzo, dei personaggi e delle tematiche trattate.

Nella seconda parte della puntata Massimo Maugeri legge un estratto del suo romanzo.

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Gerusalemme, l’inverno tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960. Shemuel Asch decide di rinunciare agli studi universitari – e in particolare alla sua ricerca intitolata Gesù visto dagli ebrei – a causa dell’improvviso dissesto economico che colpisce la sua famiglia e del contemporaneo abbandono da parte della sua ragazza, Yardena. Shemuel è sul punto di lasciare Gerusalemme quando vede un annuncio nella caffetteria dell’università. Vengono offerti alloggio gratis e un modesto stipendio a uno studente di materie umanistiche che sia disposto a tenere compagnia, il pomeriggio, a un anziano disabile di grande cultura. Quando si reca all’indirizzo riportato nell’annuncio, Shemuel trova una grande casa abitata da un colto settantenne, Gershom Wald, e da una giovane donna misteriosa e attraente, Atalia Abravanel. Si trasferisce nella mansarda e inizia a condurre una vita solitaria e ritirata, intervallata dai pomeriggi trascorsi nello studio di Gershom Wald. Amos Oz tiene mirabilmente i suoi personaggi e il lettore sul filo del mistero: chi è veramente Atalia? Cosa la lega a Gershom? Di chi è la casa dove vivono? Quali storie sono racchiuse tra quelle mura? Shemuel Asch troverà la risposta nel concetto di tradimento, non inteso in senso tradizionale, bensì ancorato all’idea che si ritrova nei Vangeli gnostici, dove emerge che il tradimento di Giuda – aver consegnato Gesù alle autorità e a Ponzio Pilato – non fu altro che l’esecuzione di un ordine di Gesù stesso per portare a termine il suo disegno.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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NOTA BIOGRAFICA DI AMOS OZ

amos-ozAmos Oz è nato a Gerusalemme. Circa metà dei suoi scritti sono ambientati in questa città e nelle zone circostanti. I suoi genitori, Yehuda Arieh Klausner (in ebraico: יהודה אריה קלוזנר) e Fania Mussman (in ebraico: פאניה מוסמן‎?), erano immigrati sionisti dell’Europa orientale. Il padre di Amos aveva studiato storia e letteratura a Vilnius, Lituania, e a Gerusalemme era bibliotecario e scrittore. Il nonno materno di Amos era proprietario di un mulino a Rovno, città che a quell’epoca apparteneva alla Polonia, oggi all’Ucraina. Il nonno Klausner in seguito si trasferì con la famiglia ad Haifa. Molti membri della famiglia Klausner erano di destra, sostenitori del Partito revisionista sionista. Il prozio di Amos, Joseph Klausner, fu il candidato del partito Herut alle elezioni presidenziali vinte da Chaim Weizmann ed era docente di letteratura ebraica presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Amos e la sua famiglia non erano religiosi e rifiutavano tutto ciò che nella religione percepivano come irrazionale. Ciononostante Amos Oz frequentò la scuola religiosa Tachkemoni, visto che la sola alternativa era la scuola socialista affiliata al Partito Laburista Israeliano e i suoi genitori l’avevano scartata per la diversità dei loro valori politici. La famosa poetessa Zelda fu una delle insegnanti di Amos. Amos poi compì gli studi secondari presso la scuola superiore ebraica di Rehavia.
La madre Fania si suicidò, in seguito a una forte depressione, quando Amos aveva dodici anni. Amos avrebbe poi elaborato le ripercussioni di questo tragico evento scrivendo il libro di memorie “Una storia di amore e di tenebra”. Amos aderì al Partito Laburista Israeliano e a 15 anni andò a vivere nel kibbutz di Hulda. Lì fu adottato dalla famiglia Huldai (il cui figlio primogenito Ron oggi è sindaco di Tel Aviv). Amos si immerse totalmente nella vita del kibbutz e in questo periodo cambiò il suo cognome in “Oz”, che in ebraico significa “forza”. “Tel Aviv non era abbastanza radicale”, disse Amos in seguito, “solo il kibbutz era abbastanza radicale”. In ogni caso, come lui stesso racconta, Amos era “un disastro nei lavori agricoli… la barzelletta del kibbutz”. Continuò a vivere e lavorare nel kibbutz fino a quando lui e sua moglie Nily si trasferirono ad Arad, nel 1986, a causa dell’asma di suo figlio Daniel. Però anche prima del trasferimento, visto il successo che aveva come scrittore, ebbe il permesso di diminuire gradatamente il tempo da dedicare al lavoro nel kibbutz: le royalties derivanti dai suoi libri erano tali da giustificarlo. Come disse lui stesso, Amos era diventato “un ramo della fattoria”.

Come la maggior parte degli israeliani, Amos Oz ha prestato servizio nelle Forze di difesa israeliane. Alla fine degli anni cinquanta era arruolato nell’unità di fanteria Nahal e ha combattuto negli scontri al confine tra Israele e la Siria; durante la Guerra dei sei giorni (1967) era in una unità corazzata nel Sinai; durante la Guerra del Kippur (1973) ha combattuto sulle alture del Golan. Dopo aver servito nell’unità Nahal, Oz studiò filosofia e letteratura ebraica all’Università Ebraica di Gerusalemme. A parte alcuni articoli nel bollettino del kibbutz e nel giornale Davar, Amos Oz non ha pubblicato niente fino all’età di 22 anni, quando ha cominciato a pubblicare libri. La sua prima raccolta di racconti, “La terra dello sciacallo”, è stata pubblicata nel 1965. Il suo primo romanzo, “Elsewhere, Perhaps”, è stato pubblicato nel 1966. Ha cominciato a scrivere ininterrottamente, pubblicando in media un libro l’anno con la casa editrice del Partito Laburista, Am Oved. Oz ha lasciato Am Oved per l’editore Keter, nonostante la sua affiliazione politica, perché il contratto esclusivo con Keter gli garantiva uno stipendio mensile fisso indipendentemente dalla frequenza di pubblicazione.
La figlia maggiore di Amos Oz, Fania Oz-Salzberger, insegna storia all’Università di Haifa. Oz, che ha scritto 18 libri in ebraico e circa 450 articoli e saggi, e le cui opere sono state tradotte in circa 30 lingue, muore il 28 dicembre 2018 a causa di un tumore

Oltre ai suoi romanzi, Oz pubblicava regolarmente saggi di politica, di letteratura e sulla pace. Ha scritto molto per il giornale laburista israeliano Davar e (da quando Davar ha cessato di esistere, negli anni novanta) per il quotidiano Yedioth Ahronoth. In inglese, i suoi scritti sono usciti su varie pubblicazioni, tra cui il New York Review of Books. Amos Oz è uno degli scrittori la cui opera i ricercatori letterari studiano con un approccio fondamentale. Presso l’Università Ben-Gurion nel Negev è stata creata una collezione speciale su Amos Oz e le sue opere. Negli ultimi anni Oz era considerato uno dei più probabili candidati al Premio Nobel per la letteratura.

Nelle sue opere Oz tende a rappresentare i protagonisti in modo realistico e con lieve tocco ironico. Il tema del kibbutz nei suoi scritti è trattato con un tono in certo senso critico. Oz attribuisce a una traduzione dei racconti di Winesburg, Ohio dello scrittore statunitense Sherwood Anderson la sua decisione di ”scrivere quello che era intorno a me”. Nel romanzo Una storia di amore e di tenebra, in cui racconta la sua infanzia e adolescenza negli anni travagliati che videro la nascita di Israele, Oz riconosce al “modesto libro” di Anderson il merito di avergli fatto capire che “il mondo scritto… gira sempre intorno alla mano che sta scrivendo, indipendentemente da dove stia scrivendo: il posto in cui sei è il centro dell’universo”. Nel suo saggio del 2004 “Contro il fanatismo” (in seguito titolo di una collezione di saggi pubblicata nel 2006), Oz sostiene che il conflitto israelo-palestinese non è una guerra di religione o di culture, ma piuttosto un controversia possessoria – una controversia che non si risolverà con una maggiore comprensione ma con un compromesso doloroso.

Con Feltrinelli Amos Oz ha pubblicato: Conoscere una donna (2000), Lo stesso mare (2000), Michael mio (2001), La scatola nera (2002), Una storia di amore e di tenebra (2003), Fima (2004), Contro il fanatismo (2004), D’un tratto nel folto del bosco (2005), Non dire notte (2007), La vita fa rima con la morte (2008), Una pace perfetta (2009), Scene dalla vita di un villaggio (2010, premio Napoli), Una pantera in cantina (2010), Il monte del Cattivo Consiglio (2011, premio Tomasi di Lampedusa 2012), Tra amici (2012; “Audiolibri Emons-Feltrinelli”, 2013), Soumchi (2013), Giuda (2014), Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica (2013; con Fania Oz-Salzberger) Altrove, forse (2015), Tocca l’acqua, tocca il vento (2017) e Cari fanatici (2017), Finché morte non sopraggiunga (2018). Nella collana digitale Zoom ha pubblicato Si aspetta (2011) e Il re di Norvegia (2012). Ha vinto i premi Catalunya e Sandro Onofri nel 2004, Principe de Asturias de Las Letras e Fondazione Carical Grinzane Cavour per la Cultura Euromediterranea nel 2007, Primo Levi e Heinrich Heine nel 2008, Salone Internazionale del libro nel 2010, il Premio Franz Kafka a Praga nel 2013. I suoi lavori sono tradotti in oltre quaranta lingue.

[Fonte: Wikipedia, Treccani, varie]

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GIUDA, di Amos Oz (Feltrinelli)

di Massimo Maugeri

«Questo romanzo in fondo parla delle grandi e semplici cose della vita», mi spiega l’autore. «Parla dell’amore, della perdita, della solitudine, della morte, del desiderio e della desolazione». L’autore in questione si chiama Amos Oz ed è uno dei massimi scrittori viventi. Uno di quelli, per dirla tutta, che ben figurerebbero tra i vincitori del Premio Nobel per la Letteratura. Il romanzo si intitola “Giuda” ed è appena stato pubblicato in Italia da Feltrinelli (traduzione di Elena Loewenthal, pagg. 336, € 18). Una storia forte, una scrittura sapiente, temi scottanti: questi, alcuni degli ingredienti che compongono il libro che, probabilmente, a dodici anni dalla pubblicazione di “Una storia di amore e di tenebra” (un milione di copie vendute), sarà considerato come il capolavoro del grande scrittore israeliano.
Siamo in inverno, a Gerusalemme, nel periodo a cavallo tra il 1959 e il 1960. «Ho scelto di ambientare il romanzo in questo arco temporale», mi spiega Oz, «perché lo Stato d’Israele è ancora giovane e non ancora corrotto dalla Storia e dalla violenza. E anche perché Gerusalemme, in quel momento, è una città sotto assedio: claustrofobica, aggredita su tre fronti».
È in questo contesto che, iniziando la lettura, incontriamo il giovane Shemuel Asch: uno studente universitario che sta attraversando una fase molto difficile della propria esistenza. La sua ragazza, Yardena, ha deciso di lasciarlo per convolare a nozze con un ex e la sua famiglia deve fare i conti con un improvviso e devastante dissesto economico. Per queste ragioni decide di abbandonare la città, gli studi e la sua attività di ricerca intitolata “Gesù visto dagli ebrei”. Poi, però, gli capita di leggere l’annuncio di un’offerta lavorativa piuttosto singolare indirizzata a uno studente di materie umanistiche che, in cambio di un modesto stipendio e di un alloggio gratuito, dovrà tenere compagnia nelle ore pomeridiane a un anziano disabile molto colto. Shemuel decide di accettare l’offerta. Si reca nella casa indicata nell’annuncio e si imbatte nel vecchio in questione: Gershom Wald; ma anche in Atalia: un’affascinante quarantacinquenne.
Da questo incontro, nasce la storia. Una storia basata sul confronto delle idee, sul contraddittorio, sull’incrocio di più punti di vista – spesso divergenti – che l’autore è bravissimo a esporre con pari credibilità. Su tutto si erge il concetto di “tradimento”. E qui veniamo a Giuda.
«Quando, all’età di quindici anni, lessi il Nuovo Testamento”, mi racconta Amos Oz, “amai immediatamente la figura di Gesù, ma – al tempo stesso – non credetti al tradimento di Giuda, così come è comunemente inteso. Non mi ha mai convinto la storia dei trenta denari, soprattutto dopo aver scoperto che si trattava di una somma davvero esigua e che Giuda – a differenza di altri discepoli – non era un povero pescatore bisognoso di soldi. Inoltre, se anche fosse stato un uomo così avido al punto da vendere il suo Maestro per pochi denari… perché, subito dopo, si sarebbe impiccato? E poi c’è la questione del bacio: perché pagare anche una sola moneta d’argento, se tutti conoscevano Gesù – che predicava a Gerusalemme – e dunque era piuttosto facile da individuare? Del resto lo stesso Gesù non ha mai negato la sua identità, né si è opposto all’arresto. Perché, quindi, il bacio?»
Capisco che Oz è molto sensibile a questa tematica. La considera particolarmente importante. Gli chiedo di spiegarmi il perché. «Perché penso che il tradimento di Giuda, in questi duemila anni di storia, sia stata una sorta di Chernobyl dell’antisemitismo. Voglio dire: sono stati così tanti gli antisemiti che, nel tempo, hanno identificato gli ebrei con la figura di Giuda. Basti pensare a come è stato raffigurato nel famoso dipinto dell’Ultima Cena: sembra uno di quegli ebrei rappresentati nelle vignette naziste antisemitiche. Ecco. Io sono convinto che fosse necessario raccontare questa storia in una maniera diversa. E Shemuel l’ha fatto al posto mio».

[articolo pubblicato sul quotidiano "La Sicilia"]


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OMAGGIO A BERNARDO BERTOLUCCI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/11/26/omaggio-a-bernardo-bertolucci/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/11/26/omaggio-a-bernardo-bertolucci/#comments Mon, 26 Nov 2018 14:00:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8024 Ricordiamo il grande regista, sceneggiatore e produttore cinematografico italiano Bernardo Bertolucci scomparso oggi, 26 novembre 2018, all’età di 77 anni.

Nel 1988 ricevette l’Oscar al miglior regista per il film “L’ultimo imperatore”.


Proponiamo di seguito due video (la premiazione all’Oscar nel 1988 e un’intervista nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia del 1994), vari approfondimenti e una nota biografica

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Bernardo Bertolucci (Parma, 16 marzo 1941 – Roma, 26 novembre 2018) è stato un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico italiano.

Tra i registi italiani più rappresentativi e conosciuti a livello internazionale, ha diretto film di successo come Il conformista, Ultimo tango a Parigi, Il tè nel deserto, Novecento e L’ultimo imperatore, che gli valse l’Oscar al miglior regista e alla migliore sceneggiatura non originale.

Nel 2007 gli fu conferito il Leone d’oro alla carriera alla 64ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e nel 2011 la Palma d’oro onoraria al 64º festival di Cannes.

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Primogenito del poeta Attilio Bertolucci, è cugino del produttore cinematografico Giovanni (Parma, 24 giugno 1940) e fratello del defunto regista cinematografico Giuseppe (1947 – 2012). Inizialmente sembra seguire la strada paterna, interessandosi di poesia e iscrivendosi al corso di laurea in Lettere presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ma ben presto abbandona gli studi per il cinema facendo da assistente a Pier Paolo Pasolini, suo vicino di casa, ai primi passi come sceneggiatore nel mondo della settima arte. Con una camera a passo ridotto Bertolucci gira due cortometraggi amatoriali nel biennio 1956-1957, La teleferica e La morte del maiale.

Proprio grazie a Pasolini e all’interessamento del produttore Cino Del Duca, Bertolucci lavora come assistente nel primo film diretto dal letterato friulano, Accattone (1961). Su quel set incontra l’attrice Adriana Asti, che sarà poi sua compagna per diversi anni. L’anno seguente, con Tonino Cervi come produttore, realizza il suo primo lungometraggio, La commare secca, su soggetto e sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini. Ma Bertolucci si stacca ben presto dal mondo e dalla poetica pasoliniani per inseguire un’idea personale di cinema basata sostanzialmente sull’individualità di persone che si trovano di fronte a bruschi cambiamenti del loro mondo e di quello circostante, a livello esistenziale e politico, senza che essi possano o vogliano cercare una risposta concisa.

Tale tematica sarà presente praticamente in tutte le opere di Bertolucci, a partire dal secondo film, Prima della rivoluzione (1964), dove è esemplificata molto chiaramente nella storia di un giovane della borghesia agricola medio-alta di Parma (Francesco Barilli), il quale, incapace di reagire al suicidio del suo amico più caro e incerto su una direzione da prendere, si getta a capofitto in una relazione con una matura e piacente zia (Adriana Asti) giunta da Milano. Entrambi, però, si rendono conto che quella storia non può durare – lei è anche in cura da uno psicologo – e alla partenza della donna, al giovane non resta che sposare la sua precedente fidanzata, che lui non ama, facente parte dell’alta borghesia, matrimonio ben visto dalla sua famiglia.

Anche nei film che seguono, Bertolucci continua il suo personale discorso intorno all’ambiguità esistenziale e politica, soprattutto in Partner (1968), interpretato da Pierre Clémenti, in Strategia del ragno e con Il conformista (1970) con Jean-Louis Trintignant, opere presentate in diversi festival ma dallo scarso successo di pubblico.

La grande notorietà per Bertolucci arriva nel 1972, con un film “scandaloso” che ha di fatto segnato un’epoca: Ultimo tango a Parigi, con Marlon Brando e Maria Schneider, Jean-Pierre Léaud e Massimo Girotti, dove il sesso è visto come unica risposta possibile, ma non definitiva, al conformismo del mondo circostante; i protagonisti di questo film, come quelli che seguiranno, sono esseri alla deriva, quasi sbandati, la cui unica via d’uscita è la trasgressione.
Il film, dopo la sua prima proiezione a New York, subì notevoli traversie censorie in Italia (che comunque non impedirono al film di piazzarsi secondo nella classifica degli incassi della stagione cinematografica 1972-1973); ben presto sequestrata, la pellicola venne ritirata dalla Cassazione il 29 gennaio 1976, e il regista fu condannato per offesa al comune senso del pudore, colpa per la quale venne privato dei diritti civili per cinque anni, fra cui il diritto di voto. Dopo svariati processi d’appello, la pellicola venne dissequestrata nel 1987. Le copie rimaste dopo il macero vennero depositate alla Cineteca Nazionale di Roma e quelle integrali, conservate in cineteche estere, sono servite come base per editare il film in DVD.
A 46 anni dalla sua realizzazione, il film è tornato nelle sale cinematografiche nel maggio 2018 nella versione in lingua originale restaurata in 4K a cura della Cineteca Nazionale e della Cineteca di Bologna, con la supervisione di Vittorio Storaro per l’immagine e di Federico Savina per il suono. La prima mondiale ha avuto luogo a Bari nel corso del Bari International Film Festival (Bif&st) alla presenza del regista.

Bertolucci incrementa la sua notorietà con le opere successive, da Novecento (1976), epico affresco delle lotte contadine emiliane dai primi anni del secolo alla Seconda guerra mondiale che si avvale di un prestigioso cast internazionale (da Robert De Niro a Gérard Depardieu, Donald Sutherland, Sterling Hayden, Burt Lancaster, Dominique Sanda a un cast di noti attori italiani come Stefania Sandrelli, Alida Valli, Laura Betti, Romolo Valli e Francesca Bertini), a La luna, ambientato a Roma e in Emilia-Romagna, in cui affronta lo scabroso tema della droga e dell’incesto, fino a La tragedia di un uomo ridicolo (1981), con Ugo Tognazzi.

Negli anni ottanta Bertolucci gira soprattutto all’estero kolossal di straordinaria potenza visiva. Nel 1987 dirige in Cina L’ultimo imperatore, un grande successo internazionale che si aggiudica ben nove premi Oscar, tra cui quelli per il miglior film e la migliore regia; diventa così l’unico regista italiano insieme a Frank Capra a vincere il premio di categoria.
L’ultimo imperatore (The Last Emperor) è un film epico e biografico del 1987 il cui soggetto trae spunto da Sono stato imperatore, l’autobiografia di Pu Yi. Colossal di successo mondiale, segnò una svolta decisiva nella carriera del regista e ricevette un vasto numero di riconoscimenti, tra cui nove Oscar e nove David di Donatello.

Nel 1990 gira in Marocco il film Il tè nel deserto (1990), tratto da un romanzo di Paul Bowles, mentre nel 1993 è la volta del Piccolo Buddha con Keanu Reeves, ambientato in Nepal e negli Stati Uniti. In seguito il regista torna a girare in Italia riprendendo le sue predilette tematiche intimiste con risultati alterni di critica e pubblico, a partire da Io ballo da sola (1996), per proseguire con L’assedio (1998) e The Dreamers – I sognatori (2003), che ripercorre una vicenda di passioni politiche e rivoluzioni sessuali di una coppia di fratelli, nella Parigi del 1968. Nel 2007 riceve il Leone d’oro alla carriera al Festival di Venezia, mentre nel 2011 riceve la Palma d’oro alla carriera al Festival di Cannes. Nel 2012 gira  Io e te tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti, intitolata appunto Io e te.

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Premi cinematografici

1971: National Society of Film Critics Award al miglior regista
1972: nomination all’Oscar alla migliore sceneggiatura non originale per Il conformista.
1973: Nastro d’argento al regista del miglior film
1974: nomination all’Oscar al miglior regista per Ultimo tango a Parigi
1988: Oscar al miglior regista per L’ultimo imperatore.
1988: Oscar alla migliore sceneggiatura non originale per L’ultimo imperatore.
1988: Golden Globe per il miglior regista per L’ultimo imperatore.
1988: Golden Globe per la migliore sceneggiatura
1988: David di Donatello per il miglior film
1988: David di Donatello per il miglior regista
1988: David di Donatello per la migliore sceneggiatura
1988: Nastro d’argento al regista del miglior film
1988: Directors Guild of America Award al miglior regista cinematografico
1997: Pardo d’onore al Festival del film Locarno
1997: Premio per la speciale sensibilità visiva nella regia al Camerimage
1997: Premio per la collaborazione regista – direttore della fotografia (Vittorio Storaro) al Camerimage
1998: Riconoscimento per la libertà di espressione dal National Board of Review
2007: Leone d’oro alla carriera alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica
2011: Palma d’oro onoraria al Festival di Cannes
2018: Fellini Platinum Award for Artistic Excellence al Bari International Film Festival

(Fonte: wikipedia italia e varie)

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OMAGGIO A STAN LEE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/11/13/omaggio-a-stan-lee/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/11/13/omaggio-a-stan-lee/#comments Tue, 13 Nov 2018 18:09:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8013 graphic-novel-e-fumettiIl nuovo post della rubrica di Letteratitudine intitolata “Graphic Novel e Fumetti” lo dedichiamo a un Grande del mondo dei fumetti: Stan Lee, pseudonimo di Stanley Martin Lieber (New York, 28 dicembre 1922 – Los Angeles, 12 novembre 2018): fumettista, editore, produttore cinematografico e televisivo statunitense, noto per essere stato presidente e direttore editoriale (Editor in Chief) della casa editrice di fumetti Marvel Comics, per la quale ha sceneggiato moltissime storie.

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di Massimo Maugeri

Stan Lee è un inventore di mondi, più o meno allo stesso modo in cui lo fu Walt Disney. La maggior parte dei più celebri supereroi sono nati dalla sua vena creativa e immaginifica. Giusto per fare qualche nome: Spiderman (altresì noto come L’Uomo Ragno), I Fantastici Quattro, Hulk, Thor, Iron Man, gli X-Men. Personaggi materializzatisi sulla carta dalle penne talentuose di disegnatori del calibro di Steve Ditko (padre grafico di Spiderman), John Romita Sr, Gene Colan… ma soprattutto grazie al contributo e alle illustrazioni di Jack Kirby (che può essere considerato, a tutti gli effetti, come vero e proprio co-fondatore dell’universo Marvel avendo fornito identità visiva a moltissimi dei supereroi immaginati da Lee).
Stan Lee ebbe un grande merito (un’intuizione) che, probabilmente, primeggia sugli altri: quello di aver conferito una “complessità umana” a questi esseri dotati di superpoteri… perché si può essere superuomini, ma il fatto di possedere qualità superiori non  sempre semplifica la vita; anzi, semmai è al contrario; perché, come ripete tra sé – come un mantra – il giovane Peter Parker (l’alter ego di Spiderman), “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Parliamo dunque (per utilizzare un altro celebre slogan) di “supereroi con superproblemi” (anche “esistenziali”, come si accennerà più avanti). Per molti di loro, in effetti, questi superpoteri costituiscono una sorta di maledizione. È il caso de “La Cosa” dei Fantastici Quattro: un uomo (Ben Grimm) trasformatosi in una mostruosità difficilmente definibile (da qui il nome “La Cosa”); o quello di Bruce Banner (l’alter ego di Hulk) che – ogni volta che si trasforma – perde del tutto il controllo di sé, come se un’altra entità prendesse possesso del suo corpo. E poi ci sono i perseguitati, i mutanti (come gli X-Men), che rappresentano i diversi, coloro che vanno combattuti perché ritenuti pericolosi per il genere umano, per i cosiddetti normali. Loro ci sono proprio nati con questa maledizione che qualcuno chiama superpotere: una mutazione genetica che li ha marchiati sin dalla nascita. Per altri, l’acquisizione dei superpoteri deriva da un incidente: un ragno radioattivo pizzica Peter Parker (e nasce Spiderman), due uomini e due donne – nel corso di una missione spaziale – subiscono una sovraesposizione ai raggi cosmici (ed ecco I Fantastici Quattro). Certo, la casistica è varia. Qualcuno, per esempio – ed è il caso di Tony Stark, alter ego di Iron Man -, ha come superpotere un’ingente quantità di denaro che gli consente di costruirsi un’armatura supertecnologica (in tal senso Tony Stark è la risposta della Marvel al Batman della Dc Comics) capace di tenere a bada anche problemi di natura cardiologica. Qualcuno (come Capitan America) diventa supereroe per scelta. Qualcun altro viene da mondi diversi dal nostro, come Thor (figlio di Odino, che però acquisisce anche un’identità umana).
In generale quasi tutti questi superuomini desiderebbero una vita normale. E però, dato che una vita normale non si può avere, tanto vale usare questi poteri speciali per il bene dell’umanità.
Ma c’è dell’altro. Al di là delle precedenti considerazioni, infatti (oltre cioè alle difficoltà connesse alla gestione dei superpoteri), gli eroi di Stan Lee vivono problematiche comuni a tutti gli esseri umani (intrise di gioie e dolori, di successi e insuccessi, di relazioni sentimentali più o meno travagliate) in un filone narrativo senza soluzione di continuità di modo che la storia contenuta in ogni singolo fumetto diventi anello di congiunzione tra i fatti narrati nelle “puntate precedenti” e quelli di cui si racconterà in quelle future (cosa che oggi può esser considerata come “normale” ma che, allora, quando nacque l’universo Marvel, ebbe un impatto rivoluzionario sul pubblico dei lettori).
Negli ultimi vent’anni, poi, l’universo Marvel è divenuto ancora più “reale” grazie all’evoluzione degli effetti speciali nel mondo del cinema (famosi i “cameo” di Stan Lee in quasi tutti i film della Marvel).

Muore il grande Stan Lee, dunque… ma rimangono i suoi supereroi… i quali – grazie a Hollywood – non sono mai stati così “vivi” (e noti al grande pubblico) come in questi ultimi anni.

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Approfondimenti su: la Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Sole 24Ore, La Stampa, Il Messaggero, Il Giornale, Ansa

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(Di seguito: approfondimenti da Wikipedia Italia)

Conosciuto anche come L’Uomo (The Man) e Il Sorridente (The Smilin’), Stan Lee ha introdotto per la prima volta, insieme con diversi artisti e co-creatori, in special modo Jack Kirby e Steve Ditko, personaggi di natura complessa e con personalità sfaccettate all’interno dei comic book supereroistici. Il suo successo permise alla Marvel di trasformarsi da piccola casa editrice in una grande azienda di stampo multimediale.

Stanley Martin Lieber è il figlio primogenito di Jack e Celia Lieber, immigrati ebrei di origine romena, che dopo aver ottenuto la cittadinanza si erano trasferiti a New York. Da ragazzo, Lee cominciò a lavorare come addetto alle copie per Martin Goodman presso la Timely Comics, azienda che più in là sarebbe diventata la Marvel Comics. Il suo primo lavoro, una pagina di testo firmata con lo pseudonimo di Stan Lee, fu pubblicato come riempitivo su un numero di Capitan America del 1941.

Fu presto promosso dal ruolo di scrittore di riempitivi a quello di sceneggiatore di fumetti completi, diventando così il più giovane editor nel campo, all’età di 17 anni. Dopo la seconda guerra mondiale, alla quale partecipò come membro dell’esercito statunitense, Lee ritornò alla sua occupazione presso quella che poi sarebbe diventata la Marvel Comics. A quel tempo, una campagna moralizzatrice portata avanti dallo psichiatra Fredric Wertham e dal senatore Estes Kefauver aveva accusato gli albi a fumetti di corrompere le menti dei giovani lettori con immagini di violenza e sessualità ambigua.

Le case editrici risposero alle accuse dotandosi di una regolamentazione interna particolarmente severa, che portò poi alla creazione del cosiddetto Comics Code. Andò però a finire che verso la fine degli anni quaranta le vendite delle testate supereroistiche cominciarono a calare, e al 1952 solamente le testate di Superman, Batman e Wonder Woman, tutte appartenenti alla DC Comics, venivano ancora pubblicate regolarmente. Rimanendo alla Timely/Marvel nel corso degli anni cinquanta, Lee si occupò di molte testate di generi diversi. Alla fine del decennio, tuttavia, cominciò a sentirsi insoddisfatto del proprio lavoro, e prese in considerazione l’idea di abbandonare il campo fumettistico.

Verso la fine degli anni cinquanta, la DC Comics diede nuova linfa al genere supereroistico e sperimentò un buon successo con il supergruppo Justice League of America. In risposta, Martin Goodman assegnò a Lee il compito di creare un nuovo gruppo supereroistico. La moglie lo spinse a cimentarsi con le storie che preferiva, dal momento che la minaccia del licenziamento era senza senso. Lee seguì il suo consiglio, e di colpo la sua carriera cambiò completamente.

Il gruppo di supereroi che Stan Lee e il disegnatore Jack Kirby idearono fu la “famiglia” di eroi che compone i Fantastici Quattro, pubblicati per la prima volta nel 1961. L’immediato successo di questa testata portò Lee e gli illustratori della Marvel a cavalcare l’onda, producendo in pochi anni immediatamente successivi una moltitudine di nuovi titoli: nacquero Hulk (1962), Thor (1962), Iron Man (1963) e gli X-Men (1963) dalla collaborazione con Kirby, Devil (nell’originale Daredevil, 1964) con Bill Everett e il Dottor Strange (1963) con Steve Ditko, dalla cui collaborazione era nato anche il personaggio Marvel di maggior successo, l’Uomo Ragno, nel 1962.

Inoltre, Stan Lee rispolverò e rinnovò alcuni dei supereroi ideati da altri autori negli anni trenta e quaranta, come Namor e Capitan America. Questi personaggi contribuirono a reinventare il genere supereroistico, secondo la formula dei “supereroi con superproblemi”. Lee diede ai suoi personaggi una umanità sofferta, un cambiamento rispetto all’ideale di supereroe scritto tradizionalmente per i ragazzini. I suoi eroi avevano un brutto temperamento, apparivano malinconici ed erano vanitosi e avidi. Litigavano fra di loro, erano preoccupati dai conti da pagare e dall’impressionare le loro ragazze, e qualche volta si ammalavano pure.

Prima di Lee, i supereroi erano persone idealmente perfette senza problemi e senza difetti: Superman era così potente che nessuno avrebbe potuto ferirlo, e Batman era un miliardario nella sua identità segreta (in seguito – soprattutto con la cosiddetta “British Invasion“, cioè l’ingresso in scena di molti autori di origine britannica sulla scena statunitense – negli anni ottanta, anche in casa DC si puntò molto sull’umanizzazione dei personaggi, segno che la lezione di Lee era stata, se non apprezzata, accettata quasi come ineludibile). I supereroi di Lee catturarono l’immaginazione della giovane generazione che faceva parte della popolazione frutto del “baby-boom” successivo alla seconda guerra mondiale, e le vendite si impennarono.

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Negli ultimi anni Lee è diventato per la Marvel una figura di prestigio e la sua immagine pubblica fa apparizioni alle convention (riunioni, convegni) di fumetti in giro per gli Stati Uniti, intervenendo e partecipando a dibattiti. Si è anche trasferito nel 1981 in California per sviluppare le proprietà televisive e cinematografiche della Marvel. Non ha abbandonato completamente la carriera di scrittore sceneggiando fra le altre cose le strisce per i quotidiani dell’Uomo Ragno, iniziate nel 1977, insieme con John Romita Sr., che prosegue a scrivere tutt’oggi.

Ha pubblicato il romanzo di fantascienza The Alien Factor. Nel 1992 promuove la linea Marvel 2099, un futuro “ufficiale” dell’universo Marvel, di cui scrive anche una delle collane (Ravage 2099). Durante il boom delle dot-com, Lee prestò il suo nome e la sua immagine a StanLee.Net, una compagnia multimediale online amministrata da altri. Ciò nel tentativo di miscelare animazioni internet con le tradizionali strisce a fumetti, ma sfortunatamente la compagnia acquisì una brutta reputazione per la cattiva gestione e la dubbia contabilità, fallendo in breve tempo.

Nel 2000, Stan Lee realizzò il suo primo lavoro per la DC, lanciando la serie Just Imagine… (in parte tradotta in italiano dalla Play Press), in cui reinventa numerosi supereroi DC, compresi Superman, Batman, Wonder Woman, Lanterna Verde e Flash. Lee ha creato la serie supereroistica osé a cartoni animati Stripperella per Spike TV, e nel 2004 progetta di collaborare con Hugh Hefner su una serie simile di supereroi con la partecipazione delle “conigliette” di Playboy.

Nell’agosto del 2004, Lee annuncia il lancio di Stan Lee’s Sunday Comics ospitato da Komicwerks.com, dove gli abbonati mensili possono leggere un nuovo fumetto ogni domenica. In aggiunta, Stan’s Soapbox appare qui come rubrica settimanale che affiancherà le strisce domenicali. Recentemente la VIZ Media ha annunciato che la loro partner Shueisha pubblicherà il prologo di Karakuri dôji Ultimo, scritto da Stan Lee e Hiroyuki Takei.

Lee conduce insieme a Daniel Browning Smith il programma televisivo Stan Lee’s Superhumans, che viene trasmesso in Italia sul canale History Channel su Sky. In questa serie Lee manda Daniel in giro per il mondo alla ricerca di superuomini con poteri straordinari, a volte eseguendo su di loro misurazioni e esperimenti scientifici.

Il 12 novembre 2018 Lee muore all’età di 95 anni al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles, California, dopo essere stato trasportato d’urgenza in ambulanza il giorno stesso a causa di un malore.

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OMAGGIO A CLARA SERENI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/07/26/omaggio-a-clara-sereni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/07/26/omaggio-a-clara-sereni/#comments Thu, 26 Jul 2018 19:31:07 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7888 Ci lascia CLARA SERENI (Roma, 28 agosto 1946 – Perugia, 25 luglio 2018). Letteratitudine le dedica questo ricordo commosso

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di Massimo Maugeri

Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Clara Sereni e ho avuto la possibilità di intervistarla nel mio programma radiofonico in occasione dell’uscita del suo libro Via Ripetta 155″ (Giunti). Ho avuto anche la gioia e il privilegio di ospitare Clara nella prima sezione del volume “Letteratitudine 3: letture, scritture e metanarrazioni” (LiberAria), quella dedicata alle dieci domande a dieci scrittori sulla lettura e la scrittura. In quell’occasione le chiesi anche di inviarmi una breve biografia, da inserire alla fine dell’intervista. Me ne inviò una brevissima, che riporto di seguito:

Clara Sereni è cresciuta a Roma ma vive da molti anni a Perugia, dove ha ricoperto incarichi amministrativi e politici. Attiva nella promozione della salute mentale con la Fondazione “La città del sole”-Onlus, è autrice di numerosi volumi di narrativa, da Casalinghitudine a Il gioco dei regni, da Il lupo mercante a Una storia chiusa e Via Ripetta 155. Dal 2009 dirige, per ali&no, la collana “Le farfalle”.

Vorrei ricordare Clara proponendo qui, in questo post, le sue risposte dedicate alla lettura e alla scrittura. La sua voce, invece, potete ascoltarla cliccando sul “pulsante audio“: è una registrazione del mio programma radiofonico del 22 aprile 2015. Discutiamo di Via Ripetta 155 e delle tematiche affrontate nel libro. Nella seconda parte della puntata abbiamo proposto, tra l’altro, un brano musicale composto e cantato dalla stessa Clara Sereni.

Chiedo agli editori di provvedere alla ristampa del volume “Manicomio primavera”. Il perché lo capirete leggendo quanto scritto poco più avanti (nella risposta alla domanda n. 7).

* * *

Dieci domande sulla lettura e sulla scrittura a CLARA SERENI

1. Partiamo dalla lettura. Perché leggere?
Non mi sento di dare una risposta in termini generali, dunque posso spiegare i motivi per i quali io leggo. A parte i motivi ovvi (si legge per imparare, esplorare, ecc.), per quanto mi riguarda posso dire che la lettura coincide con i pochi momenti della mia vita in cui posso stare davvero sola con me stessa. Sono sola, però al tempo stesso sono accompagnata da una guida… perché ciò che leggo mi guida. Alla fine, però, conta ciò che risuona dentro di me. Per questo parlo di solitudine. Ed è un’esperienza impagabile.

2. Fra gli innumerevoli testi di narrativa che hai letto nel tempo, quale “eleggeresti” come tuo testo di riferimento? E perché?
È difficile rispondere. Potrei indicare  un piccolo libro che ha una strana storia intitolato “Yossl Rakover si rivolge a Dio” di Kolitz Zvi. Il titolo più esatto forse sarebbe “Yossl Rakover discute con Dio”. È un libro inventato che si immagina sia stato scritto dall’ultimo sopravvissuto del ghetto di Varsavia, il quale chiede a Dio quando la smetterà di metterci alla prova e di essere così cattivo. Ma la cosa che mi interessa di più, e che mi rappresenta, è che a un certo punto il protagonista scrive: “forse smetterò di credere in te, ma non smetterò di credere nella tua legge”. Per una ebrea totalmente agnostica come me, questa è una bella indicazione.

3. Tra i grandissimi scrittori del passato, chi indicheresti come tuo possibile “padre letterario” (o “madre letteraria”)? E perché?
Anche in questo caso è difficile rispondere. Sinteticamente direi: Stendhal, perché con una scrittura modernissima (cosa che non appartiene affatto a tutti gli scrittori dell’Ottocento; per esempio, non appartiene certamente a Balzac, che è grande per altre ragioni… ma non ha questa caratteristica). Stendhal l’ho studiato e l’ho tradotto. E ho passato parecchio tempo leggendolo. Quello che più mi interessa di questo scrittore, ancor più dei grandi romanzi e degli scritti di viaggio, è il fatto che dopo una grande crisi mondiale – come quella attraversata dall’Europa dopo il 1815, in cui il sogno napoleonico in cui egli stesso aveva creduto si è infranto – Stendhal va cercando le scintille del nuovo; quelle che Carlo Ginzburg in un suo saggio molto famoso chiamava “spie”. Credo che provare a individuare le scintille di novità sia un’operazione particolarmente difficile, e utile oggi più che mai.
Tuttavia non posso fermarmi solo a Stendhal. Un’altra figura di riferimento, per me, è Jane Austen per la sua geometria e per la sua ironia. E poi aggiungo Alba de Céspedes, perché (sebbene forse non sia dotata di una grandissima scrittura), come dice il titolo di un suo libro, è sempre “Dalla parte di lei”. Riesce sempre a cercare e a trovare le ragioni delle donne… anche delle donne che stanno abbastanza antipatiche.

4. Passiamo alla scrittura. Perché scrivere?
Anche stavolta mi limito a dire perché io scrivo. Ci sono due ordini di motivi. Uno: alla fin fine si tratta di una lotta contro la morte. Parlo, cioè, dell’idea di qualcosa che possa sopravvivere alla nostra fine. Peraltro non credo nell’aldilà, dunque questa è già una ragione profonda.
Un’altra ragione rilevante è la seguente: scrivere è il modo che io conosco per mettere ordine nella mia esperienza; nel senso che il binario letterario mi porta a ragionamenti, a emozioni e a quant’altro che senza di esso non riuscirei a raggiungere. Diciamo che in questo senso la scrittura ha qualcosa a che fare con la psicanalisi: non perché abbia una funzione curativa, ma perché consente di tornare alla propria esperienza con una guida.

5. Come e quando nasce il tuo amore per la scrittura?
Onestamente non so nemmeno se possa parlarsi di amore. Nella genia di scrittori e scrittrici ci sono due tipologie: coloro che stanno bene solo quando scrivono (e in genere scrivono di getto) e coloro che, invece, faticano e patiscono. Io faccio parte della seconda tipologia. In questo senso, quindi, amore non mi sembra la parola giusta. È più un bisogno, semmai… nel quale c’entra certamente il fatto di essere ebrea. Del resto, nell’ebraismo, il valore dato alla parola è pressoché assoluto. È qualcosa che ci si porta dietro comunque. E ciò vale anche per me che sono agnostica, ma pure profondamente ebrea.
E poi c’entra la mia famiglia, nel senso che nel mio contesto famigliare scrivevano tutti e quindi, come dire… per esistere dovevo scrivere anch’io.

6. Come si sviluppa il processo creativo dei tuoi romanzi?
In verità non lo so benissimo nemmeno io. Quel che posso dire è che in genere parto da qualcosa che voglio affermare, o dimostrare. Poi, lungo il percorso, molto spesso cambio idea. Quello che è sicuro è che non sono tra coloro che dicono “i miei personaggi mi hanno preso per mano”. Assolutamente no. Per me vale il contrario. Sono io che li conduco. È chiaro che se creo un personaggio di un certo tipo, non è poi possibile che quel personaggio si comporti in modo difforme da come l’ho costruito. Però non mi sento mai trascinata. Sono sempre io che, faticosamente, costruisco il percorso.

7. Fra tutti i libri che hai pubblicato, qual è quello a cui ti senti più legata e che più degli altri desidereresti che perdurasse nel tempo? E perché?
Penserei a un libro che è andato un po’ meno bene di altri. Quelli che sono andati meglio, per tutta una serie di ragioni li amo un po’ meno. Penserei a un libro attorno al quale sono anche cresciuta sotto vari punti di vista. Si intitola “Manicomio primavera”. Ecco: se dunque dovessi sceglierne uno, è proprio questo.

8. Di recente si è tornato a parlare di “morte del romanzo” (questione, per la verità, piuttosto antica), anche per la diffusione di nuove forme di narrazione legate allo sviluppo della tecnologia. Qual è la tua posizione a riguardo?
Non ne posso più di sentir parlare di morte del romanzo. A partire dalla tragedia greca, per arrivare ai grandi romanzi dell’Ottocento e del primo Novecento, è già stato detto e raccontato tutto. Allora, per quale ragione continuare a scrivere oggi? In me scatta uno strano meccanismo che non pretendo sia di altri. In un certo senso, per ogni cosa che scrivo mi devo prima “autorizzare”. Questo perché ritengo che scrivere per gli altri sia un grande atto di presunzione, quasi di violenza, o di supponenza. Io scrivo pensando che poi qualcuno impiegherà un po’ del proprio tempo, della propria vita, per leggere ciò che ho scritto. Dunque quello che io scrivo deve avere una sua ragione. La ragione che trovo è quella della possibilità di offrire un punto di vista che non è già stato esplorato in maniera esaustiva. Deve trattarsi, dunque, di qualcosa di necessario. Non basta ricorrere a “trovate”, o a ricerche stilistiche. Certo, a qualche “trovata” ho fatto ricorso anch’io. Posso fare l’esempio di “Casalinghitudine”: fino a quel momento libri che contenevano ricette di cucina non ne erano stati pubblicati (tanto è vero che all’epoca la Siae non mi voleva dare l’iscrizione), ma quelle ricette erano necessarie per ciò che stavo raccontando. Dunque non era una “trovata” fine a se stessa, ma una necessità interna al libro.

9. In che modo l’esplosione del web e dei social network ha inciso (ammesso che abbia inciso) sulle attività legate al leggere e allo scrivere?
Credo che ci sia una differenza enorme tra la mia generazione (non solo la mia per la verità, ma più d’una) e la generazione digitale. Io scrivo al computer, perché trovo sia molto comodo farlo, però poi a un certo punto, quando ritengo di essere venuta a capo di una stesura, comunque stampo. Ho bisogno ancora della carta.
Certo, per quanto riguarda le modalità di lettura le possibilità si sono ampliate. Io, per esempio, ho un nipote che passa tre quarti dell’anno in barca in Grecia e capisco che, in quel caso, sarebbe molto complicato portarsi dietro un quantitativo enorme di libri di carta ed è preferibile utilizzare l’e-book reader, che consente di trasportare una biblioteca intera dentro a un piccolo dispositivo e con un peso irrisorio. Ma non è qualcosa che mi appartiene. Uso Internet, non sono così retrograda. Però, in generale, mi pare che sulla Rete si sia affermata un po’ troppo la tendenza a raccontare i fatti propri senza ricorrere a nessun tipo di filtro. Un’altra cosa che mi lascia perplessa riguarda la possibilità di intrattenere rapporti con l’interruttore. Questo vale sia per le email, sia per le chat. Hai l’illusione della comunicazione continua. Se a un certo punto però qualcosa ti disturba, puoi staccare, ti puoi disconnettere. Questa possibilità, a mio avviso, rischia di produrre un impoverimento.

10. Che consigli daresti ai giovanissimi che ambiscono a cimentarsi nella “scrittura letteraria”?
Intanto consiglierei di diffidare dei corsi di “scrittura creativa”, non tanto perché non sono utili (anzi, in alcuni casi possono anche essere molto utili) quanto per il fatto che il talento della scrittura non può essere insegnato. Si può insegnare e si può imparare a governarlo, a sfruttarlo al meglio; ma il talento non può essere insegnato.
Secondo: vivere. È necessario fare un po’ di esperienza di vita prima di cimentarsi nella scrittura. Altrimenti, di che si parla?
Terzo: tenere sempre d’occhio il rischio di fare il giro del mondo intorno al proprio ombelico.
Infine: leggere. Leggere tanto. Parrebbe che il numero della gente che scrive superi quello di coloro che leggono. Il che è un evidente paradosso. Senza la lettura, la scrittura è un’attività a dir poco presuntuosa e che non porta lontano.

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Cara Clara, ci mancherai tanto!

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I libri di Clara Sereni su Ibs

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IN MEMORIA DI UGO RICCARELLI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/07/23/in-memoria-di-ugo-riccarelli/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/07/23/in-memoria-di-ugo-riccarelli/#comments Mon, 23 Jul 2018 13:45:39 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5363 In occasione del quinquennale della scomparsa di Ugo Riccarelli (Cirié, 3 dicembre 1954 – Roma, 21 luglio 2013) rimettiamo in primo piano questo post pubblicato poco dopo la sua scomparsa

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Post del 6 agosto 2013

ugo-riccarelliSono rimasto profondamente scosso dalla notizia della scomparsa di Ugo Riccarelli, avvenuta a Roma il 21 luglio scorso. Aveva 58 anni. Era nato a Ciriè, in provincia di Torino, il 3 dicembre 1954. La sua salute è sempre stata cagionevole, anche per via del doppio trapianto di cuore e polmone a cui fu costretto a sottoporsi anni fa in Inghilterra. La notizia, comunque, mi ha colto di sorpresa… e ho avuto bisogno di qualche giorno per “metabolizzarla” e organizzare questo dibattito su Letteratitudine dedicato alla memoria dello scrittore del “dolore perfetto”.

Ecco come si autopresentava Ugo Riccarelli nello spazio online a lui intestato sul sito de “Il Fatto Quotidiano”

Sono nato nel 1954, in una cittadina della cintura torinese, da una famiglia toscana. Ho studiato Filosofia presso l’Università di Torino e per molto tempo mi sono occupato di azione e promozione culturale in campo scolastico e teatrale, aprendo un cineclub, fondando un gruppo teatrale, lavorando in biblioteche civiche. Nel 1985 ho iniziato il mio percorso di emigrante al contrario, cominciando a scendere a Sud, verso Pisa dove ho vissuto per 16 anni occupandomi, tra le altre cose, di comunicazione: sono stato addetto stampa al Comune. Nel 2002 sono venuto a Roma dove ho lavorato prima nello staff del sindaco e quindi con il Teatro di Roma. Nel 1995 ho pubblicato il mio primo libro, “Le scarpe appese al cuore” con Feltrinelli (Mondadori 2002) al quale sono seguiti “Un uomo che forse si chiamava Schulz” (Piemme 1998) premiato con il Selezione Campiello 1998 e, nella traduzione francese, con il Prix Wizo 2001, “Stramonio” (Piemme 2000 e Einaudi 2009), “Il dolore perfetto” (Mondadori 2004) vincitore del Premio Strega 2004 e, nella traduzione spagnola, del Campiello Europeo nel 2006; “Un mare di nulla” (Mondadori 2006), “Comallamore” (Mondadori 2009), “La Repubblica di un solo giorno” (Mondadori 2011), “Ricucire la vita” (Piemme 2011) oltre alle raccolte di racconti “L’Angelo di Coppi” (Mondadori 2002), “Pensieri crudeli” (Perrone 2006) e “Diletto” (Voland 2009). Ho firmato alcune drammaturgie e collaborato con diverse testate giornalistiche e riviste tra le quali La Repubblica, Il Sole 24 Ore, Diario, Grazia, Il Tirreno. I miei libri sono tradotti in numerosi Paesi.

Il suo ultimo romanzo, edito da Mondadori, si intitola “L’amore graffia il mondo” ed è finalista al Premio Campiello 2013 (e in lizza per il SuperCampiello). Qualche mese fa ho avuto modo di incontrare Ugo Riccarelli nell’ambito del mio programma radiofonico “Letteratitudine in Fm“. È stata un bella chiacchierata. Ugo ha tracciato il suo percorso letterario parlando dei suoi inizi, delle letture con cui si è formato, delle sue abitudini di scrittura, dell’amicizia con Tabucchi e – naturalmente – del nuovo romanzo (di cui ha anche letto le prime pagine). Potete ascoltare la puntata cliccando sul pulsante audio (qui sotto)…

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A pochi giorni dalla scomparsa, nella tradizione di Letteratitudine, mi piacerebbe ricordare questo nostro scrittore con il vostro indispensabile contributo. Dedico dunque questo “spazio” alla memoria di Ugo Riccarelli, anche con l’auspicio di contribuire a farlo conoscere a chi non avesse ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.

Chiedo a tutti di contribuire lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare Riccarelli e la sua produzione letteraria. Seguono alcune domande volte a favorire la discussione.

1. Che rapporto avete con le opere di Ugo Riccarelli?

2. Qual è quella che avete amato di più?

3. Qual è quella che ritenete più rappresentativa (a prescindere dalle vostre preferenze)?

4. Tra le varie “citazione” di Riccarelli di cui avete memoria (o che magari avrete modo di leggere per questa occasione)… qual è quella con cui vi sentite più in sintonia?

5. Qual è l’eredità che Riccarelli lascia nella letteratura italiana?

Grazie in anticipo per la vostra partecipazione.

Contestualmente, LetteratitudineNews accoglierà contributi dedicati a Riccarelli. Ne approfitto subito per ringraziare Stefano Petrocchi (segretario esecutivo della Fondazione Bellonci: Ugo Riccarelli era uno dei componenti del Comitato Direttivo del Premio Strega) e lo scrittore Paolo Di Paolo per gli articoli che hanno messo a mia disposizione (potete leggerli cliccando sui loro nomi).

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OMAGGIO A PHILIP ROTH http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/05/23/omaggio-a-philip-roth/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/05/23/omaggio-a-philip-roth/#comments Wed, 23 May 2018 05:20:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7804 Dedichiamo questo omaggio al grande scrittore americano Philip Roth (Newark, 19 marzo 1933 – Manhattan, 22 maggio 2018), tra gli autori più influenti dell’ultimo secolo

Approfondimenti su: la Repubblica, Il Corriere della Sera, La Stampa, Il Sole24Ore, L’Espresso, Il Giornale, Avvenire, Il Fatto Quotidiano, Ansa

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Di seguito: una nota biografica e alcuni video

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Philip Roth uno dei più noti e premiati scrittori statunitensi della sua generazione, considerato tra i più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese. È conosciuto in particolare per il racconto lungo Goodbye, Columbus, poi unito ad altri cinque più brevi in volume (premiato con il National Book Award), ma è diventato famoso con Lamento di Portnoy. Da tanti anni è stato considerato “in odore” di Premio Nobel della Letteratura (riconoscimento che non gli venne mai tributato).
I suoi romanzi tendono a essere autobiografici, con la creazione di alter ego (il più famoso dei quali è Nathan Zuckerman, che appare in diverse opere), personaggi che portano il suo vero nome e persino personaggi che si chiamano Philip Roth ma non sono lui (come in Operazione Shylock), ma anche con ritratti famigliari e di quartiere che diventano fortemente esemplari dell’umanità della zona (la periferia a ovest di New York e soprattutto Newark) e dell’epoca, tanto da farne un’identità insieme personale e collettiva.

Roth è nato a Newark, nel New Jersey, il 19 marzo del 1933, figlio di immigrati galiziani di origine ebraica. Si è laureato alla Bucknell University, e ha preso il master alla Chicago University, in letteratura anglosassone. Si è dedicato poi brevemente all’insegnamento, tenendo dei corsi di scrittura creativa e storia della letteratura alle università di Iowa e a Princeton. Ha poi insegnato letteratura comparata all’Università della Pennsylvania fino al 1991, quando ha deciso di dedicarsi a tempo pieno al solo esercizio della scrittura. Dopo l’università ha anche prestato servizio militare per due anni, durante i quali ha scritto racconti e recensioni per qualche rivista (Et Cetera, Chicago Review, Epoch, Commentary, The New Republic e Esquire e finalmente The New Yorker e The Paris Review).

Durante gli anni vissuti a Chicago, Roth ha sposato Margaret Martinson, dalla quale si è separato nel 1963. La donna è poi morta in un incidente stradale nel 1968, evento che è diventato parte della sua opera, con l’esplorazione dell’interiorità di personaggi che hanno perduto qualcuno improvvisamente e ne cercano una ragione o si domandano se ne hanno in qualche modo colpa. Nel 1990 Roth ha sposato in seconde nozze Claire Bloom, un’attrice con cui conviveva da tempo. Nel 1994, si è separato anche da lei.
Il 10 novembre 2012, all’età di 79 anni, Roth ha annunciato pubblicamente in un’intervista alla rivista francese Les Inrockuptibles il suo addio alla letteratura, usando questa metafora: «Alla fine della sua vita il pugile Joe Louis disse: “Ho fatto del mio meglio con i mezzi a mia disposizione”. È esattamente quello che direi oggi del mio lavoro. Ho deciso che ho chiuso con la narrativa. Non voglio leggerla, non voglio scriverla, e non voglio nemmeno parlarne». Poche ore dopo, la notizia è stata confermata dal suo editore Houghton Mifflin.
L’autore ha anche precisato di aver dato istruzioni ai suoi parenti di distruggere il proprio archivio personale quando sarà morto, archivio che potrebbe contenere anche degli inediti. Contestualmente, ha abbandonato il proprio appartamento sull’Upper West Side di New York City e si è definitivamente trasferito nella fattoria di sua proprietà nel Connecticut, dove nel marzo del 2013 ha rilasciato una lunga intervista alla rete televisiva pubblica PBS per la serie American Masters.

L’esordio narrativo è avvenuto con Addio, Columbus e cinque racconti: sei racconti in cui Roth sfodera subito uno stile ironico, coltissimo, imbevuto di suggestioni culturali cui è stato e sarà sempre soggetto: la psicanalisi, il laicismo di matrice ebraica, la satira del contemporaneo. Segue il romanzo Lasciarsi andare, dove affronta i problemi della coppia Paul e Libby con le loro famiglie d’origine, essendo lui ebreo e lei cristiana, insieme con il racconto di Gabe Wallach, personaggio che dice io nel romanzo, innamorato più volte ma legato a Martha, più grande di lui e divorziata, e con l’oscillamento tra quel che la gente si aspetta e quel che si sente necessario fare che stridono. Il suo secondo romanzo (e terzo libro) è Quando lei era buona, che ruota attorno al personaggio di Lucy Nelson, donna molto bella, però dai più considerata instabile.

Il capolavoro venne sfoderato da Roth al quarto titolo: Lamento di Portnoy, che è al tempo stesso una tragedia e una commedia personale, recitata da Alexander Portnoy, un paziente ossessivamente monologante sul lettino, in preda a una inestricabile nevrosi a sfondo maniacalmente sessuale.
Dopo il Lamento, Roth cercò di uscire dalla gabbia in cui si era magistralmente cacciato con il suo capolavoro, e sperimentò la satira politica con La nostra gang (1971) (in cui il personaggio Trick E. Dixon è chiaramente una presa in giro di Richard Nixon) e un certo surrealismo di matrice kafkiana con Il seno (1972) (dove un professore universitario si risveglia trasformato in un’enorme mammella), per poi giungere a una serie di titoli che, indubbiamente, costituiscono una delle punte di diamante della letteratura contemporanea americana. Particolarmente felice è la saga che ha al centro il personaggio (e voce narrante) di Nathan Zuckerman (The Ghost Writer, Zuckerman Unbound e The Anatomy Lesson, solo come personaggio appare pure in L’orgia di Praga, La controvita, Pastorale americana, Ho sposato un comunista, La macchia umana e Il fantasma esce di scena).
In Il grande romanzo americano (1973), Roth costruisce un romanzo intorno al baseball, e all’ossessione anti-comunista degli americani. Il professore di desiderio (1977) riprende il personaggio di David Kepesh (già apparso in Il seno e che tornerà in L’animale morente nel 2001), uno studente, poi professore, preso dalle sue visioni letterarie e intriso di intelligenza contemplativa ed esplorativa dell’interiorità e dei limiti erotici del libertinaggio e delle convenienze.
Lo scrittore fantasma (1979) ha a che fare con un giovane Nathan Zuckerman che viene ospitato da uno scrittore famoso. Durante la notte trascorsa a casa sua, il giovane incontra Amy Bellette, una donna con un passato strano e da lui immaginato simile a quello di Anna Frank, credendo anzi a momenti che sia proprio lei, sopravvissuta nell’anonimato. Il romanzo tratta dunque il rapporto tra immaginazione e realtà e anche tra persone di età e notorietà diverse che dell’immaginazione fanno un lavoro. Zuckerman scatenato (1981) riprende lo stesso tema e la stessa chiave tragicomica, ma con il protagonista in età più avanzata e con la presenza mai neutra del funerale per la morte di suo padre. Nel successivo La lezione di anatomia (1983), Zuckerman ha un misterioso dolore al collo e decide di abbandonare la scrittura per studiare medicina. Dei tre romanzi, poi riuniti in Zuckerman Bound, il terzo ebbe meno successo, anche se alcuni recensori, tra cui il collega John Updike, ne rivalutarono la portata proprio in quanto inserito all’interno della trilogia. L’orgia di Praga (1985) è un epilogo alla trilogia (nell’ed. della Library of America ve ne è anche un adattamento televisivo scritto, ma poi non realizzato), con il diario di viaggio di Zuckerman nella Praga comunista a cercare un manoscritto di uno scrittore martire del nazismo (alcuni vi hanno visto Bruno Schulz).
La controvita (1986) racconta di Henry, fratello dentista di Nathan Zuckerman, che è sposato e ha figli, ma è anche amante della sua assistente Wendy. Henry rischia di morire e deve operarsi, ma l’esito dell’operazione potrebbe essere che non sarà più in grado di avere rapporti sessuali. Chiede dunque consiglio al fratello. Se la trama è abbastanza semplice, la scrittura si complica con diverse voci e punti di vista, e considerare le opzioni equivale a prendere in esame le diverse possibilità di fare letteratura.
I fatti. Autobiografia di un romanziere (1988), come più tardi Patrimony, è un libro autobiografico che racconta di Roth bambino mentre cresce in un quartiere di Newark e del suo rapporto con il padre. Prosegue con gli anni del “college”, il primo matrimonio e il divorzio, quasi seguendo la reale cronologia dell’autore. Tuttavia il racconto si complica per l’interruzione data da una lettera di Zuckerman, personaggio che scrive al suo autore, e prima ancora da una di Roth stesso al suo personaggio, oltre che dalla riflessione di cosa vuol dire scrivere di sé. In Patrimonio. Una storia vera (1991) Roth più direttamente racconta di suo padre e della sua morte, ma anche della sua eredità di ebreo. Pur avendo addirittura fotografie del vero padre con il figlio (e il fratello), l’autobiografia non è mai solamente verità e fatti, ma diventa un inevitabile lavoro di “scrittura”. Tanto che da questo punto Philip Roth sembra apparire quasi fosse un ulteriore personaggio dei propri romanzi (come in Inganno, Operazione Shylock e Il complotto contro l’America).
In Operazione Shylock: una confessione (1993), Roth visita Israele, dove qualcuno si sta facendo passare per lui. Incontra l’impostore, che spiega le proprie ragioni come attività di propaganda politica per una nuova diaspora. Il sottotitolo “confessione” vuole appunto portare a far credere che non si tratti di un romanzo, ma di una storia vera. Alcuni personaggi in effetti sono veri (tra cui l’amico e collega Aharon Appelfeld e alcune sue vere lettere all’autore), ma il racconto riguarda piuttosto la verificabilità in quanto tale, la raccontabilità e il punto di vista sugli eventi, e cosa vuol dire “io”. Nonostante la serietà del tema, il libro scorre con leggerezza e felicità creativa.
Il teatro di Sabbath (1995), racconta di Mickey Sabbath, artista dedito a frequentare prostitute e maschera da “vecchio porco” a cui piace manipolare gli altri, soprattutto le donne, tra le quali spicca il personaggio di Drenka, immigrata croata, altrettanto depravata. Sabbath considera la propria vita un fallimento e medita sul suicidio, ma il tono complessivo è alquanto comico. Per questo libro riceve il National Book Award.
Imprevisto e roboantemente epico è l’ultimo sviluppo della narrativa di Roth: con Pastorale americana (1997), un romanzo definito dal “New Yorker” “epocale”, con Ho sposato un comunista (1998), dove Roth passa dall’allegoria alla cronaca letteraria della storia dell’intera nazione americana, e con La macchia umana (2000), considerati una “trilogia”. Il primo racconta di Seymour Levov detto “Swede”, bello, atletico, ricco, sposo di una ex-miss New Jersey, e tuttavia padre di una figlia ribelle che per protestare la guerra in Vietnam si è data alla clandestinità. La “vita perfetta” si sgretola. Tutto questo viene raccontato dal fratello Jerry a una riunione di ex-allievi di una scuola, cui partecipa anche Nathan Zuckerman. Al libro è stato assegnato il premio Pulitzer. Il secondo libro della trilogia racconta di Ira Ringold detto “Rinn”, la sua ascesa da scaricatore di porto a attore di successo e la sua caduta a causa della “caccia alle streghe” di Hollywood lanciata dal senatore Joseph McCarthy. I rapporti con la moglie Eve Frame e con la figlia, gelosa di lei, e tutte le ipocrisie a cui sottostare fanno del romanzo un ritratto dell’epoca del maccartismo. Il terzo romanzo racconta di Coleman Silk, professore di studi classici accusato ingiustamente di razzismo e costretto a dimettersi. Dopo la morte della moglie Iris (legata allo scandalo), Silk si mette con Faunia Farley, bidella della facoltà assai più giovane di lui. Ma la vera trama ha a che vedere con il fatto che il professore è sempre stato considerato da tutti ebreo bianco mentre è più probabilmente per metà creolo. Il tema centrale, che sta dietro a tutti e tre i romanzi, è dunque nuovamente la finzione e l’ipocrisia cui ci costringono le convenzioni sociali.
In Il complotto contro l’America (2004), la voce narrante è Roth stesso ma molto più giovane di quando scrive il romanzo. Racconta dell’antisemitismo americano degli anni quaranta, durante la presidenza di Charles Lindbergh. Il successivo Everyman (2006) è una riflessione sull’invecchiare e sull’ammalarsi e sul morire del protagonista (senza nome) partendo dalla fine e ricostruendo la sua infanzia con il fratello nel negozio del padre, i suoi tre matrimoni, i tre figli e i vari adulteri. Con questo romanzo, Roth diventa l’unico scrittore ad aver preso tre volte il Premio PEN/Faulkner per la narrativa.
Nel settembre 2007 Roth pubblica Il fantasma esce di scena, romanzo dai tratti autobiografici che narra dell’uscita di scena del suo alter ego Nathan Zuckerman, scrittore di successo che esce dal suo esilio rurale per tornare in una New York reduce dall’attacco alle Twin Towers. L’incontro con una giovane donna gli fa rinascere il desiderio che però non può soddisfare, mentre gli incontri con vecchie amicizie devastate dalla malattia e dalla vecchiaia lo riportano brutalmente alla propria condizione in uscita.
Indignazione (2008) è ambientato nel 1951, durante la guerra di Corea, e racconta di Marcus Messner, studente universitario in fuga dal padre oppressivo, che si innamora di Olivia Hutton ma viene convinto dalla madre a non proseguire il rapporto con lei dopo l’unico appuntamento dei due giovani. È che la ragazza ha in precedenza tentato il suicidio e il fatto è una marca infamante. Il ragazzo, d’altra parte, si fa espellere dal college per essersi dichiarato ateo, e finisce con dover partire militare in Corea, dove viene ucciso. Il racconto viene fatto a volte dal protagonista già morto e a volte dal suo essere in stato di coma e sotto morfina nel letto d’ospedale dove è ricoverato per le ferite riportate in combattimento.
Più recenti sono L’umiliazione (2009) e Nemesi (2010). Anche questi due romanzi, come Everyman e Indignation, hanno a che fare con qualcosa che resta irrisolto, che torna e ci sorprende alle spalle dal passato, mentre cerchiamo di restare in equilibrio sul tempo che passa, sulla vita che sembra assumere e perdere senso a cavallo tra fatti e finzioni.
Oltre alla narrativa, Roth ha scritto anche pochi ma interessanti saggi, raccolti in Reading Myself and Others (1975) e in Shop Talk (2001). Si è occupato di Milan Kundera, Jiří Weil, Isaac Bashevis Singer, Edna O’Brien, Bernard Malamud, Primo Levi, Aharon Appelfeld, Philip Guston, Ivan Klíma, Mary McCarthy, Franz Kafka e Saul Bellow.
Roth è il terzo scrittore statunitense che ha ricevuto l’onore di vedere pubblicata in vita la sua opera completa dalla Library of America.
Nel 2011 ha vinto il Man Booker International Prize e nel 2012 il Premio Principe delle Asturie.

L’autore statunitense, che nel 2012 ha annunciato il suo addio alla narrativa, ha pubblicato nel 2017 il volume Why write?, che compendia tutta la sua produzione saggistica; nello stesso anno è stato edito in Italia sotto il titolo Romanzi 1959-1986 il primo di tre volumi dedicati ai suoi testi narrativi.

(Fonte: Wikipedia, enciclopedia Treccani e varie)

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OMAGGIO A SEVERINO CESARI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/10/26/omaggio-a-severino-cesari/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/10/26/omaggio-a-severino-cesari/#comments Thu, 26 Oct 2017 19:40:20 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7647 Dedichiamo questo commosso omaggio a Severino Cesari (Città di Castello, 30 novembre 1951 – Roma, 25 ottobre 2017), giornalista e curatore editoriale italiano, scomparso ieri sera all’età di 66 anni dopo una lunga malattia che, in questi mesi, ha raccontato sul suo profilo Facebook emozionando un enorme numero di affezionati lettori.
Con Paolo Repetti ha fondato la prestigiosa collana della Einaudi: “Stile Libero”.

Giorno 11 ottobre, su Facebook, Cesari aveva scritto: “Una promessa per rendere l’affetto che mi date, e al quale non sono in condizione di rispondere come vorrei: possa però tornare a ciascuno accresciuto della vostra energia, della vostra tenerezza, in una ghirlanda d’oro senza fine.
Una promessa, fino a che le forze lo permetteranno, io non vi lascerò mai
“.

Riportiamo – di seguito – il messaggio dei famigliari di Cesari, la lettera di Paolo Repetti pubblicata su Repubblica e il ricordo di Rosella Postorino (tratto dal suo profilo Facebook). Condividiamo altresì un video di qualche anno fa dove Cesari racconta – in breve – la nascita di “Stile Libero”. In chiusura, un articolo di Luca Briasco (pubblicato su “Il Manifesto” del 27/10/2017)

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Dal profilo Facebook di Severino Cesari (post del 26 ottobre 2017):
“Amiche carissime e amici carissimi di Severino, il nostro e il vostro amato non c’è più.
Vi ringraziamo immensamente per la presenza e la vicinanza di tutti voi, che avete messo radici profonde nel suo cuore e nella sua mente, e avete nutrito giorno per giorno la sua Cura.
Per chi volesse salutarlo per l’ultima volta, il funerale si terrà domani alle ore 14.00 a Roma, presso la Basilica Parrocchiale SS. Silvestro e Martino ai Monti, viale Monte Oppio 28.
Emanuela e Lorenzo”

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La lettera aperta di Paolo Repetti pubblicata su Repubblica del 26 ottobre 2017

http://www.illibraio.it/wp-content/uploads/2017/10/Paolo-Repetti-e-Severino-Cesari-960x540.jpg
“Altri, con più lucidità e la giusta distanza sapranno dire meglio di me cosa ha rappresentato Severino Cesari – Seve – per il giornalismo e l’editoria italiana. Stasera, a pochi minuti dalla notizia della sua scomparsa, della scomparsa del mio fratello maggiore di avventure e imprese editoriali, posso solo dire il vuoto che lascia in me. Severino è stato un maestro dell’ascolto. Aveva la pazienza, il distacco, l’attenzione lucida di un monaco buddista. E tutte le virtù di un maestro di cerimonie. Della cerimonia che, insieme alla vita, ha amato di più: la letteratura. Spesso l’ho visto incantarsi davanti a un fiore, una montagna, un libro antico, una parola. E fermarsi lì, in ascolto. Eravamo così diversi e così uniti. Io, un impulsivo navigatore della superficie. Severino, piantato come una quercia che trae la sua linfa solo dopo aver messo radici. Non l’ho mai sentito esprimere un parere corrivo, orecchiato. Detestava il chiacchiericcio mondano sui libri. Per lui, su ogni parola, si giocava la bellezza e la verità di un testo. E non mollava l’osso fino a quando non ne fosse stato convinto. Poi, quando i libri finalmente uscivano, Severino si ritirava “in clandestinità”. Lasciava a me, a noi tutti la palla. Qualche volta provavo a convincerlo: “Seve, dovresti chiamare tu quel critico o quel giornalista, non lo fai mai!”. Lui annuiva. La telefonata magari la faceva, ma quando il libro era già uscito da mesi. La vita è stata generosa con lui. E sembra un paradosso dirlo di una persona martoriata negli ultimi anni dalla malattia. È stata generosa perché lui lo è stato con lei. Ecco l’insegnamento forse più grande che mi ha lasciato. Non esistono sventure che non sia possibile trasformare in un’occasione di sguardo verso un altrove. Severino lo ha fissato con candore, fino agli ultimi istanti, come stupito della forza invincibile che ha la vita, se la si attraversa con l’intelligenza di un cuore immenso. Ciao Severino, ora sta a noi, prendere una parte di te nelle nostre vite”.

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Dal profilo Facebook di Rosella Postorino (post del 26 ottobre 2017):
Immagine correlataUn mese fa sono andata a trovarlo. Rivedendolo dopo molto tempo, ho capito che quella era l’ultima volta, ma ho ingoiato l’angoscia e ho finto che non fosse così. Abbiamo parlato per due ore e mezza di libri, come accadeva prima che la malattia lo tenesse definitivamente lontano dalla casa editrice. Come accadeva nelle riunioni con gli altri, o anche solo in corridoio la sera tardi, quando non c’era più nessuno e uno dei due stava per andarsene, passava a salutare l’altro e cominciava a parlare; o il sabato mattina presto a colazione, che poi diventava spesso pure pranzo, perché non eravamo mai stanchi di parlare.
Di Severino ho sempre amato quella sua forma di incanto. Lui entrava in un libro, edito o inedito che fosse, come chi si avventura in un universo nuovo, da scoprire. Leggeva ancora, e sempre, con la stessa curiosità che doveva aver avuto da ragazzino. Con lo stesso entusiasmo. Ogni singolo testo, di qualsiasi autore, nel momento esatto della lettura diventava la cosa più importante del mondo. Perché lui leggeva senza pregiudizio, come se di ogni gesto tenesse a mente la dignità con cui era stato compiuto, anche e soprattutto del gesto della scrittura.
Era fine settembre, la finestra della sua camera era aperta sull’Esquilino; dopo l’iniziale timidezza che conoscevo così bene, e che quel pomeriggio mi ha spaccato il cuore – tanto che ho dovuto sbaragliarla con la mia esuberanza, abbracciandolo e riempiendolo di baci, per poi sedermi sul letto accanto a lui – Seve ha cominciato a parlare senza fermarsi più. Di letteratura, cioè della sua vita.
E io ripensavo a chi era stato lui nella mia, di vita.
Era stato la figura più vicina a un padre dopo mio padre. Con tutto il carico di sentimenti che questo comporta: per chiunque, e in particolare per una come me.
Era un amico, con cui condividere senza vergogna fragilità, dubbi e sogni.
Era una persona che aveva conosciuto a fondo la mia scrittura, cioè la parte più intima, più autentica, di me.
Sono diventata adulta dentro Stile Libero.
E così mi sono sentita quel giorno, seduta sul letto accanto a Seve: irreversibilmente adulta. Consapevole che lo avrei perso presto, eppure così grata, per tutto quel che mi aveva dato.
Molto di ciò che sono, io lo devo a lui.

* * *

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Le amorevoli cure di un inventore di voci

di Luca Briasco (da “Il Manifesto” del 27/10/2017)

Esistono due modi per ricordare e rendere omaggio a Severino Cesari, dalle pagine del quotidiano cui ha dedicato quasi vent’anni del suo lavoro. Il primo consiste nel ricostruire un percorso intellettuale unico, che lo ha visto protagonista discreto e spesso silenzioso di quarant’anni di cultura italiana. Per farlo, occorre partire proprio dal manifesto, di cui ha curato le pagine culturali confezionando e lanciando «La Talpa», l’inserto dedicato interamente ai libri.
I libri sono stati i compagni di strada di Severino, gli oggetti, gli agglomerati di pensieri, idee, sogni, passioni che non ha mai cessato di interrogare, con un’attenzione al nuovo, una volontà incessante di scoprire e sdoganare nuove strade e tendenze, che dalle pagine culturali di un giornale lo hanno portato direttamente nel cuore dell’editoria. Prima con «Ritmi», la collana di Theoria nella quale, affiancando il compagno di progetti e avventure di una vita, Paolo Repetti, ha avviato un processo di ridefinizione delle categorie letterarie attento al fantastico, al genere, alle nuove frontiere del virtuale. Poi, a partire dal 1996 e sempre insieme a Paolo Repetti, con il progetto di Stile Libero, una mini collana di tascabili fortemente innovativa incistata nel cuore di un colosso come Einaudi e capace di crescere fino a trasformarsi in un vero e proprio sistema editoriale, il cui unico segno distintivo – contenuto nel suo stesso nome – era ed è sempre rimasto l’assoluta libertà di ricerca, e la capacità di intercettare non i bisogni consolidati dei lettori, ma quelli ancora allo stato latente: quel magma di idee e di impulsi creativi che non è ancora «libro», ma che ha già, in potenza, un pubblico di lettori pronto a intercettarlo e a identificarsi con esso.

È STATO LO STESSO SEVERINO, in un bellissimo pezzo pubblicato sulla Stampa lo scorso anno per il ventennale di Stile libero, a rievocare l’incontro con lo stato maggiore di Einaudi, dal quale scaturì non soltanto il via libera alla collana, ma anche l’autorizzazione a operare direttamente su Roma, con un livello di autonomia che non aveva precedenti, in via Biancamano: segno evidente della lungimiranza e dell’intuizione di Giulio Einaudi in persona, il quale del resto aveva già avuto modo di conoscere l’acume, il rigore e l’ampiezza e profondità di sguardo di Cesari in un lungo dialogo a distanza il cui frutto, Colloquio con Giulio Einaudi (pubblicato da Theoria nel 1991, poi riproposto dalla stessa Einaudi), rimane un autentico caposaldo nella storia della cultura e dell’editoria italiane.

Racconta Severino Cesari: «Avevamo questa idea, che libri e lettori diversi potevano parlarsi in una collana che faceva di tutto: narrativa italiana, straniera, varia, saggistica. La scommessa era tenere insieme comicità, fumetto, ricerca letteraria, crime… David Foster Wallace con Roberto Benigni, i ’giovani cannibali’ e le grandi star del crime italiano e internazionale. Ci avrebbe pensato il lettore a unire con la matita gli infiniti puntini che dividevano un libro dall’altro. Che cosa faceva di un libro uno Stile libero? Una ’corrispondenza di amorosi sensi’ tra parole forse lontane».
Davvero il compito era affidato al solo lettore? Certamente spettava a lui unire i puntini, ma a segnare la traiettoria, a garantirne l’esistenza stessa, c’era il lavoro di una squadra di menti pensanti, di cui Cesari è stato ispiratore, mentore e maestro. Con un intuito che rasentava la rabdomanzia e una capacità di immedesimazione empatica con l’autore e le sue emozioni che non aveva quasi precedenti, Severino ha saputo trovare non in una ma in dieci, cento occasioni, «quell’unico elemento che permette di fare un libro come fosse ogni volta la prima volta»: un elemento che, ci ricorda l’articolo cui stiamo attingendo, non è, in fondo, nient’altro che una voce.

SU QUESTO PUNTO, Cesari non avrebbe potuto essere più netto: «O l’autore e il libro hanno una voce che può anche non piacerti ma non si era sentita, o non ha senso sperare di rispondere alla segreta domanda di senso di un lettore che ancora non si è neppure manifestato. Tutto qui, in fondo. Ma tu lo sai che c’è, questo lettore, questa lettrice, e aspetta il libro che non c’è ancora, l’autrice sconosciuta che tu pubblichi tremando e diventa inaspettatamente un successo. Perché ha interpretato un bisogno nascosto, non ancora espresso, ma che doveva avere per forza un rapporto con la voce che qualcuno degli editor aveva sentito».
Il frutto di questa ricerca ventennale è sotto gli occhi di tutti: da Niccolò Ammaniti e Simona Vinci ai Wu Ming; da Carlo Lucarelli e Giancarlo De Cataldo a Maurizio De Giovanni, fino agli ultimi, fulminanti esordi, che si chiamino Giacomo Mazzariol o Luca D’Andrea, Stile libero ha ridisegnato i confini della narrativa italiana, proponendo nuove chiavi di lettura e di ricerca, in una perenne e rinnovata caccia ai bisogni nascosti e inespressi di un lettore mai così virtuale e reale al tempo stesso. E di tutti questi autori Severino è stato editor, lettore appassionato, punto di riferimento, attraverso una predisposizione all’ascolto che aveva qualcosa di mistico.
Non a caso, quasi tutti i suoi editing si concludevano con una lettura ad alta voce del testo, affidata all’autore, che Cesari accompagnava con il capo leggermente reclinato, teso a percepire le minime sfumature di tono, pronto a intervenire anche solo per proporre una pausa, una virgola in più, un dettaglio anche minimo, ma necessario perché la voce dello scrittore emergesse in tutta la sua potenza e novità.

Questo, dunque, è un primo modo per rendere omaggio a Severino Cesari, e sarebbe già di per sé sufficiente a farne percepire la statura intellettuale e umana. Ma non spiegherebbe lo straordinario fenomeno che, in queste ore, si sta verificando sui social media, e in particolare sulla sua pagina Facebook. Si moltiplicano testimonianze, saluti, ricordi, in un clima nel quale la malinconia di amici, scrittori, colleghi, si arricchisce quasi ogni volta di una nota di serena gratitudine. È stato Gianni Riotta, amico di lunga data e compagno nell’avventura al manifesto, a sintetizzare nel modo migliore il carattere davvero senza precedenti di quanto sta accadendo, quando in un suo breve status scrive: «Chi predica che i social media stiano creando un deserto di sentimenti umani, disperdendo le comunità, farebbe bene a dare una reverente occhiata oggi alla pagina di Severino Cesari e leggere assorto le migliaia di fiori digitali, le parole e i pensieri, deposte in omaggio alla città invisibile che aveva creato».

QUANDO LA MALATTIA che lo ha piegato si è manifestata per la prima volta, Severino ha deciso di trasformarne il senso. Anziché ribellarsi l’ha accolta e ne ha ascoltato il messaggio, trasformandola in paradossale opportunità per un esercizio il cui fine ultimo era il riscatto attraverso la cura. Cura non solo medica; cura dell’anima, ricerca di un difficile punto di equilibrio tra il lento, inevitabile decadere del corpo e il pieno, inusitato godimento di spazi vitali tanto più preziosi in quanto sottratti alla scontatezza dell’abitudine, e restituiti al loro valore più autentico.

QUESTO PERCORSO, Severino ha voluto condividerlo: aprendo una pagina Facebook – lui che ai social si era accostato con sospettosa prudenza, studiandoli a lungo da lontano – e scandendo il percorso della cura in un susseguirsi di racconti, pagine di diario, commenti sui suoi autori e sui libri più amati. Con scrittura tersa, elegante, ironica, ha saputo raggruppare attorno a sé una comunità di lettori innamorati della sua voce, ricreando, stavolta da autore, quella corrispondenza di amorosi sensi che aveva inseguito per una vita intera dedicata all’editoria.
Con molta cura, si intitola il libro che Severino ha costruito partendo dai suoi post, e al quale ha lavorato fino all’ultimo giorno: ed è la cura, per le voci, per gli autori e, da ultimo, per i suoi amici, virtuali e non, che ci lascia in eredità. Nella cura, più che in ogni altra cosa, stanno le ragioni della sua grandezza.

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150 anni dalla nascita di LUIGI PIRANDELLO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/06/28/150-anni-dalla-nascita-di-luigi-pirandello/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/06/28/150-anni-dalla-nascita-di-luigi-pirandello/#comments Wed, 28 Jun 2017 15:46:58 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7560 In occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita di Luigi Pirandello proponiamo questa intervista che Massimo Maugeri ha rilasciato nell’estate del 2015 al network nazionale australiano SBS nell’ambito di serie dedicata al meglio della letteratura italiana del Novecento.

Per ascoltare, clicca sull’immagine sottostante o su “audio mp3″

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CINQUE ANNI DALLA MORTE DI ANTONIO TABUCCHI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/25/omaggio-a-antonio-tabucchi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/25/omaggio-a-antonio-tabucchi/#comments Sat, 25 Mar 2017 16:00:27 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3993 CINQUE ANNI DALLA MORTE DI TABUCCHI (Pisa, 23 settembre 1943 – Lisbona, 25 marzo 2012)

Rimetto in primo piano questo post dedicato ad Antonio Tabucchi a cinque anni esatti dalla sua scomparsa (avvenuta il 25 marzo 2012). Sarò a grato a chiunque di voi vorrà contribuire a ricordarlo.

Massimo Maugeri

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POST DEL 24 SETTEMBRE 2012

Oggi, 24 settembre 2012, Antonio Tabucchi, avrebbe compiuto 69 anni.

Rimetto in evidenza questo post pubblicato in occasione della sua scomparsa, avvenuta il 25 marzo 2012.
In occasione di questa ricorrenza, la casa editrice Cavallo di Ferro ha pubblicato un volume intitolato Una giornata con Tabucchi.

Su LetteratitudineNews potrete leggere l’intervista che Romana Petri, Paolo Di Paolo e Ugo Riccarelli (tre dei quattro coautori di questo libro) hanno rilasciato a Simona Lo Iacono.

Naturalmente invito tutti a lasciare un nuovo pensiero per Tabucchi.

Buon compleanno, Antonio!

Massimo Maugeri

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Post del 25 marzo 2012
http://cdn.blogosfere.it/arteesalute/images/ANtonio-Tabucchi-morto-a-Lisbona.jpgUn altro grande della nostra letteratura, ci lascia. Si tratta di Antonio Tabucchi, che si è spento oggi 25 marzo 2012, a Lisbona, all’età di 68 anni, a seguito di una lunga malattia.
Considerato una delle voci più rappresentative della letteratura europea, Tabucchi era nato a Pisa, il 24 settembre 1943. La sua impronta letteraria rimarrà per sempre legata al suo amore per il Portogallo. D’altra parte è stato il maggior conoscitore, critico e traduttore italiano dell’opera di Fernando Pessoa.
I libri di Antonio Tabucchi sono tradotti in quaranta lingue (in tutti i paesi europei, Stati Uniti e America Latina e nelle lingue più lontane, come il Giapponese, Cinese (Taiwan e Repubblica Popolare Cinese), Ebraico, Arabo (Libano e Siria), Kurdo, Indi, Urdu e Farsi.
Alcuni dei suoi romanzi sono stati portati sullo schermo da registi italiani e stranieri (Roberto Faenza, Alain Corneau, Alain Tanner, Fernando Lopes) o sulla scena da rinomati registi teatrali (Giorgio Strehler e Didier Bezace fra gli altri).
Ha ricevuto numerosi premi in Italia, fra cui il Pen Club Italiano, il Premio Campiello (per “Sostiene Pereira”) e il Premio Viareggio-Rèpaci; e prestigiosi riconoscimenti all’estero, fra cui il Prix Médicis Etranger (per “Notturno indiano”), il Prix Européen de la Littérature e il Prix Méditerranée in Francia; l’Aristeion in Grecia; il Nossack dell’Accademia Leibniz in Germania; l’Europäischer Staatspreis in Austria; il Premio Hidalgo e il premio per la libertà di opinione “Francisco Cerecedo” attribuito ogni anno dal Principe delle Asturie, in Spagna. È stato nominato “Chevalier des Arts et des Lettres” dalla Repubblica francese e ha ricevuto la decorazione dell’Ordine dell’Infante D. Henrique dal presidente della Repubblica portoghese.
È stato professore cattedratico dell’Università di Siena ed ha insegnato in prestigiose Università straniere (Bard College di New York, Ecole de Hautes Etudes e Collège de France di Parigi). Ha collaborato con quotidiani italiani e stranieri (“Corriere della Sera”, “Repubblica”, “L’Unità”, “Il manifesto”, “Le Monde”, “El País”, “Diário de Notícias”, “La Jornada”, “Allegemein Zeitung”) e riviste quali “La Nouvelle Revue Française” e Lettre International”. È membro fondatore dell’”International Parliament of Writers”. Dal 2000 era stato proposto dal Pen Club italiano all’Accademia di Svezia quale candidato italiano per il Nobel di letteratura.

Tabucchi ci lascia… e Il tempo invecchia in fretta: è il titolo di uno dei suoi libri più recenti. Ce ne parla l’autore stesso, in questo video pubblicato sul canale YouTube della Feltrinelli (il suo editore).

Dedico questo “spazio” alla memoria di Antonio Tabucchi. Come accaduto con altri artisti della scrittura che ci hanno lasciato, questo piccolo “tributo” vuole essere appunto un omaggio, ma anche un’occasione per far conoscere questo autore a chi non ha ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.
Chiedo a tutti di contribuire lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione, informazioni biografiche… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare Antonio Tabucchi e la sua produzione letteraria.

Per favorire la discussione, vi propongo le seguenti domande…

1. Che rapporti avete con le opere di Antonio Tabucchi?
2. Qual è quella che avete amato di più?
3. E l’opera di Tabucchi che ritenete più rappresentativa (a prescindere dalle vostre preferenze)?
4. Qual è l’eredità che Tabucchi ha lasciato alla letteratura mondiale?

Ringrazio tutti, in anticipo, per i contributi che riuscirete a far pervenire…

Massimo Maugeri

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CENTO ANNI DALLA NASCITA DI CARLO CASSOLA #2 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/18/cento-anni-dalla-nascita-di-carlo-cassola-2/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/18/cento-anni-dalla-nascita-di-carlo-cassola-2/#comments Sat, 18 Mar 2017 09:37:26 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7467 IN OCCASIONE DEL CENTENARIO DELLA NASCITA DI CARLO CASSOLA (Roma, 17 marzo 1917 – Montecarlo, 29 gennaio 1987) ri-proponiamo uno stralcio dell’intervista che ci ha rilasciato Elisabetta Risari (Responsabile Editoriale Classici Mondadori) in occasione della ripubblicazione (negli Oscar Mondadori) di due romanzi di Carlo Cassola: “Un cuore arido” (1961) e “Il cacciatore” (1964).

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I 50 ANNI DI OSCAR MONDADORI E CARLO CASSOLA

di Massimo Maugeri

In data 5 maggio 2015, in concomitanza con il 50° anniversario della nascita della collana “Oscar Mondadori“, sono stati ripubblicati (negli Oscar, appunto) due romanzi di Carlo Cassola, “Un cuore arido” (1961) con introduzione di Anna Bravo e “Il cacciatore” (1964) con introduzione di Massimo Onofri.
Questa scelta non è stata casuale. Nel maggio 1965 il capolavoro di Carlo Cassola, “La ragazza di Bube“, fu pubblicato nei neonati Oscar Mondadori come primo volume in assoluto di un autore italiano (fu il secondo titolo dopo “Addio alle armi” di Hemingway).
In questi ultimi anni si è proceduto alla ripubblicazione delle opere di Cassola negli Oscar con il coordinamento scientifico di Alba Andreini. Il primo volume fu, appunto, “La ragazza di Bube” (collana “Classici moderni”).
Le introduzioni ai volumi che escono nella serie “Scrittori moderni” sono di volta in volta affidate a personalità del mondo letterario affinché rileggano i testi su nuove basi. Così “Il taglio del bosco” (2011) ha un’introduzione di Manlio Cancogni; “Fausto e Anna” (2012) di Eraldo Affinati; “La visita” (2013) di Massimo Raffaeli; “L’uomo e il cane” (2014) di Vincenzo Pardini (approfondimenti su LetteratitudineNews).
Già nel 2007 Mondadori aveva pubblicato un corposo volume dei “Meridiani” dedicato a Cassola. Intitolato “Racconti e romanzi”, il volume raccoglie una selezione – dagli esordi al 1970 – delle principali pubblicazioni uscite per Einaudi. La curatela di Alba Andreini, ricchissima di materiali inediti, ha segnato l’avvio di una fase scientifica fondata sull’analisi dei documenti nello studio dell’opera nel complesso e nei suoi singoli titoli.

In occasione del centenario della nascita di Cassola, ripropongo alcuni passaggi dell’intervista che nel 2015 mi rilasciò Elisabetta Risari (nel suo ruolo di Responsabile Editoriale Classici Mondadori).

-Cara Elisabetta, veniamo al caso Cassola. Quali sono i principali elementi di attualità riscontrabili nell’intera opera di questo autore?
Leggere Cassola significa incontrare un narratore tenacemente dedito a scavare il senso profondo e misterioso dell’esistenza e a ricercare la verità della storia; coraggiosamente refrattario, come autore, ai compromessi e al conformismo delle parole d’ordine, indipendente e fuori dal coro: uno scrittore di successo ma controcorrente; una personalità di grande libertà di pensiero, di onestà e purezza incorruttibili.
In particolare, già negli anni Cinquanta Cassola mette in luce gli effetti negativi del condizionamento ideologico (nella realtà e nell’arte), argomento divenuto ormai oggetto di revisione storica, ma anche il progressivo eclissarsi delle ideologie – ciò che fa dell’oggi un’era post-ideologica.
Nell’ultima fase del suo impegno (negli anni Settanta), inoltre, Cassola si è coraggiosamente battuto con notevole anticipo su questioni ancora oggi alla ribalta, anzi la cui urgenza si è addirittura acuita: il tema della pace e del disarmo, connesso a quello della riduzione della spesa per gli armamenti; e il problema della salvaguardia dell’ambiente (dal paesaggio agli animali) e della difesa della vita stessa, in un mondo a rischio di autodistruzione o catastrofe nucleare che ne minaccia la sopravvivenza. Proprio a questa fase risale, ad esempio, l’apologo L’uomo e il cane (1977), ripubblicato negli Oscar nel 2014, che tramite il racconto delle traversie del cane Jack – che per correre dietro a un padrone finisce vittima della sua spietatezza –, esprime il timore di Cassola che l’uomo preferisca la dipendenza servile all’avventura della libertà, bene per lui supremo.

- Come già accennato, per Oscar sono stati ripubblicati due romanzi di Cassola. Partiamo da “Un cuore arido” (1961). Qual è il tema forte di questo romanzo?
Un cuore aridoÈ senz’altro l’esemplare capacità che ha la protagonista Anna di decidere liberamente il proprio destino, sfidando i pregiudizi dell’ambiente e ascoltando se stessa. La coerenza al proprio sentire la porta – nel suo percorso di maturazione – a scegliere, rispetto alle persone, i luoghi, in quanto espressione della inestinguibile bellezza del creato, alla quale guarda sempre Cassola con il suo amore per la vita, affidando ad Anna, tra tutte le numerose figure femminili che popolano le sue opere, gli ideali poetici della sua narrativa esistenziale e il ruolo di sua portavoce. 
È stata la presenza di un personaggio femminile così forte ed emblematico a suggerire la firma scelta per l’introduzione: Anna Bravo, eccellente storica e studiosa della questione femminile, nel suo scritto mette bene in evidenza l’indipendenza di Anna dalle convenzioni e dagli schemi prefissati, insieme a quella di Cassola, e sottolinea la sua comprensione del punto di vista femminile, che caratterizza il testo.

Il cacciatore- Quali sono, invece, le tematiche principali trattate ne “Il cacciatore” (1964)?
Come indica l’insolita presenza di un protagonista maschile, unico nel complesso dell’opera di Cassola dove invece la presenza femminile è preponderante, il motivo principale del romanzo è il rapporto uomo-donna, definito dall’autore “coesistenza tra i sessi” e colto qui – diversamente da altri testi dello scrittore – al massimo della sua divergenza interna. La caccia inscrive la virilità di Alfredo, di cui è forte metafora, nella crudeltà delle leggi della natura, facendo della fragile Nelly, che di lui profondamente e infelicemente s’innamora, la vittima predestinata, al pari delle quaglie del suo carniere. Ma la morte che l’ambientazione negli anni della Grande Guerra evoca, e da cui si sente insidiato Alfredo, riformato per un difetto cardiaco, dà risalto ad un altro tema del romanzo: quello del trascorrere del tempo, che tutto inghiotte e distrugge. La precarietà delle cose e la finitudine umana risaltano di contro al perpetuo rinnovarsi, con il volgere delle stagioni, della natura, che spicca nella bellezza struggente del paesaggio toscano rendendo terra e cielo (in particolare quest’ultimo con lo sfilare e trascolorare delle nuvole), da sfondo qual è, protagonista del romanzo quanto e più di Alfredo, ed espressione poetica – è questa un ulteriore aspetto del romanzo – della liricità della scrittura di Cassola. Per l’aspetto della liricità della scrittura di Cassola vale la pena di ricordare l’introduzione di Massimo Raffaeli (non a caso un raffinato studioso di poesia) alla raccolta di racconti La visita (uscita in Oscar nel 2013), mentre su tutti gli elementi che abbiamo appena messo in luce per Il cacciatore si sofferma l’introduzione di Massimo Onofri.

- Perché un lettore di oggi che non ha mai letto Cassola dovrebbe leggere questi due romanzi?
Innanzitutto, per il piacere di godersi due testi, e due storie, di impeccabile fattura, ‘promossi’ dal tempo – al quale resistono solo i capolavori – oltre che dall’amore dei primi (tanti!) lettori che al loro apparire confermarono la popolarità di Cassola, rinnovandone il grande successo di vendita.
Inoltre, perché attraverso i due romanzi si conoscerà una narrazione che mette al centro il mondo della provincia, facendo ritrovare prospettive e valori smarriti ma intrinsecamente ricchi di futuro della realtà italiana del passato prossimo. Si scoprirà così, nell’ordinarietà del quotidiano e negli umili destini della gente comune che vi si racconta, quant’è irriducibile la semplicità che in Cassola hanno elogiato gli amici poeti come Luzi e Montale, e quanto è linguisticamente potente la limpidezza della sua prosa, con i suoi perfetti dialogati e gli stupendi squarci paesaggistici.
Infine, perché sul filo della sensibilità esistenziale – che è il cuore dei due romanzi ma attraversa tutta la scrittura di Cassola come sua cifra originale e inconfondibile – il lettore sarà senz’altro invogliato a procedere alla scoperta degli altri libri dell’autore, dai titoli tutti bellissimi, non tralasciando nemmeno, in occasione dei settant’anni della lotta di Liberazione l’imprescindibile narrativa dell’impegno resistenziale, resa celeberrima anche dalla trasposizione cinematografica del capolavoro La ragazza di Bube (Premio Strega nel 1960) di Comencini, del 1963.

I volumi di Cassola finora usciti finora in Oscar, tutti a cura di Alba Andreini, sono:
La ragazza di Bube (Oscar Classici moderni)
Il taglio del bosco, con introduzione di Manlio Cancogni (Oscar Scrittori moderni)
Fausto e Anna, con introduzione di Eraldo Affinati (Oscar Scrittori moderni)
La visita, con introduzione di Massimo Raffaeli (Oscar Scrittori moderni)
L’uomo e il cane, con introduzione di Vincenzo Pardini (Oscar Scrittori moderni)
Il cacciatore, con introduzione di Massimo Onofri (Oscar Scrittori moderni)
Un cuore arido, con introduzione di Anna Bravo (Oscar Scrittori moderni)

-Grazie mille, Elisabetta.

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Elisabetta Risari ha al suo attivo una laurea in letteratura latina alla Statale di Milano, due traduzioni di autori latini (la Germania di Tacito e le Catilinarie di Cicerone), tre figli (quasi) adolescenti e ben venticinque anni di attività editoriale in Mondadori nel variegato mondo dei Classici, che spazia da Omero agli autori canonici del Novecento.

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CENTO ANNI DALLA NASCITA DI CARLO CASSOLA #1 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/18/cento-anni-dalla-nascita-di-carlo-cassola-1/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/18/cento-anni-dalla-nascita-di-carlo-cassola-1/#comments Sat, 18 Mar 2017 09:26:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7463 IN OCCASIONE DEL CENTENARIO DELLA NASCITA DI CARLO CASSOLA (Roma, 17 marzo 1917 – Montecarlo, 29 gennaio 1987) ri-pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione di Anna Bravo dedicata al volume di Carlo Cassola, Un cuore arido (Oscar Mondadori, Milano 2015).

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LE DONNE DI CASSOLA (stralcio dall’introduzione di Anna Bravo a Carlo Cassola, Un cuore arido, Oscar Mondadori, Milano 2015)

Fra i narratori italiani Cassola spicca per la frequenza con cui elegge a protagonista una donna, per l’ascolto che dedica alle figure femminili e per la sua visione del rapporto fra i sessi: “coesistenza” necessaria ma non per questo armoniosa, che contiene in sé il germe del conflitto, e di un conflitto a armi dispari. La Anna di Un cuore arido mostra uno dei modi possibili di affrontare questo squilibrio.
Ciononostante nel 1974 un testo di riferimento del femminismo italiano colloca Cassola fra I padri della fallocultura,[1] responsabili di aver descritto una femminilità subalterna, equivoca, debole e insieme pericolosa, e di aver imprigionato le donne nella dicotomia cultura/natura, dove al maschile spettano l’attività e il pensiero razionale, al femminile la passività e la ripetizione.
L’accusa riflette l’atmosfera di quei primi anni Settanta. Sull’onda del femminismo, sempre più donne avevano preso atto che i discorsi in circolazione non rendevano loro giustizia su niente o quasi e, dopo aver rotto il vecchio vincolo di fedeltà al mondo degli uomini, si applicavano a smontarne ideologie e stereotipi – nella quotidianità, in politica, nella cultura. A cominciare dalla pretesa maschile di rappresentare il soggetto unico e universale. La consapevolezza che i soggetti sono due, uomo e donna, e che il primo non può parlare per il secondo, era un “arrivano i nostri” della libertà così seducente da rendere simpatici ancora oggi certi eccessi di cipiglio e la perentorietà di alcune generalizzazioni.
Ma quel giudizio resta ingeneroso. Alle due autrici Cassola aveva risposto che le sue protagoniste erano donne degli anni Trenta e Quaranta. Donne, dunque, soffocate dal greve virilismo fascista innestato su una cultura patriarcale e su una religiosità bigotta. Donne intimorite dalla sessualità maschile, angosciate dal dilemma fra respingerla (e perdere il fidanzato) o compiacerla (e magari perderlo ugualmente, insieme alla rispettabilità). E se durante la guerra i ruoli maschili e femminili erano spesso cambiati, con il ritorno alla normalità si erano in buona parte ristabiliti. Come si poteva pretendere che le donne di allora fossero «campioni di razionalità e di modernità»?[2]
È una giusta affermazione di principio, ma fa torto al Cassola narratore, che in virtù dell’adesione alle sue donne riesce a vedere molto al di là dell’associazione femminilità-natura, o del paradigma dell’oppressione, secondo cui la storia è una catena di sopraffazioni maschili e di sofferenze femminili senza scampo. Le sue ragazze e spose sanno negoziare il proprio assenso alle norme, manipolare i rapporti, farsi valere, trasgredire cercando di non pagarne il prezzo. Possono vincere o perdere, resta il fatto che sono soggetti che cercano di decidere la propria vita, che a volte si fanno complici del maschile, che creano le proprie reti di relazione e esercitano facoltà e veti – avere un potere limitato non equivale a non averne affatto. Negli scenari cari all’autore, scenari del quotidiano, del privato, delle cose all’apparenza piccole e tenute ai margini, l’impronta femminile è visibilissima. Ne escono narrazioni punteggiate di scarti e ambivalenze – ciascuna donna i suoi scarti, ciascuna le sue ambivalenze.
La Anna di Paura e tristezza ha poco in comune con la Anna di Un cuore arido, che la precede di quasi dieci anni. È una bimba poi ragazza contadina, costretta a spostarsi dalla campagna alla città. Bellissima, luminosa, vivace, si misura fra ansie e speranze con il nuovo ambiente, cerca di decifrarne le regole per capire cosa si sente di accettare e cosa no. Nella campagna e nella polverosa dimora nobiliare in cui è a servizio sembra non succedere niente, ma nel suo cuore scorre molta vita presente e passata. La tenerezza provata da bambina nel rapporto con un ragazzino sfollato; la gratitudine verso la madre che ha trovato il coraggio di averla pur in assenza di un marito; la scoperta di abitudini sconosciute; l’innamoramento. Il prescelto è un alabastraio che la affascina e la turba, ma che di lì a poco parte per il servizio militare. E la forza di lei si disfa. Quando un contadino del paese, un vecchio corteggiatore cui si è data per inerzia, la mette incinta, sente di aver perso ogni valore, e finisce per rassegnarsi a un matrimonio di riparazione. Tradendo se stessa e uscendone sfigurata – corpo appesantito, bocca vuota di denti, capelli radi nascosti sotto un fazzoletto, la salute perduta per le gravidanze e il lavoro ininterrotto.
Un’altra Anna, quella di Fausto e Anna (1952 e 1958), è diversa da tutte e due le sue omonime. Nel romanzo, l’amore fra un velleitario ragazzo della borghesia e una ragazza del piccolissimo ceto medio si logora nell’indecisione di lui, che vorrebbe essere aspettato indefinitamente; al contrario Anna va avanti con la sua vita, si sposa, ha una bambina, e a Fausto riserva sì un posto nel suo cuore, ma un posto residuale, quasi un omaggio a un passato che, pur restando amabile nel ricordo, non deve interferire con il presente.
La ragazza di BubeFa storia a sé la figura femminile più nota di Cassola, Mara, “la ragazza di Bube” del romanzo omonimo, che vince nel 1960 il premio Strega e ispira il film omonimo di Comencini, dove a impersonare Mara è la meravigliosa e già popolarissima Claudia Cardinale. La ragazza di Bube è uno dei primi romanzi italiani cui si addica il termine bestseller, Cassola è ormai famoso, e sarà di lì a poco tradotto in molte lingue, invitato in giro per il mondo.
L’intreccio ruota intorno alla quasi ragazzina Mara, al ragazzo ex partigiano Bube e al loro amore fatto a pezzi dalla temperie politica e rimesso insieme da lei. Mentre in Un cuore arido, in Paura e tristezza e in gran parte della narrativa di Cassola la grande storia è un fondale lontano, qui incombe e devasta. Responsabile nell’immediato dopoguerra dell’omicidio di un maresciallo ex partigiano e di suo figlio, Bube viene processato e condannato a quattordici anni di carcere, e Mara, pur amando ormai un altro, deciderà che il suo destino è rimanere con lui.
Un momento clou è il monologo interiore della protagonista durante l’attesa della sentenza. Finora lei non ha risparmiato a Bube qualche rimprovero, come quando lo ha accusato di aver preso a botte un prete ex fascista («in cinquanta» contro «un vecchio»);[3] e non ha capito perché abbia sparato al figlio del maresciallo dopo averlo inseguito fin dentro la casa dove si era rifugiato. Ma ai suoi occhi il fidanzato è sempre rimasto un combattente per la libertà.
Ora, mentre trema all’idea di quel che il verdetto potrebbe sancire, Mara vede in lui un ragazzo senza padre, senza nessuno capace o disposto a guidarlo, incalzato dai compaesani perché faccia vendetta al posto loro colpendo un ex fascista (o un nemico personale). Vede un “poveretto”, un fuscello nel vento, cui non gioverà l’arringa tutta politica del suo avvocato, che sollecita per lui l’attenuante di aver agito in nome di particolari valori morali. Per lei, un’unica cosa si dovrebbe chiedere ai giudici: «Soltanto questo. “Un po’ di pietà [...] non [...] altro che un po’ di pietà”».[4]
In quel “soltanto” c’è in realtà molto, c’è la preghiera di lasciar cadere lo spirito della guerra civile, la richiesta di un unilaterale disarmo ideologico della società, che sembra prefigurare il Cassola pacifista degli anni Settanta e Ottanta, instancabile promotore di campagne per il disarmo unilaterale dell’Italia. Che a formulare quell’appello alla tregua sia Mara suggerisce un filo di continuità fra l’immagine femminile in Cassola e il suo approdo al pacifismo – all’epoca (e oggi?) dominava lo stereotipo che associa la politica e la guerra agli uomini, la pietas e la pace alle donne,[5] e Cassola sembra condividerlo. Ma anche questa volta la narrazione vince sulla teoria. Perché Mara non si limita a incarnare il desiderio di pace: fa di più, rilegge la storia dal suo punto di vista, chiamando in causa la bellicosità prolungata al dopo liberazione, l’opportunismo di alcuni politici, l’indifferenza di certi partigiani sperimentati. Cosa hanno insegnato i vecchi ai ragazzi? E il partito, che per Bube era sinonimo di verità e giustizia? Dopo la condanna, lui arriverà a condividere lo sguardo dolorosamente stupito di Mara, a chiedersi perché nessuno gli abbia detto che era male picchiare il prete, che era male uccidere il figlio del maresciallo; perché nessuno abbia fermato gli incitamenti dei paesani alla vendetta, nessuno gli abbia spiegato che rifiutarsi a quel ruolo non comportava fare la figura del vigliacco.[6] Se Mara decide di restare la ragazza di Bube, è perché ha capito quanto sia profonda la sua disillusione, quanto grande la sua solitudine.
Semplificando brutalmente le scelte delle due più note e commentate figure cassoliane, Mara e la Anna di Un cuore arido, si potrebbe dire che la prima incarna il “si deve” – sacrificarsi in nome della pietas; la seconda il “si può” – provare a essere libere.
Cassola si disamorerà presto del personaggio di Mara. Eppure la compassione è un valore fondante della sua etica, che lo apparenta al mondo della nonviolenza, da cui nei primi anni Sessanta è teoricamente separato ma emotivamente vicino. Ne La ragazza di Bube, l’appello alla pietas prende però la forma del messaggio, del manifesto calato dall’alto e dall’esterno sulla spinta dell’ideologia: è la finalità narrativa da cui Cassola più rifugge, e che in Mara forse gli ha preso la mano.
Per questi aspetti, Anna è invece una anti-Mara. Non ha messaggi da trasmettere; a differenza di lei non chiede nulla, non pensa di cambiare gli altri – ha già cambiato se stessa. Non guarda alla storia neppure per dichiararsene estranea, tantomeno è interessata a fornirne una contronarrazione. Ma in un articolo di fine anni Settanta su pace e guerra, Cassola fa intravedere un punto di incontro: mentre agli uomini, scrive, la vita sembra interessare solo a certe condizioni, alle donne è cara nel suo puro e nudo manifestarsi, senza che ci sia bisogno di conferirle valori aggiuntivi.[7] E viene in mente Mara, che accoglie la vita spossessata di Bube, viene in mente Anna, che ama la propria vita sommessa – come è sommesso, quasi elusivo, il tono del Cassola fenomenologo, cultore delle cose piccole che al mondo parlano con voce sottile.
Il che non vuol dire ovviamente assenza di significati, vuol dire che in Un cuore arido bisogna cercarli, usando lo spazio per l’immaginazione che la stringata secchezza del testo lascia a chi legge. Perché Cassola non teorizza, non spiega – come potrebbe?, lui così rispettoso del mistero che avvolge il vivere; racconta, mostra: modalità comunicativa tanto efficace quanto discreta.
Beninteso, Cassola non svaluta affatto l’impegno politico e sociale, non disconosce il valore fondativo della Resistenza. Ma non accetta che i contenuti siano dettati dalla politica, e che dettino a loro volta il giudizio su un’opera. Rifiuta, in sostanza, il primato dell’ideologia sulla letteratura.

(Riproduzione riservata)

© Mondadori editoreOscar Mondadori

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[1] L. Caruso e B. Tomasi, I padri della fallocultura, SugarCo, Milano 1974.

[2] Così osservava Cassola in un’intervista riportata in Carlo Cassola: letteratura e disarmo. Intervista e testi, a cura di D. Tarizzo, Mondadori, Milano 1978, p. 66 (citata nella Cronologia del Meridiano Cassola Racconti e romanzi, cit., p. CXXI).

[3] C. Cassola, La ragazza di Bube, «Oscar» Mondadori, Milano 2010, p. 69.

[4] Ibidem, p. 199.

[5] Un libro ormai classico che analizza criticamente l’associazione meccanica fra donne e pace è quello di Jean Bethke Elshtain, Women and War, 1987 (trad. it. Donne e guerra, Il Mulino, Bologna 1991).

[6] Cfr. le pp. 206-207 di C. Cassola, La ragazza di Bube, cit.

[7] C. Cassola, La donna, forse, è ancora l’ultima speranza, in «Amica», 15 novembre 1978.

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OMAGGIO A ZYGMUNT BAUMAN http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/01/10/omaggio-a-zygmunt-bauman/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/01/10/omaggio-a-zygmunt-bauman/#comments Tue, 10 Jan 2017 14:30:14 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7398 RICORDIAMO ZYGMUNT BAUMAN, il grande sociologo e filosofo polacco di origini ebraiche scomparso il 9 gennaio 2017 a Leeds (era nato a Poznań, il 19 novembre 1925) padre della concezione sociologica denominata “società liquida”

(Di seguito: un video, una minibiografia e approfondimenti dalle principali pagine culturali italiane)

Zygmunt Bauman è particolarmente noto per aver divulgato il concetto di “società liquida”, che il vocabolario Treccani definisce nel seguente modo:

società liquida loc. s.le f. Concezione sociologica che considera l’esperienza individuale e le relazioni sociali segnate da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile.
Composto dal s. f. società e dall’agg. liquido, ricalcando l’espressione ingl. liquid society.
Con riferimento alle analisi compiute dal sociologo di origine polacca Zygmunt Bauman, autore dei saggi Liquid modernity, Cambridge (UK) 2000 (trad. it. di Sergio Minucci, Modernità liquida, Roma-Bari 2002) e Liquid love, Cambridge (UK) 2003 (trad. it. di Sergio Minucci, Amore liquido, Roma-Bari 2004).

Approfondimenti su: la Repubblica, Il Corriere della Sera, La Stampa, Il Sole 24ore, Il Giornale, Il Messaggero, Ansa, RaiStoria (con video), Il Fatto Quotidiano

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Nato da genitori ebrei a Poznań nel 1925, Zygmunt Bauman fuggì nella zona di occupazione sovietica dopo che la Polonia fu invasa dalle truppe tedesche nel 1939 all’inizio della seconda guerra mondiale. Successivamente, divenuto comunista, si arruolò in una unità militare sovietica. Dopo la guerra, iniziò a studiare sociologia all’Università di Varsavia, dove insegnavano Stanisław Ossowski e Julian Hochfeld. Durante una permanenza alla London School of Economics, preparò la sua maggiore dissertazione sul socialismo britannico che fu pubblicata nel 1959.

Bauman collaborò con numerose riviste specializzate tra cui la popolare Socjologia na co dzien (“La Sociologia di tutti i giorni”, del 1964), che raggiungeva un pubblico più vasto del circuito accademico. Inizialmente, egli rimase vicino al marxismo-leninismo ufficiale, per poi avvicinarsi ad Antonio Gramsci e Georg Simmel soprattutto dopo il 1956 e la destalinizzazione.

Risultati immagini per Zygmunt BaumanNel marzo del 1968, la ripresa dell’antisemitismo, utilizzato anche nella lotta politica interna in Polonia, spinse molti ebrei polacchi a emigrare all’estero; tra questi, molti intellettuali distaccatisi dal regime. Bauman, che aveva perso la sua cattedra all’Università di Varsavia, fu uno di questi. Egli dapprima emigrò in Israele per andare a insegnare all’Università di Tel Aviv; successivamente accettò una cattedra di sociologia all’Università di Leeds, dove dal 1971 al 1990 è stato professore. Dal 1971 ha quasi sempre scritto in lingua inglese. Sul finire degli anni ottanta, si è guadagnato una fama internazionale grazie ai suoi studi riguardanti la connessione tra la cultura della modernità e il totalitarismo, in particolar modo sul nazismo e l’Olocausto. Ha infine assunto anche la nazionalità inglese.

Il 17 aprile 2015 Zygmunt Bauman ha ricevuto la laurea honoris causa in Lingue moderne, letterature e traduzione letteraria presso il complesso Ecotekne dell’Università del Salento.

Il 9 gennaio 2017 è morto a Leeds, dove viveva ed insegnava da tempo, all’età di 91 anni.

Bauman ha focalizzato le sue ricerche sui temi della stratificazione sociale e del movimento dei lavoratori, prima di elevarsi ad ambiti più generali come la natura della modernità, ecc. Il periodo più prolifico della sua carriera iniziò dopo il ritiro dalla cattedra di Leeds, quando si guadagnò una vasta stima fuori dal circolo dei sociologi del lavoro con un libro sulle connessioni tra l’ideologia della modernità e l’Olocausto. Le sue più recenti pubblicazioni si sono concentrate sul passaggio dalla modernità alla post-modernità, e le questioni etiche relative. Con una espressione divenuta proverbiale Bauman ha paragonato il concetto di modernità e postmodernità rispettivamente allo stato solido e liquido della società.

Risultati immagini per Zygmunt BaumanSulla Società liquida: Nei suoi ultimi lavori, Bauman ha inteso spiegare la postmodernità usando le metafore di modernità liquida e solida. Nei suoi libri sostiene che l’incertezza che attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. In particolare, egli lega tra loro concetti quali il consumismo e la creazione di rifiuti umani, la globalizzazione e l’industria della paura, lo smantellamento delle sicurezze e una vita liquida sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsi esclusa, e così via.

L’esclusione sociale elaborata da Bauman non si basa più sull’estraneità al sistema produttivo o sul non poter comprare l’essenziale, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità. Secondo Bauman il povero, nella vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma si sente frustrato se non riesce a sentirsi come gli altri, cioè non sentirsi accettato nel ruolo di consumatore. In tal modo, in una società che vive per il consumo, tutto si trasforma in merce, incluso l’essere umano.

La critica alla mercificazione delle esistenze e all’omologazione planetaria si fa spietata soprattutto in Vite di scarto, Dentro la globalizzazione e Homo consumens.

Omogeneizzarsi: Secondo Bauman, l’”omogeneizzarsi” indica, relativamente ai rapporti tra i soggetti, un processo affine all’omologazione, all’assorbimento passivo dovuto ad usi e consuetudini, a modelli culturali e di condotta prevalenti in un dato contesto sociale. Oppure si può riferire anche a comportamenti o valori che aprioristicamente ed in maniera dogmatica vengono accettati e tramandati tra le generazioni di individui, senza alcuno spirito critico o alcuna capacità riflessiva. Passo successivo a ciò sono processi quali la spersonalizzazione e l’alienazione.

La morale in Bauman: Secondo Bauman, nella modernità la morale è la regolazione coercitiva dell’agire sociale attraverso la proposta di valori o leggi universali a cui nessun uomo ragionevole (la razionalità è caratteristica della modernità) può sottrarsi. Non si può invece parlare della morale post-moderna, perché la fine delle “grandi narrazioni” del Novecento, cioè le ideologie, ha reso impossibile la pretesa di verità assolute, e quindi ci possono essere tante morali.

Bauman propone un tipo di morale: la morale nasce come (ed è sostanzialmente) il consegnarsi totalmente dell’io al tu (ovvero di me all’altro). È un fatto assolutamente e totalmente individuale e libero. Poiché non può esistere un terzo che mi dice se la mia azione sia morale oppure no, non c’è più società, la quale necessita sempre di almeno tre persone. Ma come si traduce questa definizione individuale nella concreta pratica sociale? Bauman specifica che questa libertà di donarsi è sempre dentro a certi vincoli e costruzioni dati da una struttura che è, appunto, la società.

L’impulso ad essere per l’altro, a donarsi all’altro, indipendentemente da come l’altro si atteggia nei suoi confronti (questo impulso è stato formulato da Emmanuel Lévinas, filosofo francese contemporaneo) non è razionale; per questo per Bauman la morale (originata da tale impulso) è del tutto irrazionale. L’origine della morale è sempre un atto individuale, implica necessariamente un io (è la mia decisione), mai un noi (non è un atto collettivo, né l’esito di un accordo, perché è sempre la scelta del singolo di atteggiarsi in un certo modo nei confronti dell’altro). Se non c’è l’io l’atto morale non c’è. La morale quindi è un atto del tutto individuale, ma crea la società. La società nasce da una scelta etica individuale, l’atto etico individuale va fatto da me e non da altri, e però crea un vincolo: viviamo in società, siamo in società, solo in virtù del nostro essere morali. Per Bauman solitamente si incontra l’altro “non come persona”: Bauman usa il termine “persona” nel senso in cui viene usato dall’interazionismo simbolico, per cui il concetto di persona è inteso nel senso di una maschera che ricopre un ruolo. L’identità di ogni individuo è la somma di tutti i ruoli che copre, per questo si parla solo di persone, cioè di attori che ricoprono ruoli. L’atto morale ci permette di incontrare l’altro non come persona/maschera, ma come volto, cioè nella sua vera identità e non nel ruolo. Con l’atto morale mi consegno a una debolezza assoluta (l’atto morale è l’antitesi del potere o della sua logica, che è forza) perché riconosco all’altro la possibilità di comandarmi, accetto di consegnarmi a lui.

Il paradosso della morale per Bauman è che essa da un lato crea disordine, dall’altro è necessaria come atto fondante della società (senza l’impulso di aprirsi all’altro non ci sarebbero le relazioni sociali). Tuttavia, essendo l’impulso della morale irrazionale e libero, è in antitesi all’ordine sociale, e pertanto la morale rischia di non avere molto spazio in una società sempre più complessa che ha bisogno di regole sempre più sofisticate. Bauman non risolve questo paradosso del ruolo della morale, pur essendo cruciale nella sua visione.

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Bauman e la critica al negazionismo: A giudizio di Zygmunt Bauman, l’autoassoluzione della memoria storica tentata dai negazionisti è[5] un segno di cecità pericolosa e potenzialmente suicida, che si sviluppa attraverso due processi:

1. Il processo di ramificazione, per cui

« mentre la quantità, lo spessore e la qualità scientifica dei lavori specialistici sulla storia dell’Olocausto crescono a un livello impressionante, lo spazio e l’attenzione ad essa dedicati nelle opere di storia generale non fanno altrettanto »
(Z. Baumann, Modernità ed Olocausto)

2. Il “processo di sterilizzazione dell’immagine dell’Olocausto sedimentata nella coscienza popolare”. Le cerimonie commemorative e le solenni dichiarazioni non portano avanti nessuna analisi dell’esperienza dell’Olocausto, anche se sono di estrema importanza perché mantengono viva l’attenzione della gente comune, non specializzata sull’argomento, e cercano di sensibilizzare quanti non si sono mai posti il problema della memoria storica collettiva dell’intera enormità dell’evento “Shoah”.

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Premi e riconoscimenti

1989 Premio europeo Amalfi per la sociologia e le scienze sociali
1998 Premio Theodor Adorno della città di Francoforte
2010 Premio Principe delle Asturie (in comunicazione e discipline umanistiche)
2015 Laurea ad honorem in lingue moderne, letterature e traduzione letteraria dall’Università degli Studi del Salento

[Fonte: Wikipedia]

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OMAGGIO A TULLIO DE MAURO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/01/05/omaggio-a-tullio-de-mauro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/01/05/omaggio-a-tullio-de-mauro/#comments Thu, 05 Jan 2017 14:51:34 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7395 RICORDIAMO TULLIO DE MAURO, scomparso oggi 5 gennaio 2017 all’età di 84 anni

Domani 6 gennaio, dalle ore 10 alle ore 18, sarà allestita la camera ardente nell’Aula 1 della Facoltà di Lettere della Sapienza. La cerimonia di commiato avrà luogo sabato alle 10,30.

Tullio De Mauro (Torre Annunziata, 31 marzo 1932 – Roma, 5 gennaio 2017) è stato linguista e filosofo del linguaggio italiano. Si è occupato soprattutto di linguistica generale, con attenzione al rapporto tra lingua e società.

(Di seguito: un video, una minibiografia e approfondimenti dalle principali pagine culturali italiane)


Nell’immediato dopoguerra Tullio De Mauro frequentò il Liceo classico statale Giulio Cesare di Roma. Nel 1951 si iscrisse al Partito Liberale Italiano per favorirne la sinistra interna legata alla rivista Il Mondo.
Ha insegnato Linguistica generale e ha diretto il Dipartimento di Scienze del Linguaggio nella Facoltà di Lettere e Filosofia e successivamente il Dipartimento di Studi Filologici Linguistici e Letterari nella Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università la Sapienza di Roma, facoltà che ha contribuito a fondare, insieme ad Alberto Asor Rosa.
Allievo di Antonino Pagliaro, ha insegnato a vario titolo in diverse altre università italiane (Napoli “L’Orientale”, Palermo, Chieti, Salerno) dal 1957, come professore di prima fascia dal 1967.
Ha tradotto il Corso di linguistica generale (Cours de linguistique générale) di Ferdinand de Saussure che, insieme ad alcuni autori strutturalisti, ha avuto una certa influenza sul suo pensiero. Ha presieduto la Società di Linguistica Italiana (1969-1973) e la Società di Filosofia del Linguaggio (1995-1997). Nel novembre 2006 ha contribuito alla fondazione dell’associazione Senso Comune per un progetto di dizionario informatico, di cui era presidente. Era socio ordinario dell’Accademia della Crusca.
Dal novembre 2007 ha diretto la Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e presieduto il comitato direttivo del Premio Strega.
Era fratello minore di Mauro De Mauro, giornalista de l’Ora di Palermo rapito e ucciso dalla mafia nel settembre 1970, e padre di Giovanni De Mauro, direttore della rivista Internazionale.
Nel giugno 1971 sottoscrisse la lettera aperta pubblicata sul settimanale L’Espresso sul caso Pinelli. Nell’ottobre dello stesso anno sottoscrisse l’Autodenuncia di solidarietà a Lotta Continua.
Nel 1975 fu eletto al Consiglio Regionale del Lazio nelle liste del PCI. Nel 1976 fu nominato assessore alla cultura, incarico che tenne fino al 1978.
È stato ministro della Pubblica Istruzione nel Governo Amato II (dal 26 aprile 2000 all’11 giugno 2001).
Dal 2001 al 2010 ha presieduto Mondo digitale, fondazione del comune di Roma, da cui è stato rimosso nel giugno 2010 dalla giunta Alemanno, per ragioni anagrafiche secondo la giunta, per ragioni ideologiche secondo De Mauro.
Ha collaborato a giornali e settimanali: dal 1956 al 1964 al settimanale Il Mondo, dal 1966 al 1979 al quotidiano Paese Sera, dal 1981 al 1990 con rubriche fisse sulla scuola (1981-1985) e il linguaggio (dal 1986) al settimanale L’Espresso. Collaborava saltuariamente con L’Unità, La Stampa, La Repubblica, Il manifesto, Il Sole-24 Ore, Il Mattino e regolarmente con Internazionale con le rubriche “La parola”, dal 2006, e “Scuole”,dal 2008.
Tra il 1960 e il 1973 collaborò spesso a trasmissioni radiofoniche e televisive della RAI, con cui riprese a collaborare di nuovo nel 1997-2000. Dal 1978 collaborava a cicli di trasmissioni radio e televisive della RTSI (Radiotelevisione della Svizzera Italiana).

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Opere principali
Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1963; 1970.
Introduzione alla semantica, Bari, Laterza, 1965.
Introduzione, traduzione e commento di Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1967; 1968.
Ludwig Wittgenstein. His Place in the Development of Semantics, Dordrecht, D. Reidel, 1967.
Senso e significato. Studi di semantica teorica e storica, Bari, Adriatica, 1971. (raccolta di saggi)
Parlare italiano. Antologia di letture per i bienni della scuola media superiore, Bari, Laterza, 1972.
Scuola e linguaggio. Questioni di educazione linguistica, Roma, Editori riuniti, 1977.
Guida all’uso delle parole, Roma, Editori riuniti, 1980; 1989. ISBN 88-359-3270-X; con floppy disk, 1997. ISBN 88-359-4351-5; 2003. ISBN 88-359-5369-3.
Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue, Roma-Bari, Laterza, 1982; 1990. ISBN 88-420-2006-0.
Capire le parole, Roma-Bari, Laterza, 1994. ISBN 88-420-4453-9; 1999. ISBN 88-420-5712-6. (raccolta di saggi)
Ideazione e direzione del Grande Dizionario Italiano dell’Uso, 6 voll., Torino, UTET, 1999.
Prima lezione sul linguaggio, Roma-Bari, Laterza, 2002. ISBN 88-420-6671-0.
La cultura degli italiani a cura di Francesco Erbani, Roma-Bari, Laterza, 2004. ISBN 88-420-7305-9; 2010. ISBN 978-88-420-9222-3.
La fabbrica delle parole. Il lessico e problemi di lessicologia, Torino, UTET, 2005. ISBN 88-7750-925-2.
Introduzione, traduzione e commento di Ferdinand de Saussure, Scritti inediti di linguistica generale, Roma-Bari, Laterza, 2005. ISBN 88-420-6827-6.
Parole di giorni lontani, Bologna, il Mulino, 2006. ISBN 88-15-10889-0.
Lezioni di linguistica teorica, Roma-Bari, Laterza, 2008. ISBN 978-88-420-8518-8.
In principio c’era la parola?, Bologna, il Mulino, 2009. ISBN 978-88-15-13327-4.
Parole di giorni un po’ meno lontani, Bologna, il Mulino, 2012. ISBN 978-88-15-23461-2.
La lingua batte dove il dente duole, con Andrea Camilleri, Roma-Bari, Laterza, 2013. ISBN 978-88-581-0555-9.
Storia linguistica dell’Italia repubblicana. Dal 1946 ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 2014. ISBN 978-88-581-1362-2.
In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia?, Roma-Bari, Laterza, 2014. ISBN 978-88-581-1622-7.

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Onorificenze
Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana – nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana
— 11 giugno 2001: Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana – nastrino per uniforme ordinaria Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana
— 2 maggio 1996: Medaglia ai benemeriti della scienza e della cultura – nastrino per uniforme ordinaria Medaglia ai benemeriti della scienza e della cultura
— 1º giugno 2007: Ha ricevuto diverse lauree honoris causa: nel 1999 dall’Università Cattolica di Lovanio, che l’ha nominato doctor philosophiae et litterarum; nel 2005 dall’ENS (École Normale Supérieure) di Lione; il 1 aprile 2008 dalla Waseda University di Tokyo; il 27 febbraio 2009 dall’Università di Bucarest. L’ultima gli è stata conferita il 10 novembre 2010 dall’università Sorbonne Nouvelle.

(Fonte: Wikipedia Italia – la biografia di De Mauro sulla enciclopedia online Treccani è disponibile qui)

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Il messaggio diramato dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci

Link logo alla HomeQuesta mattina, come ormai sapete tutti, ci ha lasciati Tullio De Mauro, presidente della Fondazione Bellonci e del Comitato direttivo del Premio Strega. È stato uno studioso di livello internazionale, autore di saggi fondamentali sulle strutture del linguaggio e sulla storia linguistica degli italiani, oltre che un maestro appassionato per generazioni di studenti universitari. Nelle diverse funzioni assunte lungo una vita straordinariamente operosa – è stato Assessore alla cultura della Regione Lazio, Presidente dell’Istituzione delle Biblioteche di Roma, infine Ministro dell’Istruzione, per ricordare solo i suoi incarichi pubblici – non ha mai fatto mancare il suo impegno per la diffusione della cultura come strumento di partecipazione alla vita civile. In questi ultimi anni dedicati alla Fondazione Bellonci – di cui è stato direttore dal 2007 e presidente dal 2013 – ha curato la realizzazione del “Primo tesoro della lingua letteraria italiana nel Novecento”, leggendo nelle pagine degli autori concorrenti allo Strega i cambiamenti linguistici, sociali e culturali del Paese, e ha promosso l’istituzione del Premio Strega Giovani e del Premio Strega Ragazze e Ragazzi, portando la narrativa contemporanea verso i lettori di ogni età. Non dimenticheremo mai la sua ferma mitezza, la non comune capacità di ascolto e la sua ironia.

Domani 6 gennaio, dalle ore 10 alle ore 18, sarà allestita la camera ardente nell’Aula 1 della Facoltà di Lettere della Sapienza. La cerimonia di commiato avrà luogo sabato alle 10,30.

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Approfondimenti: la Repubblica, Il Corriere della Sera, La Stampa, Il Sole 24-Ore, Il Messaggero, Ansa, Il Mattino, Il Fatto Quotidiano, Il Giornale.

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OMAGGIO A VITTORIO SERMONTI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/11/24/omaggio-a-vittorio-sermonti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/11/24/omaggio-a-vittorio-sermonti/#comments Thu, 24 Nov 2016 18:29:52 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7366 Ci lascia Vittorio Sermonti (Roma, 26 settembre 1929 – Roma, 23 novembre 2016): scrittore, traduttore, regista (televisivo e di teatro) e dantista italiano.

Lo ricordiamo riproponendo la puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” a lui dedicata in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro: “Se avessero” (Garzanti), finalista al Premio Strega 2016.

LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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Di seguito, pubblichiamo due video relativi alla Commedia di Dante (con introduzione e lettura di Sermonti) e alcuni approfondimenti (in coda al post).

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Risultati immagini per vittorio sermontiVittorio Sermonti è nato a Roma nel 1929, sesto di sette fratelli (ivi scomparso il 23 novembre 2016). Da bambino, vedeva circolare in casa dei nonni e di zii materni, a loro legati da vari gradi di parentela, V. E. Orlando (suo padrino di nascita), Luigi Pirandello, Alberto Beneduce, Enrico Cuccia. Freelance ostinatissimo, nelle vesti più disparate — narratore, saggista, traduttore, regista di radio e tv, giornalista, docente di Italiano-Latino al liceo «Tasso» di Roma (1965-1967), e di tecnica del verso teatrale all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (1973-1974), consulente CEE (1985-1988), poeta e lettore di poesia — V. S. si è occupato da sempre dell’energia vocale latente nei testi letterari, insomma, del rapporto fra la scrittura e la voce. Tra il 1987 e il 1992 ha registrato per Raitré l’intera Commedia introdotta da cento racconti critici sotto il titolo La Commedia di Dante, raccontata e letta da V.S; tra il 1995 e il 1997 ne ha replicato la lettura, ampliando le introduzioni, nella basilica di San Francesco a Ravenna, davanti a migliaia di persone. Fra l’autunno 2009 e la primavera 2010 ha registrato per la versione definitiva dei cento commenti-racconto e delle cento letture della Commedia di Dante, dei dodici libri dell’Eneide e di 14 «racconti verdiani». “Se avessero” (Garzanti) è il suo primo romanzo.

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Approfondimenti: Il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Sole24Ore, Il Fatto Quotidiano, Ansa


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OMAGGIO A LEONARD COHEN http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/11/12/omaggio-a-leonard-cohen/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/11/12/omaggio-a-leonard-cohen/#comments Sat, 12 Nov 2016 10:51:25 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7352 Risultati immagini per LEONARD COHEN il sole 24 ore

Leonard Cohen (Montréal, 21 settembre 1934 – Los Angeles, 7 novembre 2016) ci lascia all’età di 82 anni.

Prima ancora di essere un cantautore, Leonard Cohen è stato un poeta. I testi di alcuni suoi brani musicali sono stati poesie, prima di essere canzoni.
Ricordiamo Cohen qui a Letteratitudine, pubblicando un video/documentario sulla sua vita…

In coda al post segnaliamo alcuni approfondimenti.



Leonard Cohen è stato uno dei cantautori più celebri, influenti e apprezzati della storia della musica.

Nelle sue opere esplora temi come la religione, l’isolamento e la sessualità, ripiegando spesso sull’individuo. Vincitore di numerosi premi e onorificenze, è stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame, nella Canadian Songwriters Hall of Fame e nella Canadian Music Hall of Fame. È inoltre stato insignito del titolo di Compagno dell’Ordine del Canada, la più alta onorificenza concessa dal Canada. Nel 2011, ricevette il Premio Principe delle Asturie per la letteratura.

Approfondimenti su: la Repubblica, Il Corriere della Sera, La Stampa, Il Sole24Ore, Ansa.

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OMAGGIO A DARIO FO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/10/13/omaggio-a-dario-fo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/10/13/omaggio-a-dario-fo/#comments Thu, 13 Oct 2016 15:45:27 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7305 Ci lascia Dario Fo. Aveva festeggiato il suo novantesimo compleanno il 24 marzo scorso. Artista poliedrico: drammaturgo, attore, regista, scrittore, autore, illustratore, pittore, scenografo, attivista e altro ancora. L’apice del suo successo è stato raggiunto con l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura nel 1997 (con la seguente motivazione: “seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”). Il connubio artistico con l’amata moglie Franca Rame ha avuto un ruolo molto importante nel mondo artistico italiano (e non solo italiano).

Su LetteratitudineNews, a gennaio, avevamo pubblicato le prime pagine del suo recente romanzo RAZZA DI ZINGARO (Chiarelettere, 2016).

Dedico questo “spazio” alla memoria di Dario Fo con l’intento di celebrarlo, ma anche con l’obiettivo (e la speranza) di contribuire a far conoscere le opere di questo nostro artista.

Massimo Maugeri

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Dario FoDario Fo (Sangiano, 24 marzo 1926 – Milano, 13 ottobre 2016) ha innovato il teatro comico italiano attraverso spettacoli, realizzati spesso insieme alla moglie Franca Rame. Sintesi dei motivi ispiratori del suo teatro è Mistero buffo (1969), rielaborazione di antichi testi popolari padani con continue allusioni al presente. Nel 1997 gli è stato conferito il premio Nobel per la letteratura.

Fin dagli esordi negli anni Cinquanta, come attore e autore di riviste e atti unici farseschi, ha rivelato spiccate doti mimiche e intelligenza scenica, mettendole al servizio di un progetto di rinnovamento integrale del teatro comico italiano. Tale progetto, cui ha dato un notevole contributo, come coautrice e prima attrice, la moglie Franca Rame, si è espresso in una ricca produzione di spettacoli, che, dalle brillanti commedie della prima fase (Gli arcangeli non giocano a flipper, 1959; Aveva due pistole dagli occhi bianchi e neri, 1960; Chi ruba un piede è fortunato in amore, 1961), passando attraverso l’esperimento brechtiano di Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), la satira politica di Settimo, ruba un po’ meno (1964) e La signora è da buttare (1967), e la scoperta del ricco patrimonio di canti popolari tradizionali (Ci ragiono e canto, 1966), è giunto alle farse degli anni Settanta, di ispirazione apertamente protestataria e militante, anche nella scelta di un pubblico popolare e nella ricerca di luoghi e circuiti di rappresentazione alternativi a quelli ufficiali (Morte accidentale di un anarchico, 1970; Tutti uniti, tutti insieme, ma scusa quello non è il padrone?, 1971; Guerra di popolo in Cile, 1973; Il Fanfani rapito, 1975; La marijuana della mamma è sempre più bella, 1976; ecc.), e, nella fase successiva, alla satira più divertita di Clacson, trombette e pernacchi (1980), Coppia aperta (1983), Il papa e la strega (1990), Zitti, stiamo precipitando (1990), Johan Padan a la descoverta de le Americhe (1991). Coerente testimonianza della sua opzione estetica per la creatività giullaresca dei ceti più bassi, può essere considerato Mistero buffo, più volte ripreso e modificato dopo la prima rappresentazione (1969). Nel 1997 è stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Dopo il riconoscimento, si è impegnato soprattutto in campagne politiche e democratiche. Con lo spettacolo Marino libero! Marino è innocente! (1998), sorta di monologo con mimi e pupazzi in forma di arringa, ha proposto una lettura polemica del processo ad Adriano Sofri e ad altri esponenti di Lotta Continua per l’omicidio del commissario Calabresi. Nel 1999 ha creato Lu santo jullare Francesco, monologo sulla figura del santo di Assisi. Del 2003 è l’opera satirica L’anomalo bicefalo, e del 2007 Sotto paga, non si paga, rielaborazione di un testo degli anni Settanta. La sua decennale inventività figurativa, oltre a pupazzi e bozzetti di costumi per i suoi spettacoli, ha prodotto disegni, caricature, acquerelli, ritratti, tavole e fumetti, dal segno personalissimo e di beffarda e sgargiante incisività. Da ricordare è anche la presenza di Fo in spettacoli televisivi come per esempio Canzonissima nel 1962. Oltre a Le commedie (6 voll., 1974-84), ha pubblicato anche il Manuale minimo dell’attore (1987). Gli è stata assegnata la laurea honoris causa dall’università della Sorbona di Parigi (2005) e dall’università La Sapienza di Roma (2006). Fo ha inoltre continuato a essere molto attivo in campo politico e sociale: nel 2006 alle elezioni comunali di Milano ha presentato una propria lista (Uniti con Dario Fo), venendo eletto consigliere comunale; tuttavia dopo pochi mesi ha rinunciato al mandato. Negli ultimi anni Fo ha portato in scena diversi spettacoli, come l’inedito Sant’Ambrogio e l’Invenzione di Milano (2009) e Monologhi di Franca Rame e Dario Fo (2011); nel 2011 ha curato la regia de Il barbiere di Siviglia (Teatro Massimo Bellini di Catania). Cospicua anche la produzione letteraria; tra le pubblicazioni più recenti si ricordano: Il mondo secondo Fo. Conversazione con Giuseppina Manin (2007), Giotto o non Giotto (2009), L’osceno è sacro (2010), Arlecchino (2011), Dio è nero! Il fantastico racconto dell’evoluzione (2011), Il paese dei misteri buffi (con G. Manin, 2012); i suoi primi romanzi, entrambi del 2014, La figlia del papa, sulla vita di Lucrezia Borgia, e Ciulla, il grande malfattore (con P. Sciotto), storia di Paolo Ciulla, il pittore anarchico siciliano che produsse le sue banconote da 500 lire, beffando la Banca d’Italia. Nel 2012 è stata allestita al Palazzo Reale di Milano la mostra Dario Fo a Milano. Lazzi, sberleffi, dipinti, in cui l’artista fa della pittura un veicolo alternativo di satira politica, mentre è del 2014 la riscrittura in una nuova versione dal titolo Lu santo jullàre Françesco del lavoro del 1999, portata sulla scena teatrale ed edita nel volume omonimo nello stesso anno, e dell’anno successivo il romanzo storico su Cristiano VII C’è un re pazzo in Danimarca. Nel 2015 ha pubblicato il Nuovo manuale minimo dell’attore e Storia proibita dell’America, e sono dell’anno successivo il romanzo Razza di zingaro, tratto dalla vera storia del pugile sinti Trollmann, e Dario e Dio (con G. Manin), in cui affronta i temi della fede e della religiosità. Per i suoi 90 anni l’Archivio di Stato di Verona ha aperto un museo-laboratorio, il Musalab, dedicato al premio Nobel e a Franca Rame

[Fonte: Enciclopedia Treccani]

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Dedichiamo, dunque, questo “spazio” alla memoria di Dario Fo con l’intento di celebrarlo, ma anche con l’obiettivo (e la speranza) di contribuire a far conoscere le opere di questo nostro artista.

Ecco le solite domande (volte a favorire la discussione):

1. Che rapporti avete con le opere di Dario Fo?

2. Qual è quella che avete amato di più?

3. E l’opera di Fo che ritenete più rappresentativa (a prescindere dalle vostre preferenze)?

4. Tra le varie “citazione” di Fo di cui avete memoria… qual è quella con cui vi sentite più in sintonia?

5. Qual è la principale eredità che Dario Fo ha lasciato nella letteratura italiana?


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CENTO ANNI DALLA NASCITA DI NATALIA GINZBURG http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/07/14/omaggio-a-natalia-ginzburg/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/07/14/omaggio-a-natalia-ginzburg/#comments Thu, 14 Jul 2016 18:03:43 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7218 Il 14 luglio del 1916, nasceva a Palermo, Natalia Levi Ginzburg (meglio nota come Natalia Ginzburg): una delle scrittrici più importanti del Novecento.
Suo padre, Giuseppe Levi, era uno scienziato triestino di origine ebraica; sua madre, Lidia Tanzi, una milanese cattolica. Il padre, peraltro docente universitario antifascista, sarà imprigionato e processato dal regime insieme ai tre fratelli di Natalia.
L’esordio letterario della Ginzburg risale al 1933, con la pubblicazione del racconto I bambini sulla rivista “Solaria”. Sposa Leone Ginzburg nel 1938 e da quel momento firmerà con il cognome del marito tutte le proprie opere. Dalla coppia nacquero tre figli: Carlo (che diventerà un noto storico e saggista), Andrea e Alessandra.

Nel 1940 Leone Ginzburg viene confinato a Pizzoli, in Abruzzo, per motivi politici e razziali (dove rimarrà fino al 1943). Natalia lo segue.
Il primo romanzo della Ginzburg vede la luce nel 1942 ed è, in origine, firmato con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte. Si intitola: La strada che va in città.

Il 1944 è un anno cruciale, di dolore e cambiamento. Nel mese di febbraio Leone viene torturato e ucciso nel carcere romano di Regina Coeli. A partire da questo periodo Natalia intensifica la sua attività lavorativa presso la casa editrice la Einaudi (Leone ne era stato uno dei fondatori). Nel 1945 si ristabilisce a Torino (dove aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza). La raggiungono i genitori e i figli (che durante l’occupazione nazista si erano rifugiati in Toscana).

Natalia GinzburgNel 1947 esce il suo romanzo È stato così. Nel 1950 sposa Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra. Nasceranno due figli: Susanna e Antonio (entrambi portatori di handicap).

A partire dagli anni Cinquanta la produzione narrativa della Ginzburg si intensifica. Nel 1952 esce Tutti i nostri ieri; nel 1957 vede la luce la raccolta di racconti Valentino (premio Viareggio) e il romanzo Sagittario. Le voci della sera esce nel 1961, l’anno successivo pubblica la raccolta di saggi Le piccole virtù.
Lessico famigliareIl suo libro più celebre e fortunato è Lessico famigliare, con cui vince il Premio Strega nel 1963.
Negli anni successivi inizia a collaborare con la pagina culturale del Corriere della sera (in precedenza aveva collaborato con La Stampa), pubblica altri testi di narrativa e di saggistica, si dedica alla scrittura di testi teatrali e inizia a svolgere l’attività di traduttrice.
Negli anni Settanta pubblica: Mai devi domandarmi, 1970; Vita immaginaria, 1974; Caro Michele, 1973; Famiglia (racconto del 1977); La famiglia Manzoni, 1983; La città e la casa, 1984.

Di Natalia Ginzburg va ricordato anche il suo impegno politico, che giunge all’apice nel 1983 allorquando viene eletta al Parlamento nelle liste del Partito Comunista Italiano.

Natalia muore a Roma nella notte tra il 6 e il 7 ottobre 1991.

Care amiche e cari amici di Letteratitudine, dedico questo “spazio” alla memoria di Natalia Ginzburg – a cent’anni dalla sua nascita – con l’intento di celebrarla, ma anche con l’obiettivo (e la speranza) di contribuire a far conoscere questa nostra grande scrittrice a chi non avesse ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere… e vi invito (se ne avete la possibilità) a lasciare un vostro contributo tra i commenti di questo post.
Sono graditi interventi, contributi vari e la segnalazione di link attinenti ai contenuti di questo post.
Ecco qualche domanda volta a favorire i vostri interventi:

1. Che rapporti avete con le opere di Natalia Ginzburg?

2. Qual è quella che avete amato di più (oltre a Lessico famigliare)?

3. E l’opera della Ginzburg che ritenete più rappresentativa (a prescindere dalle vostre preferenze)?

4. Tra le varie “citazione” della Ginzburg di cui avete memoria… qual è quella con cui vi sentite più in sintonia?

5. A cent’anni dalla nascita, qual è l’eredità che Ginzburg ha lasciato nella letteratura italiana?

Ribadisco che qualunque tipo di contributo sulla vita e sulle opere di Ginzburg (citazioni, stralci di brani, considerazioni, recensioni, link e quant’altro) è gradito.

Di seguito vi propongo due video prodotti dalla Rai, dove potrete vedere e ascoltare la scrittrice: il primo è sull’intera vita di Natalia Ginzburg, il secondo è un approfondimento dedicato a “Lessico famigliare”. Per approfondimenti, vi consiglio la lettura di questo testo di Domenico Scarpa, tratto da Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 64 (2005).

Vi ringrazio anticipatamente per la partecipazione.

Massimo Maugeri


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OMAGGIO A GESUALDO BUFALINO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/06/15/omaggio-a-gesualdo-bufalino/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/06/15/omaggio-a-gesualdo-bufalino/#comments Wed, 15 Jun 2016 08:07:15 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7180 Pubblichiamo il testo del messaggio che l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, inviò alla signora Giovanna Leggio Bufalino dopo la notizia del tragico incidente automobilistico in cui [...]]]> In occasione del ventennale della morte di Gesualdo Bufalino (Comiso, 15 novembre 1920 – Vittoria, 14 giugno 1996), pubblichiamo questo video per ricordarlo

Pubblichiamo il testo del messaggio che l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, inviò alla signora Giovanna Leggio Bufalino dopo la notizia del tragico incidente automobilistico in cui lo scrittore perse la vita:
La notizia dell’improvvisa scomparsa di Gesualdo Bufalino mi addolora profondamente. Scrittore finissimo, ha costituito una delle voci più immediate e feconde della letteratura contemporanea: la sua morte lascia un vuoto profondo, ma le sue opere rimangono testimonianza viva della cultura italiana. A lei gentile signora Giovanna, alla mamma Maria Elia, ai familiari tutti e a quanti lo ebbero caro, esprimo il mio partecipe, commosso cordoglio“.

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Di seguito, la biografia di Gesualdo Bufalino dal sito della Fondazione Bufalino – Notizie sulle opere sono disponibili qui

Gesualdo Bufalino nasce a Comiso, in provincia di Ragusa, il 15 novembre del 1920. Fin da bambino è affascinato dal mondo della parola scritta e dai libri della piccola biblioteca del padre, Biagio, un fabbro con una grande passione per la lettura.

Frequenta il liceo a Ragusa e a Comiso dove ha come insegnante un valente dantista, Paolo Nicosia. Nel 1939 Bufalino vince per la Sicilia un premio di prosa latina bandito dall’Istituto Nazionale di Studi romani. Sono gli anni degli studi classici, ma anche della scoperta della moderna letteratura europea, in particolare di Baudelaire, e del cinema francese.

Nel 1940 Bufalino si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’Università di Catania, ma nel ’42 è costretto ad interrompere gli studi per la chiamata alle armi. All’indomani dell’8 settembre 1943 si trova a Sacile, in Friuli, sbandato, sfugge avventurosamente alla cattura dei tedeschi e si rifugia presso degli amici in Emilia.

Nel gennaio del 1944 si ammala di tisi e si ricovera presso l’ospedale di Scandiano. Qui un medico assai colto gli mette a disposizione un’imponente biblioteca. Nella primavera del ’46 si trasferisce in un sanatorio della Conca d’Oro, vicino Palermo, dove vive le esperienze e le emozioni che, debitamente trasfigurate, ritroveremo nel romanzo Diceria dell’untore. Durante la degenza collabora, su sollecitazione dell’amico Angelo Romanò, alle riviste lombarde “L’Uomo” e “Democrazia”, pubblicando alcune liriche e qualche prosa.

Nel 1947, appena guarito, si laurea in Lettere all’Università di Palermo e rientra a Comiso senza più allontanarsene se non per l’insegnamento, svolto, dapprima, all’Istituto magistrale di Modica e poi, ininterrottamente, in quello di Vittoria.

Scrittore segreto fino al 1978, sarà l’introduzione ad un libro di vecchie fotografie su Comiso a segnalarlo all’attenzione di Leonardo Sciascia e Elvira Sellerio. Sollecitato a pubblicare le sue eventuali composizioni, solo nel 1981 si decide ad estrarre dal cassetto Diceria dell’untore, edita da Sellerio ed insignita, quell’anno, del premio Campiello. Rotti gli indugi, Bufalino inaugura un quindicennio di intensa attività produttiva con editori grandi e piccoli.

Nel 1982 sposa, dopo lungo fidanzamento, Giovanna Leggio. Nel 1988 vince il premio Strega col romanzo Le menzogne della notte, pubblicato da Bompiani. Muore in un incidente d’auto il 14 giugno 1996.

Fra le tante sue opere (di narratore, poeta, saggista, moralista, traduttore), ricordiamo ancora: Museo d’ombre (1982), L’amaro miele (1982), Argo il cieco (1984), Cere perse (1985), L’uomo invaso (1986), Il malpensante (1987), La luce e il lutto (1988), Saldi d’autunno (1990), Qui pro quo (1991), Calende greche (1992), Il Guerrin Meschino (1993), Bluff di parole (1994), Il fiele ibleo (1995), Tommaso e il fotografo cieco (1996). Nel 1992 la Bompiani pubblica il primo volume di Gesualdo Bufalino, Opere 1981-1988, a cura di Maria Corti e Francesca Caputo; nel 2007 , con l’uscita del secondo volume, Opere 1989-1996, a cura di Francesca Caputo, si è completata la pubblicazione della produzione letteraria complessiva dell’Autore.

Le sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese, olandese, danese, svedese, greco, sloveno, bulgaro, israeliano, giapponese, coreano.

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OMAGGIO A GIORGIO BASSANI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/04/16/omaggio-a-giorgio-bassani/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/04/16/omaggio-a-giorgio-bassani/#comments Sat, 16 Apr 2016 09:26:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7070 OMAGGIO A GIORGIO BASSANI: a cento anni dalla nascita e sedici anni dalla morte

Ricordiamo Giorgio Bassani (Bologna, 4 marzo 1916 – Roma, 13 aprile 2000) riproponendo una puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” di qualche anno fa andata in onda in occasione del cinquantenario della pubblicazione del suo romanzo più celebre: “Il giardino dei Finzi-Contini“.

Ospite della puntata, il critico Paolo Vanelli, autore del saggio “La finzione autobiografica del Romanzo di Ferrara” (Corbo editore), dedicato alle opere narrative di Bassani.

PER ASCOLTARE LA PUNTATA, CLICCARE SUL PULSANTE AUDIO

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In “La finzione autobiografica del Romanzo di Ferrara“, Paolo Vanelli elabora un’indagine sulle sei opere narrative di Giorgio Bassani, riunite dallo stesso autore in un unico volume dal titolo emblematico di Il Romanzo di Ferrara (Mondadori, 1974). Il saggio unisce l’analisi delle opere singole ad una integrale introspezione dell’universo narrativo di Bassani, fondata sul riconoscimento di una tensione etica inerente l’atto stesso dell’affabulazione e sulla stretta relazione tra letteratura e vita.

L’idea portante del saggio è che il Romanzo costituisca un’opera unitaria, nella quale il narratore, mascherandosi dietro personaggi suoi eteronimi, oppure presentandosi in prima persona, abbia rappresentato il difficile e contorto percorso della coscienza e dell’anima verso la definizione di un carattere e di una personalità.

L’unità del Romanzo però non starebbe tanto nella scelta di uno spazio che ritorna in tutte le opere (Ferrara) o di un tempo circoscritto (gli anni del fascismo e quelli immediatamente seguenti la fine della guerra) nel quale si svolgono le vicende dei personaggi, alcuni dei quali si ripresentano in vari testi, con riprese e rimandi che costituiscono un’interessante trama intertestuale.

L’unità che il saggio si propone di ricostruire è ben diversa. Si tratta di rintracciare l’architettura sotterranea che attraverso un sistema di relazioni latenti tra i testi fa di tutta l’opera un edificio organico, nel quale ogni parte interagisce con le altre, e ogni elemento è compreso pienamente solo nella sua connessione con l’insieme: essa è l’idea costitutiva, la verità, che sempre meglio si dichiara nel progressivo manifestarsi delle singole opere. Quale sia questa idea costitutiva, che agglutina tutti i testi, lo esplicita il titolo del saggio: si tratta di una “Finzione autobiografica”. L’autore, cioè, attraverso la finzione letteraria (storie e personaggi di invenzione o liberamente elaborati dall’immaginazione) racconta in realtà la parabola esistenziale del proprio Sé, per cui la finzione letteraria deve leggersi in trasparenza come la storia di un’anima, che, passando attraverso importanti esperienze personali o conoscendo e osservando quelle dei suoi concittadini, affina la percezione e la comprensione di se stesso e della realtà, fino ad arrivare ad una autentica maturazione del carattere.

Il Romanzo di Ferrara sarebbe quindi la storia di una personalità in formazione, con un’evoluzione interiore, che il saggio scandisce in quattro tempi fondamentali (il saggio è strutturato infatti in quattro parti): La Coscienza, L’Anima, La Verità, La Saggezza.

Il tempo della coscienza: si riferisce alle prime due opere bassaniane, Cinque storie ferraresi (poi col titolo di Dentro le mura) e Gli occhiali d’oro. Sono opere impostate su una stridente dicotomia: da una parte sta la città, luogo esemplare della decadenza e della degenerazione etica e civile, dove si afferma indisturbato il potere fascista, che nella generale letargia morale e nella connivenza di tanti può commettere liberamente i suoi soprusi. Al sonno della coscienza , che tarpa la volontà e l’intelligenza dei propri concittadini, il narratore contrappone dall’altra parte l’indignazione della propria coscienza, proiettandola nella reazione di alcuni protagonisti (suoi eteronimi) o facendola emergere dalle stesse strutture stilistiche e linguistiche. La reazione della coscienza offesa assume spesso toni acuti, aspri, “foscoliani”, dove emerge il conflitto tra la purezza morale di poche figure e i compromessi, le falsità, la cecità dei tanti che hanno silenziosamente avvallato le violenze della Storia. E si conclude con l’emblematico distacco del narratore-personaggio, il “diverso”, che si autoesilia dai suoi, per non compromettersi col mondo della sua città e con la sua stessa famiglia (pagine finali degli Occhiali d’oro).

Il tempo dell’anima: si riferisce al Giardino dei Finzi-Contini e Dietro la porta. Dal grido foscoliano contro la sua città, il narratore passa ad una elaborazione interiore della sua diversità e del suo dramma etico. Ciò è dovuto ad uno sguardo più profondo sulla realtà: lo sguardo a cui l’ha educato Micòl nel suo soggiorno nel “giardino”. La realtà pare ora più complessa; l’intransigenza e il radicalismo civile si ammorbidiscono; subentra un sentimento di pietas e affiora una comprensione più matura degli uomini e delle cose, fatta anche di carità e di amore. Il Lògos si fonda con l’Anima, e favorisce il riavvicinamento del protagonista alla sua gente. Giudato dalle ragioni interiori, ma senza mai cedere alle lucide ragioni della coscienza, il narratore-protagonista perviene ad una visione meno rigida e più problematica dei fatti e delle persone. Se prima la coscienza e la ragione dividevano nettamente il bene dal male, e individuavano sicure la verità, ora i contorni delle cose sfumano (emblematica la figura di Micòl, metafora di tutto ciò che nella realtà è indefinibile e irraggiungibile) e appare assai più arduo definire il valore autentico delle vicende umane.

Il tempo della verità: si riferisce a L’airone. Dalla dimensione storica, a cui il Romanzo era legato nei testi precedenti, qui si passa ad una dimensione tendente al metafisico, segnata emblematicamente anche dal mutamento dello spazio: dalla città al paesaggio solitario e vastissimo delle Valli di Comacchio. L’autore è alla ricerca della “verità”, che, come ha sperimentato nelle opere precedenti, risulta sempre indefinibile: nella dimensione storica essa oscilla continuamente tra le ragioni della coscienza, le intermittenze del cuore e le esigenze dell’anima, che intrecciandosi e scontrandosi tra loro impediscono il raggiungimento di un’idea stabile, appagante e chiarificatrice. Così il protagonista, Edgardo Limentani, l’eroe-antieroe del racconto, uscendo dalla città e spingendosi nella sconfinata solitudine delle Valli, si trasforma nell’emblema dell’uomo (e del narratore) che esce dalla Storia, per ricercare Altrove il senso dell’esistenza. La sua esperienza approderà al convincimento che la Verità è Altrove, là dove baldanzosamente si avvia nelle ultime pagine del libro.

Il tempo della saggezza: si riferisce all’ultima opera, i racconti di L’odore del fieno. Ora il narratore-protagonista possiede la Verità, è può valutare la vita col disincanto e la serenità che gli vengono dalla conquistata saggezza: la saggezza di chi può osservare gli uomini e le cose del mondo avendone scoperto il loro autentico valore e con l’attestato di una coscienza che non ha mai ceduto a compromessi, ricatti ed egoismi. Anche lo stile si trasforma, si fa più geometrico, limpido, lavato e colloquiale, talvolta anche ironico (l’ironia e l’autoironia della saggezza), con una precisione e una chiarezza visive – si potrebbe dire una leggerezza – che denotano la sapienza dell’intelligenza. La narrazione si snoda con associazioni e rapporti inediti, che sottendono la volontà di sperimentare nuove forme espressive, come l’apologo, la fiaba, il racconto surreale. Siamo di fronte ad uno scrittore “nuovo”, rigenerato dal viaggio compiuto all’interno della propria esperienza autobiografica e del suo spirito, che ora guarda il mondo da un livello superiore, per così dire “sub specie aeternitatis”.

In ultima istanza il Romanzo di Ferrara è la storia di una vita, una grandiosa finzione autobiografica, nella quale il narratore cela la storia della sua personalità, il suo percorso di uomo e di artista, che delle sue esperienze ha fatto gli strumenti per un sempre più raffinato esercizio di conoscenza e i contenuti per le meravigliose invenzioni della sua creatività.

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OMAGGIO A UMBERTO ECO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/02/20/omaggio-a-umberto-eco/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/02/20/omaggio-a-umberto-eco/#comments Sat, 20 Feb 2016 11:28:42 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7058 La notizia della morte di Umberto Eco ci coglie di sorpresa e ci lascia sgomenti. Abbiamo ancora nelle nostre orecchie il suono delle parole del celebre scrittore da dove emerge il disappunto per la nascita della cosiddetta “Mondazzoli” e il conseguente avvio del progetto editoriale “La Nave di Teseo” (ne approfittiamo, peraltro, per segnalare che secondo il settimanale “L’Espresso“, l’Antitrust sembrerebbe orientata a impedire al gruppo Mondadori, dopo l’acquisto di Rcs Libri, di mantenere il controllo di due importanti case editrici tra quelle incluse nel pacchetto: la Bompiani e la Marsilio).
Gianni Coscia – avvocato e noto fisarmonicista, nonché l’amico più caro di Eco sin dai tempi del ginnasio – commenta così la notizia della scomparsa dello scrittore sul sito de “La Stampa“: «Sapevo che Umberto era malato da due anni di tumore, ma nessuno pensava che la sua fine sarebbe stata così imminente». E aggiunge: «Era uscito di casa per l’ultima volta a metà gennaio per festeggiare in un ristorante gli 80 anni di mia moglie Laura. La dote più grande era il profondo senso dell’amicizia ed era molto legato ad Alessandria, per venire cercava solo l’occasione intelligente». E infine: «Era molto disponibile, anche se all’apparenza non sembrava, era umile ma quel suo atteggiamento spavaldo era solo una difesa. Era un uomo timido, anche se nessuno lo direbbe».

Umberto Eco era nato ad Alessandria, il 5 gennaio 1932. È morto a Milano ieri sera, il 19 febbraio 2016, a causa di un tumore. Aveva 84 anni.
Semiologo, filosofo e scrittore divenne celebre in tutto il mondo dopo la pubblicazione del romanzo “Il nome della rosa“, avvenuta nel 1980 (in Italia per i tipi di “Bompiani”). Fu un successo travolgente e inatteso, con grandissimo riscontro sia dal punto di vista della critica sia da quello del gradimento dei lettori. Best-seller internazionale tradotto in oltre 40 lingue e venduto in cinquanta milioni di copie, “Il nome della rosa” si aggiudicò il Premio Strega nel 1981, fu tra i finalisti del prestigioso Edgar Award nel 1984 ed è stato inserito nella lista de “I 100 libri del secolo di Le Monde”.
Dal romanzo fu tratto, nel 1986, il film omonimo per la regia di Jean-Jacques Annaud, con Sean Connery nei panni di Guglielmo e Christian Slater nel ruolo di Adso.

La produzione “libresca” di Umberto Eco è cospicua. Ricordiamo, tra gli altri: “Diario minimo” (1963), “Apocalittici e integrati” (1964 – con nuova edizione nel 1977).
Tra i romanzi, oltre al citato “Il nome della rosa“, ricordiamo: “Il pendolo di Foucault” (1988), “L’isola del giorno prima” (1994), “Baudolino” (2000), “La misteriosa fiamma della regina Loana” (2004), “Il cimitero di Praga” (2010) e “Numero Zero” (2015), tutti editi in italiano da Bompiani.

Nell’ambito della saggistica ricordiamo: “Il superuomo di massa” (1976), “Lector in fabula” (1979), “Sei passeggiate nei boschi narrativi” (1994), “Sulla letteratura” (2002), “Dire quasi la stessa cosa” (2003).

Intanto, venerdì 26 febbraio uscirà il nuovo libro di Eco per i tipi de “La nave di Teseo“. Si intitola “Pape Satàn aleppe(476 pag. – 20€).

Quella che segue è la scheda del libro…

Crisi delle ideologie, crisi dei partiti, individualismo sfrenato… Questo è l’ambiente – ben noto – in cui ci muoviamo: una società liquida, dove non sempre è facile trovare una stella polare (anche se è facile trovare tante stelle e stellette). Di questa società troviamo qui i volti più familiari: le maschere della politica, le ossessioni mediatiche di visibilità che tutti (o quasi) sembriamo condividere, la vita simbiotica coi nostri telefonini, la mala educazione. E naturalmente molto altro, che Umberto Eco ha raccontato regolarmente nelle sue Bustine di Minerva.
È una società, la società liquida, in cui il non senso sembra talora prendere il sopravvento sulla razionalità, con irripetibili effetti comici certo, ma con conseguenze non propriamente rassicuranti. Confusione, sconnessione, profluvi di parole, spesso troppo tangenti ai luoghi comuni. “Pape Satàn, pape Satàn aleppe”, diceva Dante nell’Inferno (VII, 1), tra meraviglia, dolore, ira, minaccia, e forse ironia.

Dedico, dunque, questo “spazio” alla memoria di Umberto Eco con l’intento di celebrarlo, ma anche con l’obiettivo (e la speranza) di contribuire a far conoscere le opere di questo nostro grande scrittore a chi non avesse ancora avuto modo di leggerle.

Pongo le solite domande (volte a favorire la discussione):

1. Che rapporti avete con le opere di Umberto Eco?

2. Qual è quella che avete amato di più?

3. E l’opera di Eco che ritenete più rappresentativa (a prescindere dalle vostre preferenze)?

4. Tra le varie “citazione” di Eco di cui avete memoria… qual è quella con cui vi sentite più in sintonia?

5. Qual è la principale eredità che Umberto Eco ha lasciato nella letteratura italiana?

Sono graditi (e ringrazio anticipatamente i partecipanti) interventi, contributi vari e la segnalazione di link attinenti ai contenuti di questo post.

Di seguito, due video dedicati a Umberto Eco relativi alla “Consegna a Umberto Eco del Sigillum magnum d’oro – Cerimonia Dottori di Ricerca 2015″ e alla “Lectio Magistralis – Comunicazione Soft e Hard – 2014″.

Massimo Maugeri

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OMAGGIO A LUIGI CAPUANA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/12/21/omaggio-a-luigi-capuana/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/12/21/omaggio-a-luigi-capuana/#comments Mon, 21 Dec 2015 20:32:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7011 - La colonna sonora del video tratta dalla “Norma” di Vincenzo Bellini © Letteratitudine LetteratitudineBlog/ LetteratitudineNews/ LetteratitudineRadio/ LetteratitudineVideo ]]> In occasione della ricorrenza del centenario della morte, dedichiamo questo video a LUIGI CAPUANA (Mineo, 28 maggio 1839 – Catania, 29 novembre 1915).

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La colonna sonora del video tratta dalla “Norma” di Vincenzo Bellini

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35 ANNI DALLA MORTE DI JOHN LENNON http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/12/08/john-lennon/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/12/08/john-lennon/#comments Tue, 08 Dec 2015 20:50:24 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6991 35 ANNI DALLA MORTE DI JOHN LENNON

Avevo 12 anni quando, la sera dell’8 dicembre 1980, John Lennon fu assassinato da Mark Chapman. L’ultimo album dell’ex-Beatle, “Double Fantasy“, era uscito poche settimane prima. Quella sera John e Yoko stavano rientrando alla loro residenza a palazzo Dakota, sulla 72ª strada, nell’Upper West Side a New York, di fronte al Central Park. Alle 22:51, questo folle omicida venticinquenne, colpì Lennon con quattro dei cinque colpi esplosi dalla sua pistola. La corsa al Roosevelt Hospital fu inutile. Il decesso fu dichiarato alle 23.07. L’artista di Liverpool aveva solo quarant’anni.

Devo tanto alla musica di John. I miei libri contengono molti riferimenti alle sue canzoni. Quello a cui sto lavorando adesso ne è proprio intriso.

Non aggiungo altro. Pubblico questo post e lo lascio aperto per vostri eventuali contributi, amiche e amici di Letteratitudine.
Riempitelo (se vi va) con notizie, citazioni, link, testi di canzoni e quant’altro possa contribuire a celebrare John Lennon e la sua arte.

Grazie, John!

Massimo Maugeri

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P.s. Di seguito, vi propongo “Gimme Some Truth”: video relativo alla realizzazione dell’album “Imagine”


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OMAGGIO A ELSA MORANTE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/26/omaggio-a-elsa-morante/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/26/omaggio-a-elsa-morante/#comments Thu, 26 Nov 2015 18:30:27 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2728 Ieri, 25 novembre 2015, ho ricordato la ricorrenza del trentesimo anniversario della morte di ELSA MORANTE riproponendo la puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” andata in onda venerdì 8 marzo 2013 dedicata, per l’appunto, alla vita e alle opere di questa nostra grande scrittrice. Ospite: Graziella Bernabò, autrice del volume “La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura” (Carocci).

Nei prossimi giorni pubblicherò un’intervista a Sandra Petrignani incentrata sul volume “Elsina e il grande segreto” (edito da Rrose Sélavy).

Qui di seguito, invece, ri-propongo il post (e il dibattito che ne è seguito) pubblicato in occasione del venticinquesimo anniversario della morte della Morante (con un contributo di Paolo Di Paolo).

Il post è aperto per altri eventuali nuovi contributi.

Grazie di cuore in anticipo per l’attenzione.

Massimo Maugeri

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VENTICINQUE ANNI DALLA MORTE DI ELSA MORANTE
(post del 30 novembre 2010)

Periodo di “ricorrenze letterarie”, questo. Nelle scorse settimane abbiamo avuto modo di ricordare Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini.
Con questo post vorrei che ci occupassimo di Elsa Morante, scomparsa venticinque anni fa (per l’esattezza il 25 novembre del 1985).

La Morante – nata a Roma il 18 agosto 1912 – è senz’altro una delle più importanti autrici italiane dal dopoguerra a oggi. Basti pensare a opere come il suo romanzo d’esordio, “Menzogna e sortilegio” (pubblicato nel 1948 e vincitore del Premio Viareggio); “L’isola di Arturo” (pubblicato nel 1957 e vincitore del Premio Strega); “Il mondo salvato dai ragazzini” (opera mista di poesia, canzoni e una commedia, pubblicato nel 1968); e poi “La Storia” (pubblicato nel 1974: grande successo internazionale, anche se non mancarono critiche dure da parte di alcuni critici). Il suo ultimo romanzo, “Aracoeli”, fu pubblicato nel 1982.

Vi invito a discutere sulle opere e sulla figura di questa grande autrice (e pongo le solite domande volte a favorire la discussione)…

1. Che rapporti avete con le opere di Elsa Morante?

2. Qual è quella che avete amato di più?

3. E l’opera della Morante che ritenete più rappresentativa (a prescindere dalle vostre preferenze)?

4. Tra le varie “citazione” della Morante di cui avete memoria… qual è quella con cui vi sentite più in sintonia?

5. A venticinque anni dalla morte, qual è l’eredità che Elsa Morante ha lasciato nella letteratura italiana?

Qualunque tipo di contributo sulla vita e sulle opere di Elsa Morante (citazioni, stralci di brani, considerazioni, recensioni, link a video e quant’altro) è gradito.
Siete tutti invitati a intervenire, dunque.
Vi ringrazio anticipatamente per la partecipazione.

Di seguito, un video dedicato alla Morante.

Massimo Maugeri


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Aggiornamento del 3 dicembre 2010
Ringrazio Paolo Di Paolo, per avermi invato il pezzo che segue (dedicato alla memoria di Elsa Morante).
Massimo Maugeri

IL CONTRIBUTO DI PAOLO DI PAOLO SU ELSA MORANTE

Com’è strano, inatteso, questo silenzio. Sì, d’accordo, gli anniversari sono tanti e questo non è tondo. Ma dietro alla scarsa attenzione che ha destato il venticinquennale della morte di Elsa Morante, qualche ragione deve pur esserci. All’indomani di quel 25 novembre 1985, il critico Luigi Baldacci prendeva congedo dalla scrittrice ricordando come la malattia, nell’ultimo periodo, l’avesse tenuta a lungo «fuori dalla militanza letteraria; ma non era una dimenticata. Tutt’altro. Anzi, un mito resistente». Lo è ancora. Una storia della letteratura novecentesca non solo italiana non può fare a meno di lei. I suoi romanzi vengono letti; il suo nome e le sue storie non sono del tutto assenti dalle aule scolastiche. No, non è una dimenticata. E tuttavia il suo mito appare lontano, inattuale, quasi inservibile alle celebrazioni occasionali. Sembra, la sua assenza, molto più lunga. Come per i veri classici, la sua opera poco si presta alle attualizzazioni giornalistiche. Vi è in essa qualcosa di indocile, di solido, al punto da non piegarsi al richiamo del presente.
Rispondendo a un’inchiesta sul romanzo, nel 1959 criticava duramente i romanzieri («mediocri e falsi») impegnati ad apparire nuovi e moderni ai propri contemporanei, «mentre che il poeta vero sente (anche se non lo sa) che molti dei suoi lettori devono ancora nascere, e che la sua realtà è vera per sempre». Il «per sempre» di Elsa Morante non somiglia all’ambizione comune a molti che scrivono: non è, o non è solo, la volontà e la speranza di restare. È qualcosa di diverso e di raro. Come Elisa nelle prime pagine di Menzogna e sortilegio, Elsa pure avrebbe potuto scrivere di sé: «Il mio tempo e il mio spazio, e la sola realtà che m’apparteneva, eran confinati nella mia piccola camera». La camera della mente, certo, e della scrittura; la straordinaria camera della fantasia e delle visioni che rendono la fisionomia anche solo culturale di Morante imprendibile, quasi aliena al paesaggio letterario a lei coevo. La qualità della sua immaginazione – così potente, vorticosa, sovraccarica, stravolta come il vento che si alza su Almeria nel romanzo Aracoeli – non pare sensibile al «qui e ora»; sta altrove, remota e chiusa in sé, come una prigione e come un’isola.
Se un «frutto fuori stagione» poteva apparire, ai lettori del 1948, un romanzo-romanzo (o «l’ultimo romanzo possibile, l’ultimo romanzo della terra», come pretendeva l’autrice) Menzogna e sortilegio, cos’è – dell’opera di Morante – che non appare altrettanto fuori stagione, controtempo? Più ancora che il tempo della Storia, è quello della biologia, il tempo dei suoi romanzi: un sovra-tempo o non-tempo dove tutti i tempi si mescolano e si cancellano.
Non rispondono ad alcun calendario preciso Menzogna e sortilegio, o L’isola di Arturo, Aracoeli. E perfino La Storia, pure così carico di date, si apre con un «…19**» e si chiude con una valanga di puntini di sospensione: «…e la Storia continua…». Il tempo del corpo, del dolore, il tempo dei sentimenti in genere, e più di ogni altro il tempo dell’innocenza oltraggiata – la realtà «vera per sempre» – incrociano le strettoie degli anni e delle epoche, ma non appartengono ad esse. La felicità è impossibile, nel mondo: per gli uomini come per gli altri animali, per Iduzza come per il coniglio dei Marrocco. Tutti destinati a sparire, a finire in niente. Lo scandalo è crescere, è invecchiare. Lo scandalo è diventare adulti, è corrompersi. Confessa Manuel in Aracoeli: «La pubertà, ossia l’ingresso nell’età virile (la sagra onorifica dei Greci e dei Romani) per me fu un evento avverso: giacché in verità io non volevo crescere e mi pareva scandaloso farmi uomo. Le trasformazioni corporee della virilità mi sgomentarono al modo di un’usurpazione oltraggiosa». Prima di conoscere la realtà vera per sempre, prima di sapere che «fuori del limbo non v’è eliso», prima che Arturo lasci la sua isola, lì, nella «piccola età felice» delle canzoncine, dei «beati bacetti», la felicità è un’invenzione possibile: «SONO FELICE! (…) Come una prepotenza, la mia gioia invadeva la luce, lo spazio, ogni angolo della casa, anche il più polveroso ripostiglio».
Prima di Aracoeli, ogni pagina di Elsa Morante vibrava del conflitto tra la felicità dell’isola, delle isole, e ciò che tenta di corromperla e la corromperà. Tra gli occhi del bambino Useppe e le ombre che già vi si riflettono. «Che cos’altro può essere la Storia, per la Morante, se non tutto ciò che si trova fuori dall’Isola di Arturo?» si è chiesto Cesare Garboli.
In Aracoeli, l’ultimo romanzo, l’innocenza stupida dell’infanzia è invasa da quella ancora più stupida degli adulti. Inventare la felicità, la felicità guagliona e intrigante con cui per un attimo si era creduto perfino di poter salvare il mondo, è diventato impossibile. Manuel assume voce leopardiana. Rimprovera a sua madre di averlo dato alla luce. «Tu rimàngiami» la implora. Le lacrime non sanno più di cannella, come una volta. Adesso mamma Aracoeli è morta, si è «dileguata come una ladra», e Manuelito vive questa morte come un tradimento: «mi ritrovo qua, solo e nudo, davanti a questo ropero de luz – espejo de cuerpo entero, il quale mi butta in faccia, senza cerimonie, la mia forma reale». «Ma tu, mamita, aiutami». Nella solitudine dell’età adulta e corrotta ha saputo tutto, vuole tornare indietro, tornare nell’utero. Ha conosciuto l’oltraggio. La condanna al bisogno di carezze, che non salvano: «Orfani e mai svezzati, tutti i viventi si propongono, come gente di marciapiede, a un segno altrui d’amore» – le dive, i potenti, perfino i kamikaze. Forse solo i giovani belli e i taumaturghi possono riscattarsi. E i poeti, dice Manuelito. Nella corruttibilità del mondo e di tutto, si spendono per dare forma a qualcosa di incorruttibile come un’opera – con la sua realtà indocile, dolorosa, inattuale e perciò eterna, «vera per sempre».

Paolo Di Paolo

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OMAGGIO A PIER PAOLO PASOLINI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/02/omaggio-a-pier-paolo-pasolini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/02/omaggio-a-pier-paolo-pasolini/#comments Mon, 02 Nov 2015 17:50:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2630 QUARANT’ANNI DALLA MORTE DI PIER PAOLO PASOLINI

Il 1° novembre del 2010 pubblicai un post dedicato a Pier Paolo Pasolini in occasione del trentacinquesimo anniversario della sua morte (avvenuta a Roma, nella notte tra il 1 e il 2 novembre del 1975). Adesso, a distanza di cinque anni, in occasione della ricorrenza del quarantesimo, ripropongo quel vecchio post del 2010 anticipando che nel corso della settimana – su LetteratitudineNews – saranno pubblicati vari post sull’argomento (che poi verranno linkati qui di seguito a mano a mano che saranno online).
Ne approfitto, intanto, per segnalarvi questo bel docufilm visibile online su Repubblica Tv (e stasera disponibile anche su Sky Arte Hd alle 21.10 – canali 120 e 400 di Sky).
Nei giorni scorsi ho riproposto la puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” del 3 dicembre 2010 dove ho avuto il piacere di incontrare Marco Belpoliti per discutere del saggio “Pasolini in salsa piccante”, pubblicato dallo stesso Belpoliti per Guanda nel 2010 (in occasione, appunto, del 35° anniversario della morte di Pasolini).

Dedico, dunque, questo “spazio” alla memoria di Pier Paolo Pasolini con l’intento di celebrarlo, ma anche con l’obiettivo (e la speranza) di contribuire a far conoscere questo nostro grande scrittore a chi non avesse ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.

Sono graditi (e ringrazio anticipatamente i partecipanti) interventi, contributi vari e la segnalazione di link attinenti ai contenuti di questo post.

Di seguito, il post pubblicato nel novembre del 2010.

Massimo Maugeri

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TRENTACINQUE ANNI DALLA MORTE DI PASOLINI
(post del 1° novembre 2010)

Trentacinque anni fa, nella notte tra il 1 e il 2 novembre del 1975, Pier Paolo Pasolini veniva brutalmente ucciso (battuto a colpi di bastone e travolto con la sua auto) sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia, località del Comune di Roma.
In questi giorni, in occasione del 35°, si sta dando ampio risalto alla tragica notizia di allora, anche per via delle recenti riaperture delle indagini giudiziarie.
Vi segnalo questo servizio pubblicato su WUZ (a cura di Sandra Bardotti), che apre con questo cappello: “Trentacinque anni dopo, le indagini giudiziarie sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini all’Idroscalo di Ostia non sono ancora giunte a una verità accettabile e condivisibile da tutti. Indagini che si aprono e chiudono regolarmente a distanza di anni, da cui si ricava l’impressione che l’unica verità di cui siamo in possesso è che il caso Pasolini rimarrà irrisolto e che l’immagine che la società ha di lui sarà eternamente compromessa.
Nostro dovere in quanto cittadini è forse continuare a pretenderla, questa verità che da qualche parte deve pur trovarsi, senza rifugiarsi dietro inutili dietrologie e teorie di complotti, e contemporaneamente riappacificarci definitivamente con la figura e l’opera di Pier Paolo Pasolini, per capire quanto ancora i suoi scritti possono parlare al presente e alle generazioni future
”.

Ma la ricorrenza offre anche l’occasione per ricordare il Pasolini scrittore, poeta, regista e giornalista.
Ed è quello che vorrei fare (e invitarvi a fare) con questo post. Seguono le solite domande, volte a avviare la discussione…

1. Che rapporti avete con le opere di Pier Paolo Pasolini?

2. Qual è quella che avete amato di più?

3. E l’opera di Pasolini che ritenete più rappresentativa (a prescindere dalle vostre preferenze)?

4. Preferite il Pasolini scrittore, poeta o regista?

5. Tra le varie “citazione” di Pasolini di cui avete memoria… qual è quella con cui vi sentite più in sintonia?

6. A trentacinque anni dalla morte, qual è l’eredità che Pasolini ha lasciato nella letteratura italiana?

Nel corso del dibattito vi segnalerò alcuni articoli – in tema con questo post – pubblicati su quotidiani e magazine.
Di seguito, i riferimenti ad alcuni libri pubblicati di recente sulla figura di Pasolini e un video contenente l’ultima videointervista che ha rilasciato prima della morte.

Aspetto i vostri contributi…

Massimo Maugeri

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UN ELENCO DI ALCUNI DEI LIBRI DEDICATI A PIER PAOLO PASOLINI (di recente pubblicazione)

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PPP. Pasolini, un segreto italianoPPP. Pasolini, un segreto italiano” di Carlo Lucarelli
(Rizzoli)

Un romanzo-inchiesta sugli ultimi giorni di Pasolini e sugli anni più violenti della nostra storia recente. «Le bombe, le fucilate e le sprangate, e tutto quello che ci sta dietro, sono fatti concreti, azioni umane. Ciò che non sappiamo sta nella mente di qualcuno che non parla. Insomma, non sono Misteri, quelli. Sono Segreti. Segreti Italiani.»

Primi anni Settanta. A pancia in giù e sollevato sui gomiti, un ragazzino legge su una rivista frasi impenetrabili, rabbiose, attraenti. Sono tutte di Pier Paolo Pasolini. Il tempo passa e, quasi inavvertitamente, dentro quel bambino che oggi è uno scrittore sedimenta qualcosa di profondo: non è solo la passione per la parola, è l’istinto di un mestiere. «Seguire quello che succede, immaginare quello che non si sa o che si tace, rimettere insieme i pezzi disorganizzati e frammentari, ristabilire la logica dove regnano l’arbitrarietà, la follia e il mistero». Perché il Pasolini che ci parla dalle pagine di questo libro non è il poeta né il letterato, è quello della narrazione civile, lo stesso che confessò di sapere e che è stato assassinato. È proprio lì che torna Carlo Lucarelli, agli anni più violenti della nostra storia recente, ai pestaggi, ai morti ammazzati e alle stragi. Torna al Pasolini intellettuale e all’odio che lo circondava. Attraverso un tessuto di impressioni intime, analisi politiche e ricostruzioni storiche, torna a quella notte di novembre del 1975 in cui si è consumato un delitto comunque politico. Ciò che resta, una volta disintegrata la versione ufficiale e rimessi in ordine i fatti, è la certezza di trovarci di fronte a un Segreto Italiano.

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Pasolini, un uomo scomodoPasolini, un uomo scomodo” di Oriana Fallaci
(Rizzoli)

Per prima mise in dubbio la versione ufficiale dell’omicidio di Pasolini, nel reportage che dal 14 novembre 1975 pubblicò sulle pagine de L’Europeo e che Rizzoli ripubblica oggi in questo libro.

«Diventammo subito amici, noi amici impossibili. Cioè io donna normale e tu uomo anormale, almeno secondo i canoni ipocriti della cosiddetta civiltà, io innamorata della vita e tu innamorato della morte. Io così dura e tu così dolce.» – Oriana Fallaci

Quella tra Oriana e Pier Paolo è una delle più affascinanti e intense storie di amore-odio della letteratura e del costume italiani del Novecento. Scrittori di primissimo livello, polemisti spietati, personaggi venerati e infangati dall’opinione pubblica del tempo, le loro personalità contrapposte non potevano far altro che incrociarsi. Forse anche perché, a differenza dei loro colleghi italiani, Oriana e Pier Paolo si muovono con agio sullo scenario internazionale: lei grazie ai suoi reportage dalle zone di guerra e a una serie di indimenticabili interviste ai potenti della terra, lui soprattutto per merito del suo cinema che spiazza, divide e scandalizza i censori di tutto il mondo. Tra gli anni Sessanta e i primi Settanta, questi due protagonisti del panorama intellettuale si incontrano e si scontrano, si cercano e si negano: lei ammira e detesta il suo essere sempre bastian contrario, lui adora e disprezza la sua intensa visceralità. Ma la morte di Pasolini, il brutale omicidio che lo strappa alla vita il 2 novembre del 1975, spinge Oriana a rinsaldare il legame con questo amico-nemico andato via troppo presto. E lo fa con i mezzi a sua disposizione, quelli del giornalismo e della scrittura. Sotto la sua spinta, “L’Europeo” – il settimanale per cui lavora – si lancia in una controinchiesta che smentisce e ribalta la versione offerta dalle autorità e mette alle strette l’unico indiziato: Pino Pelosi, un minorenne che – pur di coprire gli effettivi responsabili – si è maldestramente autoaccusato dell’omicidio. Questo libro raccoglie tutti i contributi di Oriana al caso Pasolini apparsi sull’“L’Europeo” e rende finalmente giustizia al suo ruolo nella risoluzione di uno dei delitti più misteriosi e controversi della storia d’Italia.

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La macchinazione. Pasolini. La verità sulla morteLa macchinazione. Pasolini. La verità sulla morte” di David Grieco (Rizzoli)

Chi c’era quella notte all’idroscalo di Ostia? Che cosa aveva scoperto Pasolini? Chi ha firmato la sua condanna a morte?

“Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta.” Con queste parole cariche di profetico sarcasmo, Pasolini liquidava i suoi colleghi giornalisti e intellettuali. E lo faceva poche ore prima di essere ucciso e diventare lui stesso uno di quei delitti etichettabili, carne da prima pagina e niente più. Infatti, all’indomani della sua morte, quasi tutti i giornali trovarono il modo più remunerativo per presentare il caso: Pasolini era stato ammazzato dal povero ragazzo che aveva tentato di violentare. L’opinione pubblica abboccò e così, quella notte del 1975, Pasolini fu ucciso due volte: prima dalle mani di chi lo aveva aggredito, poi da quelle di chi ne ha per sempre cancellato il ricordo. In “La Macchinazione” David Grieco, che di Pasolini è stato amico e collaboratore, racconta una storia che comincia proprio nel punto in cui finisce il suo omonimo film. Se la pellicola ricostruisce la spaventosa rete di complicità che si nasconde dietro al delitto, nel libro Grieco presenta le prove, le testimonianze e i documenti di un caso giudiziario complesso, abilmente ripercorso nei suoi chiaroscuri dalla postfazione di Stefano Maccioni, l’avvocato che dal 2009 lotta per fare luce sull’intera vicenda. Nel tempo, l’ombra di quel sordido delitto ha oscurato l’opera di Pasolini. Generazioni di studenti sono cresciute senza conoscere i suoi libri, le sue poesie, i suoi articoli, i suoi film.

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Pasolini, massacro di un poetaPasolini, massacro di un poeta” di Simona Zecchi (Ponte alle Grazie)

Il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia, si consuma il “massacro tribale” di uno dei maggiori intellettuali del ventesimo secolo: Pier Paolo Pasolini. L’inchiesta di Simona Zecchi riparte proprio da quella sciagurata notte e, con l’ausilio di prove fotografiche mai emerse sinora, documenti inediti, interviste e testimonianze esclusive, fa tabula rasa dei moventi ufficiali e delle piste finora accreditati, dall’”omicidio a sfondo sessuale” al “misterioso” Appunto 21 di Petrolio. Come nella Lettera rubata di Edgar Allan Poe, lo “schema perfetto” che condusse il poeta friulano fra le braccia dei suoi carnefici è sempre stato sotto gli occhi degli inquirenti e, in parte, dell’opinione pubblica: un oscuro attentato a pochi passi dall’abitazione di Pasolini la cui funzione viene finalmente svelata, un furto di bobine come espediente dai tratti inediti, la presenza di più macchine all’Idroscalo e la prova del doppio sormontamento del corpo ormai agonizzante, i testimoni che nessuno ha mai voluto veramente ascoltare, la matrice fascista dell’agguato, la direzione dell’intelligence nostrana, i tentativi di alcuni giornali di trasformare Pasolini in imputato nello stesso processo che avrebbe dovuto stabilire l’identità dei suoi assassini. Tra le numerose inchieste che hanno cercato di decostruire la gigantesca opera di depistaggio messa in atto già all’indomani dell’omicidio, Pasolini, massacro di un poeta si incarica di dire la verità, tutta la verità.

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Pasolini. Ragazzo a vitaPasolini. Ragazzo a vita” di Renzo Paris
(Elliot)

A quarant’anni dall’omicidio di Pasolini, Renzo Paris torna sui luoghi degli incontri romani con l’autore di “Petrolio”, raccontando un’amicizia durata dal 1966 al 1975. Nel suo vagabondaggio a ritroso nella memoria, Paris si spinge fino a Nuova Delhi e a Nairobi, per le celebrazioni pasoliniane, commentando parallelamente la versione non censurata del dramma “Affabulazione”, che Pasolini gli donò in dattiloscritto, conservato come una reliquia. Un post-romanzo nel quale sfila al completo la “famiglia” romana dello scrittore bolognese: da Moravia a Laura Betti, da Ninetto Davoli a Elsa Morante, con i loro viaggi, le estati a Sabaudia, i dibattiti televisivi sul ‘68. Un testo intenso e malinconico, alla ricerca di un senso che colmi il vuoto lasciato da quella morte così atroce avvenuta nel novembre del 1975.

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Pier Paolo Pasolini. Vivere e sopravviverePier Paolo Pasolini. Vivere e sopravvivere” di Italo Moscati (Lindau)

La vita e l’opera di Pasolini, la sua passione, il suo coraggio, la sua costante disponibilità a mettersi in gioco, esercitano un richiamo che sembra crescere con il tempo. Il panorama politico e culturale di questi anni frammentato, confuso, percorso da tensioni dagli esiti imprevedibili – ha bisogno di voci capaci di incidere, se non di convincere. E Pasolini era e resta una di quelle. Questo libro prosegue la ricerca di Moscati dopo gli anni in cui ha conosciuto, frequentato e si è sforzato di capire il poeta, romanziere, regista, scrittore corsaro: protagonista di percorsi, mestieri, esperienze che provano una vitalità sfrenata, drammatica, gioiosa nei giorni migliori (quelli del primo cinema, degli interventi, delle amicizie, dei viaggi), ma anche disperata; e non per vicende personali che pure esistono – e il libro le racconta andando in profondità; bensì per l’isolamento da cui questo artista, ricco di idee per tutti, si sforzava di uscire. Il suo è un “romanzo esistenziale” sacro per dignità e pensiero; e inviolabile patrimonio di chi non lo commemora, ma ne avverte acutamente la mancanza.

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PasoliniPasolini” di Davide Toffolo (Rizzoli Lizard)

“Con Pasolini Toffolo realizza questa missione quasi impossibile: dare un senso, un’intensità, un’attualità a uno dei più importanti artisti europei moderni.”
– Stéphane Piatszek e Olivier Séguret, Libération

Mi parve bellissimo, con la sua faccia dove i tratti slavi, romagnoli, ebrei, avevano composto linee uniche, una maschera irripetibile. Il corpo fin troppo espressivo, da Mantegna e anche da povero, medioevale così forte che se ti afferravano i polsi così forte per comunicare affetto, ti stringeva tra due tenaglie. Dal suo atteggiamento timido, di riserbo e sobrietà, settentrionali, così diversi dalla mia traboccante estroversione di ragazza del centro sud, uscivano discorsi lenti, esitanti, con l’accento acerbo, spoglio, rugiadoso, acre, dei veneti del Friuli.” - Silvana Mauri, Su Pasolini.

Un colloquio immaginario tra due artisti che parte da un assunto fantastico: Pasolini è vivo, e ha delle cose da dire. Molte. Essenziali. Ma è davvero lui? O un fantasma, un attore, un mitomane? Quel che è certo è che la sua conversazione con Davide Toffolo vibra di quel senso, di quell’acutezza che ne hanno reso immortale lo spirito. Toffolo cerca Pasolini tra le pagine dei suoi libri, nei ritagli di stampa, nelle interviste e ne cattura l’essenza: la rabbia, l’inalienabile solitudine, la feroce irriducibilità del poeta sono tutte tra queste pagine, in quest’intenso ritratto della grazia pasoliniana a opera di uno degli artisti più anticonformisti del panorama italiano.

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Per indegnità moralePer indegnità morale” di Anna Tonelli (Laterza)

Nel 1949 Pier Paolo Pasolini fu espulso dal Partito comunista italiano per ‘indegnità morale’. Il punto di partenza della vicenda sono i ‘fatti di Ramuscello’, che innescano l’accusa di corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico. Pasolini diventa così immediatamente un bersaglio politico: per i democristiani l’avversario da colpire, per i comunisti il pericolo da allontanare. Fondamentale nella biografia e nel percorso artistico di uno dei protagonisti della vita intellettuale del Novecento, questo caso è cruciale per capire il clima culturale e politico del dopoguerra. Due ‘chiese’, Democrazia cristiana e Partito comunista, impongono due pedagogie collettive distinte ma finalizzate entrambe a codificare vere e proprie regole di moralità. Il partito deve orientare le masse nella vita quotidiana, correggere i comportamenti anomali e, di fronte a gravi errori, espellere. La scelta compiuta con Pasolini è, dunque, esemplare della modalità punitiva adottata nei confronti dei ‘compagni’ che trasgrediscono. L’indagine di Anna Tonelli getta finalmente luce su particolari centrali sinora inediti della vicenda, compreso il lungo silenzio del Pci.

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Improvviso il Novecento. Pasolini professoreImprovviso il Novecento. Pasolini professore” di Giordano Meacci (Minimum Fax)

“Mi alzo alle sette, vado a Ciampino (dove ho finalmente un posto di insegnante, a 20.000 lire al mese), lavoro come un cane (ho la mania della pedagogia), torno alle 15, mangio, e poi…” È il 1952, e Pier Paolo Pasolini può dedicarsi alla letteratura solo “poi”, nel tempo libero dall’insegnamento. Attorno agli anni ciampinesi di Pasolini e ai ricordi dei suoi alunni e dei suoi amici (Bertolucci, Cerami, Pivano) – quei primi anni Cinquanta in cui nasceva “Ragazzi di vita” – Meacci costruisce un libro che è al contempo saggio, reportage, diario di viaggio e racconto, e in cui trova posto un’intera teoria di figure del nostro Novecento (e non solo): Totò, Fellini, Hemingway, gli sfollati del dopoguerra, Mizoguchi, il Vangelo, Mantegna, le tradizioni contadine, Simone Martini, il comunismo, Anna Magnani, Goldrake e Happy Days, l’America, Roma, il terremoto del Friuli, la grande poesia, la “scomparsa delle lucciole”. Da quel 2 novembre del 1975; da Ostia a noi, oggi, quarant’anni dopo quella morte che pesa sui cittadini di questo triste, meraviglioso, sfortunato, bellissimo paese: forse è stato già detto tutto, o troppo. O troppo poco, chissà.

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Breve vita di Pasolini” di Nico Naldini (Guanda)

Un protagonista della cultura del Novecento, una figura complessa e luminosa, un artista versatile e geniale, un eretico… Questo è stato Pier Paolo Pasolini, ma non solo: per la vita che ha condotto e per la morte che ha incontrato, Pasolini è stato anche un simbolo della società italiana e dei suoi cambiamenti. Ecco perché la biografia scritta da Nico Naldini, che ne fu il cugino, è tanto preziosa. Perché mescola, con lucida sobrietà, ricordi personali e ricostruzione documentata, spirito analitico e commozione; e ne disegna un ritratto volutamente essenziale. Riemergono così, da un passato ancora tanto vivo, le estati friulane dell’infanzia, il rapporto con la madre e l’indomabile vocazione pedagogica, l’amore per la semplicità dei contadini e la «competenza in umiltà». E poi, subito dopo, le prime tensioni politiche, la scelta militante del comunismo e la sofferenza per la morte del fratello Guido, nella strage di Porzus. E quindi, nella piena maturità artistica, la scoperta di Roma e delle sue periferie, la capacità tutta pasoliniana di entrare in contatto con il mondo dei «miseri» e delle borgate. Fino a quella terribile morte violenta, che in troppi hanno voluto circondare di mistero e che Naldini interpreta invece nella sua lineare essenzialità, senza alcuna concessione ai complottismi. Questa è dunque la vita «breve» di Pasolini. Un poeta corsaro, un artista capace di visioni altissime, un diverso, sempre e comunque, nell’affettività come nelle tensioni intellettuali, un uomo alla ricerca di una verità «altra».

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Un paese di temporali e primule” di Pier Paolo Pasolini – a cura di Nico Naldini (Guanda)

Per la formazione umana, intellettuale e letteraria di Pasolini, gli anni trascorsi a Casarsa, paese natale della madre, furono decisivi. Il mondo friulano, intensamente vissuto e amato, resterà per lui un punto di riferimento esistenziale e mitologico: il simbolo di un’umanità arcaica e innocente, capace di un senso lirico, magico della vita, il punto d’avvio di una vocazione artistica assoluta. Un paese di temporali e di primule racchiude ed esprime l’esperienza friulana di Pasolini attraverso scritti che vanno dal 1945 al 1951. Il libro si articola in quattro sezioni. La prima e più cospicua comprende racconti e prose che, nelle loro vibrazioni espressive, anticipano l’evoluzione futura dello scrittore. La seconda sezione è dedicata alla lingua friulana come portato di un lungo percorso storico, manifestazione di una cultura e mezzo letterario, e documenta il precoce interesse dello scrittore per le questioni linguistiche, che in seguito sfocerà nelle pagine di Passione e ideologia. Pasolini tocca poi, con lucidità e intuizione straordinarie, i temi dell’autonomia regionale, collegandoli a una necessità soprattutto culturale e linguistica. Vi sono infine i ricordi dell’intenso periodo di insegnamento svolto nella piccola scuola di Valvasone, cui si aggiungono i testi dell’Appendice, che illuminano un periodo tanto cruciale quanto poco conosciuto della vita di Pasolini (particolarmente le poesie composte per i suoi scolari). Nico Naldini ha scritto per questo libro un’introduzione che ci regala la testimonianza diretta e la lettura approfondita di ciò che è stato Pasolini giovane, il Pasolini di Casarsa: la miglior guida per chi oggi accosti questi scritti di sorprendente bellezza e suggestione.

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Poesie scelte” di di Pier Paolo Pasolini - a cura di Nico Naldini e Francesco Zambon (Guanda)

«Nello sviluppo del mio individuo, della diversità, sono stato precocissimo; e non mi è successo, come a Gide, di gridare d’un tratto ’Sono diverso dagli altri’ con angoscia inaspettata; io l’ho sempre saputo» scriveva Pasolini nei giovanili «quaderni rossi». E questo sentimento di diversità che domina tutta la sua opera – coscienza della propria omosessualità, certo, ma anche un senso più vasto di spaesamento e di inattualità – troverà subito un nome: quello di poesia. È stato en poète che egli ha sempre svolto la sua molteplice e anche dispersiva attività di scrittore, di regista, di critico o di polemista: si pensi soltanto alla sua esemplare teorizzazione del «cinema di poesia». Narciso, dolceardente usignolo, eretico, martire, barbaro, animale senza nome o bestia da stile – a seconda delle maschere sublimi o infami assunte sulle diverse scene della vita – egli rimase sempre fedele, con eroica ostinazione, al ruolo di poeta, inteso in un senso che si potrebbe dire «romantico» e perfino «sacrale»: quello di testimone solitario di una dimensione altra, di verità che agli uomini non possono apparire se non come scandalo e bestemmia.
(Dall’introduzione di Francesco Zambon)

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“Ròmans” di Pier Paolo Pasolini – a cura di Nico Naldini (Guanda)

La vicenda di Romàns si svolge negli anni del secondo do¬poguerra e ha per sfondo la pianura friulana tra le rive del Tagliamento e i bastioni delle Prealpi. La scena è costituita da un borgo contadino che nei giorni di festa formicola di grida, canti, risa, ma nei giorni feriali ritrova la piena dimensione della povertà e del lavoro umile, nella quale affiorano ormai impeti di rivolta, confusi ideali politici. Romàns è la storia di un giovane prete, del suo arrivo in uno sperduto paesino del Friuli, del suo duro servizio pastorale e del rapido, drammatico processo interiore che lo porterà alla consapevolezza di una realtà sociale che il suo apostolato non riesce ad assorbire del tutto, e anche dell’insanabile contrasto tra la visione del proprio ruolo e gli impulsi più naturali, che lo spingono all’amore per un ragazzo. A Romàns, che si configura quasi come un breve romanzo autonomo, si accosta Un articolo per il «Progresso», un racconto «che vede una volta ancora in azione la ‘meglio gioventù’» (così Nico Naldini nell’introduzione). A questi due testi si aggiunge, a formare un armonico trittico, Operetta marina, narrazione emersa «da una raccolta di carte, frutto di un complesso e mutevole disegno narrativo che ha come oggetto il mare» e che è compresa sotto il titolo Per un romanzo del mare. Nella sua dimensione di «leggenda personale» essa viene a completare e a chiudere il libro esemplare di una felicissima stagione.

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ALCUNI LIBRI USCITI NEL 2010

Morire per le idee. Vita letteraria di Pier Paolo Pasolini” di Roberto Carnero
Bompiani, 2010
Morire per le idee. Vita letteraria di Pier Paolo PasoliniL’opera pasoliniana va letta come un tutt’uno, in cui le diverse fasi di un lavoro artistico complesso e articolato (dalla poesia alla narrativa, dal teatro al cinema, dal giornalismo alla critica letteraria) tendono a intersecarsi continuamente all’interno di un discorso creativo ‘aperto’ e mobile’. Tn altre parole quella di Pasolini è una grande opera ‘totale’, all’interno della quale è difficile scindere i diversi ‘generi’. A partire da questa premessa il libro di Roberto Carnero indaga l’opera pasoliniana senza scindere i diversi aspetti della sua produzione, ma anzi riportando le diverse esperienze e i diversi momenti del lavoro pasoliniano alla coerenza di un percorso artistico unico. Un’opera, quella di Pasolini, strettamente legata alla vicenda biografica del suo autore. Per questo “una vita letteraria’, che Carnero ci aiuta a riscoprire e a percorrere in capitoli a metà tra il ‘tematico’ e il ‘biografico’. Il volume si presenta come un profilo di Pasolini, agile e aggiornato: una monografia critica adatta sia per gli studenti (delle università e delle scuole secondarie) sia, più in generale, per tutti i lettori interessati ad avvicinarsi a Pasolini in maniera informata. In un’apposita appendice (contenente, tra l’altro, un’intervista inedita a Walter Veltroni) si dà conto della controversa questione della morte di Pasolini, a partire dalle clamorose novità emerse negli ultimi mesi.

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Pasolini in salsa piccante” di Marco Belpoliti
Guanda, 2010
Sono trascorsi trentacinque anni dalla morte di Pasolini e forse è venuto il momento di fare con lui quello che il Corvo consigliava a Totò e Ninetto in Uccellacci e uccellini: i maestri si mangiano in salsa piccante. Per digerirli meglio, ingerendo il loro sapere e la loro forza. Andare oltre Pasolini con Pasolini: è quello che si propone Marco Belpoliti nel suo saggio.
Partendo dal primo processo, nel 1949, in Friuli, per atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minore, passando attraverso la rilettura degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, e attraverso l’analisi dei nudi del poeta scattati nel 1975 da Dino Pedriali e le foto inedite di Ugo Mulas sul set di Teorema, sino ad arrivare alla pubblicazione postuma di Petrolio, Belpoliti mostra come la cultura italiana abbia sempre rifiutato l’omosessualità di Pasolini, come non abbia compreso che questa è la radice della sua critica alla «mutazione antropologica», e come oggi si cerchi di fare di lui un martire delle trame occulte degli anni Settanta, quasi per alleggerirsi del senso di colpa nei suoi confronti. Un pamphlet che è un atto d’amore: mangiare Pasolini per onorarlo, per liberarlo dal limbo dei cattivi pensieri e dei falsi perdoni, delle solerti ammirazioni e degli impotenti moralismi che l’hanno tenuto sospeso nei nostri pensieri per tre decenni. Mangiarlo in salsa piccante perché è un maestro. Un grande maestro.

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I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema” di Marco Bazzocchi
Bruno Mondadori, 2010
I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinemaQuello di Marco Antonio Bazzocchi è un viaggio alla ricerca dei molteplici e non sempre ovvi legami fra la produzione cinematografica e quella letteraria di Pier Paolo Pasolini.

Ripercorrendo le origini eminentemente narrative dei suoi lungometraggi (i miti greci, il “Decamerone” di Boccaccio, le “Mille e una notte”, ma anche il romanzo erotico e, sempre onnipresente, la Commedia dantesca), il saggio si concentra sul passaggio pasoliniano dalla letteratura al cinema e sulle reciproche influenze di questo momento, leggendolo attraverso il filtro di temi quali la rappresentazione della morte e della sessualità, il costante dialogo con Dante e con Michel Foucault, il significato antropologico dell’atto del mangiare, la ripresa di citazioni dalla pittura di Velázquez e la riflessione sulla questione delle origini.

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Pier Paolo Pasolini. Una morte violenta” di Lucia Visca
Castelvecchi, 2010
Pier Paolo Pasolini. Una morte violenta. In diretta dalla scena del delitto, le verità nascoste su uno degli episodi più oscuri nella storia d'ItaliaLa mattina del 2 novembre del 1975, quando all’Idroscalo di Ostia fu scoperto il cadavere di Pier Paolo Pasolini, Lucia Visca fu la prima cronista ad accorrere sulla scena del delitto.

Lì, su quella spiaggia sporca di sangue e povertà, insieme al cadavere del poeta giacevano alcuni indizi importantissimi: dettagli trascurati dai primi investigatori ma che, a distanza di trentacinque anni dall’assassinio dell’autore di Ragazzi di vita, tornano alla ribalta grazie alla riapertura delle indagini voluta dal Tribunale di Roma nella primavera del 2010.

Scrupolosa inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini, il libro di Lucia Visca accende i riflettori su ciò che accade nelle prime tre ore dopo il ritrovamento del corpo martoriato del poeta, nella convinzione che è proprio a quei momenti che occorre tornare per elaborare ipotesi realistiche sulle modalità dell’omicidio e sui suoi possibili moventi e mandanti di ciò che resta uno dei delitti più dolorosi mai sopportati dalla storia e dall’opinione pubblica italiana.

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© Letteratitudine

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RICORDANDO ALBERTO MORAVIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/10/02/ricordando-alberto-moravia/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/10/02/ricordando-alberto-moravia/#comments Fri, 02 Oct 2015 15:15:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/25/ricordando-alberto-moravia/ Paolo Monti - Servizio fotografico - BEIC 6361580.jpg

25 ANNI DALLA MORTE DI ALBERTO MORAVIA

Nel novembre del 2007 pubblicai un post dedicato a Alberto Moravia in occasione del centenario della sua nascita (avvenuta a Roma, il 28 novembre 1907). Nei giorni scorsi è stata celebrata un’altra ricorrenza: il venticinquesimo anno dalla morte (avvenuta a Roma, il 26 settembre 1990). Per l’occasione vorrei riproporre quel vecchio post del 2007 (contenente anche un contributo di Massimo Onofri tratto dal volume “Tre scrittori borghesi. Soldati, Moravia, Piovene” – Gaffi, 2007).

Ne approfitto altresì per proporvi questo video che contiene:
- uno “scherzoso” scambio tra Indro Montanelli e Alberto Moravia (1959)
-un’intervista di Pasolini a Moravia sul tema dello “scandalo amoroso” (1965)
- una trasmissione dedicata a Moravia, condotta da Mirella Serri con il contributo critico di Antonio De Benedetti (incentrata sui “gusti letterari”)
- una trasmissione dedicata interamente al profilo dello scrittore (con una serie di interviste molto interessanti)

Dedico, dunque, questo “spazio” alla memoria di Alberto Moravia con l’intento di celebrarlo, ma anche con l’obiettivo (e la speranza) di contribuire a far conoscere questo nostro grande scrittore a chi non avesse ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.

Sono graditi (e ringrazio anticipatamente i partecipanti) interventi, contributi vari e la segnalazione di link attinenti ai contenuti di questo post.

Di seguito, il post pubblicato nel novembre del 2007.

Massimo Maugeri

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CENTO ANNI DALLA NASCITA DI ALBERTO MORAVIA
(post del 25 novembre 2007)

Alberto MoraviaCent’anni fa nasceva Alberto Pincherle, in arte Alberto Moravia. Per l’esattezza il 28 novembre 1907.

Mi piacerebbe che ne parlassimo qui a Letteratitudine, ricordando la sua figura di grande scrittore e i suoi libri.

Vi fornisco uno spunto avvalendomi di un testo di Massimo Onofri, estratto dall’ottimo saggio “Tre scrittori borghesi. Soldati, Moravia, Piovene” appena edito da Gaffi editore.

Si tratta della raccolta di alcuni scritti nati in circostanze differenti per “celebrare tre scrittori – tre uomini – sorprendentemente affini ed in concorrenza, nella diversa declinazione d’una borghesia che fu anche il loro modo di vivere ed interpretare una vicenda fin troppo italiana. Borghesia come condizione storica e proposta metafisica: a definire il rapporto che intrattennerò con se stessi e il mondo”.

Aspetto i vostri contributi.

Massimo Maugeri

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Un borghese contro se stesso: Moravia 1927-1951

di Massimo Onofri

Non mi fa fatica affermare che la pubblicazione dei Racconti (1927-1951), nel 1952, felicissima antologia d’autore, rappresenta un evento capitale, tanto nella già molto folta vicenda editoriale di Moravia, quanto nella storia della cultura letteraria italiana di quegli anni. Ma molto folta, vorrei aggiungere, è dire in fondo poco: se è vero che, come scrivono Simone Casini e Francesca Serra nell’Introduzione al notevole Racconti dispersi (1928-1951), stampato da Bompiani nel 2000, Moravia, a quell’altezza cronologica, ha già pubblicato otto romanzi, da Gli indifferenti (1929) al Conformista (1951), e scritto «ben duecentotrenta racconti più o meno lunghi». Lascio ancora, e volentieri, la parola ai due giovani filologi: «Certo, non tutti i racconti esclusi nel 1952 vanno considerati tra i dispersi, abbandonati cioè dallo scrittore dopo la loro prima comparsa su questo o quel periodico. Una cinquantina, per esempio, di carattere allegorico o fantastico, confluirà nei Racconti surrealisti e satirici del 1956; qualcun altro verrà recuperato in raccolte posteriori come L’automa; e ben trentaquattro, comparsi sul “Corriere della Sera” dall’inizio del 1949, inauguravano la lunghissima e fortunata serie dei Racconti romani (1954). Dopo aver fatto tutti i conti del caso e verificato di non incorrere in errori per via delle ingannevoli metamorfosi di titolo o di forma, rimane tuttavia un dato sorprendente di cui prendere atto: i racconti scritti da Moravia tra il 1927 e il 1951 che rimasero sepolti nelle pagine dei quotidiani o delle riviste sono più di cento».

Da queste non molte ma assai precise parole si possono ricavare almeno due notizie fondamentali. Che i due volumi antologici del 1952 hanno un valore davvero quintessenziale – ventiquattro antologizzati (alcuni molto lunghi) su duecentotrenta scritti – nella produzione moraviana. Che, nella loro quintessenzialità, essi vanno a toccare solo il versante borghese, certamente e di gran lunga il più importante, di un’opera sterminata:distinguendosi, appunto, non solo dai racconti di tematica popolare o romana (nati dentro la specialissima esperienza che lo scrittore fece del Neorealismo), ma anche da quelli di disposizione fantastica o allegorica. Ho detto borghese: che è un aggettivo, oggi, disusato, se non screditato, e carico di troppe implicazioni, ma che s’impiega qui in un’accezione storica e di minima sociologia: quando è vero che, di questi ventiquattro racconti, borghese è esattamente l’ambientazione delle vicende e l’anagrafe dei personaggi: d’una riconoscibilissima borghesia italiana, sostanzialmente, neghittosamente, impolitica, silenziosamente fascista prima, perbenista poi. Non è un mistero per nessuno: negli Indifferenti Moravia non usa mai la parola fascismo, ma noi non ci dimentichiamo nemmeno per un solo istante, durante la lettura, che gli anni sono quelli delle domenicali adunate in orbace, del fascio littorio e del fez. Ma, dire borghesi questi racconti, significa nominare anche la provenienza sociale di chi li ha scritti: e che, pur nella spietatezza d’una narrazione oggettiva, non riesce a non trasferire, sulla pagina, le componenti di un’inquieta, insoddisfatta, se non guasta autobiografia. Come avviene nel caso di uno dei più bei racconti del Novecento italiano: Inverno di malato. Ma andiamo con ordine.

Articolo, novella, racconto, saggio, racconto lungo, romanzo breve, romanzo, romanzo-saggio, teatro, in perenne osmosi l’uno con l’altro genere: non v’è pratica della scrittura che Moravia, nella sua lunga vita, non abbia frequentato. E che testimonia d’una necessità biologica e d’un impegno quotidianamente imprescindibile che hanno però dello straordinario: a testimonianza d’una fede, non dico d’una religione, che è stata l’unica, forse, a non abbandonarlo mai, ed esercitata con puntualità inesorabile nelle prime ore della mattina. Ogni giorno un segno inciso nel legno storto della propria umanità: perché, per Moravia, l’uomo è innanzi tutto – vichianamente, crocianamente – ciò che fa. Un’operosità straordinaria ed in polemica implicita, direi naturale, con ogni idea di vita eccezionale, eroica.Contro D’Annunzio, insomma, letterato e vate sempre sopra le righe: il quale ancora rappresentava molto, e non soltanto per la patria letteraria, in quegli anni Trenta e Quaranta, quando Moravia scriveva la più parte dei racconti inclusi nel 1952: spunti d’un dannunzianesimo d’interni e sentimenti non mancano, del resto, nelle pagine più antiche della raccolta, per esempio quelle di Cortigiana stanca (1927). Un’operosità straordinaria, ripeto: come virtù, appunto, eminentemente borghese, di quella borghesia, però, subito disprezzata e deprecata. In effetti, come il borghesissimo Croce, rimasto sepolto per molteore nel 1883, giovanissimo, sotto le macerie di Casamicciola, nell’isola d’Ischia, accanto ai propri famigliari morti, anche Moravia ebbe, negli anni decisivi dell’adolescenza, il suo privato terremoto, e nemmeno troppo simbolico. E come Croce ne ricavò, precocemente, imperativi inderogabili per la sua implacabile etica del lavoro.Ecco: il 1916 volge alla fine quando, a soli nove anni, mentre il padre lo accompagna a scuola, cade a terra per un fortissimo dolore alle gambe. La diagnosi è spietata: una tubercolosi ossea all’anca, la malattia che segnerà tutta la sua giovinezza sino ai diciott’anni. Cominciano così i lunghi periodi d’immobilità a letto, gli studi irregolari affidati perlopiù ad insegnanti privati, se non a governanti, le letture disordinate, ma matte e disperatissime (da Dante e Ariosto a Goldoni e Manzoni, da Shakespeare e Molière a Rimbaud e D’Annunzio, al fondamentale Dostoevskij): sino al ricovero nel sanatorio di Cortina d’Ampezzo, tra il marzo 1924 e il settembre 1925, ed alla convalescenza a Bressanone, in un Kurhaus, un albergo con assistenza medica. Moravia lo definirà più volte come il fatto più importante della sua vita: bisognerà prenderlo alla lettera. Non per niente, il già citato Inverno di malato, che trasporrà sulla pagina proprio questa esperienza in sanatorio, può essere letto come un racconto aurorale e fondativo, di larga parte della sua opera e di tutto un atteggiamento: quello conflittuale e risentito con la propria classe d’appartenenza, e magari letto anche col valore di un’autogiustificazione a posteriori, quanto alla luce feroce che illumina i personaggi e gli eventi che s’accampano negli Indifferenti, autogiustificazione che Edoardo Sanguineti, nel 1962, in chiave rigorosamente (e limitativamente) marxista, ha preferito tradurre coi termini di «coscienza» e «ideologia».

Scritto presumibilmente nell’estate del 1929 a Divonne-les-Bains, come confidò ad Alain Elkann nel 1990 (altrove, però, parlerà anche dell’autunno del 1925, collocandolo dunque a ridosso della stesura del romanzo d’esordio), Inverno di malato, terzo testo antologizzato nei Racconti, fu pubblicato da Pietro Pancrazi su «Pegaso» nel 1930, quindi incluso nella prima raccolta del 1935, La bella vita, poi ristampato nell’Amante infelice (1943). Ilperno attorno a cui ruota tutto il racconto è il rapporto tra il giovane protagonista (che ha più o meno l’età di Moravia quando entra in sanatorio), «di famiglia una volta ricca e ora impoverita», e il suo compagno di stanza, il Brambilla, «viaggiatore di commercio e figlio di un capomastro», personaggio che nasce dalla condensazione di due ospiti dell’Istituto Coldivilla di Cortina d’Ampezzo conosciuti da Moravia: il primo e momentaneo compagno di stanza, appunto un volgare rappresentante di commercio, e il più che ventenne e triestino Faloria, figlio d’un sarto, giovine leggero e non problematico, don Giovanni al naturale, per il quale lo scrittore in erba prova una vera e propria infatuazione.

C’è da domandarselo, inseguendo indebitamente la biografia fin dentro la letteratura, braccando quell’io che vive sotto le mentite spoglie dell’io che scrive: che cosa sarebbe stato il rapporto di Moravia con la sua classe se non fosse passato al vaglio feroce d’uno sguardo “altro”, non borghese, epperò classista e risentito, come quello che ci restituisce qui il Brambilla, il quale non avrebbe forse ragioni da accampare – e il giovanissimo Girolamo lo sa bene nei rari momenti di lucidità -, se non quelle dell’azione, meglio: dell’attivismo e del vitalismo, e d’una certa braveria, d’una facilità di vivere, che a Girolamo, dal fondo della malattia e della sua paralisi, delle sue velleità, possono parere addirittura le ragioni stesse della salute e della virtù. Lo veniamo a sapere sin dalle prime righe: il Brambilla «l’aveva a poco a poco convinto, in otto mesi di convivenza forzata, che un’origine borghese o, comunque, non popolare fosse poco meno che un disonore ». Sia detto per inciso: proprio il primevo e positivo sentimento del popolo può dirsi alla base, dunque antica e dissimulata, di quelle cautissime illusioni populiste che Moravia vivrà tra i Racconti romani e i Nuovi racconti romani (1959).

Intendiamoci: se abbiamo scavato nel racconto in direzione della vita, se abbiamo finto un’identità tra le verità del testo e quelle dell’autore, non è per il fatto che vogliamo sottovalutarne la letterarietà.Quella che già nel 1938, molto tempestivamente, e come a rimproverargliela, Eurialo De Michelis sottolineava vigorosamente: magari segnalando calchi di Dostoevskij e Manzoni.

Epperò il fatto d’una sintassi dello sguardo che trapassa dalla vita all’opera – se inteso, diciamo, in senso trascendentale, come a fornirci una delle condizioni di possibilità del mondo moraviano, una sua chiave d’accesso – ci pare sia da privilegiare: a motivare meglio anche la qualità eccezionale dei racconti più lontani: non solo di Inverno di malato, ma anche di Cortigiana stanca, Delitto al circolo di tennis (1927), Fine di una relazione (1933). Insomma: il giovanissimo Moravia presta molto di sé al Girolamo di Inverno di malato, che è poi, in versione adolescente (o poco più), il Michele degli Indifferenti, o, per pescare a caso anche in questi Racconti (1927-1951), il Gianmaria dell’Imbroglio (1937), il Giacomo di Luna di miele, sole di fiele (1951), inserito però a partire dalla ristampa del libro del 1953, col suo amore «fatto più della volontà di amare che di sentimento vero»: inetto, velleitario, dilemmatico e inadeguato alla vita. Il giovanissimo Moravia, ripeto, presta molto di sé a Girolamo: ma sospingendolo subito dentro una luce che è già, insieme, di pietà e di condanna. Ecco: ricerca morale della verità o pregiudizio immoralistico? Distacco moralistico dalla propria materia autobiografica e di classe o adesione senza riserve? Furono proprio queste le domande che impegnarono e divisero i primi recensori degli Indifferenti, che oggi ci appaiono, quasi tutti, con le armi spuntate di fronte a quell’aggressività implacata ma fredda di Moravia, a quel fuoco sempre bagnato, però, dalle ragioni d’una strana pietà.Pietà e rifiuto, insomma: laddove, in Inverno di malato, nel serrato confronto tra Girolamo e Brambilla, tra un borghese inconsapevole di sé (e delle sue radici di classe) e un giovane del popolo, finisce per esplicitarsi, e per chiarirsi a se stessa, quella dialettica che, invece, negli Indifferenti resta muta, nel cerchio conchiuso e strozzato d’un interno pariolino dove, come notava Pancrazi recensendo il romanzo, manca davvero l’aria, sicché verrebbe la voglia d’aprire subito una finestra o scambiare due parole con la serva di casa. In Inverno di malato Moravia si serve d’un Brambilla insolente, sadico e persecutorio, anche un po’ mascalzone – quel Brambilla che giganteggia dentro la coscienza larvale di Girolamo -, per fare subito i conti con la sua classe sociale d’origine. Ma, dentro quel conto, saranno proprio le ragioni della pietà a impedirgli di riconoscersi positivamente in Brambilla, nel suo vitalismo, insomma in tutte le mitologie piccolo-borghesi con cui la malata borghesia italiana s’illuse di rivitalizzare se stessa e che culminarono nella barbarie del fascismo.

Ho parlato dello sguardo, della sua peculiare disposizione, che, da questo racconto aurorale, trasmigra, fondandola, dentro larga parte dell’opera moraviana, fino al suo punto terminale, passando, ovviamente, per tutte le metamorfosi che la borghesia italiana, con la sua realtà di riferimento e d’espressione, conoscerà nei decenni del secolo scorso, arrestandosi al principio degli anni Novanta, con la morte dello scrittore. Dovrei parlare ora – e sempre in termini trascendentali – del sesso e delle donne.

Perché, affrontare la questione del sesso in Moravia, significa, inevitabilmente, entrare nel merito di quell’aggressione in cui consiste il movimento del personaggio uomo, quando si rapporta, eroticamente, al personaggio donna. Un’aggressione che sta sempre nella lente ferocemente millimetrica d’un uomo che guarda: e che, non di rado, si traduce anche in violenza reale ed omicidio, come accade in Delitto al circolo di tennis. Partiamo, ancora una volta, da Inverno di malato: Girolamo, per ottenere da Brambilla una patente di virilità, studia di sedurre Polly, la paziente inglese quattordicenne con cui, per volontà dei genitori di lei, è solito conversare. Quella di Polly è, sin da subito un’«intorpidita» e «ritardata infantilità», che la fa terrorizzata e atona alle goffe avances del ragazzo, il quale, in quei rapporti voluti con tutto se stesso, e contro la sua stessa inadeguatezza, non s’impedisce di avvertire subito un che di «illecito, triste, torbido», fino alla convinzione «di essere guasto, senza rimedio».Ecco: il sesso è in Moravia, e sin da subito, qualcosa di agognato e ineludibile, ma anche di irreparabile, e che ha a che fare con la mortificazione e la perdita di sé.Il personaggio di Polly, poco più che una bambina, induce meno lo scrittore a quel moto aggressivo di cui s’è detto, rivolto più a se stesso, in questo caso, al suo io vicario. Tutto risulta più chiaro quando, sulla scena, campeggiano donne mature.Prendete Cortigiana stanca: «Per strada, la sua fantasia si era accanita con una specie di rabbiosa volontà a immaginare una Maria Teresa carica di autunni, dai seni pesanti, dal ventre grasso tremolante sulle giunture allentate dell’inguine, dai fianchi impastati e disfatti». Laddove, però, la logica stessa del desiderio nei suoi momenti più accesi, se non addirittura quella stessa dell’amore, si alimenta proprio di quanto c’è di più penoso nel commercio della carne: «Non se lo confessava, ma l’avrebbe amata di più, mille volte di più, […] se avesse sentito sotto le sue mani irrequiete una carne ancora più stanca di quella, una pelle ancora più vizza e sfiorita. Tutto il suo amore avrebbe dato ad una povera donna matura che non senza disgusto avrebbe tenuto sopra le sue ginocchia e stretta contro il proprio petto». Anche alla donna di Fine di una relazione – che non si trova nell’incipiente autunno della vita come Maria Teresa, ma nella pienezza della sua fresca maturità – il suo infastidito amante non riserva premure migliori. E nello sguardo feroce e disturbato di lui, i suoi sono «occhi neri e inespressivi», per «una serenità indolente e un po’ bovina», di «animale inabile».

Il culmine di questa aggressività maschile, però, s’era già toccato dall’inizio, in Delitto al circolo di tennis, dove la «principessa», una donna invecchiata male, ma di ancor vive ambizioni, viene invitata al ballo di gala al Circolo, corteggiata e illusa, sbeffeggiata e umiliata, denudata e stuprata collettivamente, sino all’omicidio. Ecco: «lo scolorimento della carne ingiallita e grinzosa rivelava il disfacimento dell’età». E ancora, nei modi d’un dileggio che arriva al linciaggio: «La trascinarono daccapo alla tavola, quella resistenza li aveva imbestialiti, provavano un desiderio crudele di batterla, di punzecchiarla, di tormentarla». Si tratta di una modalità di rappresentazione che resisterà negli anni: ed I racconti ne danno continua e prolungata testimonianza.

Prendete L’imbroglio (1937), là dove compare in scena Santina, la fanciulla tutt’altro che sprovveduta da cui il protagonista maschile sarà prima irretito e poi ingannato: «Attonito e tuttavia incuriosito, Gianmaria notò soprattutto il singolare contrasto tra la gracilità infantile di questo corpo e le due macchie rotonde dei capezzoli che trasparivano sotto il velo verdognolo della sottoveste, anormalmente larghe, quasi mostruose, grandi e scure come due soldoni; e i peli lunghi, folti e molli che nereggiavano sotto le ascelle di quelle magre braccia alzate».

All’avvenente Gemma della Provinciale (1937) non tocca migliore destino: «Aveva il naso aquilino, la bocca grande e sdegnosa e, sotto capelli crespi, la carnagione delicata e malsana, ora diafana ora chiazzata di macchie di rossore. Certa peluria, che le adombravale braccia e la nuca, faceva pensare ad un corpo villoso ed infuocato pur nella sua sgraziata magrezza». Ma anche in Luna di miele, sole di fiele (che chiude la raccolta del 1952), il protagonista in questi termini s’esprime sulla moglie, all’indomani delle nozze: «Ella non era alta, ma aveva le gambe lunghe, di fanciulla, e magre, soprattutto nelle cosce che, nei calzoncini corti, mostravano sotto l’inguine quasi una fessura. Erano bianche, queste gambe, di una bianchezza fredda, casta, lucida. Ella aveva i fianchi stretti, la vita snella e poi, solo tratto muliebre, se si girava a parlargli, si profilava sotto la maglia il petto gonfio e basso, simile, sul busto esile, ad un peso aggiunto ed estraneo, penoso a portarsi».

Penoso a portarsi quel seno gonfio e basso: come sempre, in questi racconti, penoso è fare all’amore. Già, fare all’amore: tutto ciò che abbiamo per incontrarci e conoscerci in quanto essere umani, ma anche tutto quello che dobbiamo sopportare e soffrire.Aveva ragione Enzo Siciliano nel 1998: «In Moravia la sessualità diventa il segno tangibile della crisi del personaggio uomo – e lo stile, il lessico lo documentano». E ancora: «C’è in Moravia il torbido languore che segue al coito, una felicità offuscata da un rimorso senza nome, o la consapevolezza che si è vittime di noi stessi – la nostra persona è soltanto il risultato di un conflitto mal domato». Parlando di Agostino (1944), Umberto Saba disse che Moravia «sporcava l’amore». E Siciliano, molto giustamente commentò: «Voleva dire che Moravia piegava il sesso sul versante della tenebra piuttosto che su quello della luce». Il sesso e la sua natura di tenebra: parrebbe, il fare all’amore, l’unica declinazione dell’esistenza che abbia a che fare con una qualche idea di felicità, mentre invece si nutre, «oltre che di torbidi desideri, di sentimenti così poco amorosi come il disgusto, la crudeltà e il disprezzo», per usare le parole con cui Paolo, nella Provinciale, giustifica la sua «passione grossa e furtiva» per Gemma. Il giovane Moravia ha già capito tutto quello che c’era da capire, e continuerà a ribadirlo per tutta la sua vita di scrittore: la natura dell’uomoè ignota a se stessa, nonostante tutta la scienza che su tale natura è stata costruita, psicanalisi compresa. Il sesso è esattamente la dimensione in cui l’inconoscibilità della nostra natura arriva a palesarsi fulmineamente in quanto tale: disperatamente inattingibile.

Quale atto sostanzialmente aggressivo, il sesso è, così, anche un’aggressione alla stessa verità: per come ci appare, identica a se stessa, integra eppure incomprensibile. Fateci caso: che cosa rimane, a tutti i personaggi maschili, al termine dell’inappagata espugnazione che finisce per essere, ogni volta, il rapporto sessuale con una donna? Nient’altro che la proclamazione spazientita e insoddisfatta d’un mistero. Prendete Cortigiana stanca. Dopo l’amore, appena il suo amante s’è liberato dal viluppo delle coperte per andarsene via, Maria Teresa comincia a piangere «senza rumore, senza scosse, silenziosamente, come scorre il sangue da un corpo ferito a morte». L’amante ne ascolta le disperate parole – «è duro essere costretti per la prima volta a mendicare la vita» – quindi assiste a quella sorta di riflusso per cui Maria Teresa si richiude nell’impenetrabilità del sonno: «Gli pareva, di fronte a questa immobilità, che ella non avesse mai parlato; dubitava dei suoi occhi e delle sue orecchie; avrebbe voluto rivedere la smorfia lacrimosa, riudire la voce piangevole. La guardava e gli pareva di vedere la faccia stessa dell’esistenza, un momento rivelata e parlante, ora di nuovo muta e immobile». Già, la faccia stessa dell’esistenza che si rivela alla luce, per ritornare nella tenebra muta della sua immobilità. Siamo agli esordi: ma questa epifania del mistero della vita attraverso la donna è già un patrimonio morale ed esistenziale conquistato dal giovane scrittore. Inesorabile il suo giuoco di diastole e sistole, nella sua intera opera, attraverso personaggi femminili sempre più enigmatici: da Cortigiana stanca, appunto, a L’amore coniugale (1949), al postumo La donna leopardo (1991), per attenerci a tre diverse altezze cronologiche, per sottolinearne la prodigiosa continuità, anche di tenuta letteraria. Epifania del mistero della vita attraverso la donna che, guarda il caso, si realizzaanche nelle ultime righe dell’ultimo racconto della raccolta, così come Moravia ha perentoriamente voluto a partire dall’edizione del 1953, Luna di miele, sole di fiele: «Giacomo la strinse a sé e quasi subito, mentre lei cercava, sempre piangendo, il suo abbraccio, penetrò dentro di lei, facilmente e agevolmente. Ebbe la sensazione come di un fiore segreto, formato di due soli petali, che si schiudesse, pur rimanendo sepolto e invisibile, a qualche cosa che era il sole per la buia notte carnale. Nulla era risolto, pensò più tardi, ma per ora, gli bastava sapere che ella si sarebbe uccisa per lui».

Massimo Onofri

(Copyright Alberto Gaffi Editore)

TRE SCRITTORI BORGHESI di Massimo Onofri

Alberto Gaffi Editore in Roma, 2007

pagg. 112, euro 10

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OMAGGIO A ITALO CALVINO (a trent’anni dalla sua morte) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/18/omaggio-a-italo-calvino/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/18/omaggio-a-italo-calvino/#comments Fri, 18 Sep 2015 15:20:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2441 Italo CalvinoCinque anni fa, nel settembre 2010, proposi un post in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Italo Calvino.

A distanza di cinque anni, in occasione del trentesimo (che ricorrerà domani 19 settembre 2015), vorrei riproporvi lo stesso post di allora, con le stesse domande, gli stessi spunti, gli stessi contributi, chiedendovi di contribuire a (r)innovarlo e a integrarlo, in omaggio a questo grandissimo scrittore del Novecento letterario (non solo italiano) che è stato Calvino.

Dedico, dunque, questo “spazio” alla memoria di Italo Calvino con l’intento di celebrarlo, ma anche con l’obiettivo (e la speranza) di contribuire a far conoscere questo nostro grande  scrittore a chi non ha ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere.

Di seguito, il post pubblicato nel settembre del 2010.

Massimo Maugeri

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VENTICINQUE ANNI DALLA MORTE DI CALVINO
(settembre 2010)

Il 19 settembre 1985 Italo Calvino moriva all’ospedale di Siena, a causa di un ictus che lo aveva colpito qualche giorno prima nella sua villa di Roccamare.

Non sembra passato molto tempo, ma sono già trascorsi venticinque anni. Un quarto di secolo ad alta velocità, però; a cavallo tra due millenni. Un quarto di secolo che, forse, in termini di intensità e di velocità di cambiamento, non ha eguali rispetto al passato.

Su La Stampa del 12 settembre Marco Belpoliti scrive che “all’inizio degli anni Ottanta Calvino era un intellettuale-scrittore in panne, il cui motore, perfetto e oliato, girava a vuoto. Era sospeso nel vuoto della fine del XX secolo. (…) La solitudine è l’esperienza fondamentale della contemporaneità su cui s’innestano, pur nella loro diversità, sia il fascismo novecentesco sia il Grande Fratello. Calvino sta al di qua di questa soglia, indica il problema, ma non fornisce soluzioni. Un grande scrittore, senza dubbio, un grande moralista, e insieme un agilissimo saggista. Ma per andare avanti non basta più, bisogna cercare altrove. Dopo Calvino”.
Sempre sulle pagine de La Stampa, nell’inserto Tuttolibri di sabato 18 settembre, Ernesto Ferrero scrive: “L’enfasi celebrativa con cui di solito ci occupiamo di ricorrenze e anniversari sta a significare il suo contrario: celebriamo rumorosamente i grandi scomparsi per meglio auto-esentarci dal dovere di rileggerli. Con Italo Calvino questi rischi non si corrono. I venticinque anni che sono passati dalla sua prematura scomparsa (aveva da poco passato i sessanta) servono a capire ancor meglio quanto ci sia (sempre più) necessario, addirittura indispensabile. (…) Perfettamente consapevole dell’inevitabile scacco finale, ha continuato a disegnare mappe sempre più esatte del labirinto che ci tiene prigionieri. Per questo continueremo ad avere bisogno di lui. Per questo continuano a leggerlo in tutto il mondo”.

Vi propongo di ricordare Italo Calvino partendo dalle sue opere. Credo che (come abbiamo fatto in altre circostanze) sia un buon modo per “tributare” un grande autore scomparso. Seguono alcune domande volte a favorire la discussione.

1. Che rapporti avete con le opere di Calvino?

2. Qual è quella che avete amato di più?

3. E l’opera di Calvino che ritenete più rappresentativa (a prescindere dalle vostre preferenze)?

4. Tra le varie “citazione” di Calvino di cui avete memoria… qual è quella con cui vi sentite più in sintonia?

5. A venticinque anni dalla morte, qual è l’eredità che Calvino ha lasciato nella letteratura italiana?

Di seguito, l’intero articolo di Ernesto Ferrero citato prima.

Massimo Maugeri

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da LA STAMPATuttolibri del 18.9.2010

Nel labirinto ci serve ancora la sua bussola

di Ernesto Ferrero

L’enfasi celebrativa con cui di solito ci occupiamo di ricorrenze e anniversari sta a significare il suo contrario: celebriamo rumorosamente i grandi scomparsi per meglio auto-esentarci dal dovere di rileggerli. Con Italo Calvino questi rischi non si corrono. I venticinque anni che sono passati dalla sua prematura scomparsa (aveva da poco passato i sessanta) servono a capire ancor meglio quanto ci sia (sempre più) necessario, addirittura indispensabile.
E cade opportuna la dedica di «Portici di Carta» anche perché il sardo-ligure Calvino qui aveva trovato il suo habitat naturale. Di Torino, scrisse, gli piaceva «l’assenza di schiume romantiche, il far affidamento soprattutto sul proprio lavoro, una schiva diffidenza nativa, e in più il senso sicuro di partecipare al vasto mondo che si muove e non alla chiusa provincia, il piacere di vivere temperato di ironia, l’intelligenza chiarificatrice e razionale». Lo aveva attratto «un’immagine sociale e civile» più che «letteraria».
Qui ha messo a punto la sua strategia cognitiva. Figlio di scienziati, e scienziato per abito mentale egli stesso, Calvino elabora nientemeno che un nuovo modo di vedere il mondo al di là delle vecchie convenzioni neo-impressioniste o neoespressioniste.
Gli interessa definire le complicate reti di relazioni che si danno tra le persone, le cose, gli eventi: simile in questo a Gadda, ma con tutt’altri registri di scrittura. È un cartografo, un costruttore di sestanti e astrolabi, un maestro del calcolo combinatorio, un architetto-urbanista di palazzi e città letterarie, un inventore di apparecchi radiografici e tomografie assiali computerizzate.
Nulla lo appassiona quanto fare continuamente il punto, fissare la posizione propria e degli altri, cercare nessi, indagare il rovescio, la trama segreta di quell’arazzo di inganni e di apparenze che è la vita.
Tutto questo, si badi, partendo più o meno dall’Ariosto, cioè da un’apparenza di leggerezza fantastica, quasi d’evasione fiabesca. Che invece è un modo di giocare di sponda, di sottrarsi alle servitù della cronaca e del realismo, ai gonfiori e alle complicazioni dell’Io e dello psicologismo, alle pretese dello storicismo, ai lenocini dell’intrattenimento.
Scegliendo la posizione defilata e lievemente rialzata del “Barone Rampante”, Calvino è quello che ha visto meglio di tutti. Ci voleva una grande intelligenza e un grande coraggio per esordire raccontando la guerra partigiana nei modi del “Sentiero dei nidi di ragno” e proseguire in piena età
dell’impegno con la trilogia degli antenati (ma già i raccontini giovanili hanno un’impronta di apologo filosofico incredibile per quei tempi). E poi andare avanti a sperimentare, senza mai ripetersi, senza mai campare di rendita, fino alla fine, sempre contando su una qualità di scrittura che rende ogni pagina, anche la più estemporanea, semplicemente perfetta.
Per via della stessa lucidità del suo talento d’indagatore, Calvino ha conosciuto il disincanto sin dalla metà degli Anni 50, ma non si è lasciato travolgere dallo sgomento e dall’angoscia, non ha alterato la sua fisionomia illuministica con sogghigni nichilisti alla Cioran o voluttà apocalittiche.
Fedele al diritto-dovere della laconicità, ha tenuto la postazione senza arretrare, ha continuato a esercitare il pragmatismo stoico definito in una celebre pagina delle “Città invisibili”: l’inferno esiste, è il qui e ora che abbiamo costruito insieme, ma se non vogliamo lasciarcene inghiottire o diventare parte integrante di esso, dobbiamo «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
In questi anni di basso impero è un invito che costituisce una bussola sicura. Leggendo alla radio il poema ariostesco, Calvino aveva osservato a proposito del destino già scritto a cui Ruggiero è condannato: «Tra il punto in cui egli si trova ora e l’adempiersi del destino possono succedere tante mai vicende, tanti ostacoli frapporsi, tante volontà entrare in campo a contrastare il volere degli astri: la strada che il predestinato deve percorrere può essere non una linea retta ma un interminabile labirinto. Sappiamo bene che tutti gli ostacoli saranno vani, che tutte le volontà estranee saranno sconfitte, ma ci resta il dubbio se ciò che veramente conta sia il lontano punto d’arrivo, il traguardo finale fissato dalle stelle, oppure siano il labirinto interminabile, gli ostacoli, gli errori, le peripezie che dànno forma all’esistenza».
Antieroe della «perplessità sistematica», anti-presenzialista che cercava di far perdere le proprie tracce tra le moltitudini delle metropoli, Calvino non si è mai sottratto alla sfida, fino a schiattare letteralmente di fatica, come un contadino dei poderi paterni, durante la stesura delle “Lezioni americane”, un libro che da solo può dare la misura di una civiltà letteraria. Perfettamente consapevole dell’inevitabile scacco finale, ha continuato a disegnare mappe sempre più esatte del labirinto che ci tiene prigionieri.
Per questo continueremo ad avere bisogno di lui. Per questo continuano a leggerlo in tutto il mondo.

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AGGIORNAMENTO DEL 22 settembre 2010

L’uomo grasso che è in me
(Intervista a Italo Calvino – del 1985 – di Sandra Petrignani uscita sul Messaggero, poi in volume)

Italo Calvino ricorda un verso bellissimo del Purgatorio: «Poi piovve dentro a l’alta fantasia… » La fantasia, dunque, è un posto in cui piove dentro, piovono immagini dal cielo. Per Dante l’ispirazione artistica viene da Dio come nella concezione classica veniva dalle Muse.
«Le Muse come custodi della memoria, figlie della Memoria, la memoria collettiva» dice Calvino. «Le Muse rappresentano il deposito di tutto il raccontabile, di tutto il dicibile. Saper attingere a questo repertorio potenziale è la dote del poeta».
« E nella sua fantasia come piove, quanto, cosa?»
«Piovono immagini e parole insieme. Mi baso su un processo misto. Spesso è un’immagine visiva prima che verbale a venirmi in mente. Però il momento decisivo è quello in cui mi metto a scrivere. Allora l’intenzione originale cambia, può anche trasformarsi del tutto, venire completamente dimenticata. Altre volte resiste. Per esempio: l’immagine iniziale era un uomo tagliato in due? Era un ragazzo che si arrampica su un albero e non scende più? Era un’armatura vuota capace di muoversi per la forza di volontà, sorretta da nessun corpo? Su queste immagini figurali lavoro. Faccio tutti i casi possibili, mi chiedo cosa succederà…»
Ora l’uomo tagliato in due, il ragazzo scontroso che va a vivere sugli alberi, l’armatura senza corpo se ne stanno guardinghi sul divano. Parlare con Calvino è sempre un avvenimento, è stato detto. Infatti lo è, non tanto per le snervanti resistenze dello scrittore a farsi intervistare, quanto per la sua prerogativa, davvero unica, di circondarsi di un’invisibile eppure tangibile barriera. Come intorno a un’inespugnabile fortezza, corre intorno a Calvino un minaccioso fossato. Forse dentro ci sono coccodrilli, o forse soltanto pesci rossi, chissà. Intimiditi, si resta dall’altra parte a guardare. Calvino si offre di profilo. Fissa un punto indefinito di fronte a sé; le dita sono intrecciate sul petto, le gambe tese in avanti e incrociate. Di tanto in tanto si volta fugacemente, lancia uno sguardo marrone e curioso. Qualche volta, in mezzo a un’immensa serietà, ride. Brevemente, ma ride.
«In un’intervista di qualche anno fa ha dichiarato: “Credo all’esistenza del mondo”. Dunque lei non mette in dubbio ciò che si definisce “realtà”. La fantasia fa parte della realtà o vi si contrappone?»
«Non ricordo mai quello che ho detto in precedenti interviste e di solito sono tentato di affermare il contrario; se una cosa era vera nel momento in cui l’ho detta, probabilmente non è più vera in un altro momento. Penso però che quella dichiarazione fosse in polemica con chi sostiene che esiste solo il linguaggio o, comunque, che soltanto il linguaggio possiamo conoscere. Mentre io credo che esista anche il non linguistico, il non dicibile, il non scrivibile e che lo scrivere sia appunto un rincorrere sempre questo mondo non scritto e forse non scrivibile. In tal senso il mondo è fatto anche di immagini, di pensieri: è il mondo moltiplicato le proprie immagini, le proprie trasfigurazioni. Quindi sul mondo aleggia sempre una specie di nuvola, una fantasfera, che è un’atmosfera creata dalle nostre immagini del mondo. Di queste immagini abbiamo bisogno per agire, per crescere, per operare, per giudicare. Ecco, in questo senso credo alla realtà e alla fantasia insieme, se la fantasia è l’insieme delle immagini».
«La saggezza cos’è?»
«Non vale. Lei prima mi dice che mi vuole intervistare sulla fantasia e poi mi chiede della saggezza… Mi prende in contropiede… Vediamo,.. La saggezza è una capacità di decidere, di giudicare nelle cose della vita sulla base di ciò che si è acquisito nell’esperienza. È la capacità di applicare in casi singoli quello che si è imparato in altri casi singoli completamente diversi. È qualcosa di quasi impossibile o richiede una particolare dote di astrazione e di adesione al particolare contemporaneamente ».
«La fantasia non ha niente a che vedere con la saggezza?»
«Sì, è vero, la fantasia c’entra qualcosa. Perché la fantasia è velocità nell’immaginare il possibile o l’impossibile. E’ avere in testa una specie di macchina elettronica che fa tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che rispondono a un fine o che, semplicemente, sono le più interessanti, piacevoli, divertenti. È dunque anch’essa basata su astrazione e adesione ai particolari allo stesso tempo».
«Fra fantasia e ragione vede contrapposizione?»
«No. La fantasia salta dei passaggi. La ragione senza fantasia comporta una grande perdita di tempo. Perché bisogna percorrere tutti i passaggi e anche tutti i casi che poi vanno scartati».
«Quando ha scritto la prima fiaba?»
«Da bambino leggevo molto il “Corriere dei Piccoli” e prima ancora di leggere lo sfogliavo e attraverso le figure mi raccontavo da me stesso delle storie. Facevo variazioni di storie possibili. Credo che quella sia stata una scuola di immaginazione e di logica delle immagini. Perché pur sempre di logica si tratta, soprattutto nella fiaba, che è un tipo di narrazione molto semplice e in cui tutto ha una funzione».
«Com’era il bambino Italo?»
«Non troppo sveglio, non molto precoce, non molto dotato, non molto agile».
«La fantasia la portava all’isolamento o alla comunicazione?»
«Ah, all’isolamento totale, sì. Sì. Un isolamento che è durato fino a questo momento. Tanto è vero che è forse la prima volta che ne parlo a qualcuno».
«Allora una spiccata fantasia rende più soli i bambini? »
«Naturalmente i bambini non vogliono essere diversi dagli altri. Se ero diverso, rifiutavo di ammetterlo e in fondo tutti i bambini sono fantasiosi e quindi una maggior fantasia avrebbe dovuto accomunarmi agli altri… Ma è difficile parlare della propria infanzia da adulti, soprattutto passati i sessant’anni. Penso che non si possano che raccontare fantasie sulla propria infanzia. No, credo che la mia memoria non sia affidabile…»
«Sua madre com’era?»
«Era una donna molto severa. Era anche dolce. Ma era una donna molto severa… Cosa c’entra?»
E’ qui che Calvino lancia una delle sue rare occhiate frontali. Un’altra arriva quando chiedo quale dei tre tavoli disposti in fondo alla sala sia il suo.
«Tutti e tre. Lavoro un po’ qua, un po’ là».
Il colore prevalente della casa, arredata in stile moderno, è il bianco. Vi spiccano piante verdi. Siccome il salotto, oltre che studio, è anche ingresso, la moglie dello scrittore e la figlia, una ragazza sui vent’anni, vanno avanti e indietro, rispondono al telefono, aprono la porta. Ma lui non fa caso a loro, loro non fanno caso a lui. Intorno alla fortezza il borgo è agitato e vivace, rumoroso e vitale.
«Crede in fate, streghe, elfi, gnomi?»
«Oh, che bella domanda! Fate, elfi, gnomi sono quelli che nella fisica rinascimentale si chiamavano “spiriti elementali”, proprio così, con la elle. Credo in una società di tutti gli esseri viventi, e delle piante, e degli oggetti, e delle pietre. Penso che se ho un’anima io, ce l’hanno anche i cosiddetti oggetti inanimati ».
«Lei ama giocare?»
«No, non gioco a niente».
«Vuol farlo adesso?»
«Giocare adesso? A cosa?»
«Le suggerisco delle immagini che, a giudicare dai suoi scritti, dovrebbero esserle care. Lei mi dice che fantasie le fanno venire in mente. Cominciamo con lo scheletro ».
«Lo scheletro mi pare assolutamente essenziale. È qualcosa che portiamo in noi ed è un simbolo universale. Soprattutto è dotato di una sua allegria. E di una sua funzionalità e pulizia. È un’immagine allegra. Ha uno stile, ha sempre un grande stile».
«Preferisce i magri ai grassi?»
«Ah! Alle volte penso che io interiormente sono un uomo grasso. I grassi non esistono quasi più, nel senso che non si vedono quasi più. Ma certamente ci sono ancora. Ci sono dei grassi nascosti nei magri. Amo molto la snellezza come agilità. Io sono magro, ma non sono agile. Quindi tanto varrebbe che fossi grasso».
«Torniamo al nostro gioco. Ora tocca al labirinto ».
«È un altro simbolo universale. In qualsiasi spazio possiamo trovare un labirinto. Non dimentichiamo che il labirinto è una macchina per uscire, diciamo che è una porta un po’ più complicata, è qualcosa che bisogna attraversare».
«Ma è una porta verso cosa?»
«Una porta è sempre verso il dentro e verso il fuori. I veri labirinti ci mettono nella condizione di scegliere che cosa è il dentro e che cosa è il fuori. Ogni fuori può essere trasformato in un dentro, così come possiamo considerare fuori ogni dentro e decidere che la nostra cella è l’unica libertà possibile».
«Adesso c’è l’uovo».
«Uovo. È una grande riuscita di design, è il container universale, è qualcosa che dovrebbe essere librata nello spazio, perché non può stare in piedi. Ed è, a differenza del labirinto e della porta, qualcosa per cui il dentro e il fuori sono decisamente opposti e non può esserci alcuno scambio possibile. Quello che è dentro è dentro e quello che è fuori è fuori. Quindi si pone sempre il problema del fuori. Se l’Universo è un uovo, è circondato da un non-universo. E si pone il problema di quale sia l’alto e quale il basso. A meno che non ci sia un portauovo o portauniverso ».
«E la gallina non ha alcun merito?»
«Ecco, ho detto design e lei ha subito pensato a un architetto milanese. Invece io pensavo anche alla gallina e a tutte le specie ovipare, ivi compresa la coppia uomo-donna. Perché anche l’uomo nel far diventare l’uovo un uovo ha una sua parte».
«Se una zingara le indovina passato e futuro resta incredulo o si affida alla profezia?»
«No, non rimango incredulo. Penso sia un caso di velocità mentale: il potersi rappresentare nello stesso tempo tutto il possibile ed escludere via via tutto l’improbabile. Però è solo in questa velocità che simili fatti possono avere a che fare con la fantasia. In genere gli esempi del cosiddetto paranormale appartengono a un repertorio molto noto e prevedibile e che non trovo più stimolante di tanti aspetti dell’infinità del possibile che ci si presentano anche nelle esperienze cosiddette normali».
«Pensa che l’esperienza dello scrittore sia in qualche modo medianica?»
«No, non credo, non so. Sì, è un’esperienza che ha pur sempre a che fare con la molteplicità. Cercare l’espressione adatta ogni volta è cimentarsi con un vocabolario immenso, con un repertorio di usi. Ma come sempre si tratta di circoscrivere le proprie scelte. In questo senso io non sono molto medianico, perché scrivo molto lentamente. Un tipo di ultrasensibilità dovrebbe portare a scrivere con il minor sforzo possibile. Io no, fatico come una bestia. È il caso di dire che mi guadagno il pane con il sudore della fronte».
«Si sente nei suoi romanzi e nei suoi scritti teorici una costante posizione di bilico fra fantasia e ragione, come se il tentativo di dare confini, di costringere nel cerchio della scrittura l’esistente fosse costantemente minacciato dallo sconfinamento fantastico. E così? »
«Sì, mi pare una bellissima metafora del lavoro dello scrittore. Mi ci riconosco anch’io. Lo stimolo a immaginare viene dalle restrizioni che ci si pone. Si stabiliscono le regole del gioco e in quelle si attua una quantità enorme di combinazioni, si realizza la propria libertà e si può a un certo punto anche rompere le regole. Ma se regola non c’è, non è possibile infrangerla. Le norme in letteratura sono sempre state un grande stimolo per l’immaginazione. La metrica in poesia è stimolo a costruire un verso. Nessuno può sostenere che la poesia sia diventata più immaginativa da quando è invalso l’uso del verso libero. E del resto anche il verso libero ha una metrica implicita, sottintesa».
«C’è una parte della vita che ha un legame privilegiato con la fantasia: l’amore… »
«In amore ha una parte enorme quello che gli psicoanalisti chiamano il fantasma: fra gli amanti si frappone sempre un’immagine o più immagini incorporee. Mi pare sia stato Freud a dire che ogni incontro amoroso è l’incontro fra almeno quattro persone: i due partner e i loro fantasmi. Questi fantasmi possono essere poco o tanto simili al vero; se sono totalmente separati dalla realtà non credo sia una buona cosa. Diciamo che l’incontro amoroso avviene nella realtà, accompagnato da centomila variazioni possibili nella fantasia».
«Ma gli amori sono sempre “difficili” come dice un suo titolo?»
«Bah! Tutto è difficile e molto è possibile. Ma guardi un po’ che razza di frase mi fa dire… »
Ora Calvino guarda l’orologio. È passata più di un’ora dall’inizio della conversazione.
«Avevamo detto un’ora al massimo» commenta. E la sua voce è diventata improvvisamente fredda e burocratica. Impenetrabile.

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AGGIORNAMENTO DEL 29 settembre 2010
Nella puntata di “Letteratitudine in Fm” del 24 settembre (trasmissione di radiofonica libri e letteratura che curo e conduco su Radio Hinterland) ho avuto come ospite “virtuale” Italo Calvino nell’ambito di una sorta di intervista radiofonica “impossibile”. L’intento è stato quello di omaggiare il grande scrittore facendo sentire la sua voce in radio in occasione del 25° anniversario dalla sua morte.
Potete ascoltare la registrazione di quella porzione di puntata cliccando qui

Dura poco più di dieci minuti.
Vi invito (se potete e se vi va) ad ascoltarla e a commentarla.

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© Letteratitudine

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