LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » SAGGISTICA LETTERARIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 AL DI QUA DEL FARO. CONSOLO, IL VIAGGIO, L’ODEPORICA di Dario Stazzone http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/12/01/al-di-qua-del-faro-consolo-il-viaggio-lodeporica-di-dario-stazzone/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/12/01/al-di-qua-del-faro-consolo-il-viaggio-lodeporica-di-dario-stazzone/#comments Wed, 01 Dec 2021 16:36:19 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8906 Al di qua del faro. Consolo, il viaggio, l'odeporica - Dario Stazzone - copertinaIl nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine Saggistica Letteraria” è dedicato al volume dell’italianista Dario Stazzone intitolato “Al di qua del faro. Consolo, il viaggio, l’odeporica” (Olschki).

Di seguito, la recensione del semiologo e critico letterario Salvo Sequenzia.

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PER UNA CARTOGRAFIA DELL’ABISSO

Il racconto-saggio di Dario Stazzone è un viaggio di colta scrittura intramato in quel meraviglioso e arduo viaggio senza ritorno che è l’opera di Vincenzo Consolo

di Salvo Sequenzia

«Lo spazio comincia così, soltanto con delle parole, dei segni tracciati sulla pagina bianca. Descrivere lo spazio: nominarlo, tracciarlo, come quei fabbricanti di libri di navigazione che riempivano tutte le coste con nomi di porti, nomi di capi, nomi di insenature, tanto che la terra finiva per essere separata dal mare soltanto per effetto di un nastro continuo di testo» (George Perec, 1974).
La geografia, si sa, è ancilla petulante della Storia.
È prevaricatrice, e pretenziosa. Nel continuum fluttuante dello spazio-tempo tira meridiani, traccia paralleli; scandisce fusi orari, segna confini. Insinua vanità e imposture, mentisce la realtà sfrangiando statuti di veridicità, arrangiando paradigmi iconici, inanellando metafore, allegorie cifrate, insidie topografiche.
Lo sapeva bene il padre gesuita Daniello Bartoli, quando, nel 1665, licenzia il trattato Della Geografia Trasportata al Morale, nel quale  – lui che non aveva intrapreso mai un viaggio vero – se ne concede uno immaginario, spiegando al Doge Alvise Contarini la natura di terre e di mondi lontani e vicini «trasportando» la sfera terracquea in forma di libro. Fu così che, stanziato a Torino, città dalla quale tentò, invano, il viaggio verso l’Oriente per attendere all’agognato martirio, il colto gesuita mise mano al pennino per seguitare quel viaggio che aveva iniziato Ludovico Ariosto: il quale, nella Satira III, composta nel 1518,  sostenne di voler conoscere «il resto de la terra…con Ptolomeo», ovvero su mappe e atlanti, e di percorrere «tutto il mar, senza far voti quando lampeggi il ciel, sicuro in su le carte». La geografia offre un sicuro riparo dagli incerti e altalenanti fati della Storia e seconda un  viaggio autre:  non quello reale, in nave, in lettiga o  in corriera, ma  quello speculativo, «con Ptolomeo».
Di viaggi speculativi racconta Al di qua del faro. Consolo, il viaggio, l’odeporica, il recente saggio, pubblicato per Olschki,  che l’italianista  Dario Stazzone ha dedicato al tema del viaggio e al motivo odeporico nell’opera di Vincenzo Consolo.
La «lingua phari» è lingua bifida. Nega e asserisce al tempo stesso. Balbetta, ammonisce, sentenzia. Impertinente, nella sua ieratica, luminosa arroganza. Rischiara e adombra; confonde,  come la Pizia. Sicché, accade che la locuzione «Di qua dal faro», posta un tempo su mappe ed atlanti, nel separare e dividere un «al di qua» da un «al di là», dava una indicazione ’opposta’, inconciliabile, contraddittoria, quasi a sancire la natura ‘separata’ e ancipite dell’isola, la sua geografia eccentrica, lunatica, sediziosa: un mondo, sprofondato nell’alterità del mito.
Il saggio di Stazzone aderisce con appassionata tensione ermeneutica e con  fine  intelligenza critica alla scrittura di Consolo, cogliendone la complessa, travagliata vicenda  testuale. Un viaggio nel viaggio, direi; o, meglio, una catabasi in una delle opere – tale è quella di Consolo – più alte, impervie e disarmanti della tarda modernità letteraria occidentale. Hic sunt Leones.
«I documenti del XVIII e XIX secolo, infatti, fanno riferimento ad un «di qua» e un «di là» dal faro che sorgeva nell’estrema propaggine settentrionale dell’isola. Evocando l’antico edificio e il toponimo Torre Faro, l’autore allude alla sua terra natale e, parimenti, a quanto in essa converge e da essa diverge». Così Stazzone nel testo introduttivo al suo saggio (In limine), nel quale, insieme all’intentio ermeneutica del suo lavoro, rende conto anche del titolo adoperato: «Il titolo scelto per questa monografia, Al di qua del faro, rievoca quello della raccolta di saggi di Consolo, con una voluta variazione: in luogo della relativa staticità della locuzione Di qua dal faro si è preferito l’uso del moto a luogo, per rendere l’idea del movimento dei viaggiatori impegnati nel Grand Tour d’Italie che si spingevano fino alle estreme propaggini meridionali d’Italia, fino alla Sicilia. Il sottotitolo fa riferimento al tema del viaggio ed alla fitta trama di citazioni della letteratura odeporica riscontrabili nell’opera consoliana».
Una scrittura documentatissima ed ecfrastica, «consapevole che l’esegesi critica può concorrere a decriptare significati che non sempre si esauriscono nell’intentio auctoris», scivola come un magma di densa pasta concettuale e argomentativa scandendo sei capitoli, sei stationes di un viaggio  circolare e allusivo nell’opera di Consolo, decifrando nebulose di senso, temi, motivi, immagini, citazioni, allegorie e metafore che s’addensano nei testi, rincorrendosi e specchiandosi, ora cifrandosi ora disvelandosi, tracciando un labirinto nel quale ogni testo si configura quale «palinsesto» inesauribile di altri testi. Di tutti i testi, secondo quel principio regolativo di testualizzazione polifonica dell’«opera aperta» teorizzato da Umberto Eco (1967) che scardina le fondamenta di un testo-monolite arrivando a erodere – e, talvolta, anche a dissolvere – il principio di consequenzialità/direzionalità temporale e, a questo strettamente connesso, il canone dell’impianto drammatico sviluppato intorno a un’idea centrale: altrimenti detto, quel principio dell’unità nella diversità interpretabile quale retaggio dell’estetica classica dell’organicismo.
Il tema del viaggio, declinato da Consolo in modo quasi ossessivo, ha a che fare con questa ‘perdita del centro’ che lo scrittore situa – autobiograficamente, letterariamente e  mitopoieticamente – nella sua isola, quella «…bella Trinacria, che caliga / tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo / che riceve da Euro maggior briga, / non per Tifeo ma per nascente solfo…» che egli più non riconosce nell’approdo feacico né nella sua Itaca e che s’affanna a cercare nei viaggi ‘esemplari’, ‘diversi’, di chi in Sicilia è approdato come nella terra in cui gli dei erano apparsi un’ultima volta agli uomini ma, che, invece, si palesa quale Troia devastata, infera città di Dite, luogo in cui l’«olivastro» della barbarie, della violenza e della bêtise ha soppiantato l’«olivo» della civilizzazione e della bellezza caro ad Atena.
Il de reditu di Consolo, osserva acutamente Stazzone, ha tono epico; un tono epico che si scioglie in l’elegos dolente e brivida le pagine de La ferita dell’aprile, de Il sorriso dell’ignoto marinaio, de Lo Spasimo di Palermo, de Le pietre di Pantalica, delle «sessioni» di Di qua dal faro. È il medesimo reditus del giovane ‘Ntoni, in un paese che non sente più come il suo e dal quale è respinto, infranto per sempre il vincolo sanctus che lega individuo e comunità al genius loci. Il viaggio si fa ricerca, peregrinatio, quête; la scrittura, mimeticamente, aderisce ai disiecta membra del reale, s’annoda a quella ‘spirale’  nel cui vortice si esplica, inesauribile,  il moto incessante di ogni ulisside, di ogni uomo che cerca. Il viaggio reale si sdoppia nell’incantagione del mito, nella fascinazione della parola, in quella «ebullizione di chimere» suscitata e nutrita dagli Scalognati de I giganti della montagna nel mito inconcluso, quello dell’arte, che Luigi Pirandello concepì alla fine del suo «involontario soggiorno sulla terra». Sulla linea di quell’«illuminismo negativo», che, passando da Verga e De Roberto, approda all’opera di Tomasi di Lampedusa, di Leonardo Sciascia, di Gesualdo Bufalino, di Stefano D’Arrigo, autori ‘ruminati’ da Consolo ne L’olivo e l’olivastro, si erge la Sicilia delle meraviglie e dei disastri, il «Giardino di Hamdis» scolpito nella pietra barocca degli scalpellini del Val di Nto dopo il «gran tremuoto» del 1693, e  che il barone mago Lucio Piccolo di Calanovella ha tessuto di magie e di sortilegi sprofondandolo nel «gioco a nascondere» inesplicabile dei suoi Canti barocchi. Una cartografia dell’abisso si spalanca agli occhi del viaggiatore Consolo nel suo attraversamento della «terra dove fioriscono i limoni»: «Kennst du das Land/, wo die Zitronen blühn,/Im dunkeln Laub die Gold Orangen glühn,/Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht,/Die Myrte still und hoch der Lorbeer steht?/Kennst du es wohl?/Dahin! Dahin». Goethe, che in Sicilia aveva compiuto un viaggio rivelatore, nel Wilhelm Meister mette in bocca queste parole di nostalgia alla giovane danzatrice-girovaga Mignon. Goethe, deluso, durante il suo viaggio nell’isola, non troverà la Sicilia del mito, ma la terra della fame, della povertà, delle rovine. Eppure, il sogno della bellezza eterna e non lordata da violenza belluina   viene ‘salvato’, trasfigurato nella perfezione lontana e inattingibile dell’arte e della poesia. Così Consolo, che ‘salva’ la bellezza della sua terra dilaniata dalla violenza turpe della mafia, dall’insolenza e dagli interessi di una classe politica di inetti nel ‘ritiro’ eletto di Scicli, dove si raccoglie una comunità di artisti sodali di Piero Guccione. Costoro, come gli Scalognati scampati alla violenza dei Giganti nel ‘mito’ pirandelliano, ‘salvano’ il messaggio di bellezza e di fragilità dell’arte e della poesia in un «mondo offeso».
L’indagine critica di Dario Stazzone, raccontando una storia di sconfitte e di  nuove agnizioni,  muove dall’assunto fondamentale della «conoscenza come molteplicità» (J. Deleuze e F. Guattari, 2002), assunto che l’opera di Consolo riverbera nelle sue strategie combinatorie ed accumulative e nelle strutture relazionali che la trasformano in ‘testo-rizoma’: mondo narrativo flessibile che percorre e traccia una ‘rete gnoseologica’ rinunciando a qualsiasi principio di determinazione e a qualsiasi concetto univoco e finito di verità.
Stazzone individua il carattere strutturalmente costitutivo,  metatestuale ed ‘agente’ del tema del viaggio all’interno dell’opera di Consolo, situandolo (anche se non in modo esplicito) nell’ambito degli esperimenti condotti sulle ‘forme del narrare’ di alcuni referti di scritture letterarie novecentesche italiane, da Gadda a D’Arrigo.
Ma la scrittura di Consolo va oltre. Creando uno stile espressivo – o, meglio, mimetico-espressivo – essa rivendica un fine etico, dando adito a una ‘forma mondo’ che porta a compimento la dissoluzione formale che ha trasformato il romanzo italiano naturalista in un campo di possibilità -  in una «opera aperta», appunto – e tenta quella «sfida al labirinto» (Italo Calvino, 1957) che invoca un’etica della scrittura come possibilità leibniziana di rispondere all’interrogazione di senso dell’uomo. Con queste luminose, vibranti parole  conclude Stazzone il suo saggio: «Il viaggio della scrittura, dunque, sempre più difficile ed avventuroso, deve cercare continuamente nuove formule e nuove alchimie, incerto tra la parola e il silenzio, tra le forme letterarie statutarie e il loro scardinamento, tra la retta e la spirale, perché, per l’autore, il rischio intollerabile eppure cogente è quello di una tragedia individuale e collettiva priva di rappresentazione, di un viaggio che non incontri realmente l’Altro, di un dolore che non conosca catarsi».

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La scheda del libro: “Al di qua del faro. Consolo, il viaggio, l’odeporica” di Dario Stazzone (Olschki)

Il viaggio è tema che ispira la scrittura di Consolo. Viaggio reale e metaforico, attraversamento della Sicilia e della sua storia, recupero della memoria dei viaggiatori del passato e delle loro opere, allusione al percorso esistenziale ed alle sue prove. Il viaggio come esperienza di vita, metafora stessa della vita, della scrittura e dell’attività artistica. A proposito di Goethe, significativamente, Consolo scriveva: «Ma non la conoscenza di un luogo ci trasmettono gli uomini come Goethe, i poeti, ma la conoscenza del Luogo, del sempre conosciuto, misterioso luogo, bellissimo e tremendo, che si chiama vita». La Sicilia come metafora e scrittura. ll desiderio di raccontare la realtà siciliana spinse Vincenzo Consolo a tornare in Sicilia dopo il servizio militare. Insegnò nelle scuole agrarie per cinque anni e raccontò la realtà siciliana ispirandosi a Sciascia e Piccolo. In questo libro, seguendo il filo rosso del tema ispiratore, si racconta il percorso della narrazione di uno degli autori più significativi del Novecento.

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Dario Stazzone è dottore di ricerca in Italianistica (Lessicografia e semantica del linguaggio letterario europeo) ed ha insegnato Retorica presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania. I suoi articoli e saggi, apparsi su «Belfagor», «Sinestesie», «Otto/Novecento», «Oblio», «Quaderns d’Italià», «Annali della Fondazione Verga», «Nuova Prosa», «Arabeschi» e «Diacritica» riguardano Pietro Bembo, Michelangelo poeta, il secentista Francesco Guglielmini, Verga, Capuana, De Roberto, Carlo Levi, Addamo, Pasolini, Luzi, Sciascia, Bufalino, Consolo ed Attanasio. Ha pubblicato due monografie su Levi, Geometrie della memoria nella poesia di Carlo Levi (2012) e Il romanzo unitario dell’infinita molteplicità. Carlo Levi e il ritratto (2012). A sua cura sono state ripubblicate le monografie artistiche di Federico De Roberto. È presidente del comitato catanese della Società Dante Alighieri.

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GIOVANNI VERGA e la “SCUOLA AMERICANA” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/09/17/giovanni-verga-e-la-scuola-americana/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/09/17/giovanni-verga-e-la-scuola-americana/#comments Fri, 17 Sep 2021 13:00:22 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8852 Portrait of Giovanni Verga.jpgIl nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine “Saggistica Letteraria” è dedicato alla figura di Giovanni Verga con questo contributo dell’omonimo giornalista bergamasco, pronipote del grande scrittore verista, che ci ragguaglia sugli studi statunitensi e, in particolare californiani, dedicati all’autore de “I Malavoglia”.

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GIOVANNI VERGA e la “SCUOLA AMERICANA”

di Giovanni Verga

Può sembrare strano che un autore così profondamente legato alla sua terra come Giovanni Verga possa avere avuto degli ammiratori e abbia suscitato interesse in un Paese e in una cultura lontani come l’America. Specificamente in California, dove lo scrittore verista è stato in tempi  passati al centro degli studi di un importante gruppo di studiosi, specificamente all’University of California Los Angeles (UCLA). Anche se non si può parlare di una vera e propria scuola, in quella università si formò un gruppo di lavoro negli anni Sessanta molto attivo nella traduzione e nella diffusione delle opere di Verga, come anche di altri classici della letteratura italiana, in particolare Leopardi e Dante.  Quella scuola evidentemente ora non esiste più, ma ha lasciato un segno ancora ben vivo tra gli studiosi. La conoscenza dei classici della letteratura italiana ha senz’altro una limitata diffusione in California e probabilmente in genere in America. E’ una materia di nicchia, ma viene  mantenuta viva probabilmente anche  per la presenza di una significativa comunità di origine italiana in quella terra. E’ indicativo che a Los Angeles ci sia  una prestigiosa Istituzione  locale di diffusione della cultura italiana, Italian American Museum of Los Angeles (IAMLA) che organizza mostre, convegni, omaggi e cura pubblicazioni con il consueto  rigore anglosassone. Soprattutto UCLA però è attiva,  con un dipartimento di letteratura italiana che ha un numeroso corpo docente e diversi corsi annuali. Sono gli eredi di quegli studiosi degli Anni Sessanta che diedero un forte impulso e soprattutto un’idea innovativa alla ricerca e alle traduzioni, riscoprendo tra i primi  Verga e il suo mondo.  Un lavoro che vale la pena togliere dall’oblìo anche per capire le ragioni dello scarso seguito di Verga all’estero e, secondariamente, quale sia la percezione della sua opera fuori dai nostri confini. Il risultato più importante è stata la prima traduzione integrale e soprattutto fedele, de I Malavoglia. grazie alla volontà e alla determinazione di uno specialista che aveva vissuto in Italia appassionandosi alla sua letteratura e a Verga in particolare,  Raymond  Rosenthal.  Esistevano già almeno due traduzioni in lingua inglese de I Malavoglia, ma erano ormai molto datate e soprattutto lacunose e che in molte parti travisavano fortemente l’ispirazione e la lingua del romanzo. Il suo The house by the medlar tree, (La casa del nespolo), lo stesso titolo delle precedenti traduzioni, è ormai assolutamente fuori commercio e irreperibile. Ne esiste però una diversa e successiva edizione che non ha la sua originale introduzione, ma solo una sua nota sulla traduzione. Nella quale si mette subito in evidenza l’aspetto più importante per Rosenthal, cioè il fatto che la prima traduzione in inglese de I Malavoglia, dell’inglese Mary A. Craig, pubblicata in America nel lontanissimo 1890 (con un’introduzione di William Dean Howells), conteneva tagli molto estesi, che ammontavano a più di cinquanta pagine, e che sembravano essere dettati “da pruderie vittoriana e molte cautele. Tutti gli evidenti o anche celati riferimenti alla sensualità, tutti i toni particolarmente selvaggi o ironici, per non parlare di tutte le espressioni che rivelano sentimenti anticlericali o antigovernativi, furono rigorosamente eliminati. Abbastanza stranamente, sostiene sempre Raymond Rosenthal,  la seconda traduzione molto più tarda di Eric Mosbacher negli anni Cinquanta usa la stessa edizione “mutilata” in italiano nelle edizioni scolastiche.

C’era probabilmente una qualche affinità o simpatia ideologica oltre che letteraria che spinse Rosenthal a cimentarsi nell’impresa. Lo spiega la figlia Margaret Rosenthal che vive a insegna a Los Angeles, alla University of Southern California, dove è preside del Dipartimento di letteratura francese e italiana. Ricorda l’ammirazione del padre per Verga. «Era affascinato dalla smisurata passione che aveva per la sua gente e dal suo progetto di dare voce e dignità letteraria alle classi più svantaggiate. Verga è una figura di grande complessità, che è molto difficile far comprendere all’estero, non solo per l’ambientazione regionale dei suoi romanzi, ma perché aveva adattato alla realtà italiana e siciliana del suo tempo teorie letterarie e di scrittura nate in un contesto diverso. Ha pagato il fatto che quelle teorie erano state elaborate in altre società più evolute come quella francese, e trasportate in una realtà molto più arretrata. Il realismo europeo era stato concepito per raccontare la condizione proletaria e urbana della nuova società industriale, invece la Sicilia di Verga era ancora contadina. Questo all’estero non era stato capito, ancor meno in America». Riguardo ai tagli delle traduzioni precedenti, mancava secondo Rosenthal metà dell’intero capitolo in cui, dopo il naufragio della Provvidenza, si focalizza l’attenzione sugli scandali, i pettegolezzi e gli intrighi del paese. E poi entra nel cuore del problema, la traduzione del linguaggio  popolare, dei proverbi, dei modi di dire, che il verista Verga tanto spesso usava per restare il più possibile fedele a quel mondo che per primo, dopotutto, ha  raccontato. Anche chi l’aveva preceduto nell’impresa di cimentarsi con lui, soprattutto il celeberrimo scrittore, critico e viaggiatore David H. Lawrence – che aveva fatto conoscere all’estero con la sua traduzione de il Mastro don Gesualdo e le Novelle rusticane -,  non se la sentì di prendere in mano I Malavoglia. Troppo lontani da lui probabilmente quei proverbi, quella lingua di pescatori semi analfabeti, quella religione della famiglia e quell’idea di fatalità così poco anglosassone che tutto pervade e guida e contro cui è invano opporsi. Secondo Rosenthal, la maggior parte dei proverbi sono locali o varianti personali di antichi detti e massime; quindi ritiene che sia meglio restare il più possibile fedele all’autore piuttosto che tentare di trasformarli in qualcosa di equivalente, per loro più familiare di certo, ma che rischierebbe di travisare il significato.

E nel fare un esempio, ritroviamo un elemento che ricorre spesso quando gli anglosassoni e i nordeuropei si accostano alla cultura italiana e in particolare siciliana. E’ la fascinazione per l’esotico., inteso in quel significato caro al Romanticismo nordico, di natura incontaminata e selvaggia. Parlando dei personaggi verghiani,  Lawrence dice che “sono oggettivi, senza rimorso e senza remissione, come tutti coloro che vivono nelle terre del sole. Al sole si è oggettivi, nella nebbia e sotto la neve si è soggettivi. Quando si va a Ceylon, ci si rende conto che per i bruni cingalesi anche il buddismo è una faccenda puramente oggettiva”. Ancora Rosenthal, citando uno di quei modi di dire travisati, riferisce quello pronunciato da don Silvestro  quando si vanta che obbligherà Barbara Zuppidda a “cadere ai suoi piedi come una pera matura” (una frase, aggiunge, che è stata presa da qualche romanzo sentimentale tardo romantico o da qualche libretto d’opera). “Questa immagine esotica è stata dapprima ripresa (da Verga, ndr) con precisione dagli abitanti di Trezza, ma poi improvvisamente è stata, per così dire, naturalizzata nell’assurda frase <cadere con i suoi piedi>, che trasforma l’iniziale, sottile e indiretto concetto di infatuazione per una persona in un rude atto fisico, come qualcuno a cui si sta facendo uno sgambetto”. Un non sense.

Ma fu Giovanni Cecchetti la vera anima organizzativa e il fondatore della “scuola verghiana” di Los Angeles. Italiano di origine a differenza di Rosenthal, era diventato in quegli anni direttore del dipartimento di Italiano a UCLA, dedicandosi alle sue passioni, Dante e il Verismo. Anche lui, proprio come  Lawrence, tradusse il Mastro don Gesualdo e le Novelle rusticane e fece pubblicare per la University of California Press la traduzione de I Malavoglia di Rosenthal, ma con una sua prefazione. Nella quale è subito evidente il suo forte interesse per Verga e in particolare per la sua innovativa tecnica narrativa che definisce “una delle prime e più spontanee forme narrative sviluppate dai maggiori scrittori europei ed americani del suo tempo”. Rispetto ai quali, tuttavia, non ne raggiunse la fama fuori dai confini. Si spinge a dire che tutto il romanzo è costruito con un supremo senso di equilbrio, che ogni capitolo è magnifico in se stesso, ma non può essere separato dal resto, come le cinque dita della mano di Padron ‘Ntoni. “L’interazione tra eventi raccontati e stile è prodigiosamente unita. Leggere è come seguire i movimenti della vita  stessa mentre questa raggiunge le più lontane ramificazioni. Tutto è ovvio, quel difficilissimo ovvio che solo i grandi artisti possono raggiungere. Con I Malavoglia Verga arriva quanto più si possa  concepire a creare il romanzo perfetto”.

Resta da capire perché proprio Verga. Il gruppo californiano poteva scegliere fra tanti per i suoi studi e invece puntò  su Verga, uno tra i meno conosciuti in America e tra i più lontani dalla loro cultura. Le ragioni possono essere diverse, ma di certo l’ispirazione veniva dal solco già aperto da Lawrence e forse anche da un’attrazione di tipo ideologico per quel mondo di diseredati che era stato elevato da Verga a dignità di protagonista della sua opera e, in fondo, della storia. Un tema quindi che andava ben oltre i limiti regionali e siciliani, come del resto già Lawrence aveva ben capito e chiarito. Cecchetti dice che a Verga interessava raccontare la lotta per la sopravvivenza, non certo delle classi superiori, e questa doveva essere esplorata dentro i confini della società che conosceva meglio, quella siciliana, una scelta inevitabile che lo confinerà però entro i limiti del suo Paese. E per farlo doveva inventare una lingua.  E quindi è sulle scelte linguistiche di Verga che si focalizza l’approccio innovativo del gruppo alla traduzione rispetto ai precedenti. Scrive Cecchetti che «Verga rifiutò di lasciare che i suoi braccianti e pescatori parlassero la stessa lingua della borghesia, ma doveva scrivere in italiano. Perciò ha creato un mezzo linguistico (“medium”, ndr) col quale quel popolo povero e analfabeta pulsava di vita con tutta la sua “freschezza” emotiva. Ha adottato molte espressioni locali e le ha trapiantate nel vecchio solco dell’italiano tradizionale. In realtà, pur usando un vocabolario piuttosto limitato, ogni parola suonava nuova e originale». Cecchetti prenderà posizione anche sulle stesse traduzione di Lawrence, in vari suoi studi, tra cui la raccolta di saggi Il Verga maggiore.  In sostanza, lo rimprovererebbe di avere tradotto troppo alla lettera o, peggio ancora, di avere spesso “stranierizzato” il suo inglese per avvicinarsi alle frasi idiomatiche originali, facendo quindi autoconcessioni che si possono spiegare col fatto che era uno scrittore creativo, ma finendo a spingersi troppo oltre. Un mix di scelte volute e no che avrebbero profondamento fatto confusione rispetto allo spirito delle opere di Verga. E’ vero che il dibattito è poi andato avanti tra gli esperti, che in alcuni casi hanno a loro volta censurato le critiche di Cecchetti, rivalutando la creatività delle traduzioni di Lawrence, fors’anche condizionati dalla statura e dal prestigio del suo nome nel mondo anglosassone.

Nonostante sia passato tanto tempo, resta molto vivo il ricordo del metodo della scuola californiana tra gli studiosi. Thomas Harrison, direttore del dipartimento di Italiano di UCLA e anch’egli traduttore, osserva che Cecchetti «ha lasciato una solida sapienza accademica e una capacità di organizzare nuovi programmi nello studio dell’italiano e di rivitalizzare quelli vecchi, che sono poi state portate avanti dai suoi allievi». Tra i suoi illustri predecessori alla guida del dipartimento di Italiano nella prestigiosa ed elegante Royce Hall, la sede in stile vittoriano a UCLA, c’è anche un altro studioso Charles Speroni, fondatore del dipartimento e del periodico trimestrale Carte Italiane (Italian Quaterly) e a cui è intitolata la biblioteca e il centro di ricerca. E tuttora esiste un premio accademico intitolato a Cecchetti (Giovanni Cecchetti Graduated Award), istituito da UCLA e presieduto da Harrison, per giovani laureati in letteratura italiana, utilizzato per finanziare ricerche sulla materia sia in America che all’estero. Un premio che “vuole ricordare il pioniere degli studi e delle traduzioni dei classici italiani in America, soprattutto i più difficili, come Leopardi e Verga – sottolinea Harrison- che sono conosciuti tra i cultori, ma ancora troppo poco dai lettori americani”.

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Giovanni Verga, dopo anni e anni passati come cronista in quotidiani locali, ha deciso di dedicarsi al reportage dall’estero, ovunque ci fossero storie meritevoli di essere raccontate. Quindi è stato in Israele e Palestina, Afghanistan, Siria, Caucaso ed Est Europa. Da queste esperienze sono nati anche due libri reportage. Ma nello stesso tempo ha continuato a coltivare l’altra passione, quella per la cultura, il teatro, il cinema e i viaggi. In sintesi, è giornalista professionista, amante della letteratura e  grato pronipote del grande verista.

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LUIGI PIRANDELLO, “DIMISSIONARIO” DALL’ESISTENZA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/05/luigi-pirandello-dimissionario-dallesistenza/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/05/luigi-pirandello-dimissionario-dallesistenza/#comments Mon, 05 Apr 2021 08:20:23 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8753 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine Saggistica Letteraria” è dedicato alla figura di Luigi Pirandello con questo contributo di Emma Di Rao

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Luigi Pirandello: dal suo involontario cadere sulla terra a dimissionario dall’esistenza

di Emma Di Rao

“Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli di un altipiano di argille azzurre sul mare africano”. Con un linguaggio che è stato privato della sua funzione logico-comunicativa e ricondotto ad espressioni quasi aurorali, Luigi Pirandello immerge la propria nascita, facente parte di un comune destino di sofferenza e casualità, in un’atmosfera irreale e sospesa. In tale evento, verificatosi il 28 giugno 1867, si cela un surplus di significato che può dedursi dalla stessa concezione dell’autore: esso rappresenta, infatti, solo uno degli innumerevoli eventi connessi con l’involontario cadere dell’uomo sulla terra, in seguito al quale, strappato al divenire cosmico e condannato a consistere in una forma limitante e limitata, egli è destinato ad una perenne lacerazione fra molteplici scelte esistenziali. Una di queste scelte, una delle possibilità di ‘Pirandello persona’ è, a nostro avviso, quella di ‘Pirandello scrittore’, che potrebbe configurarsi come una maschera capace di osservare e rappresentare la tragedia dell’esistere con il distacco di chi “ha capito il gioco”.
“Forestiere della vita”, al pari dei suoi personaggi, l’autore affida loro la propria prospettiva, una prospettiva dolente e critica, derivante dal “vedersi vivere” e dall’aver acquisito la consapevolezza che non sarà possibile ricomporre l’unità della coscienza, stratificata e sottoposta alle oscure pulsioni dell’inconscio. Ciò potrebbe trovare origine in un’esperienza personale, in una crisi di identità, come suggerisce una lettera del 7 gennaio 1894 alla futura moglie: “ In me son quasi due persone. Tu già ne conosci una; l’altra, neppur la conosco bene io stesso”. Ed è anche per questa ragione che in molti suoi testi la personalità appare soggetta a un processo di sdoppiamento dell’io che, come ha osservato Franco Zangrilli, diviene il referente delle inquietudini, delle instabilità interiori e delle schizofrenie dell’uomo contemporaneo.
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/2f/Luigi_Pirandello_1919.jpgSe si tiene presente che l’anima – da intendersi sul piano psichico, non spirituale-religioso – è percepita, nell’opera del Nostro, come un non luogo, come un campo di eventi in cui tutto è vero e tutto è falso a seconda delle circostanze, non ci sfuggiranno ulteriori implicazioni, come, ad esempio, il fatto che l’autore non è più autorevole garante di una vicenda coerente che rifletta l’organicità del reale.
Chi, infatti, si addentri nell’ universo della scrittura pirandelliana per rinvenirvi una verità o un ordine possibile può cogliere soltanto il non senso dell’esistenza e la tragica assurdità della condizione umana. Il lettore è inoltre destinato a imbattersi in una moltitudine di personaggi stravolti dalla sofferenza, attori di “quella molto triste buffoneria” che è la vita, la cui quotidiana rappresentazione costringe alla scelta di una maschera da indossare. Quest’ultima, deprivata di un qualsiasi principio ontologico che la giustifichi, viene a coincidere con una forma rigida e statica in cui l’uomo, separatosi dal flusso inconsapevole del divenire, rimane per sempre intrappolato.
Nell’ambito dell’interazione sociale, giudicata da Pirandello del tutto artificiosa, si assiste dunque ad “una vicendevole imposizione di parti prestabilite, che, d’altronde, permette di riconoscere un’identità istituzionalizzata”. Come più volte è stato osservato, l’uomo pirandelliano non può infatti prescindere dall’accettazione collettiva, ma, nel contempo, aspira a liberarsi dalle finzioni del vivere civile e da ogni costrizione morale e sociale. Lo si evince chiaramente da un passo dei Quaderni di Serafino Gubbio: “Inevitabilmente noi ci costruiamo, vivendo in società…già, la società per se stessa non è più il mondo naturale, è mondo costruito anche materialmente. Dentro queste nostre costruzioni restano ben nascosti i nostri pensieri più intimi, i nostri più segreti sentimenti. Ma ogni tanto, ecco, ci sentiamo soffocare; ci vince il bisogno di gridare fuori, in faccia a tutti, i nostri pensieri, i nostri sentimenti tenuti per tanto tempo nascosti e segreti”.
Risulta evidente che lo spazio entro cui ogni identità si colloca è sicuramente contraddittorio, definendosi, da una parte, come anelito ad una dimensione libera ed autentica e, dall’altra, come prigionia e inevitabile solitudine. Una solitudine che non deriva solo dall’essere rinchiusi in una forma, ma anche dalla sostanziale incomunicabilità cui sono condannati gli individui a causa dell’ingannevole maschera verbale. Il ricorso costante, da parte dei personaggi, al ragionamento al fine di far coincidere prospettive conflittuali è infatti votato all’insuccesso, anche se testimonia comunque l’importanza dell’alterità. Si potrebbe addirittura sostenere che lo sguardo altrui, necessario all’affermazione dell’identità, è l’elemento che contribuisce a disgregare quest’ultima. A ragione, il vivere sociale, nella poetica di Pirandello, è stato paragonato a un palcoscenico straniante, a una festa sinistra, priva di giocondità – come quella rappresentata nella novella C’è qualcuno che ride -, il cui senso è ignorato da tutti.
File:Luigi Pirandello 1932 (3).jpgLa dissociazione della coscienza, scaturita dal vedersi vivere “come davanti a tanti specchi quanti sono gli occhi degli altri”, si coniuga, nel personaggio pirandelliano, con l’angoscia derivante dalla scelta di una maschera che, nel teatro dell’esistenza, coincide con una costruzione del tutto innaturale e non definitiva: “Oggi siamo, domani no. Che faccia ci hanno dato per rappresentar la parte del vivo?…Maschere, maschere…Un soffio e passano per dar posto ad altre. Ciascuno si racconcia la maschera come può – la maschera esteriore. Perché dentro poi c’è l’altra, che spesso non s’accorda con quella di fuori.”.
Significativo, al riguardo, quanto osserva la studiosa Anna Frabetti, la quale intravede nel concetto di maschera un duplice livello di significazione, metaforico ed espressivo, nello stesso tempo. La maschera, che si concretizza nell’interpretazione di un ruolo, rinviene una sorta di correlativo espressivo nella propensione di Pirandello a connotare la figura umana per mezzo di un tratto distorto e iperbolico della fisionomia o per mezzo dell’alterazione delle proporzioni corporee. Lo scrittore agrigentino risulta così “grande visionario dell’anamorfosi, straordinario pittore della sconciatura e della disarmonia”. Indubbiamente, nel corpus delle Novelle per un anno, il cui carattere aperto e la cui frantumazione in autonome schegge narrative corrispondono alla parcellizzazione della vita stessa, si rileva che il venir meno di ogni tratto autentico della figura umana e il prevalere di particolari anomali concorrono a creare quei ritratti “sconciati” in cui la descrizione iperespressiva evidenzia elementi spesso sgradevoli o repellenti. Occorre però ricordare che tale rappresentazione di una natura umana dai tratti caricaturali e abnormi è anche la rappresentazione di una soggettività sempre negata e impossibilitata a realizzarsi. Insomma, come ha osservato Gesualdo Bufalino, è la frantumazione dell’identità a tradursi a livello espressivo in un “disturbo della visione”, ovvero in una deformazione delle maschere fisionomiche. Cristallizzazioni esemplari della disarmonia e dell’inautenticità, le maschere assurgono, come afferma Graziella Corsinovi, a “simboli emblematici, densi di continui rinvii psicologici ed esistenziali”.
Vale la pena ricordare che il prototipo di tutte le maschere pirandelliane, in virtù del suo valore paradigmatico, è quello delineato nel saggio sull’Umorismo, ovvero la “vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili”, che “pietosamente s’inganna” di conservare l’amore del giovane marito. In questo caso, il ricorrere al trucco non solo muta vistosamente i lineamenti, ma finisce per sovrapporre una seconda maschera a quella già indossata, come accade a molti altri personaggi “imbellettati”, fra cui Enrico IV, “nel quale l’evidenza sguaiata del trucco diviene espressione visiva dalla sua condizione di erma bifronte”.
Ed ancora, Anna Frabetti pone in relazione l’inautenticità artificiosa della maschera pirandelliana con la concezione della maschera, di radice heideggeriana, formulata da Ludwig Binswanger, con riferimento al Manierismo in ambito figurativo, culturale ed esistenziale. In Tre forme di esistenza mancata, lo psichiatra e filosofo svizzero sottolinea come l’elemento costitutivo del Manierismo sia l’angosciosa, disperata impossibilità di essere se stessi e, insieme, la ricerca di un appiglio in un modello attinto alla “pubblicità del Si”. Tale espressione, nel significato di “si ritiene”, “si dice”, indica, secondo Martin Heidegger, il rischio della conformità, l’indifferenza quotidiana che soffoca, nella dimensione pubblica, ogni tratto originale.
Sia la maschera pirandelliana che quella manieristica si configurerebbero come una sorta di corazza imposta dalla società cui è necessario appartenere, una corazza resa necessaria dall’incapacità dell’uomo di aderire alla propria “ipseità”. Secondo la studiosa, è proprio l’adeguarsi dell’uomo pirandelliano e dell’uomo manieristico ad un modello prefissato, al fine di far parte del ‘gioco’ sociale, a sortire come esito, per la totale innaturalezza, la deformazione e la “sconciatura”.
Inoltre, come nel Manierismo si attribuisce importanza al cerimoniale e alla forma esteriore, così nell’opera dello scrittore agrigentino si assegna centralità alla ‘parte’: nel suo scritto Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, egli ribadisce che “il macchinismo è voluto, è la maschera per una rappresentazione, il giuoco delle parti, quello che vorremmo o dovremmo essere, quello che agli altri pare che siamo, mentre quel che siamo non lo sappiamo neanche noi stessi; la maschera è la goffa,incerta metafora di noi…”.
File:Luigi Pirandello.jpgD’altra parte, l’alternativa alla “mascherata, continua, d’ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontari” è una voragine, un abisso “a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo d’impazzire”. Una pazzia che somiglia a un’inquietudine angosciante, a una fuga verso una realtà in cui gli eventi risultano privi di ogni consequenzialità logica e che rappresenta una dimensione ‘altra’ da contrapporre a quella che opprime l’individuo. I folli, pertanto, sono “i diversi”, coloro che, respinti dal giudizio ordinario e convenzionale della società, scelgono la diversione, la fuga, l’altrove. In tal modo, l’individuo finisce per collocare se stesso al di fuori della vita, in una sorta di inconsistenza priva di quella maschera in cui si sommano i vincoli sociali, come accade a Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno e centomila: nella scelta radicale della dissoluzione della sua persona, questi rifiuta persino il proprio nome in quanto etichetta che non può racchiudere la vita fluida e indeterminata cui egli ha deciso di aderire. Se infatti molti personaggi pirandelliani restano disperatamente agganciati a un nome, a un atto che la vita fa scontare loro come una condanna senza remissione, altri, invece, decidono di svuotare quel nome e quell’atto di ogni contenuto e significato.
L’ultima produzione pirandelliana potrebbe testimoniare, come ha sostenuto Gabriella Corsinovi, una “riconquistata leggerezza dell’Essere”, ovvero una riconquistata libertà dalle finzioni psichiche e dal tormento della parola-logos. A conferma della nuova condizione dell’io, il mago Cotrone, nei Giganti della montagna, dichiara: “Io mi sono dimesso. Dimesso da tutto: liberata da tutti questi impacci ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci disperde e solleva in misteriose lontananze. Guai a chi si vede nel suo corpo e nel suo nome.”.
Questo è il Pirandello – ribadisce la studiosa – che vorrebbe ricomporre la lacerazione provocata dalla caduta originaria, quando “l’uomo è precipitato dall’Essere all’Esser-ci per la morte”.
La propensione verso la fragile consistenza del sogno sembra dunque imporsi nell’ultima fase dell’iter sia letterario che esistenziale, come si evince da alcune dichiarazioni dello scrittore, quale, ad esempio, quella contenuta nello scritto Insomma la vita è finita, in cui si legge: “Ormai preferisco sognare che vedere”. Subentrano, a questo punto, le esperienze di suggestiva evanescenza e le atmosfere fantastiche della raccolta Una giornata, i cui personaggi non sono ritratti con i moduli espressionistici che si addicono a chi è “alla ricerca di una comunicazione-scontro col mondo”, ma con stilemi decisamente surrealistici, del tutto consoni a chi si muove in una dimensione atemporale e in una indeterminatezza spaziale. E mentre la morte apre un varco sull’oltre e conferisce finalmente l’autenticità negata in vita, si sfalda il legame con la maschera corporea e con la fisicità “sconciata”.
Accanto a luminose visioni oniriche, come quelle di Effetti di un sogno interrotto e de Il chiodo, si osservano, adesso, forme chiaramente denarrative: la maggior parte delle novelle facenti parte dell’ultima raccolta s’interrompe infatti “su un’esitazione tra veglia e sogno, tra reale e irreale” e su una sospensione interpretativa accentuata dal travalicare nel lirismo fantastico. Basti pensare alla novella eponima Una giornata che sembra assolvere un compito conclusivo, anche se risulta più verosimile credere che lo scrittore agrigentino non abbia mai rinunciato a rilanciare il messaggio della fondamentale incompiutezza di ogni operare.
“Poetica allegoria della vita dal punto di vista della morte”, questo testo è ritenuto una sintesi ideale di diversi motivi presenti nell’opera pirandelliana: un uomo, privo di nome, di voce e di volto, gettato da un treno in corsa in una stazione di passaggio, si ritrova in una città sconosciuta e fra una moltitudine di uomini “sicuri di non sbagliare, senza la minima incertezza, così naturalmente persuasi a fare come fanno”. La vicenda sembra alludere al tema dell’individuo che, ‘gettato’ nel mondo e posto in una situazione da lui non voluta, sperimenta nel vivere civile il più totale disinganno esistenziale. Il corso della vita è qui sintetizzato simbolicamente dalle diverse scene che evidenziano lo smarrimento conoscitivo del soggetto, il quale, in un presente del tutto immobile, vive una condizione tale di straniamento da non riconoscere i segni della sua identità. Quando egli cerca poi in uno specchio la conferma della propria esistenza, vede scorrere su quella lucida superficie le numerose immagini del suo passato. Da una remota lontananza, gli occhi di un bambino scoprono nel viso di un vecchio che la giornata della vita sta volgendo al termine, mentre la fredda lastra diviene sinistra metafora di morte.
File:Seis personajes en busca de autor pg 10.jpgEstraneo a se stesso e agli altri, condannato a consistere in forme stabili e determinate, l’uomo, davanti alla morte, è ancora irreversibilmente solo, ma, finalmente libero dalla limitatezza asfittica della ‘trappola’, può dimettersi dall’esistenza.
Non può negarsi che la disumanizzazione surreale che accompagna il processo di liberazione dalla maschera corporea debba intendersi come la ricerca, da parte dell’autore, di forme espressive atte a rappresentare la nuova condizione dell’uomo. A noi piace comunque condividere l’ipotesi suggestiva di chi ha ritenuto che Pirandello, ormai presago della morte imminente, abbia voluto concedere ai suoi ultimi personaggi una libertà che va oltre la fantasia e la follia, ovvero la libertà della morte. Come il protagonista di Una giornata, lo scrittore si dimetteva forse dalle proprie maschere, anche da quella di ‘Pirandello scrittore’, e riconosceva nella morte il superamento di ogni parcellizzazione dell’esistenza, nonché la liberazione da quel mondo in cui, una notte di giugno, sotto un pino solitario, in una campagna d’olivi saraceni, era stato lasciato cadere.
Ed infine, nelle sue disposizioni testamentarie, “Bruciatemi. E il mio corpo sia lasciato disperdere”, affiora la speranza nutrita dallo scrittore di tornare alla forza dinamica del flusso ininterrotto della vita, dopo aver preso commiato dalle azzurre argille e dal mare africano.

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METAFISICA DEL SOTTOSUOLO di Antonina Nocera http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/12/09/metafisica-del-sottosuolo-di-antonina-nocera/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/12/09/metafisica-del-sottosuolo-di-antonina-nocera/#comments Wed, 09 Dec 2020 14:00:27 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8658 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine Saggistica Letteraria” è dedicato al volume Metafisica del sottosuolo” di Antonina Nocera (Divergenze). Di seguito, la recensione di Giuseppe Giglio.

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“Metafisica del sottosuolo” di Antonina Nocera (Divergenze)

I fili della verità, tra Sciascia e Dostoevskij

di Giuseppe Giglio

La critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito d’amore, scriveva George Steiner. E l’eco di quest’auspicio (per quel maestro un modo di essere, oltre che un desiderio) si avverte in sottofondo, come una frase musicale, leggendo Metafisica del sottosuolo, l’agile e limpido saggio che la giovane critica e comparatista Antonina Nocera ha licenziato per gli eleganti tipi di Divergenze, con una prefazione appassionata di Antonio Di Grado, oltre che una maieutica postfazione di Federico Fiore. Un viaggio molto intenso e ricco di spunti, questo della Nocera. E arditamente originale: nello scovare quei fili – «sorprendentemente sottili e al contempo resistenti come quelli della seta» – che uniscono le pagine di Leonardo Sciascia con quelle di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Così diversi, ma anche così simili, questi due magnifici scrittori e narratori: nel loro continuo esplorare l’animo umano, nel loro aperto interrogarsi sul mistero del vivere; diffidenti verso ogni comprensione totalizzante, sorretti invece dalla contraddizione e dal dubbio. Il primo sempre in cerca delle verità dell’uomo, dell’uomo così com’è. Il secondo per tutta la vita tormentato dalla «questione dell’esistenza di Dio» (precisa Dostoevskij in una lettera: preziosa, come molte altre sue, per ciò che di quel gigante custodisce).

E il lettore (da subito a proprio agio, nell’abitare questo libretto che si muta in conversazione: tra il siciliano, il russo e chi legge, appunto) ha modo di osservare come i due si incontrino sulle eterne questioni della verità e della fede, oscillando tra i limiti della ragione e le enormi possibilità di essa. Entrambi adoperando uno stesso punto di partenza. O, meglio, la medesima chiave: quel delitto che diviene crimine ontologico, interrogazione metafisica sul male, sul male che intorpida, che avvelena la vita; quel delitto, ancora, di cui mano a mano il lettore avverte il mutarsi in domanda, in domande: sul potere e su Dio, sul destino e sulla libertà. C’è un indizio, da cui la Nocera comincia a fiutare, a intravedere le linee che corrono, o si intrecciano, tra Sciascia e Dostoevskij: quel «terzo ed ultimo volume di un’edizione popolare de I fratelli Karamazov» (la storia di quelle anime irrisolte che si fa affresco senza tempo dell’umana avventura: tra il male e la salvezza, tra l’accettare Dio o il restituirgli il biglietto) che l’ispettore Rogas, il poliziotto che ne Il contesto indaga sugli assassinii di diversi giudici, trova sul comodino del farmacista Cres, il maggiore sospettato. Ed è un indizio importante, come si vedrà; un dettaglio tutt’altro che casuale, in questo giallo atipico, metafisico, senza soluzione; in questa parodia che illumina ragioni e meccanismi profondi, impensabili deviazioni e perversioni: per restituire un «apologo sul potere nel mondo», dice lo stesso Sciascia. Dove l’abilità nel leggere il delitto non approda affatto alla giustizia, ridotta a farsa; dove l’individuo è schiacciato dal potere corrotto, e Dio, se non è morto, pare cieco. E un giallo atipico, a suo modo, è pure il capolavoro di Dostoevskij, che è anche, come quello sciasciano, un romanzo sull’amministrazione della giustizia; oltre che sull’omicidio come atto di libertà, di «rivolta interiore e sociale» (la vicenda del Karamazov padre: ucciso dal servo Smerdjakov, da quel suo stesso figlio illegittimo frutto di una violenza nei confronti di Lizavéta, una povera pazza muta).

Nessuno – giudici, investigatori, periti – , alla fine, in entrambe le storie, riesce a venire a capo di qualcosa; mentre la narrazione saggistica procede per rapide illuminazioni, come inseguendo, con Borges, una rêverie, una fantasticheria, tra l’immaginazione razionale di Sciascia e il realismo fantastico dostoevskjiano. Nel segno di un’intimità di fondo che trascina il lettore dentro un inatteso sistema di analogie, di coincidenze, di rispondenze: quelle, per esempio, tra il grande inquisitore della Leggenda e il bieco Riches, il Presidente della Corte Suprema; o quelle tra Rogas e il giudice istruttore Porfirij di Delitto e castigo; o quelle, ancora, tra Ivan Karamazov e l’intellettuale dissidente Nocio. Alla ricerca della verità. O meglio, della sua biologia, come recita il sottotitolo di Metafisica del sottosuolo: Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskji; di quella dimensione della verità (fattuale e morale insieme, al di là delle conclusioni giudiziarie, o dei ruoli rivestiti), cioè, che prende corpo, che vive, lungo la discesa attraverso il cuore umano, e più in mezzo alle sue ombre: nella nudità di ciascun personaggio, dentro ogni suo limite. Quella verità, insomma, della quale in superficie si celebrano le esequie, e che invece va emergendo a mano a mano che si scende nel sottosuolo: quel groviglio di pulsioni e fantasmi, di non detto (neanche a sé stessi, a volte) e di irrazionale. E a dar ancora più robustezza a queste coincidenze, a questi fili che va scoprendo, la Nocera trova convincente sostegno non solo in altri libri di Sciascia (Todo modo, Cruciverba, Candido) e Dostoevskji (il già citato Delitto e Castigo, I demoni), ma anche presso altri scrittori: tra cui Friedrich Dürrenmatt (anch’egli giallista eretico, amatissimo da Sciascia), che come pochissimi altri – per grotteschi ma efficacissimi lampi, e con sottile tormento morale – ha raccontato l’ambiguità della colpa e della giustizia, della libertà e della verità. Per non dire di critici e pensatori come Berdjajev o Laksin, Bachtin o Girard.

Ci si aspetterebbe un saggio corposo, se non altro in ragione della complessità e vastità dei temi affrontati. E invece questa monografia della Nocera – legatissima alla letteratura russa, e già autrice di Angeli sigillati. I bambini e le sofferenza nell’opera di Fëdor Michajlovič Dostoevskij – si snoda, leggera, e inaspettatamente, in poco più di trenta pagine: come in attesa di ulteriori e magari più ampi sviluppi (un altro libro?), eppure sufficienti, queste pagine, a disegnare un microcosmo di vita e destino (penso all’omonimo capolavoro di Vasilij Grossman, altro bruciante romanzo sul male), nel segno della letteratura, della forma più alta che la verità possa assumere, per citare Sciascia: lui che, pur preferendo Tolstoj, non ha potuto non frequentare il creatore del principe Myskin, di quel sublime “idiota” che cerca la pietà e l’amore in un mondo di ambigue passioni, di potere e di soldi; lui che, già con Il Consiglio d’Egitto, aveva mostrato l’insufficienza della ragione dei Lumi. Un microcosmo aperto e problematico, dunque, senza risposte definitive (cos’è più importante, tra ragione e fede: la libertà o la verità?), dal quale si finisce per vedere più da vicino e meglio l’uomo: con tutta la propria bellezza, ma anche in mezzo ai propri demoni.

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Antonina Nocera (foto accanto) vive a Palermo dove svolge la professione di insegnante  e si occupa di critica letteraria.
Ha pubblicato una monografia dal titolo “Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij”(FrancoAngeli, 2010), e  “Metafisica del sottosuolo- Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij (Divergenze 2020)  oltre a svariati articoli su riviste come Kaiak-A philosophical Journey, Il Maradagàl, Kainos. Un suo racconto si trova nella raccolta “ L’ultimo sesso al tempo della peste” , (NEO edizioni 2020) e un suo scritto satirico è stato pubblicato sul blog Bottega di narrazione di Giulio Mozzi. Gestisce il blog letterario “Bibliovorax”  collabora con la pagina Cultura Italia-Russia  ed è redattrice della rivista culturale Readaction.

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MICHELANGELO IN PARNASO di Gandolfo Cascio http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/05/12/michelangelo-in-parnaso-di-gandolfo-cascio/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/05/12/michelangelo-in-parnaso-di-gandolfo-cascio/#comments Tue, 12 May 2020 09:24:05 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8487 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Michelangelo in Parnaso” di Gandolfo Cascio (Marsilio)

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di Massimo Maugeri

Gandolfo Cascio insegna Letteratura italiana e Translation Studies all’università di Utrecht. Si occupa di poetica, ricezione  estetica e filologia digitale. Ha pubblicato Un’idea di letteratura nella «Commedia», Società Editrice Dante Alighieri, 2015; Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori, Marsilio, 2019; Il mestiere della persuasione. Scritti sulla prosa, Giorgio Pozzi Editore, 2019. Per i suoi saggi ha vinto il premio Elsa Morante, il premio Proserpina e il premio G.A. Borgese.

Ho invitato Gandolfo Cascio a discutere del suo volume dedicato alle Rime di Michelangelo: “Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle Rime tra gli scrittori” (Marsilio). A corredo dell’intervista pubblichiamo un paragrafo del libro che riguarda Stendhal.
Michelangelo scrisse le “Rime” per affrontare di petto temi su cui, come artista, non poté esprimersi come voleva, e per farlo scelse una lingua aspra, distante dalla limpidezza del Cinquecento. In genere la critica si è mostrata cauta, sovente scontrosa, verso questo suo “secondo mestiere”; mentre di tutt’altra qualità è stata la ricezione tra gli scrittori che ne intuirono la caratura. Questo volume indaga il rapporto tra diversi autori (Varchi, Aretino, Foscolo, Wordsworth, Stendhal, Mann, Montale, Morante e altri) e i versi buonarrotiani e, attraverso delle severe analisi dei testi, illustra perché Michelangelo occupi nel Parnaso un posto più nobile di quello che la storiografia ha tramandato.

- Gandolfo, quando e perché hai cominciato a interessarti alle Rime di Michelangelo?
Ricordo con una certa nostalgia che durante il primo esame di Letteratura italiana, all’università di Palermo, venni interrogato su Michelangelo poeta. È da quei lontani anni che le Rime continuano a girarmi in testa.
Quello che tuttora mi sorprende è che, nonostante Michelangelo fosse un uomo tutto d’un pezzo, era leggendaria la sua “terribilità”, nei versi pare che abbia potuto trovare lo spazio e il mezzo per esprimere le proprie inquietudini sull’esistenza, sull’amore, su Dio. L’ha fatto con una lingua aspra e difficile, sovente comica e, in non pochi casi, dolcissima, com’è nella rima 98 dove, audace e ardente, allude al nome dell’amato Tommaso de’ Cavalieri, con la consapevolezza che chiunque avrebbe riconosciuto l’amico romano:

maraviglia non è se nudo e solo
resto prigion d’un cavalier armato

Ecco, tutto ciò ha fatto sì che Michelangelo diventasse uno dei “miei” autori, cioè uno di quelli a cui ci si rivolge, sicuri di poterli interpellare per sentirsi dire qualcosa d’inaudito.

- Quando e perché è nata l’idea di questo libro? Quando, cioè, hai ritenuto di dover “rendere giustizia” all’opera poetica di Michelangelo?
Quando presentai il progetto per il dottorato, pensai che quella fosse l’occasione buona per approfondire un tema che, appunto, mi stava a cuore. Da quel momento e per qualche anno, in pratica, ho vissuto con Michelangelo: era il mio primo pensiero al risveglio, di giorno ci lavoravo, andavo a letto con lui. Dopo la conclusione di quel percorso mi persuasi che fosse giudizioso prenderne per un po’ le distanze. In quel periodo mi sono dedicato a un altro mio pensiero fisso: Dante. A un certo punto capii che dovevo ritornare a Michelangelo e, allora, mandai il dattiloscritto a Marsilio che ha una dei più stimati cataloghi di saggistica. Cesare De Michelis mi rispose subito, proponendomi di pubblicare il libro. Mi diede una profonda soddisfazione sapere che un lettore finissimo come lui aveva apprezzato i miei sforzi, e poi ero davvero contento di venire accolto nella collana che aveva pubblicato Giacomo Debenedetti.

- Cosa puoi dirci sull’attività di studio e ricerca propredeutiche alla scrittura del testo? È stata appassionante? Hai incontrato difficoltà?
Dà sempre un piacere particolare iniziare una nuova ricerca. Quello che eccita è l’idea, direi platonica, di poter trovare qualcosa che sta lì ma che rimane nascosta, e che va riportata in superficie; in olandese, ad esempio, ricerca si dice onderzoeken, che significa proprio «cercare sotto». Ti confesso però che il momento più emozionante non è stato, diciamo così, quello della scoperta intellettuale ma uno squisitamente fisico. Mi riferisco al soggiorno fiorentino all’archivio di Casa Buonarroti, dove esaminai i manoscritti lì conservati. Non credo di poterti dire bene l’emozione che ebbi a tenere in mano quelle carte, a osservare quella grafia, i mirabili segni del Divino Michelangelo.
Naturalmente ci sono state anche alcune difficoltà. Michelangelo in Parnaso è uno studio innovativo: nessuno, difatti, s’era ancora occupato della ricezione delle Rime, meno che mai tra gli scrittori. Se il mio punto di riferimento, per quanto inarrivabile, è stato Gianfranco Contini, nello specifico, però, non avevo dei modelli cui rivolgermi. La sfida, perciò, è stata quella d’inventarmi un metodo, di scoprire da me delle strategie per le indagini che volevo portare avanti. Tuttavia, è altrettanto vero che quella medesima situazione di smarrimento iniziale mi ha concesso una gran libertà.

- Proviamo ad approfondire questo punto… Perché la critica, in genere, si è mostrata piuttosto cauta nel riconoscere il valore dell’attività poetica di questo grande genio della pittura?
Be’, il problema forse è stato proprio quello di essere un grande artista, tant’è che giusto quella condizione ha messo in ombra l’attività lirica. Ancora oggi c’è chi sfrutta le poesie per illustrare il suo lavoro di pittore e, soprattutto, di scultore. Questo va bene; ma se si pensa che Michelangelo scrisse più di trecento poesie in cui è abbastanza facile rilevare dei notevoli sviluppi tematici e stilistici, la sua scrittura non solo merita più attenzione ma, soprattutto, le va riconosciuta una dignità sciolta dalle altre attività. Intendo dire che Michelangelo nelle Rime disse altre cose che in pittura o scultura: prima di tutto perché qui non vi è traccia dei desiderata dei committenti; e inoltre tutta personale fu la scelta del come esprimersi, dello stile. Evidentemente, per quanto la parola sia sorella della pittura – per Orazio «ut pictura poesis» – la poesia ha degli strumenti e dei fini tutti suoi di cui Michelangelo volle e poté servirsi.
La negligenza della critica può spiegarsi in diversi modi, a seconda dei periodi. Diciamo che c’è stato il problema della lingua: dove sistemare un poeta del Cinquecento così poco petrarchesco? Poi c’è stata la spinosa questione amorosa; e, non meno grave, quella di una religiosità vissuta con contezza in un momento di gravi tensioni spirituali. Anche i nostri contemporanei, in primis De Sanctis e Croce, evidentemente non ancora affrancati dai pesanti pregiudizi, non riuscirono a capire le Rime né furono in grado di sistemare il loro autore all’interno della nostra tradizione. Dagli anni Sessanta, invece, molto ha iniziato a cambiare e si è preso a studiare questa raccolta con più serenità.

- A differenza dei critici, gli scrittori hanno dimostrato maggiore apertura e apprezzamento per i versi di Michelangelo. E buona parte del tuo lavoro è incentrato proprio su questo aspetto. C’è qualcosa che accomuna tali “apprezzamenti”?
imageA me non interessa la questione della ricezione, perlomeno quando viene intesa esclusivamente come la disciplina che si focalizza sul lettore comune, o, se si vuole usare un certo gergo, sul pubblico. Al contrario, mi seduce proprio la categoria di lettori non comuni, in particolare quella degli scrittori. Tra di loro, si sa, si leggono, si invidiano e si copiano. Tali dinamiche mi intrigano per due motivi: prima di tutto perché provare a scoprire questi rimandi, citazioni, le imitazioni più o meno palesi mi permette di concentrarmi sui testi che, sono convinto, devono restare l’oggetto principale degli studi letterari; ma anche perché osservando queste relazioni ho come avuto l’impressione di umanizzare qualcosa che altrimenti avrebbe rischiato di fermarsi allo stato di erudizione.
C’è poi da tenere a mente che uno scrittore ha altri obblighi, e magari privilegi, rispetto al critico, e potrebbe avere una diversa sensibilità: penso a Varchi, Stendhal o Montale che grazie alla loro indole poterono comprendere Michelangelo prima e meglio dei critici di professione.
Mi auguro che ciò spieghi pure il titolo del libro, dato che il mio intento non era quello di riconoscere a Michelangelo un posto tra gli abitanti del Parnaso, fatto che ormai non viene più messo in discussione, quanto quello di definirne con più chiarezza il suo ruolo di compagno in quelle che ho definito «conversazioni tra scrittori».

- Tra gli “approcci critici” dei vari scrittori di cui ti sei occupato in relazione alla poesia di Michelangelo, quali sono quelli che ti hanno colpito di più?
Alcuni si sono occupati delle Rime come critici: penso a Foscolo, Ungaretti, Testori; altri, Campana, Morante, Gadda si sono lasciati incantare da quei versi e li hanno fatti propri; mentre molti stranieri, e basti nominare Wordsworth, lo hanno tradotto. Per quanto questi casi siano tutti interessanti, dal mio punto di vista quelli che attraggono con più forza risultano quelli in cui Michelangelo è stato ripreso creativamente, perché è proprio lì che si nota come i rapporti tra scrittori non vengono intralciati dalle lontananze, di spazio o di tempo. A Un campione utile per intendere quello che dico è l’episodio che coinvolge Patrizia Valduga: non solo perché il calco da Michelangelo è evidentissimo, ma perché altrove la poetessa lo stronca:

MICHELANGELO (247 e 102)                                    VALDUGA (La tentazione)

Caro m’è ’l sonno, e più l’esser di sasso,                 In questa maledetta notte oscura

mentre che ’l danno e la vergogna dura;             con una tentazione fui assalita

*                                                                                       Che ancora in cuore la vergogna dura

O notte, o dolce tempo, benché nero [...]

«Amica mia piccola, benché nero

a te paia ed eterno questo tempo

- In conclusione di questa nostra “chiacchierata”, ti chiedo di scegliere alcuni versi di Michelangelo che ritieni particolarmente rappresentativi della sua attività poetica e di “offrirli” ai nostri lettori…
Prima di risponderti vorrei ringraziarti di cuore per la chiacchierata e per questa bella domanda.
In verità sono tanti i versi che mi porto dentro. Qui ti cito la rima 7, non perché sia la più bella o celebre, ma perché è da qui che, in quegli anni ormai lontani che ho rammentato, iniziò la mia confidenza con Michelangelo:

Chi è quel che per forza a te mi mena,
oilmè, oilmè, oilmè,

legato e stretto, e son libero e sciolto?
Se tu incateni altrui senza catena,
e senza mane o braccia m’hai raccolto,
chi mi difenderà dal tuo bel volto?

- Grazie mille, caro Gandolfo. Di seguito pubblichiamo il paragrafo che riguarda Stendhal. Complimenti e in bocca al lupo per questo libro e per i tuoi futuri progetti.

* * *

Stendhal (pp. 74-77)

Alberto Moravia, da viaggiatore esperto, commentò la guida artistica di Roma (1829) di Stendhal, riuscendo a superare la retorica romantica e i più adoperati stereotipi letterari legati al Grand Tour:

Le promenades dans Rome hanno un titolo molto preciso: sono infatti proprio passeggiate durante le quali Stendhal fornisce una descrizione minuziosa e svagata, esauriente e capricciosa, della capitale degli Stati Pontifici, ad uso degli «happy fews» francesi che la visiteranno dopo di lui[1].

Il francese, proprio per merito della singolare attenzione al dettaglio, s’impose come campione per il turista colto. Questa sua virtù lo avrebbe portato a scovare le poesie michelangiolesche e ad andare oltre ai tanti, e imprescindibili, riferimenti all’artista e al suo coinvolgimento nella Roma papalina. Tanto interesse portò Stendhal a citarlo «con incessante ripetizione, segno di affinità segrete, soggetto mitico, riflesso di un passato grandioso che suscita profonde emozioni»[2]. Tra i diversi discorsi, un posto di rilievo spetta al capitolo la Vie de Michel-Ange, incluso nel settimo volume de l’Histoire de la peinture en Italie (1817), basato in gran parte sulle biografie di Vasari e Condivi[3].

C’è poi la recente scoperta di un «manoscritto inedito [...] rintracciato e identificato in una piccola raccolta privata»[4], pubblicato nel 1995. Il titolo, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, è editoriale ed è stato ripreso dall’ultimo verso della sestina n. 7. Stendhal mise in bocca questa battuta a Michelangelo – in italiano nel testo – nel momento in cui incontrò Cavalieri[5]. L’invenzione letteraria non concorda con la filologia, visto che questa rima è tra i primissimi scritti (± 1506), dunque antecedente, e di molto, all’incontro con il nobile romano, avvenuto nel 1532. Tuttavia la scelta è assai affascinate, perché fa capire bene come la ricezione creativa permetta azioni che in altra sede sarebbero considerate illecite e che invece in un testo d’arte risulta efficace ai fini della fabula.

Nel volumetto (formato 12×17 cm. con testo a fronte) la versione in francese consta di sole 13 pagine, incluse le note a margine; è datato «22 giugno [1832], Mero» (che è Roma) e la scrittura, così avverte il traduttore, interruppe i Soeuvenirs d’égotisme, iniziati solo due giorni prima. Evidentemente un’urgenza, uno spasimo forse, aveva spinto lo scrittore a intraprendere questo progetto; ciononostante, già il giorno dopo l’abbandonò per lasciarlo, michelangiolescamente, incompiuto. L’occasione narrativa fu squisitamente stendhaliana: lo scrittore, impegnato con una missiva dell’amante che aveva disertato un incontro, è distratto dalla cameriera che, senza una ragione, gli comunica l’orgoglio che prova a «lavorare nel palazzo dei Cavalieri» e che queste dove lui alloggia assieme all’amico Abraham Constantin «erano proprio le stanze di don Tommaso, il bellissimo padrone»[6]. La coincidenza diviene il pretesto per poter parlare della relazione di Michelangelo con Tommaso così com’è data nelle Rime. Ecco bell’e pronto il setting; l’azione segue: Stendhal si precipitò a recuperare il libro in biblioteca. Negli scaffali ne trovò uno in italiano[7] e un altro in francese[8] che riportano la lezione del 1623, quella rivista e integrata. Ciò però non compromise l’affezione che legava il romanziere al poeta, anzi parrebbe che le alterazioni baroccheggianti non abbiano leso il centro del corpus. Stendhal effettivamente doveva avere consapevolezza dell’edizione, visto che si soffermò sul lavoro del traduttore con sicurezza: «un certo Varcollier traduce l’intraducibile ma ha il buon senso di mantenere il testo a fronte»[9]. L’affermazione mette in evidenza come l’originale presenti delle particolarità che la traduzione avrebbe svilito. Il testo a fronte permette dunque di confrontare la traduzione e di esaminarlo con più diligenza. Stendhal informa inoltre del modo in cui venne in contatto con la lirica michelangiolesca e in una nota a margine riconosce l’importanza dell’esperienza con l’esclamativo:

Quando una decina di anni fa iniziai la mia collaborazione al N.[ew] Mon[thly] Mag[azi]ne ricordo di aver ricevuto un numero della rivista con un interesante articolo di F.[osco]lo. Scoprii così la poesia di Miche[langelo]. Che rivelazione![10]

Questi sono gli antecedenti che riferiscono quando e come Stendhal fosse arrivato alle Rime, e quale attaccamento, anche fisico, egli provasse nella lettura, considerato che arrivò a esclamare: «Cerco di non vedere le sottolineature; in realtà mi disturbano, come se il libro fosse mio». Il seguito del racconto “non finito”, continua con una trama che porta Michelangelo a incontrare Cavalieri e poi a reincontrarsi, dopo lo spasimo da parte del Vecchio, nello studio di Macel de’ Corvi. Qui si intrecciano motivi storici (con dei riferimenti al pontificato), etici (le differenze sociali e d’età tra i due), ma sommamente estetici (il ritratto su carta di Michelangelo) e filosofici, con il richiamo all’«amor platonique»[11]. Ciò viene spiegato con i ripetuti rimandi al senso della vista e lessicalmente all’uso della parola «occhi»[12], il mezzo per la conoscenza: «Questo ragazzo che fino a poco fa non cercava che il piacere degli occhi, saprà guardare con l’intelletto»[13]. Il racconto dunque riesce a rappresentare Michelangelo davanti alla concretezza della sua ispirazione, almeno per quanto riguarda le poesie per Cavalieri. Questo realismo conviene alla figura dello scrittore, ma lascia intravedere un eccesso di romantica leziosità quando Stendhal evidenzia che la perfezione di Cavalieri sta proprio nell’imperfezione del «naso imperioso»[14]. Una chiosa estetica che combacia con buona parte parte della critica ottocentesca che in queste rime vide la belleza più profonda proprio nella loro imperfezione, come la raffigurazione di chi sa ribellarsi alla morale borghese.

Stendhal illuminò le Rime definendole «fra le più ispirate di tutto il Cinquecento»[15], e ci diede il polso della situazione del suo tempo. Il giudizio, che conciliò l’incompiutezza formale con il valore della Poesia, è quello che la critica postcrociana prediligerà. Rimane tuttavia un dubbio, e cioè che l’imperfezione che egli sentì non fosse cagionata dai ritocchi secenteschi.


[1] A. Moravia, Passeggiate romane, in Moravia e Roma, a cura di L. Basili, catalogo della mostra: Roma, Museo di Roma in Trastevere, 22 novembre 2003-22 febbraio 2004, Roma, numero speciale dei «Quaderni» del Fondo Alberto Moravia,  novembre 2003, p. 61.

[2] A. Bottacin in Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, scoperto e tradotto da C. Vivari, postfazione di A. Bottacin, Milano, La Vita Felice, 1995, p. 53.

[3] Stendhal, Hìstoire de la peinture en Italie, Paris, Levy, 1854, VII, pp. 294-407.

[4] Vivari in Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, cit., p. 9.

[5] Ibid., p. 26.

[6] Ibid., p. 21.

[7] Rime di Michelagnolo Buonarroti il Vecchio con una Lezione di Benedetto Varchi e due di Mario Guiducci sopra di esse, Firenze, Manni, 1726.

[8] Poésies de Michel-Ange Buonarroti, peintre, sculpteur et architecte florentin, traduites de l’italien, avec le texte en regard et accompagnées de notes littéraires et historiques, par M.A. Varcollier, Paris, Hesse, 1826.

[9] Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, cit., p. 25.

[10] Ibid., p. 23, nota a margine.

[11] Ibid., p. 38.

[12] Ricordo che l’idea che l’amore passasse prima attraverso la vista è, sì, ampliamente integrata nella dottrina ficiniana e propagata in modo ampio dai neoplatonici, ma in ambito poetico una concezione di questo tipo è già partecipata nella Scuola siciliana, ed è Giacomo Da Lentini a dirlo nel sonetto XXII: «Or come pote sì gran donna entrare | per gli ochi mei che sì piccioli sone? | e nel mio core come pote stare, | che ’nentr’esso la porto là onque i’ vone? || Lo loco là onde entra già non pare, | ond’io gran meraviglia me ne dòne; | ma voglio lei a lumera asomigliare, | e gli ochi mei al vetro ove si pone. || Lo foco inchiuso, poi passa difore | lo suo lostrore, sanza far rotura: | Così per gli ochi mi pass’a lo core, || no la persona, ma la sua figura. | Rinovellare mi voglio d’amore, | poi porto insegna di tal crïatura.».

[13] Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, cit., p. 39.

[14] Ibid., p. 33.

[15] Ibid.

* * *

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GIOVANNI VERGA. SAGGI (1976-2018) di Romano Luperini http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/02/15/giovanni-verga-saggi-1976-2018-di-romano-luperini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/02/15/giovanni-verga-saggi-1976-2018-di-romano-luperini/#comments Sat, 15 Feb 2020 15:21:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8408 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Giovanni Verga. Saggi (1976-2018)” di Romano Luperini (Carocci).

Il volume, che presenta tutti i saggi verghiani che Romano Luperini ha scritto fra la fine degli anni Settanta e oggi, ricostruisce la figura di un grande scrittore il cui uso dell’impersonalità copre e nasconde una vicenda autobiografica nella quale è possibile riconoscere il destino non solo di Giovanni Verga, ma in generale dello scrittore moderno. Verga vive la condizione dell’artista ai margini, periferico, spossessato della propria funzione tradizionale. Un artista il cui punto di vista non coincide mai né con quello dei vincitori né con quello dei vinti ma è alla ricerca di un “terzo spazio” fra quello degli oppressori e dei vincitori e quello degli oppressi e dei vinti.

Di seguito pubblichiamo uno stralcio della prefazione di Luperini.

* * *

Un estratto della prefazione di Romano Luperini del volume contenente la sua raccolta di saggi dedicati a Giovanni Verga. “Giovanni Verga -  Saggi (1976-2018)” – Carocci (pagg. 11 – 14)

(…)

L’idea, a lungo coltivata, che esista “una barriera del naturalismo” e che la modernità cominci solo al di là di essa, non regge alla prova dei fatti. Pirandello e Tozzi partono da Verga, recuperandone spunti espressionistici (lo stile scorciato, l’opzione per il grottesco, il montaggio “cinematografico”) e l’assenza di mediazione narrativa prodotta dalla caduta della prospettiva onnisciente (con Verga si entra nel campo, direbbe Pirandello, della scrittura “senza autore”). In realtà è molto maggiore la distanza che divide Verga da Manzoni da quella che lo separa da Pirandello. La svolta del 1848, sottolineata con forza daLukács, a cui bisogna aggiungere, in Italia, quella del 1860-61, si fa sentire.
Verga apre una frattura su cui si inserirà la ricerca più avanzata del primo Novecento. È, questa, una coscienza critica che comincia lentamente ad affermarsi, e chi scrive ne aveva illustrate le ragioni già all’inizio degli anni Novanta.
Si può parlare allora di un’area modernista che congiunga Verga, Pirandello, Tozzi e, addirittura, Svevo? È questa la proposta di Pierluigi Pellini. Secondo Pellini, un francesista e un italianista cui vanno riconosciuti grandi meriti anche nella critica verghiana, «il naturalismo [...] è un movimento letterario decisamente modernista». Anzi, «sarebbe l’ora che si affermasse anche in Italia, come da tempo nei paesi anglosassoni, e recentemente anche in altre aree culturali, il concetto di modernismo». E aggiunge:

A me pare ovvio che, alle esigenze del periodizzamento storico-letterario, parlare di modernismo per il migliore verismo, per Svevo, Pirandello e le avanguardie, farebbe un ottimo servizio. Anche perché permetterebbe finalmente di mandare in pensione l’improbabile e immensamente fortunata etichetta di “decadentismo” – uno strano movimento in cui trovano posto Fogazzaro e d’Annunzio accanto a Svevo e Pirandello: e cioè scrittori che alla modernità appena, e contraddittoriamente, si affacciano, insieme a coloro che la interpretano ai massimi livelli; e da cui resta escluso Verga, che dei secondi è il più importante maestro.

In questa proposta si mescolano esigenze giuste e ragioni che invece andrebbero più attentamente vagliate. È giusto sottolineare la modernità di Verga e le ragioni che spingono Pirandello e Tozzi (piuttosto che Svevo) ad assumerlo a maestro e che dunque stabiliscono una certa continuità (da non enfatizzare eccessivamente, però) fra gli anni del naturalismo e quelli dell’espressionismo e della grande letteratura sperimentale e innovativa d’inizio secolo. È giusto anche (io lo sostengo quasi da un quarto di secolo, e precisamente dal Novecento, uscito nel 1981) discutere i confini del cosiddetto “decadentismo” e sottrarre al suo territorio autori come Svevo e Pirandello, da inserire piuttosto all’interno della grande stagionedel modernismo europeo (fra espressionismo, nel caso di Pirandello, e “romanzo aperto”, nel caso di Svevo). I loro capolavori non hanno in effetti nulla a che vedere con i romanzi di d’Annunzio o di Fogazzaro ma anche di Huysmans o di Wilde.
Non mi pare invece possibile fare del modernismo un contenitore analogo al disprezzato “decadentismo”, che d’altronde è una etichetta come un’altra e, una volta affermatasi storicamente (e il termine ha, nella critica, una storia ormai secolare, oltre a essere un’autodefinizione di un gruppo di scrittori francesi, i décadents, appunto), tanto vale accettarla e ridefinirla piuttosto che abolirla. Huysmans, d’Annunzio e Wilde si confrontano certamente con la modernità; le danno, non è difficile ammetterlo, risposte regressive, ma tutta la loro opera si situa su quello sfondo. Per reazione al moderno esaltano l’estetismo, un atteggiamento aristocratico, un simbolismo panico e irrazionalistico: tutti aspetti che li differenziano da Zola e da Verga, ma anche da Svevo, Pirandello, Joyce, Proust. D’altronde il modernismo ha a che fare con tecniche e ideologie decisamente antinaturaliste e con una letteratura sperimentale e fortemente innovativa. Nella letteratura inglese si parla di Modernism per definire una tendenza affermatasi fra gli anni Dieci e Trenta grazie soprattutto a Pound per la poesia e a Joyce per la narrativa: nessuno ci includerebbe, per esempio, Anthony Trollope o George A. Moore o Charles Reade o altri naturalisti.
Verga e Pirandello sono certamente distanti dal simbolismo “decadente” di d’Annunzio, e duramente polemici nei suoi confronti. Ma fra i due, e ancor più fra Verga e Svevo, ci sono differenze importanti che è impossibile dimenticare. Anzitutto culturali: si passa da una concezione oggettivistica a una soggettivistica, dal materialismo d’origine positivistica e spenceriana del primo al relativismo degli altri due: nel mezzo ci sono stati Nietzsche, Bergson, Freud, e si sente. Fra l’impersonalità verghiana o zoliana, che presuppone criteri scientifici e cerca di concretizzare l’ipotesi teorica dello scrittore come sperimentatore in laboratorio, e l’umorismo di Svevo e Pirandello, che sconta il definitivo tramonto anche di questo ruolo, gli elementi di discontinuità sono fortissimi. E poi c’è una differenza generazionale che non può essere dimenticata: Verga si è formato in età preunitaria, ancora romantico-risorgimentale, e ha vissuto il crollo delleideologie della sua giovinezza; Pirandello e Svevo si sono formati invece in età postunitaria, quando la crisi delle visioni del mondo ottocentesche era già avvenuta o comunque era avviata da tempo. Insomma, naturalismo e modernismo non sono sovrapponibili, ma designano due periodi diversi. Che poi il primo possa preludere, in certi autori, ad alcuni aspetti del secondo (è questo appunto il caso di Verga) è indubbiamente vero, ma ciò non basta ad autorizzare rischiose confusioni.
In conclusione. Il naturalismo non costituisce più la barriera oltre la quale avrebbe inizio la modernità letteraria, come amavano credere i teorici della neoavanguardia. Il moderno nella letteratura italiana comincia con Verga, che da un lato pone in discussione in modo radicale e, in Italia, definitivo la figura del narratore onnisciente e, dall’altro, sotto l’idea di una vita ridotta a lotta crudele di tutti contro tutti, fa scorrere una banalità di eventi che celano un vuoto sostanziale e il non senso dell’esistere. Ma dopo Verga, nel quindicennio che va da Il piacere di d’Annunzio a Il Santo di Fogazzaro, si può benissimo parlare di “decadentismo” per designare il periodo in cui hanno prevalso estetismo, irrazionalismo e simbolismo (tutte tendenze, peraltro, che nel romanzo non hanno neppure posto in discussione la tradizionale forma chiusa), distinguendolo però dall’età, assai più profondamente sperimentale, dell’espressionismo, del modernismo e delle avanguardie (quella tra Il fu Mattia Pascal e La coscienza di Zeno). Ogni movimento letterario, dal romanticismo a oggi, ha in realtà la durata di una generazione (vent’anni, o poco meno). Meglio coglierne la specificità che annullarlo in contenitori troppo vasti.
(…)

(Riproduzione riservata)

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Giovanni Verga

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DIPINGERE L’INVISIBILE nelle PAROLE DELL’ARTE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/06/18/dipingere-linvisibile-nelle-parole-dellarte/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/06/18/dipingere-linvisibile-nelle-parole-dellarte/#comments Mon, 18 Jun 2018 17:24:45 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7832 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Dipingere l’invisibile. Sulle tracce di Francis Bacon di Fabrizio Coscia (Sillabe).
Ne approfittiamo contestualmente per aprire una finestra dedicata alla collana di Sillabe, che ospita il libro di Coscia: si  chiama «Parole dell’Arte» ed è diretta da Antonio Celano.

Qui di seguito diamo la parola all’autore del libro e al curatore della collana.

* * *

DIPINGERE L’INVISIBILE. Sulle tracce di Francis Bacon

Il testo di Fabrizio Coscia è un originale «reportage interiore», dove vita e opere sono sempre reciprocamente illuminanti. Ad emergere sono aspetti inediti dell’arte di Bacon, accompagnati dalle analisi di singoli quadri e dalle dichiarazioni rilasciate dal pittore nelle sue celebri interviste.

È sulla figura umana, e in particolare sul corpo, che Bacon concentra tutta la sua attenzione, con amore e disperazione, con sadica aggressività e inattesa tenerezza. Corpi che vengono deformati, scorticati, rotti, spaccati, torturati, aperti, per attingere all’essenza emotiva, demonica, arcana della condizione umana. Artista della passione e del desiderio, della memoria e del dolore, del sesso e della morte, ovvero di tutte quelle forze invisibili e inconsce che dominano e regolano la nostra esistenza, Bacon diviene, inaspettatamente, campo di indagine anche per chi (come l’autore di questo libro) lavora con le parole e s’interroga su ciò che esse evocano, cercano, chiedono.

* * *

«Ho scritto un libro su Francis Bacon, ma pensando alla memoria involontaria di Proust, ai saggi di Georges Didi-Huberman e agli scritti di Lacan», ci ha spiegato Fabrizio Coscia. «Ho cercato insomma di ragionare attorno all’idea dell’immagine, a che cosa si nasconde dietro e oltre l’immagine e soprattutto al rapporto che ha uno scrittore con l’Immaginario. Il libro inizia infatti con un interrogativo: esiste una memoria di ciò che non è mai stato? È un modo per interrogarsi su ciò che teniamo sepolto dentro di noi e che prima o poi abbiamo il compito di scandagliare. E finisce con un ricordo d’infanzia personale che forse non è mai esistito. A fare da filo conduttore, un quadro di Bacon rimosso, un’immagine cancellata, dunque. Per questo il sottotitolo del libro è: sulle tracce di Francis Bacon. Perché è più che altro un pedinamento, un inseguimento. Ho cercato infatti di cogliere Bacon da una prospettiva molto personale, quella cioè di un critico, di uno scrittore che lavora con le parole e si confronta con un grande artista che lavora con le immagini.
Risultati immagini per fabrizio coscia letteratitudineQuello che mi ha sempre colpito in questo senso di Bacon è il suo rifiuto sia dell’illustrativo che dell’astratto, e dunque la sua ricerca di un modo diverso di rappresentare l’uomo e il corpo umano, con un linguaggio che elabora la lezione picassiana e cubista per proseguire in un modo personalissimo, che gli consente di far emergere tutte quelle forze, “energie”, che si nascondono dentro di noi e che tuttavia agiscono orientando la nostra vita: il desiderio, l’aggressività, l’eros, il dolore, le pulsioni di morte. In altre parole: le forze inconsce. Ora, che cosa ha a che vedere tutto questo con la scrittura? Parlando dei suoi trittici, Bacon disse: «Uno dei problemi è che appena metti più figure sulla stessa tela si sviluppa un racconto. E in quell’istante stesso, ecco la noia. Il racconto parla più forte della pittura». Si potrebbe affermare, allora, con altrettanta chiarezza, che il racconto parla più forte della letteratura? La letteratura dovrebbe avere allora il compito di smontare le storie, di deformarle, assemblarle, aprirle, scorticarle, per mostrare ciò che vi si nasconde dietro, per rendere visibile l’invisibile, proprio come Bacon faceva con l’illustrativo quando ritraeva la figura umana. Ecco, allora, che scrivere di Bacon è stato anche un modo, per me, di sfuggire alla dittatura del significato e della «storia», nel tentativo di attingere direttamente all’essenza dell’essere umano
».

* * *

Ma come nasce la collana «Parole dell’Arte»? E quali sono i suoi obiettivi?

«“Parole dell’Arte” nasce dall’esigenza – pienamente condivisa da Maddalena Winspeare, direttore editoriale della casa editrice Sillabe – di riportare in scaffale, attraverso un curatissimo formato tascabile e un prezzo più che abbordabile, l’arte contemporanea italiana e internazionale», ci ha spiegato Antonio Celano. «In altre parole, l’idea della collana prende il suo avvio dalla constatazione che l’Italia, nonostante una sua precisa tradizione in tal senso, attualmente manchi di una serie monografica autoriale sugli artisti contemporanei, vale a dire quelli che più hanno segnato, con la loro sensibilità, il secondo Novecento e questi due decenni del nuovo Millennio.
L’obiettivo è, dunque, quello di proporre – per un pubblico colto, ma molto ampio – una formula di reportage critico di impostazione giornalistica e letteraria capace di tradursi in un corpo a corpo tra l’autore e l’artista. Incontro che, come in un acceleratore di fasci di particelle, ci offra qualcosa di diverso sull’esperienza di un artista direttamente frequentato, amato o con cui si è potuto misurare lo scrittore/giornalista con lo stile e la sensibilità che gli sono propri.
Per sperare questo, a differenza di altri esperimenti editoriali, “Parole dell’Arte” lascia necessariamente più sullo sfondo le tecniche artistiche, così come lo sviluppo storico di correnti o gruppi, tentando di evitare, per altri versi, di ricadere nel solco di certa critica pittorica accademica o didascalica. In definitiva, privilegiando il ritratto vivo e la guida esperienziale e umana al pittore, la collana, nel suo insieme, vuole offrire, di volta in volta, la sorpresa dei risultati di ogni scelta combinatoria; scelta che, se disperde il dato enciclopedico di raccolta, ne esalta il momento collezionistico o di singola “chicca” preziosa da non perdere.
È toccato a Fabrizio Coscia inaugurare la collana mettendosi con il suo “Dipingere l’invisibile” – come recita il resto del titolo del suo lavoro – “sulle tracce di Francis Bacon” (80 pp., 10 €). A questo seguiranno, a stretto giro, i volumi dedicati ad Alexander Calder e a Giosetta Fioroni, rispettivamente firmati da Alessandro Zaccuri e Sandra Petrignani. E le sorprese non finiscono qui…»

* * *

Fabrizio Coscia (Napoli, 1967) è scrittore, docente, critico letterario e teatrale. Collabora al quotidiano «Il Mattino» e alla rivista «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il romanzo Notte abissina (Avagliano, 2006), la raccolta di saggi narrativi Soli eravamo e altre storie (ad est dell’equatore, 2015, tradotto in tedesco) e La bellezza che resta (Melville Edizioni, 2017, finalista al Premio Brancati 2017). È stato definito «uno dei critici e saggisti letterari più affascinanti di questi ultimi anni» (Massimo Onofri, «L’Avvenire»).

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NON SO PERCHÉ NON HO FATTO IL PITTORE di Alberto Moravia http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/03/23/non-so-perche-non-ho-fatto-il-pittore-di-alberto-moravia/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/03/23/non-so-perche-non-ho-fatto-il-pittore-di-alberto-moravia/#comments Fri, 23 Mar 2018 16:19:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7749 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Non so perchè non ho fatto il pittore. Scritti d’arte (1934-1990)” di Alberto Moravia (Bompiani).
Il volume è stato ottimamente curato da Alessandra Grandelis, che svolge la sua attività di ricerca all’università di Pavia, e offre vari scritti che permettono di comprendere come Moravia abbia contaminato arte e letteratura, letteratura e arte… con particolare riferimento al mondo della pittura.

Ne discutiamo con Alessandra Grandelis. In coda all’intervista (per gentile concessione dell’editore e degli eredi di Moravia) pubblichiamo un estratto del libro: uno scritto intitolato Rembrandt pittore dell’inquietudine

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Non so perchè non ho fatto il pittore. Scritti d’arte (1934-1990)” di Alberto Moravia (Bompiani, a cura di Alessandra Grandelis)

di Massimo Maugeri

- Cara Alessandra, partiamo dal titolo del libro: “Non so perché non ho fatto il pittore”. È una frase dello stesso Moravia che, in effetti, colpisce. Al di là di questa considerazione, perché hai scelto (o la casa editrice ha scelto) proprio questa frase come titolo del libro?
In molte occasioni Moravia ha dichiarato di preferire la pittura alla letteratura. Lo affascinava il mistero che circonda l’artista e la sua opera d’arte, l’impossibilità di spiegare la traduzione del pensiero in immagine. E quello del pittore gli appariva un mestiere più attraente anche per la sua dimensione artigianale, diversamente negata allo scrittore, impegnato a battagliare con le parole. Con questi presupposti “Non so perché non ho fatto il pittore” è parso da subito il titolo giusto per la raccolta dei testi d’argomento artistico: nella spontaneità dell’espressione sono racchiuse queste idee  alla base della fascinazione moraviana per l’arte.

- Da dove trae origine l’amore di Moravia per la pittura?
Di certo il fascino nasce in famiglia. Il padre era un architetto che si dedicava alla pittura come dilettante; ogni anno ritornava nella città natale, Venezia, per dipingerne le vedute che solitamente copiava prima di darle in dono. Non va nemmeno dimenticato che la sorella Adriana diventerà una pittrice affermata, il cui espressionismo ricorda l’arte di Matisse. È lo stesso Moravia a ricordare che da bambino, durante le vacanze familiari, trascorreva lunghe ore davanti alle tele presenti nel villino estivo a Viareggio: fantasticare sui soggetti mitologici dei quadri ha avuto una grande ripercussione sull’immaginario moraviano.

- Lo hai accennato anche tu: in varie occasioni Moravia sostiene di preferire la pittura alla letteratura. Sembrerebbe un paradosso. Potresti approfondire questo aspetto?
Oltre a quanto detto in precedenza, aggiungerei che Moravia attribuisce all’arte una caratteristica di grande valore: l’universalità. A differenza di quanto accade per la letteratura, secondo Moravia l’arte può essere compresa da tutti, da chi possiede gli strumenti per decrittarla e da chi ne è del tutto sprovvisto. Ciò significa considerare l’arte una forma di espressione capace di interagire con l’osservatore senza alcuna mediazione.

- Rimanendo sull’argomento, in altri casi Moravia teorizza una supremazia della pittura sulla letteratura (la prima rappresenterebbe meglio la storia artistica italiana). Cosa puoi dirci da questo punto di vista?
Semplicemente Moravia riteneva che alcuni Paesi fossero meglio rappresentati dalla letteratura, come nel caso della Francia, ed altri dalla pittura, come l’Italia. Ha sempre sostenuto che la cultura e la storia italiane vadano ricercate nell’arte e non altrove, perché le stagioni pittoriche che hanno visto protagonisti Piero della Francesca, Masaccio, Giotto, Giorgione non avrebbero corrispondenza in letteratura.
In generale è utile ricordare che nella sua attività giornalistica, nei suoi numerosi reportage, Moravia ricorre spesso all’arte per entrare nella storia di un Paese, per capirne aspetti altrimenti sfuggenti.

- Quali sono gli elementi dell’arte pittorica che hanno affascinato di più Moravia?
Come ho anticipato, Moravia valorizza l’aspetto misterioso e universale dell’arte, e insieme la sua polisemia, la capacità di andare ben oltre ciò che l’artista crede di avere espresso con la sua opera. Un quadro può conciliare le contraddizioni “senza sacrificarne alcuna”, catturando la complessità della vita. Inoltre nella collettività l’arte sa esprimere il represso sociale, come il sogno esprime l’inconscio del singolo: su questo concetto di evidente matrice freudiana si fonda l’interpretazione critica moraviana.

- Quali sono state le sue predilezioni? Chi sono stati i pittori che ha ammirato di più?
Sarebbero molti i nomi da fare. Al di là di quelli che ho già fatto (Piero della Francesca, Masaccio, Giotto), nel pantheon artistico di Moravia figurano tra gli altri i preraffaelliti, i surrealisti, Rembrandt, Van Gogh.

- Al di là dell’ammirazione, chi sono stati i pittori che ha frequentato di più e con cui si è sentito maggiormente in sintonia?
Pochi scrittori come Moravia si sono circondati di artisti appartenenti a diverse generazioni e a diverse correnti. A partire dagli anni Trenta, molti sono i pittori che frequenta e su cui scrive. Nel periodo della gioventù ricorderei Carlo Levi e soprattutto Renato Guttuso, a cui rimane sempre legato da una profonda amicizia. Negli anni Sessanta frequenta artisti come Cremonini, Recalcati, Schifano che Moravia ammira sia per la pittura sia per il carisma che li contraddistingue.

- In che modo la pittura entra nella scrittura di Moravia? Viene in mente il romanzo “La noia“…
La contaminazione con la scrittura avviene in molti modi, ma due sono i principali. Innanzittutto la pittura, e in generale le arti visive, entrano nella pagina in forma di citazioni, palesi e nascoste, in molti casi determinanti anche per la struttura del racconto e del romanzo. Inoltre la scrittura adotta le coordinate della pittura – lo spazio, la luce, il colore, la prospettiva – per la descrizione degli ambienti e dei personaggi. L’opera di Moravia è uno straordinario inventario di ritratti.
Tra i personaggi-pittori vanno certamente ricordati il protagonista e l’antagonista della Noia (1960): con grande acume e prima di altri, attraverso le figure di Dino, un astrattista, e del rivale Balestrieri, un figurativo, Moravia rappresenta la crisi dell’artista e dell’intellettuale dentro la trasformazione del miracolo economico.

- Approfondiamo la conoscenza  del libro dal punto di vista “strutturale”. Che tipo di criteri hai utilizzato nella scelta (e nell’ordine) dei testi da pubblicare?
Il volume raccoglie per la prima volta tutti i testi di Moravia rivolti alle arti visive. Questi sono ordinati cronologicamente in base alla data della prima uscita, riportata in calce a ogni scritto insieme alle successive riproposizioni. Ben si comprende come l’interesse per l’arte non si sia mai affievolito, dal 1934 al 1990, sino a pochi mesi prima della morte.

- Se tra i vari testi contenuti nel libro dovessi scegliere quello più “rappresentativo”, quale sceglieresti? E perché?
È molto difficile fare una scelta perché ogni testo ha un suo valore nella singolarità e nell’insieme. In questa occasione proporrei il primo testo, quello che Moravia dedica a Rembrandt nel 1934 dopo un viaggio in Olanda. Lo sceglierei per due motivi: esemplifica il modo con cui Moravia ricorre alla letteratura per decifrare l’arte; dimostra come sia possibile parlare della propria narrativa mediante la critica artistica. Attraverso le luci e le ombre di Rembrandt Moravia rinvia ai giochi chiaroscurali degli Indifferenti.

- Il volume contiene un importante corredo iconografico curato da Nour Melehi. Cosa puoi dirci da questo punto di vista?
Da subito si è pensato a un apparato iconografico per il volume. La curatrice, Nour Melehi, ha ben scelto di restituire con le immagini una rete di relazioni, l’“ambiente artistico” di Moravia. Le opere riprodotte sono suddivise in due blocchi cronologici – anni trenta-cinquanta e anni settanta ottanta – che identificano diversi momenti culturali e artistici, diverse frequentazioni. Guardando le opere, molte delle quali provengono dalla collezione di Casa Moravia, si ha la sensazione di entrare dentro il mondo artistico dello scrittore.

- Grazie mille, cara Alessandra.

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Estratto da Non so perchè non ho fatto il pittore. Scritti d’arte (1934-1990)” di Alberto Moravia (Bompiani, a cura di Alessandra Grandelis)

Rembrandt pittore dell’inquietudine

di Alberto Moravia

Alberto Moravia.jpgPuò darsi che sia ingiusto giudicare Rembrandt in termini che per comodità chiamerò letterari; e può anche darsi che ad uscire dal campo dell’indagine strettamente estetica si operi una confusione piuttosto che una chiarificazione. Ma il caso di Rembrandt è di quelli in cui questa confusione è necessaria e salutare perché corrisponde ad una confusione analoga nell’opera del pittore. Rembrandt non è infatti un pittore che si accontenti di trarre dalle sue riflessioni sulla vita soltanto dei pretesti per dipingere; né come accade per i primitivi italiani il sentimento religioso e morale si rasserena in lui in una narrazione distesa e ingenua. C’è invece in lui una curiosità, un’attesa, un’inquietudine messianiche di una profondità tutta sentimentale e fisica le quali come non sembrano accontentarsi nel campo morale della precettistica consacrata così nel campo pittorico non riescono mai a trovare figurazioni adeguate e definitive. In altri termini Rembrandt è per eccellenza il creatore senza catarsi e in questo senso potrebbe essere chiamato un romantico. Ma i romantici erano dei soggettivi e volentieri sacrificavano una realtà complessa e contradittoria all’espressione compiaciuta di un solo particolare, di un solo sentimento. In Rembrandt si notano invece, accanto ai più violenti sentimenti personali, un rispetto accanito e deliberato di ogni contraddizione, una perfetta onestà rappresentativa, una volontà insomma di non girare gli ostacoli, di non annullare i contrarii ma fonderli in una sola armonia; e questo è bene un assunto classico. Dal contrasto tra questo rigore del mestiere e il sentimento personale deriva la caratteristica maggiore di Rembrandt: d’essere insieme artista fantastico e realissimo, coi piedi ben fermi al suolo, l’occhio preciso, e l’attenzione studiosa e scaltra.
La capacità di Rembrandt di sdoppiarsi e decentrarsi pur mantenendosi dentro i limiti di un mondo concreto è sbalorditiva e non trova riscontro che fuori della pittura, nell’opera di un romanziere come Dostoevskij o di un tragico come Shakespeare. In tutti i suoi quadri i particolari fuggono dal centro e tendono a vivere di vita loro, ogni figura va per conto suo, nulla le accomuna all’infuori di un giuoco abilissimo di luci e di tenebre che stanno lì ad esprimere quel generale e inscrutabile mistero che avvolge le troppe diversità della vita. Già nella prima versione della Lezione di anatomia il personaggio che sta ritto in piedi accanto la tavola non ha nulla a che fare con l’esanime carogna umana ritratta alla maniera del Cristo del Mantegna, di scorcio, col capo scotennato chino e avvolto in un’ombra grigia, una caverna verdastra al posto del ventre, e i lividi piedi divaricati e inerti. Nulla lega il personaggio al cadavere, né misericordia né curiosità scientifica, da una certa malinconica pensosità degli sguardi pare che egli rivolga la mente a cose tutte diverse da quelle che gli stanno sotto gli occhi. Nella seconda Lezione di anatomia la luce lunare che investe il cadavere è ben diversa da quella calda e serena che batte sui visi dei medici, niente potrebbe essere più sconcertante del contrasto tra quelle figure vive e ilari disposte come quelle di un banchetto moderno di fronte all’obbiettivo del più banale e convenzionale dei fotografi e la spoglia verdognola dalle occhiaie piene di ombra e dal rosso braccio sparato. Ma questa capacità sdoppiatrice e centrifuga raggiunge la sua espressione massima e più scomoda nel gran quadro della Ronda di notte. Di fronte a questa tela affollata e disordinata si capisce la perplessità del Fromentin, scrittore e pittore romantico ma critico di gusti classici, il quale senza tante ambagi la giudica un’opera slegata, incerta, e nel complesso fallita. E veramente, a prima vista, si è quasi tentati di dargli ragione tanta è l’incoerenza tumultuosa dei particolari, l’arbitrio dell’illuminazione, la maniera urtante e ingiustificata con la quale sono disposte le figure. Il quadro manca di centro, la soglia è nell’ombra, i due personaggi principali sono illuminati di sotto in su come dal fuoco di una ribalta, ci si aspetterebbe che l’oscurità riavvolgesse alle spalle di questi due personaggi tutto il rimanente del quadro, e invece, vista quanto mai strana, a sinistra dietro il capitano della ronda, avvolta in una luce folgorante e aurea, passa una figuretta puerile con una lanterna in mano e un pollo legato per le zampe alla cintura. Tutt’intorno questa immagine che col suo splendore rende il quadro singolarmente squilibrato e asimmetrico, le altre figure dei soldati sembrano, attraverso l’oscurità rossastra, voler uscire dai limiti stessi della cornice, noncuranti di ogni specie di rapporti coi capitani e con la personcina del pollo. Dicono che questo disordine sia destinato a dare l’impressione del trambusto di un allarme notturno in una piccola città. Quest’impressione c’è; come anche, con tante picche, tanti vessilli e tamburi, non si sa che tono strenuo e guerriero che ha fatto soprannominare il quadro una Marcia eroica; ma ciò non toglie che altri pittori hanno dato il senso della confusione marziale in ben altro modo, si pensi per esempio a Paolo Uccello, e che quell’accozzare insieme elementi eterogenei come i soldati e la figuretta del pollo, quel dare ad ogni personaggio una direzione diversa, quell’accendere luci dove dovrebbero essere ombre e viceversa è una caratteristica costante di Rembrandt.
Rembrandt è il pittore della speranza e della riverenza di fronte al mistero. La maniera insieme attonita e avida con la quale nell’acquaforte famosa Faust vegliardo si leva pian piano dalla tavola a guardare l’insegna diabolica che risplende nella vetrata della finestra, rende da sola, e meglio che tutto il poema di Goethe, l’ansietà di palingenesi che torna a rinascere nell’uomo stanco e deluso. Altrove, nelle pitture e nelle acqueforti di argomento religioso questa speranza e questa riverenza si vedono chiaramente nelle tenebre fitte in fondo alle quali, abbaglianti di fulgore bianco, vagiscono e si dibattono i suoi brutti e umanissimi Gesù Bambini; nei vecchioni ammantati di magnifiche zimarre e sormontati di turbanti orientali che chinano le facce barbute su quel fulgore; nelle volte dorate e altissime che si intravvedono nell’ombra dietro quei personaggi. E a questo punto giova notare che il chiaroscuro di Rembrandt è assai diverso da quello poniamo di Caravaggio. Nel pittore italiano le luci e le ombre sono disposte con freddezza consapevole e sperimentale e si sente che le figure potrebbero benissimo svestirsi delle tenebre che le avvolgono; in Rembrandt invece il buio è caldo, grasso, ricco di riflessi rossastri e dorati.
E, finalmente, Rembrandt è il pittore di un certo tipo di donna nella quale la bruttezza vergognosa, e talvolta persino sordida, è corretta dalla patetica tenerezza propria alle creature infelici. Le donne di Rembrandt hanno visi grossolani, seni penzolanti, ventri gonfi, natiche scure e informi, gambe tozze, ma sono atteggiate come se fossero bellissime, e nei loro volti c’è altrettanto pudore e altrettanta civetteria che nelle dee di Tiziano o di Palma. Stanno accovacciate presso bacini pieni di acqua sporca o sopra giacigli impuri, ma non c’è dubbio che siano ritratte con una sensualità precisa e perfettamente consapevole dei propri gusti. Sono donne quali le poteva immaginare un uomo lontano dai concetti classici e fortemente impastoiato nel terrore della colpa e della perdizione.
È oltremodo difficile dare una definizione esauriente di Rembrandt e della sua arte. Chiamarlo il pittore del chiaroscuro è ingiusto, tutti i suoi ultimi quadri sono in piena luce, e la ricchissima materia come qualche minerale prezioso a lungo giaciuto sottoterra e finalmente riscavato s’è liberata d’ogni nerume e non si giova d’altri contrasti che di quelli tra un volume e un altro, tra una faccetta di colore e un’altra. Perciò, dopo avere indicati i tratti essenziali e contradittorii della sua personalità bisogna dire che essa sfugge all’indagine critica come probabilmente sfuggiva a lui stesso. Pochi pittori infatti si sono autoritrattati quanto Rembrandt. Ma non v’è traccia nei suoi autoritratti del narcisismo esteriore che si nota per esempio negli autoritratti di Caravaggio o di Courbet. Ci sono invece una curiosità ansiosa, un dubbio malinconico, fin troppo immuni di qualsiasi compiacimento. Sono gli autoritratti di un uomo che sta solo davanti allo specchio, e tenta ogni via per conoscersi. L’ultimo di questi autoritratti, fatto poco tempo prima della morte, insieme con una furia pittorica straordinaria attesta questa inquietudine: vi si vede Rembrandt coi riccioli incanutiti e il viso arrossato e indurito dalla robusta vecchiaia. L’esame del quadro rivela una materia di una eccezionale complessità ora fluida ora raggrumata, intrisa di luce, violentemente plastica e voluminosa, la medesima, seppure più ricca, delle prime opere. E negli occhi e nella espressione del viso la medesima insoddisfatta domanda.

[Rembrandt pittore dell’inquietudine, “Gazzetta del Popolo”, 8 settembre 1934, p. 3]

(Riproduzione riservata)

© Bompiani – Gruppo Giunti Editore

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La scheda del libro

Scritti che permettono di comprendere come l’autore contamini arte e letteratura, letteratura e arte, tra potenzialità e limiti, allusioni, rimandi cifrati e dichiarati, capacità iconica di una lingua che rivaleggia con le altre arti nella rappresenzatazione del mondo

Alberto Moravia ha sempre dichiarato di preferire la pittura alla letteratura perché fatta di «colori e di forme» e non di un continuo «battagliare con le parole». Per questo motivo si circonda di artisti e per tutta la vita si dedica all’arte, come appassionato e come scrittore. Questo volume raccoglie per la prima volta la copiosa e pregevole produzione di argomento artistico: novanta testi, scritti tra il 1934 e il 1990, testimoniano l’interesse che Moravia ha sempre coltivato tanto per i classici quanto per i contemporanei e il suo sguardo acuto nei confronti dell’arte, attraverso cui parlare anche di letteratura e del mondo. L’introduzione di Alessandra Grandelis ricostruisce la formazione artistica di Moravia, i suoi legami, rievoca gli ambienti frequentati da pittori e scrittori e svela le costanti critiche e tematiche di questo saggismo da considerarsi parte integrante dell’opera. La raccolta è accompagnata da un apparato iconografico che propone una scelta delle opere prese in esame e alcune fotografie che illustrano il rapporto di Moravia con gli artisti.

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© Letteratitudine

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LA BELLEZZA CHE RESTA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/05/13/la-bellezza-che-resta/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/05/13/la-bellezza-che-resta/#comments Sat, 13 May 2017 08:55:46 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7499 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato alla nuova opera di Fabrizio Coscia intitolata “La bellezza che resta” (Melville)

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di Massimo Maugeri

Fabrizio Coscia (Napoli, 1967), scrittore, docente, critico letterario e teatrale è già stato ospite di questa rubrica con il volume SOLI ERAVAMO e altre storie (ad est dell’equatore). Torno ad ospitarlo con grande piacere per discutere della sua nuova opera intitolata “La bellezza che resta“, pubblicata da Melville edizioni nella collana Gli impossibili diretta da Andrea Caterini (anche lui, di recente, nostro gradito ospite con “La preghiera della letteratura“, edito da Fazi). In fondo alla pagina potrete leggere il testo della bandella del libro firmata dallo stesso Caterini. Qui di seguito, invece, vi propongo questa “chiacchierata online” con l’autore…

- Caro Fabrizio, partiamo dall’inizio… ovvero dalla genesi di questa tua opera. Nei “ringraziamenti” scrivi: “Questo libro non sarebbe mai stato scritto se Andrea Caterini non mi avesse proposto di lavorare a un saggio su Tolstoj“.
Come si è sviluppato il passaggio dalla elaborazione di questo saggio su Tolstoj al concepimento di “La bellezza che resta”?
«In effetti all’inizio la prospettiva di scrivere un saggio su Tolstoj, come mi aveva chiesto Andrea Caterini, mi ha affascinato ma anche terrorizzato non poco. Ho scelto allora di concentrarmi sull’ultimo Tolstoj, e in maniera ancora più circoscritta sul suo ultimo romanzo, uno dei suoi capolavori meno conosciuti, che è Chadži-Murat. Pensavo, cioè, che restringere il campo d’indagine potesse aiutarmi a non perdermi del tutto. Ma poi, come mi capita spesso, mi sono lasciato cogliere dal «demone dell’analogia» e dalla mia passione per le divagazioni, e così ho cominciato a riflettere sulle “opere ultime” dei grandi artisti, e su quale fosse il significato più profondo di un libro, un quadro, una musica, un’opera teatrale composti in prossimità della morte e nella consapevolezza di questa prossimità. Ho cercato, cioè, di penetrare nel significato di alcuni grandi capolavori, ma con molta umiltà, quasi in punta di piedi, per così dire. Così il mio saggio su Tolstoj è diventato alla fine qualcosa di molto diverso, e allora ho capito che era proprio questo “qualcosa di molto diverso” che mi era stato chiesto fin dall’inizio».

- Come epigrafe del libro hai scelto questa citazione di Joyce “sul padre” (da Finnegans Wake). La riporto di seguito. «I go back to you, my cold father, my cold mad father, my cold mad feary father».
Perché questa scelta? E perché hai voluto riportare la frase in originale (senza la traduzione in italiano)?
«È un brevissimo frammento ripreso dal monologo finale di Anna Livia Plurabelle, che è una delle cose più belle che Joyce abbia scritto. L’ho scelto come epigrafe perché si accenna a un desiderio di ricongiungimento con un padre morto. È un sentimento molto forte, straziante direi, che mi è capitato di provare. Mi è parso, in realtà, che la frase rendesse bene il senso più intimo del mio libro, dal momento che il suo nucleo narrativo è proprio la morte di mio padre e il mio ritorno a lui, la mia riconciliazione tardiva. La scelta di lasciare la citazione in originale è dovuta semplicemente al fatto che non volevo tradirne la bellezza musicale, che come capita spesso in Joyce è prosa che si trasforma in pura poesia».

- Proviamo a scorrere insieme le pagine di “La bellezza che resta” senza rivelare troppo, ma cercando di offrire qualche suggestione capace di incuriosire i lettori di questa intervista. Partiamo dal già citato Chadži-Murat. Cosa puoi dirci su questo libro e sull’ultimo Tolstoj?
«È un romanzo breve di rara potenza. È un libro omerico e shakespeariano insieme, con il quale il vecchio Tolstoj tacitava, in un ultimo empito creativo vitalissimo, tutte le sue teorie religiose e predicatorie sull’arte che andava formulando in quegli anni. Era il suo genio, il suo daimon che si ribellava al moralista che era diventato. La vera tragedia della vita di Tolstoj è stata proprio questa: il fatto che negli ultimi anni il vecchio conte avesse rinnegato la sua arte in nome di un Bene astratto: una conversione religiosa che io nel libro interpreto come una vera e propria forma di nevrosi, una scissione quasi schizofrenica, che condurrà Tolstoj alla drammatica fuga finale, per finire i suoi giorni nella piccola stazione ferroviaria di Astapovo. Il tema della fuga, del resto, percorre tutta l’opera di Tolstoj e soprattutto Chadži-Murat il cui protagonista è davvero una figura inafferrabile. La prima volta che mi sono imbattuto nel titolo di questo libro fu in un articolo di Evgenij Evtušenko su «La Repubblica», intitolato Il perdono è impossibile, che parlava della terribile strage di Beslan, che nel settembre del 2004 costò la vita a 334 persone, tra cui 186 bambini. Il poeta russo scriveva una frase che colpì la mia attenzione: «Se il presidente Eltsin avesse letto Chadži-Murat di Tolstoj è assai improbabile che si sarebbe imbarcato in un conflitto coi ceceni». Quel libro io non lo avevo letto, così feci una rapida ricerca e scoprii che Tolstoj lo aveva scritto negli ultimi anni della sua vita, e che era stato pubblicato postumo, nel 1912. E scoprii anche che il protagonista era un guerrigliero àvaro, un eroe della resistenza antirussa durante la guerra nel Caucaso, uno dei personaggi più seducenti che Tolstoj abbia mai creato. Ma la domanda che ho continuato a pormi durante la lettura del libro, riandando alla frase di Evtušenko, era questa: un libro, un’opera d’arte in generale, per quanto grande e importante, può mai davvero mutare il corso della Storia, evitarne il Male? Ed è anche una delle tante domande che percorrono il mio libro, che inizia proprio dalla strage di Beslan e dalla mia scoperta del romanzo di Tolstoj».

- Le bagnanti è il titolo dell’ultimo quadro di Renoir. L’artista lo dipinge con le mani devastate dall’artrite. Particolare, questo, particolarmente suggestivo e commovente…
http://i.ytimg.com/vi/w9LsHDqQg-w/hqdefault.jpg«Commovente, davvero. Renoir acquistò una tenuta a Cagnes-sur-Mer, in Provenza, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, intento a dipingere fino all’ultimo giorno. La sua vecchiaia si consumò tra l’eden del suo giardino di ulivi e l’inferno della malattia, che però non riuscì mai a domare l’istinto vitale dell’artista. Come racconto nel mio libro, aveva le mani rattrappite e la pelle così sensibile che il minimo contatto del legno del pennello gli procurava ferite. Per evitare questo inconveniente si faceva fasciare la mano con un pezzo di tela sottile e abbrancava il pennello con le sue dita deformate, tra il pollice e l’indice. Fu in queste condizioni che tra il 1918 e il 1919 il pittore quasi ottantenne, vedovo, immobilizzato e tormentato dai dolori, realizzò il suo capolavoro, Le bagnanti, spinto dalla folgorazione amorosa per una giovane modella di sedici anni, Andrée Heuschling. Ogni mattino, alle nove, Renoir già fremeva d’impazienza al pensiero di Andrée che lo stava aspettando, pronta a mettersi nuda in mezzo all’erba dai mille colori, e rimproverava Louise, la fedele governante, perché ci impiegava troppo tempo a medicargli e fasciargli le piaghe che aveva alle mani e sul corpo. Si creò, così, una sorprendente complicità tra il paesaggio, la ragazza e il pittore, una sorta di ebbrezza erotica e panica. Quando Henri Matisse, una volta gli chiese perché si ostinasse a dipingere quel quadro nonostante le sofferenze fisiche che gli procurava, Renoir rispose: «Perché il dolore passa, ma la bellezza resta»

- Cosa puoi rivelarci, invece, in merito alle tue riflessioni sull’ultimo lavoro di  Sigmund Freud (L’uomo Mosè, 1938) scritto dal padre della psicoanalisi mentre deve fare i conti con gli esiti del cancro?
«È un’opera fondamentale, anomala, unica nel suo genere. Non c’è dubbio che Freud l’abbia scritta come un testamento. Ha, in effetti, la libertà e la sfrontatezza di un’opera estrema, che non fa nulla per nascondere le proprie contraddizioni. Freud stesso paragonò la sua scrittura a «una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». Ed anche quest’opera, come Le bagnanti, fu elaborata in una condizione di sofferenza fisica intollerabile. Freud vi riprende la tesi, diffusa alla fine del XVIII secolo, che Mosè non fosse ebreo, ma un nobile egiziano, un dignitario del faraone Ameno IV e seguace della sua religione monoteista votata al culto del dio Atòn, che spinse gli ebrei a liberarsi dalla prigionia egiziana e a convertirsi a questa nuova religione. Gli stessi ebrei, poi, avrebbero rifiutato il suo rigido monoteismo, e per questo uccisero Mosè. Freud ripropone dunque il tema del parricidio collettivo che aveva già affrontato in Totem e tabù, ma quello che mi ha colpito è l’analogia con il Chadži-Murat di Tolstoj: sono due romanzi storici, perché in effetti così stranamente Freud definisce il suo saggio, e in entrambi i casi il protagonista è uno straniero che si mette al servizio di un popolo nemico, che finirà poi per ammazzarlo. Perché i due grandi vecchi, poco prima di morire, dedicano gli ultimi anni della loro vita a scrivere il racconto di un eroe straniero vittima di un omicidio collettivo? Forse ci volevano suggerire un’ultima resa dei conti con il conflitto edipico, una proposta di tregua, di ricomposizione con la figura del Padre? Anche queste sono domande che percorrono il mio libro e alle quali cerco di dare una risposta».

-Ci offriresti qualche suggestione sugli altri artisti che hai tratteggiato tra le pagine di questo tuo libro: Leopardi, Simone Weil, Keats, Strauss, Frida Kahlo. C’è qualche elemento che accomuna queste opere, pur diverse, su cui hai avuto modo di riflettere tra le pagine di “La bellezza che resta”?
Sono tutti artisti che compongono le loro ultime opere assediati dalla sofferenza fisica, dalla malattia, dal dolore, e che tuttavia sono capaci di donarci la bellezza. Il tramonto della luna di Leopardi e quello del sole dell’ultimo Lied di Strauss hanno in comune il fatto che ci indicano entrambe una luce dopo il buio, il fatto cioè che per l’artista la morte non esiste se non in quanto trasfigurazione. Allo stesso modo Simone Weil, provata dalle innumerevoli e prolungate privazioni che si è imposta per essere vicina alle condizioni di vita dei derelitti, dal suo letto del sanatorio di Ashford, fuori Londra, prima di morire aveva scritto una lettera ai suoi genitori descrivendogli i ciliegi che vedeva attraverso i vetri della finestra con i frutti appena sbocciati sui rami, e invitandoli a non essere «ingrati verso le cose belle» e a pensare sempre che lei sarà dovunque ci sia una cosa bella. Frida Kahlo, col corpo martoriato dagli interventi chirurgici dipinge nel suo ultimo quadro uno squillante e colorato inno alla vita, ritraendo dei cocomeri rossi. E così via. Questo ci fa capire che esiste nell’arte una forza vitale, una tensione conoscitiva superiore. Certo, non tutta l’arte è consolatoria. Ci sono artisti che restano irriconciliati con la vita e il mondo anche nelle loro opere ultime. Penso agli ultimi quartetti d’archi di Beethoven, ad esempio, o all’ultimo spettacolo del regista polacco Tadeusz Kantor, di cui parlo nel mio libro. La verità è che l’arte è ferita o balsamo, e a volte entrambe le cose insieme.

- La bellezza e l’opera d’arte possono essere considerati alla stregua di “baluardi contro la morte”? Se sì, fino a che punto? E cosa è necessario che accada affinché questi “baluardi” possano essere particolarmente efficaci e resistenti (soprattutto contro l’erosione della memoria determinata dal tempo che passa)?
Non credo che si tratti di difendersi dalla morte con l’arte. Piuttosto direi che l’arte aiuta a «familiarizzarsi con la necessità di morire», come scrive Freud, suggerendoci la via per la «saggezza eterna». Inoltre bisogna intendersi bene anche sul concetto di bellezza. Prendiamo Dostoevskij, ad esempio. Per il principe Myskin la bellezza è un enigma, e nei Fratelli Karamazov viene definita addirittura «una cosa spaventosa e terribile». Niente a che vedere dunque con l’armonia, con l’estetica, né tanto meno con la nostra idea corrente di bellezza. È, piuttosto, qualcosa di apocalittico, nel senso etimologico del termine, inteso come «disvelamento»: mostra, cioè, quel che se ne sta nascosto, e può portare anche uno sconvolgimento, una tempesta. La bellezza in arte non è altro, allora, che quella identificazione platonica con la verità di cui parla anche Keats nella sua Ode su un’urna greca. Una verità che solo il genio artistico ci può rivelare. E se la bellezza è la verità non può temere il passare del tempo.

- Nel libro racconti anche gli ultimi giorni di vita di tuo padre. Cosa ha significato per te “cimentarti” con questa parte del libro?
È la parte in cui ho cercato di andare più a fondo nei miei sentimenti, di analizzarmi confrontandomi direttamente con «il fantasma irrequieto» che ogni tanto torna a visitarmi, proprio come lo spettro del padre di Amleto. Probabilmente ho scritto il libro solo per questo e per nessun altro altro motivo. Come mai, allora, ho scelto di parlare della morte di mio padre, associandola a questo percorso tra le opere ultime dei grandi artisti, come tutti quelli che abbiamo citato, ai quali dobbiamo aggiungere però anche il Sofocle dell’«Edipo a Colono», il Glenn Gould delle «Variazioni Goldberg», il Kavafis di «Miris», il Čechov del «Giardino dei ciliegi», e ancora Proust, Bergman, Wallace Stevens e altri ancora? Mio padre non è stato un artista, né un genio. Ha vissuto in maniera modesta una vita modesta da impiegato. E tuttavia, come ogni padre, nel bene o nel male, ha lasciato un’eredità d’affetti. In fondo il vero tema del mio libro è proprio questo: l’eredità, ovvero ciò che lasciamo agli altri quando ce ne andiamo, e quello che riceviamo dagli altri quando restiamo. Ecco, la sostanza etica de “La bellezza che resta” è tutta in questo interrogarmi sul passaggio tra chi se ne va e chi resta. Simone Weil dice che la morte «per chi ha vissuto come si conviene» è un momento di verità «pura». Ho cercato di capire allora che cosa voglia dire, per tutti noi, vivere come si conviene. Non so se sono riuscito a trovare una risposta, ma so che già porsi la domanda con serietà può rendere la nostra vita più degna di essere vissuta».

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La nota al libro (firmata da Andrea Caterini)

“‘La bellezza che resta’ è una riflessione sull’opera d’arte alla fine di una vita. Cosa esattamente rappresenta per un autore la sua ultima opera? Tolstoj scrive fino al termine dei suoi giorni un romanzo, Chadzi-Murat, ridando voce al suo talento artistico e creativo, nonostante ormai da anni rinnegasse il proprio genio a favore di una moralistica idea di bene. Un romanzo che il russo mai si decise a pubblicare e che uscì soltanto postumo. Tolstoj però, è solamente il primo di una serie di ritratti che definiscono il percorso e la visione che Fabrizio Coscia segue come rincorrendo un significato, una ragione, una luce difficilmente afferrabile ed esprimibile. Scopriamo l’ultimo quadro di Renoir, Le bagnanti, dipinto quando il maestro ha le mani rattrappite dall’artrite e che realizza come fosse l’estremo gesto di vitalità e adesione alla bellezza. È il libro testamentario del padre della psicanalisi, Sigmund Freud, che elabora, nel 1938, L’uomo Mose, che ha «la libertà, la sfrontatezza, la temerarietà di un’opera estrema», tornando a dare voce alla teoria del parricidio, ma affrontata qui in chiave religiosa, proprio quando il suo «vecchio caro cancro», come scrive egli stesso della propria malattia in una lettera, gli ha già assalito il corpo. Ma si potrebbero citare altri profili presenti nel libro: Leopardi nei suoi ultimi giorni napoletani; l’ultima lettera di Simone Weil ai genitori, nella quale li invita a vedere nelle cose belle del mondo anche il suo volto; la poesia Ode a un usignolo, in cui Keats «agogna la morte»; ancora l’ultima composizione di Richard Strauss, i Lieder; in ultimo, il definitivo quadro di Frida Kahlo, Viva la vida, forse il suo più originale autoritratto – una composizione vivacissima di angurie. Sono ritratti di artisti che, osservando la morte, non rinnegano ciò in cui fino a quel momento hanno creduto, restando fedeli a loro stessi, a ciò che è di loro stessi la parte più vera: la loro opera. Eppure, l’aspetto maggiormente significativo del libro è quello autobiografico. L’autore racconta gli ultimi giorni di suo padre, e sono pagine commoventi che restituiscono un senso non soltanto all’intero libro – evidenziandone la necessità che lo sottende -, ma a un’esistenza intera. Fabrizio Coscia, consapevole di quanto l’arte sia profondamente radicata nella nostra vita, ha scritto un libro che, proprio per la sua (mai esibita) intimità, riguarda noi tutti.”

(Andrea Caterini)

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Grazia DELEDDA. I luoghi, gli amori, le opere http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/04/11/grazia-deledda-i-luoghi-gli-amori-le-opere/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/04/11/grazia-deledda-i-luoghi-gli-amori-le-opere/#comments Tue, 11 Apr 2017 17:00:48 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7488 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al saggio di Rossana Dedola intitolato “Grazia Deledda. I luoghi, gli amori, le opere” (Avagliano). Di seguito, l’intervista all’autrice a cura di Simona Lo Iacono

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di Simona Lo Iacono

Una Grazia Deledda inedita: donna, letterata, moglie. Uno squarcio sull’origine della sua potente vocazione letteraria, sui suoi rapporti difficili con Luigi Pirandello, sul giovanile innamoramento per Stanis Manca e l’incontro con Palmiro Madesani, che diventerà suo marito e, in un certo senso, il suo agente letterario.
L’ultimo saggio di Rossana Dedola, ricercatrice alla scuola Normale di Pisa, docente presso l’International School of Analythical Psychology di Zurigo, trasporta in lettore nel cuore della vita della scrittrice e nell’incanto dei paesaggi della sua terra d’origine, la Sardegna, mai dimenticata.

Chiedo quindi all’autrice di tratteggiare la Grazia Deledda donna, madre, moglie, che il suo saggio “GRAZIA DELEDDA, I luoghi gli amori le opere” (Avagliano editore), rivela in tutta la sua potenza.
Chi è Grazia Deledda?
Una prima testimonianza della sua precoce vocazione letteraria e della sua personalità complessa e fuori del comune ci viene offerta dalle letterine che scrisse quando aveva appena tredici anni a un’amichetta di Olzai, figlia di suo padrino, le dispiaceva che  l’intervallo che accompagnava le risposte fosse così lungo e   aveva sospettato che nel paesino fosse “serpeggiato” il colera. È la prima di una lunghissima serie di lettere che la accompagnarono per tutta la vita. Soprattutto durante la giovinezza le lettere le permisero di confrontarsi con interlocutori diversi e le permisero di compiere un vero  esercizio letterario, ma furono anche un luogo in cui potè esprime i propri sogni e la propria vocazione artistica.
Sin da giovanissima aveva scoperto la lettura e la scrittura come esperienze fondamentali della propria vita e non le abbandonò mai, anche se non era una scelta facile, soprattutto a Nuoro, dove la quasi totalità delle donne era analfabeta  e questa attività non solo non era apprezzata, ma veniva condannata apertamente. Riuscì a superare anche altre difficoltà: aveva frequentato solo la quarta elementare e doveva utilizzare  una lingua che non era la sua lingua madre, e vari drammi si susseguirono in famiglia durante l’infanzia e la giovinezza. Il dolore attraversò la sua vita, ma non si arrese mai. Alla fine della vita quando il musicista Gavino Gabriel che era anche il direttore della Discoteca di stato le chiese di registrare una breve testimonianza sulla sua vita dichiarò che come donna aveva avuto tutto dalla vita. Eppure sapeva già di essere gravemente malata.
Hanno giudicato la sua forza come “virile”, io preferisco parlare di “resilienza”, la capacità di opporsi ai colpi del destino senza spezzarsi. In questo fu aiutata anche da un senso dell’umorismo che si rafforzò grazie alla vicinanza del marito Palmiro che era solito organizzare scampagnate nei dintorni di Roma con ospiti e amici mai senza far mancare buone bottiglie di vino.

Nel saggio trovano voce 86 lettere e cartoline postali inedite della Deledda, ritrovate presso alcune biblioteche europee. Cosa ci raccontano questi carteggi?
rossana dedola 1La scoperta delle lettere inedite di Grazia Deledda a Zurigo, Vienna e Weimar mi ha dato una grande gioia e una grande soddisfazione, le lettere a questi interlocutori stranieri dimostravano ulteriormente  il grande apprezzamento da parte di studiosi stranieri della sua arte, la stima con cui la seguivano e l’interesse che i suoi romanzi avevano suscitato al di fuori dei confini italiani. Credo che per Grazia sia stato molto importante questo sostegno che spesso non ebbe in patria.  Soprattutto le lettere a Justine Rodenberg mi hanno permesso di seguire il suo lavoro letterario dall’interno, comunicava infatti all’amica, che era la moglie di Julius Rodenberg, direttore della Deutsche Rundschau, la più importante rivista letteraria dell’epoca in Germania, a che punto era con la scrittura, oppure che romanzo aveva in mente di scrivere  in quel momento. È stato straordinario poter seguire così da vicino il processo della scrittura.

Il profondo legame di Grazia Deledda con la propria terra e con la famiglia d’origine sembra essere alla base di tutta la sua vocazione letteraria, ma i suoi libri hanno al contempo la solennità e la grandezza dei grandi romanzi europei, di cui peraltro la Deledda era profonda conoscitrice. La biblioteca delle sorelle Deledda, infatti, rimasta pressocchè intatta sino ai giorni nostri nella casa delle nipoti, rivela quanto vasta fosse la conoscenza della letteratura da parte di Grazia. Qual è dunque il rapporto tra questi due grandi poli della sua vocazione: il mondo sardo da un lato, il grande esempio dei classici della letteratura dall’altro?
La Sardegna è stata una continua fonte di ispirazione anche grazie allo strettissimo legame che sentiva con la natura e il paesaggio che la circondavano, alle usanze e ai costumi millenari con cui era stata in contatto sin da piccolissima. Come le fu riconosciuto durante l’assegnazione del premio Nobel, riuscì a portare alla ribalta del mondo un’isola del Mediterraneo che era pressoché sconosciuta e attraverso i suoi romanzi la Sardegna cominciò a raccontarsi al mondo.
Nella biblioteca della famiglia Deledda abbiamo ritrovato romanzi di Thomas Hardy, Selma Lagerlöf, persino l’indiano Tagore, mondi lontani ma anche molto vicini, con le loro credenze, le loro creature mostruose o magiche, le loro divinità. Ma Grazia leggeva anche Thomas Mann, Kipling, Konrad, Palazzeschi, Renan.
Ma non c’è solo la Sardegna: ogni esperienza della sua vita trova spazio nella sua ispirazione letteraria, il paesaggio sulle rive del Po accanto a Cicognara che visitava quasi tutti gli anni con il marito e figli, Cervia, la Romagna e il mare Adriatico dove trascorse bellissime giornate insieme con la nipotina Mirella, divenuta quasi sua figlia d’adozione. Ne parlò in suoi romanzi poco conosciuti e molto belli, Il segreto dell’uomo solitario, Annalena Bilsini, Fuga in Egitto e in tanti racconti.

Infine, la Roma dei primi del ‘900, la prima guerra, l’avvento di Mussolini. Qual è l’impatto degli eventi storici sulla narrativa della scrittrice?
Ho ritrovato da poco l’atto di nascita del primo figlio Sardus Angelo che nacque a Roma proprio il primo anno in cui si trasferì nella capitale con il nome della levatrice che l’aiutò nel parto. L’arrivo a Roma fu segnato da grandi cambiamenti, la nuova vita familiare, la nascita dei figli, e anche nuove esperienze in campo narrativo. Con Nostalgie, il primo romanzo ambientato a Roma, decise di allontanarsi dalla Sardegna per descrivere la vita nella grande città e nella Bassa Padana. È un romanzo molto interessante che fu  apprezzato all’estero, ma che fu stroncato in Italia da Ugo Ojetti che scese violentemente sul piano personale criticando aspramente la scrittrice perché era moglie di un impiegato statale. Seguì poi l’attacco micidiale di Pirandello che prese come modello Palmiro Madesani per il suo romanzo Suo marito. Probabilmente anche grazie al crescente successo ottenuto soprattutto all’estero, Grazia riuscì con grande forza a parare i colpi.
Rispetto al regime fascista bisogna riconoscere fu in grado di non farsi coinvolgere nelle sue spire, come invece fecero tanti altri intellettuali dell’epoca, tra cui proprio Ojetti e Pirandello. Non fece apertamente nessuna lode a Mussolini, nemmeno in occasione del premio Nobel e questo le causò un calo immediato nelle vendite. Il Libro della Terza classe che le fu commissionato direttamente dal regime fascista è sicuramente la sua opera più brutta e noiosa, ma si sa che aveva difficoltà a scrivere su commissione. Quando fu ricevuta ufficialmente dal Duce dopo il Nobel e lui le chiese se poteva fare qualcosa per lei, gli domandò di far tornare dal confino il nuovo proprietario della sua casa di Nuoro, che appena libero la andò subito a trovare sbalordito per quanto gli era successo. Ma Grazia non gli rivelò che era stato merito suo.


Grazie delle cortesi risposte e complimenti per la bellezza di questo saggio, che fa rivivere e dà corpo e profumo a Grazia Deledda.

* * *

La scheda del libro

Attraverso una narrazione avvincente, questo libro racconta la vita di una grande scrittrice e la fortissima vocazione artistica che la portò a vincere meritatamente il premio Nobel. Il ritrovamento presso biblioteche europee di 86 lettere e cartoline postali inedite di Grazia Deledda, una addirittura in inglese – delle quali il libro propone per la prima volta una selezione – apre una nuova prospettiva sulla sua biografia mostrando l’intenso rapporto intellettuale con interlocutori stranieri entusiasti di scoprire un’isola del Mediterraneo ancora sconosciuta, la Sardegna. I vari momenti della sua esistenza, dal difficile rapporto con Luigi Pirandello, all’amore di Emilio Cecchi, all’amicizia per Marino Moretti e il giovanile innamoramento per Stanis Manca, che le lasciò in ricordo una profonda ferita, fino all’incontro con Palmiro Madesani che diventerà suo marito e, in un certo senso, il suo agente letterario, vengono collocati in un contesto storico, artistico e culturale che si anima di molti altri personaggi: il traduttore francese Hèrelle, Giovanni Cena e Sibilla Aleramo, Angelo Celli e sua moglie, De Pisis, Balla, Boccioni e Biasi e molti altri ancora. Nel carteggio ritroviamo le letterine di Sardus bambino e con esse ci immergiamo nella vita famigliare. Attraversiamo paesaggi sardi con alberi millenari e Tombe dei Giganti, partecipiamo a rituali di antichissima tradizione, ci inoltriamo sulle sponde del Po e tra le dune dell’Adriatico. Riviviamo la Roma del primo Novecento, i luoghi e le case in cui ha abitato. La ritrovata vicinanza con la famiglia di origine, ricca di intrecci che riportano costantemente la memoria alla casa paterna e alla lingua materna mai dimenticate, è messa in luce da un’altra scoperta: quella della biblioteca delle sorelle Deledda, rimasta pressoché intatta sino ai nostri giorni nella casa dei nipoti, che ci rivela quanto Grazia Deledda fosse profonda lettrice dei grandi romanzi europei.

* * *

Rossana Dedola è ricercatrice alla Scuola Normale Superiore di Pisa, è analista didatta, supervisore e docente presso l’International School of Analythical Psychology di Zurigo. e l’Istituto C.G. Jung. Ha pubblicato, tra gli altri, Pinocchio e Collodi (Bruno Mondadori 2002), La valigia delle Indie e altri bagagli (Bruno Mondadori 2006), Introduzione a Vivian Lamarque – Poesie (Mondadori 2002), Giuseppe Pontiggia. La letteratura e le cose essenziali che ci riguardano, II ed. con Introduzione di Gianfranco Ravasi (Avagliano 2014), Roberto Innocenti. La mia vita in una fiaba (Della Porta 2014), uscito in traduzione francese da Gallimard e di prossima pubblicazione in traduzione spagnola, portoghese e catalana da Kalandraka, Grazia Deledda. I luoghi gli amori le opere (Avagliano 2016).

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LA PREGHIERA DELLA LETTERATURA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/13/la-preghiera-della-letteratura/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/13/la-preghiera-della-letteratura/#comments Mon, 13 Mar 2017 18:35:55 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7455 LA PREGHIERA DELLA LETTERATURA. Sulla misericordia, il bene e la fededi Andrea Caterini (Fazi editore)

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di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato a questo ottimo lavoro di Andrea Caterini intitolato “La preghiera della letteratura. Sulla misericordia, il bene e la fede” (Fazi editore).

In queste pagine, Andrea Caterini (scrittore e saggista: ne approfitto per ricordare il suo romanzo “Giordano”… qui un’intervista all’autore), propone una riflessione su alcuni termini chiave della cristianità: Pace, Sacrificio, Misericordia, Bene, Santità e Fede. Sono parole antiche (potremmo dire “eterne”) e pregne di significato. Caterini analizza ogni parola attraverso la lettura e l’analisi di uno o più scrittori, da Virgilio a Dostoevskij, da Anna Achmatova ad Anton Cechov. Come precisato nella scheda del volume, “La preghiera della letteratura” non è però un libro di critica letteraria (anche se attraverso la letteratura costruisce i suoi ragionamenti filosofici, con la convinzione che essa sia ancora uno strumento privilegiato di conoscenza)… ma “riflette su quanto la letteratura sia essa stessa una particolare forma di preghiera e di come poesia e testi sacri abbiano da sempre dialogato tra loro“.

Per gentile concessione dell’autore e della casa editrice, pubblichiamo di seguito il capitolo intitolato “Il sacrificio” (dove lo scrittore “protagonista” è Cechov).

* * *

Il sacrificio

(da La preghiera della letteratura di Andrea Caterini – Fazi editore)

1.

[…]

In ogni pagina di Čechov ci sembra che un senso d’affanno, uno spezzarsi del fiato, un’angoscia di soffocamento stiano sempre a un momento dall’arpionarci. Eppure Čechov non si lamenta di nulla, si nasconde discreto dietro le parole. No, non è lui che impreca miseria e ingiustizia. Delega ai suoi personaggi ogni espressione. Li osserva, convinto di non poterli curare, di non poter curare, nonostante la scienza – lui medico, oltre che scrittore – il tumore che s’annida dentro ognuno: il terrore della morte, il senso di inadeguatezza e impotenza rispetto alla vita, l’incapacità che gli uomini hanno di comprendersi. Eppure è lì, al lume fioco di una lampada, stretto all’angolo, piegato su una sedia dietro le quinte, sempre sfuggente, con l’atteggiamento di chi pare abbia un’anima fredda, schermato da una patina di imperturbabilità. Se nessuno può nulla, sembra però dica, bisognerà pure che qualcuno si sacrifichi per l’umanità, che all’umanità sia concessa una felicità che io, Anton, osservandovi da dietro e piangendo, ma sempre senza lacrime, non posso concedermi. Che gli uomini siano felici. Ma come? Che qualcuno vi racconti, nel bene e nel male, chi siete. Nella biografia che gli dedica, La vita di Čechov – una biografia che somiglia a un romanzo attento a svelare la personalità, la sensibilità del personaggio, più che al rigore delle fonti –, Irène Némirovsky scrive che «Malgrado il desiderio dei suoi lettori e della critica, l’opera di Čechov non insegna nulla. Mai potè dire con sincerità, come faceva Tolstoj: “Agite così e non altrimenti” [...]. In compenso, le sue lettere e la sua vita elevano davanti a noi l’immagine ammirevole di un uomo che, nato giusto, delicato e buono, si sforzò senza sosta di diventare migliore, più tenero, ancora più caritatevole, più affettuoso, più paziente, più sottile». Certo ci sembra che la Némirosvsky non sbagli a dire che Čechov «non insegna nulla». No, Anton non è un maestro, non ha la presunzione di pontificare, non è capace di muovere un popolo così come il conte Tolstoj, che invitava a vivere nel bene. Ma in cosa consisteva il bene proposto da Tolstoj? Mi permetto un inciso non privo di senso. Al principio del 1900, il critico trentaquattrenne di Kiev, il semisconosciuto Lev Šestov, quello che diventerà negli anni successivi uno dei maggiori filosofi e teologi del XX secolo ma che aveva allora pubblicato solo un libro dedicato a Shakespeare passato però inosservato, dà alle stampe uno studio che farà invece molto discutere, L’idea di bene in Tolstoj e Nietzsche. Tolstoj, invece, è già l’autore dei suoi capolavori: Guerra e pace e Anna Karenina. Quando Šestov propone il suo libro ad alcuni editori, c’è chi gli consiglia di non pubblicarlo, perché le accuse a Tolstoj e l’adesione alla filosofia di Nietzsche gli causeranno certo dei problemi. In verità Šestov sta definendo e gettando le basi di quella che sarà la ricerca filosofica che lo accompagnerà per tutta la vita, espressa poi in numerosi libri come Sulla bilancia di Giobbe (1929) e Kierkegaard e la filosofia esistenziale (1936). Non era cosa poco coraggiosa mettersi contro il conte Tolstoj in quel momento, se è vero che l’autore de La morte di Ivan Il’ic era allora considerato in patria una specie di profeta e che ormai rinnegava anche il suo lavoro precedente. Šestov vuole prendere di mira la sua ultima produzione, sintetizzata nel saggio Che cos’è l’arte?, un libro che, nota il filosofo, con l’arte non ha nulla a che fare. Tolstoj ha in mente esattamente questo: l’uomo deve servire il bene per poter vivere al meglio, e non importa se tale bene prestabilito e ideologicamente razionalizzato nasconda una crepa, una falla, un dubbio dentro cui lo stesso Tolstoj vive (come dimostrano le sue opere precedenti) pur decidendo di tacerlo, credendo non utile esporlo ai suoi discepoli: l’intero popolo russo. Tolstoj, di fatto, anche credendo che la sua ideologia – l’ideologia di un bene che fosse sinonimo di Dio, ma un Dio idealizzato, costruito a tavolino – fosse insufficiente a comprendere ogni cosa della vita, pensa sia necessario che gli uomini, affinché avvenga il loro riscatto sociale, più che esistenziale, debbano seguirla. È qui che Šestov edifica la sua disamina contro la morale e il moralismo, un discorso che sarà pure il contenuto dell’intera sua opera filosofica. Si domanda alla sostanza dove sia Dio nell’idea moralistica di bene, e se per caso questa morale altro non sia che cattiva fede. Il filosofo comprende che la ricerca speculativa non è tale se non trova un corrispettivo di verità nella vita degli individui, e che nessuna costruzione razionalistica può definire la vera realtà dell’esistenza umana. È ciò che ha compreso e cercato di esprimere Nietzsche, il quale, scrive Šestov, per tutta la vita cercò Dio senza mai riuscire a trovarlo, come è evidente in Al di là del bene e del male e in Così parlò Zarathustra. Siamo ancora lontani dal suo testamento filosofico, Atene e Gerusalemme, che Šestov pubblicò lo stesso anno della sua morte, nel 1938. Ma la chiusura de L’idea di bene in Tolstoj e Nietzsche già indica il percorso: «Bisogna cercare ciò che è al di sopra della compassione, ciò che è al di sopra del bene. Bisogna cercare Dio». In Atene e Gerusalemme, poi, arriverà a spiegare che ciò di cui non è mai riuscita a liberarsi la filosofia è della concezione di «necessità». Una necessità che la rendeva schiava dell’idea di bene e di male. Ma la conoscenza del bene e del male giunsero all’uomo dopo il peccato originale. Occorre cercare «al di sopra del bene»; occorre un gesto di fede per liberarsi della colpa, per liberarsi della morale.

A differenza di Tolstoj, quel popolo, quegli uomini Čechov non può fare a meno di osservarli. Ne riconosce le miserie e le virtù – ma soprattutto le miserie. Perché solo riconoscendo le miserie degli altri come fossero nostre si può pensare di «diventare migliore» (e proprio di questo si parlerà più specificamente nel prossimo capitolo, dedicato alla «misericordia»). Ma appunto, il desiderio di Čechov è quello di far esprimere quelle miserie, vederle rivelate senza che la sua intercessione di autore si inserisca a decretare un giudizio ultimo sui comportamenti, sugli stati d’animo, sul modo di vivere. Dà voce a chi una voce non ce l’ha; o, pure l’avesse, non avrebbe il coraggio, o il talento, per renderla manifesta. Čechov in sostanza si sacrifica prestando la sua voce agli uomini, come aprendo uno spazio dentro se stesso per accoglierli e riconsegnare al mondo la loro vita fino a ora taciuta. La psicologia di Čechov è sottile, e forse attribuire il suo lavoro a una predisposizione psicologica è già riduttivo. Piuttosto si potrebbe parlare di una sensibilità che la sua biografia potrebbe meglio chiarire. Anton Čechov non è certo nato ricco e già a sedici anni dovette cavarsela da solo, dando ripetizioni e vendendo gli oggetti che trovava nella casa dove era nato ma che ora lo accoglieva solo come ospite (era stata venduta dai genitori a colui al quale fino a poco prima affittavano una camera) mandando soldi alla madre e ai fratelli, fino a diventare il capofamiglia (il padre – un uomo difficile, dedito all’arte e alla religione ma severo fino alla violenza – era già andato in rovina, coperto di debiti; quando scriverà il racconto Il padre, del 1887, emergerà il confronto tra un padre, ubriacone, lacrimoso e ipocrita e un figlio che parrebbe freddo, imperturbabile alla condizione del genitore ma che in realtà tace per non coprirlo di maggiore umiliazione, donandogli soldi, scarpe nuove, una compassione mai altezzosa e arrogante). Dunque il sacrificio, per Anton, è stato fin dall’infanzia e l’adolescenza un modo di vivere che aveva sviluppato nella sua persona un sentimento profondissimo che con tutta probabilità lo aveva reso intollerante all’umiliazione – lui, che di umiliazioni ne aveva subite già molte (la miseria, la povertà, le cinghiate del padre, i lamenti lacrimosi della madre, l’inconcludenza e l’inerzia dei suoi fratelli). Non la propria umiliazione – perché se si fosse trattato di un’intolleranza alla sua l’avremmo detto coperto di vanità – ma quella di chi amava. Ogni umiliazione, insomma, era per Čechov una ferita – lo feriva pure l’indifferenza degli uomini alle umiliazioni subite da altri. Per questo il sacrificio era a ben vedere una forma di pietas.

2.

Una parentesi cinematografica. John May deve aver letto a fondo Čechov, finendo per imitare non già i personaggi del russo ma il carattere sottile e misericordioso dello scrittore. Uberto Pasolini, regista e sceneggiatore di Still life (2013) – il film più umano del mondo –, definendo la sensibilità di May, un impiegato comunale impegnato a cercare parenti e amici che possano accompagnare quei morti che pare non abbiano più nessuno al mondo che li pianga e che preghi un’ultima volta per loro, ha compreso che per descrivere un uomo straordinario necessitava di scarni mezzi, ma di una sensibilità profondissima.

Perché May ha capito, insieme a Čechov, che anche nell’uomo più miserabile, anche nell’umanità più sudicia e corrotta non tutto può essere coperto di male. Ogni uomo deve necessariamente aver mantenuto e restituito un briciolo di bene sufficiente\ da meritarsi qualcuno accanto che lo ha conosciuto e lo ha amato, nel giorno in cui il corpo cade, a donargli un ultimo saluto, l’ultimo abbraccio, sussurrare per lui una preghiera. E se non c’è più nessuno è May stesso a salutare quei morti, come fosse l’uomo che più li ha amati, che meglio li ha conosciuti. Entra nelle loro case, raccoglie i loro oggetti personali – una collana di perle, un rossetto rosso –, qualche foto sbiadita, le lettere scritte e ricevute e dedica loro un’omelia reinventando la loro vita. Pure quando trova la figlia di Stoke, Kelly, la ragazza che potrebbe diventare la sua compagna, se May non morisse il giorno prima di incontrarla al funerale del padre investito da un autobus, John le lascia in eredità una famiglia, facendola incontrare con una donna che fu un’altra compagna del padre e la sua sorellastra. May è grande – già un santo –, si sacrifica per un’intera umanità desolata e sola, per donargli una possibilità di gioia. May è colui che consegna all’uomo la felicità, offrendosi per intero: la sua fratellanza, la sua misericordia.

3.

In una pagina meravigliosa di Vita e destino di Vasilj Grossman, il romanzo epopea sulla battaglia di Stalingrado, uno degli ultimi capolavori del Novecento, troviamo, in un dialogo sulla letteratura, parole vere su Čechov che vale la pena citare

«[...] Čechov ha portato nel nostro immaginario tutta la Russia nella sua impotenza, tutte le sue classi, tutti i ceti sociali e le età… Ma non solo! Ce li ha portati tutti, milioni e milioni, democraticamente, lo capite? Da autentico democratico russo! E come nessuno aveva fatto prima di lui, nemmeno Tolstoj, ha detto: siamo prima di tutto esseri umani, lo capite?, esseri umani, uomini, persone! Lo ha detto come nessuno aveva mai fatto prima. Ha detto che l’importante è che gli uomini siano prima di tutto uomini, e solo poi arcipreti, russi, bottegai, tatari, operai. Lo capite? Non siamo buoni o cattivi perché siamo arcipreti o operai, tatari o ucraini. Siamo tutti uguali perché siamo tutti esseri umani. [...]. Čechov ha detto: Dio si faccia da parte e si facciano da parte le cosiddette grandi idee progressiste. Partiamo dall’uomo, mostriamogli bontà e attenzioni chiunque egli sia, arciprete, contadino, industriale milionario, forzato di Sachalin, cameriere in un ristorante. Iniziamo compatendo, amando l’uomo, altrimenti non ne verrà nulla. È questa, la democrazia, la democrazia mai nata del popolo russo.»

Si prenda un racconto pubblicato nel 1888, La voglia di dormire. Una serva di tredici anni è costretta a lavorare per i suoi padroni notte e giorno. La notte poi, il neonato figlio dei padroni, al quale la ragazza fa da balia, cantandogli una ninna nanna e dondolandolo nella culla, continua a piangere e gridare non lasciandola dormire neppure per un attimo. Improvvisamente, presa da allucinazioni da sonno e stanchezza, Vàrka rivede le cose che la legano alla vita, «lo stradone fangoso, la gente con le bisacce, suo padre Efìm». Ma c’è una forza che la soffoca e la costringe alla schiavitù, ed è appunto quel bambino. Vàrka lo uccide soffocandolo e finalmente si addormenta felice. È un racconto fulminante, di una manciata di pagine, nel quale Čechov restituisce ogni tensione, umana e sociale. La relazione servo-padroni, l’angoscia individuale. Eppure, ciò che colpisce ogni volta nelle narrazioni di Čechov è il momento in cui i suoi personaggi improvvisamente raggiungono un apice che li porta alla lucidità, quello in cui si accorgono di chi sono o di cosa hanno fatto (come esempio, si pensi alla maestra di scuola Màrja Vasìlevna del racconto breve In carretta, del 1897: «E al vivo, allora, con impressionante limpidezza, per la prima volta in tutto il corso di questi tredici anni, vennero a prospettarlesi la mamma, il padre, il fratello, il loro appartamento a Mosca, l’acquario con quei pesciolini, tutto fino ai minimi particolari; improvvisamente le risonò il suono del pianoforte, la voce del padre, e si sentì, come a quei tempi, giovane, bella, ben vestita, in una luminosa, tepida stanza, nel circolo dei suoi cari; un’impressione di gioia e felicità la sopraffece d’un tratto, tanto che, dall’esultanza, si strinse le tempie fra le mani e le sfuggì di bocca, con tenerezza, supplichevolmente: – Mammina!»; o ancora a Il maestro, del 1886: «– Noi sappiamo apprezzare il merito – continuò il signor Bruni, prendendo un’espressione di serietà e abbassando la voce. – [...] la famiglia di Fjòd Lukìč avrà l’avvenire assicurato [...] –. Sysòjev, con gli occhi interroganti, sogguardò il tedesco, poi i colleghi, immerso in una specie di sconcerto: perché l’avvenire sarebbe stato assicurato alla famiglia, e non a lui stesso? [...] Col viso sbiancato, sfigurato da una smorfia, d’improvviso balzò in piedi e si afferrò fra le mani la testa. Una decina di secondi rimase a quel modo, fissando innanzi a sé, con orrore, sempre in un punto, come se là si scorgesse di fronte questa morte imminente, a cui aveva accennato il Bruni; poi risedette, e scoppiò in lacrime.»; e impossibile non pensare al risveglio del direttore della clinica psichiatrica del racconto più celebre di Čechov, Il reparto n. 6 [1892], Andrèj Efìmyč Ràghin, il quale, spezzate le catene dell’ordinario, lo stesso ordinario di cui fino a poco prima era partecipe e responsabile, si trova ad essere schiacciato e accusato da un sistema che non è più in grado di accoglierlo e comprenderlo, chiudendolo e lasciandolo morire – per una legge del contrappasso – nella stessa sua clinica: «Ormai tutto, perfino il sincero interessamento dei miei amici, cospira a un sol fine: alla mia rovina. Io sto precipitando nell’abisso, e ho la virilità di rendermene conto.»). Una lucidità che gli fa compiere anche il gesto più terribile. Scrive di Vàrka: «Tutto le riesce comprensibile, tutti riconosce». Per Čechov ogni uomo riconosce se stesso nel momento in cui rivede – «riconosce» – il luogo da cui proviene. Quel luogo è certo un contenitore di memoria, una memoria che molto spesso ci è dato di conoscere attraverso i pochissimi tratti che lo scrittore ci restituisce. Ma quel luogo è anche un momento di riconciliazione. Un riconciliazione che certo non giustifica alcun omicidio, come quello di Vàrka. Eppure, la ragazza, scrive Čechov, osservandola dormire profondamente dopo aver ucciso il bambino, è «come morta» (queste le ultime due parole del racconto). Allora, se la ragazza si è liberata da quel senso di soffocamento che era il bambino riconciliandosi con i luoghi della sua vita, è vero pure che quella lucidità visiva che l’ha spinta all’omicidio, l’ha al contempo uccisa. Uccidendo il bambino Vàrka si è uccisa. Ma Čechov cosa pensa del gesto della ragazza, cosa della violenza dei padroni? Come sempre ogni giudizio morale è escluso dalla narrazione. È come se Čechov, scriveva a ragione Natalia Ginzburg introducendo il suo epistolario, Vita attraverso le lettere, «di colpo spalanchi una finestra o una porta: offrire così al lettore i tratti d’una figura umana, o di un gruppo di figure umane, farne udire il suono delle voci, darne a intuire i vari stati d’animo, il servilismo o il sussiego, la pazienza o la prepotenza, e poi di colpo richiudere quella porta o quella finestra dinanzi al lettore assorto, divertito e stupefatto». Ma appunto, se non c’è un giudizio morale, non significa certo che Čechov ne fosse sprovvisto. È vero invece il contrario. Il racconto, aprendo una finestra su uno spicchio di mondo, è un concentrato di attenzione. Cioè, tutto ciò che avviene, ogni sentimento umano espresso sulla pagina attraverso la vita dei personaggi, restituisce già un giudizio sul mondo e su ogni uomo che lo abita. Voglio dire che Čechov è fermamente convinto che sia la vita stessa a giudicare i nostri comportamenti, le nostre azioni, i nostri sentimenti di pietà o di odio, di misericordia o di invidia. La vita stessa è insomma un giudizio che mette alla prova, che interroga ogni individuo. Con questo non si pensi che la scrittura di Čechov sia nulla di più di una testimonianza. I suoi racconti non sono mai referti, o didascaliche descrizioni. Čechov, raccontando, non solo ha visto l’uomo nella sua interezza, ma lo ha accolto per intero; per questo Grossman poteva scrivere di lui: «Partiamo dall’uomo, mostriamogli bontà e attenzioni chiunque egli sia». Il sacrificio non consiste in altro che in questa capacità d’accoglimento dell’altro per cui sono necessarie «bontà e attenzione». Ma Čechov non sacrifica nulla a una divinità per ottenere, da quella stessa divinità, una grazia. Certo la sua scrittura è in tutto e per tutto un atto sacro. Ma se non c’è un oggetto o un corpo estraneo da donare a una divinità, è a se stessi che si rinuncia, è il proprio corpo che viene sacrificato – divenuto sacro perché donato all’umanità intera. Ma, l’abbiamo detto, sacrificando se stesso Čechov accoglie ogni uomo. Se il sacrificio è quindi un dono, è vero pure che nello stesso tempo è una riconciliazione, un ritorno all’unità. Čechov mentre scrive ha un corpo sacro perché riconcilia se stesso e l’intera umanità a un’origine che tutti accomuna in un’unità (a questo facevo riferimento all’inizio del capitolo, connettendo pace, creazione e sacrificio). Quell’origine è la vita di ognuno, è una nascita alla quale ogni uomo, pur nella miseria di ogni esistenza, tende, vuole ritornare. Čechov, sacrificando il suo corpo, permette di rendere sacra la vita di ognuno. Perché ogni uomo, come ha capito Jonh May, ha conservato un bene che è nostro compito riconoscere e restituire come la traccia del nostro passaggio sulla terra, come memoria della nostra primordiale ferita: la nostra nascita. Perché quel bene residuo è ciò che nessuno potrà mai strapparci via.

(Riproduzione riservata)

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LETTERATITUDINE 3: LETTURE, SCRITTURE E METANARRAZIONI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/02/24/letteratitudine-3-letture-scritture-e-metanarrazioni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/02/24/letteratitudine-3-letture-scritture-e-metanarrazioni/#comments Fri, 24 Feb 2017 14:21:53 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7445 Care amiche e cari amici,
come qualcuno di voi saprà, di recente è uscito il volume intitolato “Letteratitudine 3: letture, scritture e metanarrazioni” (LiberAria).
Si tratta del terzo volume che ho curato e pubblicato con riferimento alle attività di Letteratitudine. Quest’ultimo, tuttavia, è un libro speciale. Anzi, specialissimo. Perché nasce anche – e soprattutto – con l’intento di festeggiare i dieci anni di attività online di questo “luogo d’incontro virtuale” (Letteratitudine nasce, infatti, nel mese di settembre dell’anno 2006).
Come ho provato a spiegare nella prefazione del libro, quella di Letteratitudine è stata (e continuerà a essere) un’esperienza di “condivisione” (una parola che – credo – oggi più che mai debba essere tutelata e valorizzata).
In tutti questi anni posso dire che “condivisione” è stata la parola chiave per eccellenza di Letteratitudine. Del resto è evidente il fatto che la letteratura, la cultura, i libri, i “saperi”, hanno ragion d’essere solo in un’ottica di condivisione. Lo spirito di condivisione – peraltro – favorisce anche l’accoglienza di punti di vista differenti, persino opposti e contrapposti (partendo dalla considerazione che la diversità di idee e opinioni, fondata sul reciproco rispetto, è sempre occasione di crescita). In oltre dieci anni di attività ho sempre lavorato perché lo spirito della condivisione, così inteso, fosse presente e aleggiasse su ogni attività organizzata e portata avanti con Letteratitudine.
Ecco perché questo libro è nato nell’ottica dello spirito di condivisione.
Ringrazio, ancora una volta, di vero cuore le amiche scrittrici e gli amici scrittori che mi hanno aiutato a realizzarlo donandomi il loro contributo.
Grazie, amici cari. Grazie di vero cuore!

* * *

Ne approfitto per fornire qualche informazione ulteriore sui contenuti di questo libro.
Credo che il sottotitolo sia già di per sé piuttosto indicativo: letture, scritture e metanarrazioni.
In estrema sintesi direi che le sezioni che lo compongono ruotano fondamentalmente sui due pilastri della “condivisione letteraria”: la lettura e la scrittura.

Il volume è formato da quattro sezioni, precedute – come già accennato – da una mia prefazione dove tento di “fare il punto” su questi dieci anni. La prima parte del libro è dedicata a una serie di interviste (sulla lettura e sulla scrittura) incentrate sul numero dieci. Dieci interviste strutturate sulla base di dieci domande (in questa sezione ho coinvolto: Ferdinando Camon, Massimo Carlotto, Antonella Cilento, Giancarlo De Cataldo, Maurizio de Giovanni, Nicola Lagioia, Dacia Maraini, Melania G. Mazzucco, Raul Montanari, Clara Sereni). La seconda sezione ospita una lunga serie di Autoracconti (dove gli scrittori sono stati invitati a raccontare i loro libri concentrandosi soprattutto sull’aspetto “creativo” della loro attività di scrittura). La terza sezione è dedicata alle Lettere (rivolte a scrittori scomparsi e/o personaggi letterari): qui ho chiesto agli amici scrittori di scegliere uno scrittore scomparso che avevano avuto modo di conoscere personalmente (o di studiare in maniera approfondita) oppure un personaggio letterario particolarmente amato… e di scrivergli una lettera immaginando che il “ricevente” (scrittore scomparso o personaggio letterario) avesse davvero la possibilità di leggerla. La parte finale del libro è dedicata a Vincenzo Consolo che ho voluto ricordare con il contributo di tanti amici scrittori e critici letterari.

Di seguito, riporterò l’indice completo del volume.

* * *

Care amiche e cari amici di Letteratitudine, che ci seguite con affetto da così tanto tempo… spero che possiate trovare questo libro utile e di vostro gradimento. E spero che possiate darci una mano a renderlo “vivo” attraverso la vostra lettura.
Ancora una volta, la condivisione si rivela come necessaria.

* * *

Il libro è disponibile nelle migliori librerie e presso i punti di rivendita online (Amazon libri, Ibs, Feltrinelli libri, Mondadori store, Libreria Universitaria, ecc.)

Indice
Prefazione di Massimo Maugeri pag. 7

Parte I
Lettura e scrittura:
dieci domande a dieci scrittori:

Ferdinando Camon – pag. 31
Massimo Carlotto - pag. 35
Antonella Cilento - pag. 38
Giancarlo De Cataldo - pag. 44
Maurizio de Giovanni - pag. 47
Nicola Lagioia - pag. 50
Dacia Maraini - pag. 52
Melania G. Mazzucco - pag. 55
Raul Montanari - pag. 61
Clara Sereni – pag. 67

Parte II
Autoracconti d’Autore:
scrittori raccontano i propri romanzi

Emanuela E. Abbadessa, Fiammetta - pag. 73
Eraldo Affinati, L’uomo del futuro - pag. 75
Marco Balzano, L’ultimo arrivato - pag. 78
Alessandro Bertante, Gli ultimi ragazzi del secolo - pag. 82
Rossana Campo, Dove troverete un altro padre come il mio – pag. 84
Paola Capriolo, Mi ricordo - pag. 86
Glenn Cooper, Il calice della vita - pag. 89
Mauro Covacich, La sposa - pag. 92
Maria Rosa Cutrufelli, Il giudice delle donne - pag. 94
Mario Di Caro, La capitana dell’isola di nessuno - pag. 96
Luca Doninelli, Le cose semplici - pag. 98
Ildefonso Falcones, La regina scalza - pag. 102
Catena Fiorello, L’amore a due passi - pag. 106
Chiara Gamberale, Per dieci minuti - pag. 109
Vittorio Giacopini, La mappa - pag. 112
Luigi Guarnieri, Il sosia di Hitler - pag. 116
Orazio Labbate, Lo Scuru - pag. 119
Nicola Lagioia, La ferocia - pag. 122
Joe R. Lansdale, La foresta - pag. 125
Simona Lo Iacono, Le streghe di Lenzavacche - pag. 128
Massimo Lugli, Stazione omicidi - pag. 131
Lorenzo Marone, La tentazione di essere felici - pag. 134
Paola Mastrocola, L’esercito delle cose inutili - pag. 138
Giordano Meacci, Il cinghiale che uccise Liberty Valance - pag. 143
Elena Mearini, Bianca da morire - pag. 147
Claudio Morandini, Neve, cane, piede - pag. 149
Giorgio Nisini, La lottatrice di sumo - pag. 153
Marilù Oliva, Le sultane - pag. 155
Demetrio Paolin, Conforme alla gloria - pag. 157
Marco Peano, L’invenzione della madre - pag. 162
Sergio Pent, I muscoli di Maciste - pag. 166
Sergio Claudio Perroni, Il principio della carezza - pag. 168
Romana Petri, Le serenate del Ciclone - pag. 170
Piergiorgio Pulixi, La notte delle pantere - pag. 174
Sara Rattaro, Splendi più che puoi - pag. 180
Paolo Roversi, Solo il tempo di morire - pag. 183
Clara Sánchez, Le cose che sai di me - pag. 185
Evelina Santangelo, Non va sempre così - pag. 187
Vanni Santoni, Terra ignota - pag. 192
Giuseppe Schillaci, L’età definitiva - pag. 195
Brunella Schisa, La scelta di Giulia - pag. 197
Elvira Seminara, Atlante degli abiti smessi - pag. 199
Marcello Simoni, L’Abbazia - pag. 202
Simona Sparaco, Equazione di un amore - pag. 204
Mariapia Veladiano, Una storia quasi perfetta - pag. 206
Grazia Verasani, Senza ragione apparente - pag. 209

Parte III
Lettere a personaggi letterari e autori scomparsi

Lettera ad Alice
di Francesca G. Marone – pag. 213
Lettera a Honoré de Balzac
di Mariolina Bertini – pag. 218
Lettera a Rocco Carbone
di Romana Petri – pag. 223
Lettere a Marianna Coffa
di Marinella Fiume – pag. 228
di Maria Lucia Riccioli – pag. 234
Lettera a Cthulhu
di Marco Peano – pag. 238
Lettera a Stefano D’Arrigo
di Tea Ranno – pag. 242
Lettera a Dracula
di Guglielmo Pispisa – pag. 244
Lettera a Marguerite Duras
di Sandra Petrignani – pag. 248
Lettera ad Alfonso Gatto
di Carmen Pellegrino – pag. 252
Lettera a Jean-Claude Izzo
di Stefania Nardini – pag. 256
Lettera a Primo Levi
di Sara Rattaro – pag. 258
Lettera a Katherine Mansfield
di Lia Levi - pag. 261
Lettera a Elsa Morante
di Graziella Bernabò - pag. 266
Lettera ad Anna Maria Ortese
di Adelia Battista - pag. 272
Lettera a padre Paneloux
di Filippo Tuena - pag. 278
Lettera a Pier Paolo Pasolini
di Francesco Pecoraro - pag. 284
Lettera a Perelà
di Claudio Morandini - pag. 289
Lettera a Hercule Poirot
di Ornella Sgroi - pag. 293
Lettera a Giuseppe Pontiggia
di Daniela Marcheschi - pag. 298
Lettera a Ugo Riccarelli
di Giulia Ichino - pag. 302
Lettera a Emilio Salgari
di Patrizia Rinaldi - pag. 304
Lettera a Gregorio Samsa
di Andrea Caterini - pag. 309
Lettere a Leonardo Sciascia
di Antonio Di Grado - pag. 312
di Vincenzo Vitale - pag. 315
Lettera a Manlio Sgalambro
di Domenico Trischitta - pag. 319
Lettera a Winston Smith
di Carlotta Susca - pag. 322
Lettera ad Antonio Tabucchi
di Paolo Di Paolo - pag. 326
Lettera a Tereza
di Mavie Parisi - pag. 329
Lettera a Marianna Ucrìa
di Simona Lo Iacono - pag. 334
Lettera a Sebastiano Vassalli
di Michele Rossi - pag. 337

Parte IV
Omaggio a Vincenzo Consolo

In ricordo di Vincenzo Consolo
intervista a Consolo di Massimo Maugeri – pag. 341
Per Vincenzo Consolo, poeta e profeta
di Maria Attanasio – pag. 346
Alle soglie del témenos
di Sebastiano Burgaretta – pag. 349
La memoria di una “voce narrante”
di Domenico Calcaterra – pag. 352
Quei frammenti caduti dal cielo: Lunaria 2.0
di Eliana Camaioni – pag. 356
Un mite guerriero
di Maria Rosa Cutrufelli – pag. 362
Per Vincenzo Consolo (e per Bufalino e Sciascia)
di Antonio Di Grado – pag. 367
L’utopia di Vincenzo Consolo: Itaca senza proci
di Giuseppe Giglio – pag. 369
Come Nicolas De Staël d’après Seghers
di Salvatore Silvano Nigro – pag. 373
Vincenzo Consolo, scrittore antagonista
in lotta con il potere

di Massimo Onofri – pag. 377
L’amara saggezza del narrare: Vincenzo Consolo
e Los desastres de la guerra di Francisco Goya

di Salvo Sequenzia – pag. 381
Vincenzo Consolo, l’irrequietudine
e il sigillo della scrittura

di Natale Tedesco – pag. 387
Vincenzo Consolo: la ferita che non guarisce
di Anna Vasta – pag. 389

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/02/24/letteratitudine-3-letture-scritture-e-metanarrazioni/feed/ 48
LETTURE RICREATIVE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/02/13/letture-ricreative/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/02/13/letture-ricreative/#comments Mon, 13 Feb 2017 06:00:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7430 “LETTURE RICREATIVE. Traiettorie e costellazioni letterarie (Il Palindromo), di Salvatore Ferlita

di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato a questo volume pubblicato da Salvatore Ferlita intitolato “Letture ricreative. Traiettorie e costellazioni letterarie” (Il Palindromo). Come è scritto sulla scheda del libro, tra queste pagine “ci si avventura dentro una certa idea del Novecento letterario, italiano e non solo, considerato non una chiosa a margine delle epoche passate ma il punto di arrivo e lo snodo cruciale della letteratura precedente“.

Qui di seguito, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione di Ferlita e il saggio intitolato “Un peccato di lesa maestà. Russello, Calvino e il “caso” Mondadori”.

* * *

di Salvatore Ferlita

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A mo’ di introibo

Questo libro si compone di diverse sezioni, di contenitori dentro ai quali hanno trovato collocazione saggi nati da occasioni differenti e in tempi diversi che però, prendendo il libro forma nelle intenzioni e poi materialmente, si sono in qualche modo aggregati per naturale attrazione.
Ripercorrere a posteriori le costellazioni tematiche e gli autori affrontati (singolarmente oppure in dialogo con altri nella ferma convinzione che la letteratura è sempre una vasta landa di echi), a disegno concluso, significa ricapitolare e approntare un bilancio, seppure sempre provvisorio. Spiccano certe predilezioni, un modo di leggere le carte di uno scrittore e il geroglifico di una vita che qua e là si ripresenta. Ma a comporsi, soprattutto, è una topografia di rapporti, di confronti e dialoghi intrattenuti con colleghi, sodali, maestri più o meno diretti o più o meno laterali.
Ne viene fuori insomma una mappatura non solo interpretativa, compilata orientativamente negli ultimi dieci anni, ma anche autobiografica, una cartina nella quale i sentieri tracciati, i percorsi individuati danno forma a una trama esistenziale.
Basti considerare l’ultima sezione, nella quale sono stati allineati i saggi scritti per le “Settimane Alfonsiane”, concepite da Nino Fasullo al fine di creare un confronto tra credenti e non credenti, tra ortodossia e eterodossia, a partire da una frase evangelica, scelta di volta in volta tra le più scomode e pericolose. Fa da guida l’accusa di Gesù rivolta ai suoi seguaci, quella di guardare senza vedere, di ascoltare senza udire. Ogni volta, dalla citazione proposta, è emerso qualcosa di irriducibile che appunto perché tale doveva essere perennemente interpretato. Da qui il tentativo di intravedere la segretezza attraverso le maglie di un testo, come spiega Frank Kermode nel suo Il segreto nella Parola (il Mulino 1992), di fare i conti con «la genesi del mistero» che sta alla fine della narrativa e che rappresenta appunto il segreto che produce l’interpretazione.
È un volume, questo, che segna in un certo senso il «mezzo del cammin», che fa da spartiacque chiudendo una stagione, portando a frutto lunghe, appassionanti frequentazioni.
A fare da collante, dall’inizio alla fine, è una certa idea del Novecento letterario, italiano e non solo, considerato non alla stregua di una chiosa a margine delle epoche precedenti. Tutto il contrario: lo sforzo vero è stato quello di mostrare come il secolo scorso, che breve di certo non è stato, rappresenti il punto di arrivo, lo snodo cruciale della letteratura precedente, l’approdo ermeneutico. Il secolo nel quale, ad esempio, romanzi quali Le avventure di un burattino o Cuore, dismesse le loro mentite spoglie ottocentesche, mettono in mostra la loro anima nascosta, perturbante e a tratti demoniaca. Il secolo in cui i capolavori di due poeti di altissima levatura, Boiardo e Ariosto (considerato quest’ultimo in solitudine ma anche in dialogo con Jack London), diventano delle cartine al tornasole indispensabili per comprendere schieramenti e contrapposizioni, più o meno latenti, per leggere al meglio le dinamiche e la cristallizzazione del canone.
Dietro a ogni saggio, tengo a precisare, non ci sono soltanto ore di lettura, di riletture, di accostamenti sinottici, di analisi per contiguità e opposizione, di ricerche, di piccole investigazioni, ma si scorgono anche i volti di quanti negli anni ho incrociato e dai quali mi sono arrivati suggerimenti, indicazioni (penso, ad esempio, a Silvano Nigro). Colgo qui l’occasione per esprimere loro tutta la mia gratitudine.

* * *

Un peccato di lesa maestà. Russello, Calvino e il “caso” Mondadori

«Se non esistessero le favole illuministiche di Calvino, questo romanzo di Russello, con qualche vigorosa amputazione, potrebbe anche essere pubblicato. Ma esistono, e il loro precedente è così vistoso che il Russello non può sottrarsi all’accusa di averne, sia pure intelligentemente, ricalcato le orme» (Carlo Della Corte).

Il fantasma di Italo Calvino ha contribuito a condizionare negativamente le sorti di uno scrittore come Antonio Russello, il cui caso è esploso postumo registrando adesioni entusiastiche e tardive resipiscenze.
Lo si apprende setacciando le carte custodite nell’archivio della Fondazione Mondadori: una lettera dell’autore, diversi pareri di lettura, comunicazioni interne della direzione editoriale; sono le tessere mancanti di un puzzle che all’inizio stenta a ricomporsi, ma che una volta perfezionato ci restituisce uno dei tanti capitoli mancanti del Novecento letterario isolano e non solo.
«Russello ha qualità di scrittore» precisa subito dopo Della Corte nella sua scheda di lettura del primo gennaio 1962 relativa al romanzo Giangiacomo e Giambattista: «fantasia, prima di tutto. E certi estracci immaginosi, tra il grottesco e il ridicolo, che muovono abbastanza bene la pagina colorandola di una girandola di spunti. Ma, forse, gli manca il segno della necessità vera, e gran parte dei suoi prodotti è caratterizzata da un abilissimo, istintivo mimetismo».
Carlo Della Corte, lettore di professione reclutato dall’ufficio propaganda della casa editrice milanese, verga un parere che si rivela assai bizzarro: da un lato egli dice un gran bene dell’autore, coglie le sue peculiarità stilistiche e soprattutto la felicità affabulatoria, dall’altro ridimensiona Russello al cospetto di Italo Calvino, che si rivela la vera ossessione del lettore di professione, il quale a un certo punto chiarisce: «[…] Russello intendeva sottolineare una volta di più la frattura fra le cose come sono e le cose come dovrebbero essere. Sventura ai precursori, beni e fortuna ai mediocri che vivono la loro giornata con gli occhi a ridosso della trita realtà».
Deduciamo da questo passaggio che il romanzo in questione poteva rivelarsi come una narrazione costruita a tesi, poggiata su una piattaforma ideologica sin troppo chiara e scontata. Ma ecco cosa aggiunge Della Corte: «È un fatto però che il Russello, quando si mette a raccontare, ci piglia gusto. E allora seppellisce le sue intenzioni sotto un tal cumulo di abbellimenti e di trouvailles che il supporto ideologico finisce per essere obliterato quasi del tutto. Di scrittura gustosa e piacevole, Russello farebbe bene a togliere da questo manoscritto tante pagine che stanno lì soltanto per divertire alla buona, annacquando la struttura del manoscritto».
Della Corte in pratica promuove lo scrittore siciliano, pure quando prova a metterne in evidenza le debolezze: sta affermando nel suo giudizio che Giangiacomo e Giambattista poteva configurarsi come un romanzo prefabbricato e invece sorprende e spiazza perché il gusto del racconto, le trovate scoppiettanti hanno la meglio, stemperano il verbo filosofico in un inchiostro reattivo, corrodono lo scheletro teorico e la rigida impalcatura dottrinale.
Il parere del resto così si chiude: «Il suo gioco moralistico si dimostra più gratuito e sfuggente: lo sterzo è girato quasi per intero nella direzione del divertimento».
Ma c’è una macchia, come s’è visto, nel dattiloscritto di Russello: nell’imo delle sue pagine Della Corte intravede il peccato di lesa maestà. «Dicevamo: se non esistesse Calvino… Ma, dietro le pagine meglio riuscite, sta l’enigmatico sorriso del Barone rampante, il suo settecentesco e ironico mondo in cui superstizione e ragione contrastano con modi particolarmente insinuanti». Il lettore di professione va più a ritroso, a caccia di possibili genealogie: «E, più indietro – e incomparabilmente più grande –, c’è il Voltaire di Candido e dell’Ingenuo». Per poi chiudere così: «A me pare che Russello dia dei discreti libri. Uno per uno, si possono anche leggere. Ma non ci dà, di sé, l’immagine di uno scrittore maturo, con una univocità di intenti che si mantenga intatta sotto lo smalto di magari diverse esperienze».
Qui Della Corte in qualche modo coglie nel segno: Russello è stato uno scrittore imprevedibile, metamorfico, sfuggente. Il fatto di rifiutare la sagoma monolitica lo ha esposto a diversi rischi, la mobilità della sua scrittura e dell’ispirazione ne ha fatto un romanziere insofferente e erratico che ha dato frutti a volte acerbi, è vero (ci sono troppi titoli nella bibliografia di Russello). Si ha difficoltà a mettere a fuoco il suo vero profilo, la vena sorgiva della sua ispirazione si è dispersa in rivoli secondari, ma questo non toglie nulla a un gruppo compatto di opere, a cominciare da La luna si mangia i morti, passando per La grande sete e almeno due racconti di Siciliani prepotenti, per arrivare poi a Giangiacomo e Giambattista. Per non dire di alcuni libri postumi.
Il romanzo di Russello, con al centro Rousseau e Vico sui quali però l’autore posa subito una lente deformate e picaresca, passa pure al vaglio di Niccolò Gallo, suo conterraneo: anche in questo caso dal parere di lettura si affaccia il fantasma dello scrittore sanremese: «Il riferimento alle favole metafisiche di Calvino è fin troppo evidente, ma non preoccuperebbe se Russello fosse riuscito a introdurre consapevolmente nel genere una carica maggiore di colore e di invenzione, un più preciso senso paradossale, da teatro dei pupi». Lettore quasi infallibile, dal fiuto straordinario, qui però Gallo inciampa: a petto dell’illuminismo ricreato da Calvino e setacciato dalla sua sensibilità, quello di Russello si distingue e spicca proprio per la presenza maggiore di colore e di invenzione, per il gusto del paradosso, per un che di teatrale, quasi da fondale di cartapesta.
È Vittorio Sereni, direttore letterario già a partire dalla fine degli anni Cinquanta, a incaricare Gallo della «questione Russello»; il problema rimane l’imprevedibilità dell’autore: «Tenta corde troppo diverse da un libro all’altro: è questo il vero guaio» scrive Sereni il 20 gennaio del 1962. Sullo stesso foglio, va detto tra parentesi, si legge una chiosa vergata a penna nella quale si ipotizza la segnalazione del romanzo di Russello per la pubblicazione a puntate nell’“Illustrazione Ticinese”, siglata R.C., le iniziali di un’altra figura chiave della casa editrice milanese, Raffaele Crovi.
Certo, colpiscono i pareri nettamente divaricati: da un lato Della Corte si aspettava più rigore e univocità, come abbiamo visto, sui quali però prevarica a suo avviso il gusto del paradosso e dell’affabulazione; dall’altro Gallo, il quale legge il libro di Russello a dispetto dell’indicazione di Sereni (che gli chiedeva di pronunciarsi sul romanzo «per ora senza leggere il testo» ma tenendo conto del parere già vergato) avrebbe preferito più invenzioni e trovate, un più efficace turbinio inventivo. Quest’ultimo apprezza la scrittura di Russello ma non fino in fondo, elogia il modo in cui porta avanti il racconto ma bacchetta l’autore per aver frantumato la favola illuministica «nelle più diverse direzioni».

«Il racconto si snoda facilmente, nel suo andamento di narrazione popolaresca, grazie alle doti di immediatezza coloristica del Russello». Gallo si accorge dell’irrequietezza stilistica e poetica dello scrittore favarese:

“Per giunta, la sua ricettività di temperamento, la capacità artigianale di orecchiare modi e forme in circolazione, lo portano di volta in volta a tentare strade diverse, a giocare le proprie carte nelle direzioni più inaspettate e perfino meno congeniali. Dopo il neorealismo figurato e liricizzante de La luna si mangia i morti e la coloritura a sfondo espressionistico dei racconti rifiutati ultimamente, ora qui, in questo Giangiacomo e Giambattista, costruisce a suo modo un romanzo illuministico ad usum delphini, con ambizioni di favola morale e di conte philosophique.”

La conclusione del parere è possibilista: «Allo stato attuale, per quanto abbia una sua facile piacevolezza, questo Giangiacomo e Giambattista non mi pare pubblicabile. Volendo, si potrebbe proporre all’autore un lavoro di riduzione e di affinamento. Ma in vista di un’utilizzazione nel “Bosco”, perché, anche tenendo conto di un eventuale ridimensionamento, la natura del libro e il livello dello scrittore mi portano fin d’ora ad escludere che possa figurare nella collana del Tornasole».
A questo punto occorre qualche precisazione in merito alla filiazione del romanzo di Russello dalla costola calviniana. Perché è vero che Giangiacomo e Giambattista presenta non poche affinità con Il barone rampante: è evidente che entrambe le opere derivino da un retroterra comune, nel quale trovano collocazione il Candide di Voltaire e Jacques il fatalista di Diderot, assieme ad Alice nel paese delle meraviglie, I ragazzi della via Pal, il Barone di Münchausen e Gulliver. Si va dunque dal racconto filosofico vero e proprio ai classici dell’umorismo poetico e fantastico e a quelli della narrazione d’avventura e picaresca. Ma non basta: Russello ha letto Il barone, basti pensare ai ragazzini sugli alberi (sono ragazzi imparentati, in qualche modo, con la banda dei «bambini sperduti» che trascorrono le loro giornate avventurose sull’Isola-che-non-c’è, cugini lontani di Peter Pan), all’abitudine di questi ultimi di guardare le cose alla rovescia: non è Cosimo Piovasco di Rondò che un bel giorno (il 15 giugno 1767) decide di arrampicarsi su un elce e di non scendere più? E una volta sugli alberi, Cosimo non si concede il lusso di guardare il mondo a testa in giù?
C’è pure la coincidenza dei mezzi di comunicazione utilizzati in entrambi i romanzi: Giangiacomo si tiene in contatto con l’amico Giambattista tramite un piccione viaggiatore, al quale vengono affidate le lettere di entrambi i protagonisti. Nel romanzo di Calvino, Cosimo tiene corrispondenza epistolare coi maggiori filosofi e scienziati d’Europa. E poi una sorta di comune sentire ambientalistico: l’attenzione creaturale nei confronti delle piante, il richiamo a una responsabilità comune, a una sorta di etica del paesaggio.
Detto questo, dal capolavoro di Russello però si affaccia anche Vico, una vera novità: il grande filosofo napoletano in quel frangente non godeva di particolare attenzione da parte degli studiosi e degli scrittori. Non dimentichiamo che, solo di recente, grazie a Edward Said si è tornati a parlare dell’autore de La scienza nova. Said ha rivalutato Giambattista Vico riprendendo il suo discorso sulle idee degli uomini, che sono tutte connaturate negli individui umani e quindi sono strettamente collegate alla storia reale e cambiano con il tempo, così come può cambiare la storia stessa, perché è fatta dagli uomini. Storia che è la scienza nuova cui il titolo allude. Da qui il netto rifiuto del pensiero di Cartesio, il quale dal canto suo riteneva plausibile l’esistenza di idee chiare e distinte, sciolte sia dalla mente umana che le elabora sia dalla Storia.
Giambattista Vico nel romanzo è un pensatore sbeffeggiato: la moglie lo considera un poco di buono e perditempo, i suoi concittadini lo snobbano. A un certo punto Russello ha una grande trovata: il cielo sopra Napoli è pieno di aquiloni e il mare davanti zeppo di barche. I figli del filosofo sulla scalinata reggono per il filo gli aquiloni: «A Giambattista gli si veniva a porre davanti agli occhi come un giornale spiegato; e vide che quei delinquenti gli aquiloni li avean fatti con le pagine della sua opera». I ragazzi trasformano le pagine del padre, che nessuno vuol leggere, che nessuno degna di attenzione, in fogli svolazzanti. «Uno, grande grande, indugiò di più davanti ai suoi occhi, pencolò e lui vi lesse felice, senza nemmeno uscire le braccia di sotto le coltri, quei pensieri che tanto aveva sudato a scolpire con la penna».
Ne viene fuori un’immagine che Calvino avrebbe potuto di certo allineare in quella sua efficacissima galleria di istantanee letterarie legate alla «leggerezza».
Quando si diffonde la notizia della morte di Giambattista, tutti gli Accademici si muovono in corteo dall’Università per onorare il defunto, portando sopra un cuscino rosso il manoscritto della sua opera. Ma le Confraternite e gli stessi Accademici non riescono a mettersi d’accordo sulle modalità del funerale e su come vestire il cadavere; a un certo punto le file si sciolgono, tutti se ne vanno «lasciando in asso il morto. Il quale rimase solo, in mezzo all’atrio, nell’ombra e nel silenzio». Inutile dire che qui Russello amaramente preconizza il suo destino di scrittore.
Vale la pena di ricordare che, rifiutato da Mondadori, Giangiacomo e Giambattista viene pubblicato da Flaccovio nel 1969 registrando, tra l’altro, l’entusiasmo di Giancarlo Vigorelli il quale, sulle colonne de “Il Tempo”, lo definisce «il libro italiano letto ultimamente che mi ha più sorpreso, intrattenuto, soddisfatto, pur nella sua apparente inattualità». Libro grazie al quale Russello sarà tra i finalisti al premio Campiello nel ’70, accanto a Moravia, Cassola, Gadda e Soldati.
Col marchio editoriale della Mondadori lo scrittore favarese però esordisce nel 1960, subito recensito con entusiasmo dal solito Leonardo Sciascia sulle pagine de “L’Ora”: l’autore di A ciascuno il suo parla di una «rutilante favola della Sicilia» e addita, a proposito dell’asse portante del libro, una «gitaneria» di origine isolana che si combinava «agli influssi del lorchismo».
Si tratta di un esordio ottenuto in mezzo ai marosi editoriali, come testimonia una lettera che Russello invia al direttore Orlandi il 2 aprile 1958 proprio in merito a La luna si mangia i morti, che già da due anni giace in lettura presso la casa editrice milanese. «Il mio amico dottor Mario Formenton, cognato del Sig. Alberto Mondadori, mi ha testé scritto che Ella avrebbe dato una risposta definitiva entro la prossima settimana circa la data di pubblicazione del mio libro».
L’autore in pratica vuol mettere a conoscenza Orlandi delle burrascose vicende editoriali legate al romanzo, inviato alla Vallecchi nel 1953: dopo un anno la casa editrice decide di pubblicarlo. Frattanto, l’autore invia lo stesso libro al premio «Fiera letteraria»: il vincitore sarebbe stato pubblicato sempre da Vallecchi. Arriva l’annuncio della pubblicazione del romanzo ma la casa editrice chiede che sia Giovanni Comisso, amico di Russello, a vergare la prefazione. Comisso scrive la presentazione dell’opera «molto lusinghiera» (di cui però non c’è traccia), il libro sta per uscire ma Vallecchi fallisce e il premio va in fumo.
Russello a questo punto invia il dattiloscritto alla Mondadori e dopo un anno riceve risposta positiva e un’indicazione della data di pubblicazione: il 1958. «Ho sperato nel 1958 – aggiunge lo scrittore nella sua lettera – ed è venuto. Ho paura che ci siano nuove sorprese».
In realtà per Russello il cammino è subito in salita, faticoso e impervio: i pareri di lettura custoditi consentono di ricostruire la storia del suo debutto letterario, a cominciare dalla scheda firmata da Sergio Antonielli datata 13 agosto 1956.
Il cui incipit non lascia certo dubbi: «Un buon libro, senz’altro pubblicabile».
Segue un veloce resoconto che illumina meglio la cronologia della produzione di Russello: Antonielli infatti specifica che La luna si mangia i morti è il terzo lavoro dello scrittore passato al vaglio, che spicca per «un’assai maggiore maturità espressiva, una più esperta aderenza al tema» (rispetto ad esempio all’opera giudicata precedentemente, ossia Le terre di zio Santo; da un’altra scheda di lettura si ricava che Russello aveva proposto a Mondadori anche Don Kilometro, che ha visto poi la luce postumo per i tipi di Santi Quaranta col titolo In viaggio con l’auto ferma). Il lettore apprezza il fatto che la Sicilia sia rappresentata da lontano, «con un certo distacco»; Antonielli precisa che quest’isola di banditi buoni e di carabinieri che combattono la mafia può vantare precedenti letterari, per non dire dei mezzi con cui tutto questo è raccontato, ossia «la memoria e il ricupero delle leggende dell’infanzia in fondo ad esse». Ma Russello «racconta con vivacità e freschezza, infilando serie felici di buone pagine, talune delle quali veramente belle».
Poi l’estensore del parere torna sulla maturità stilistica: questa volta le espressioni dialettali sono usate meglio, «diffuse in un tono costante, trasformate in sintassi tanto che si può parlare di vera coerenza stilistica». Pur notando qualche periodo un po’ macchinoso e qualche leggero segno d’imperizia formale, Antonielli conclude affermando che «si tratta di un buon risultato letterario»; «il libro appare organico e coerente ed è possibile che abbia buona accoglienza da parte del pubblico. Non mi meraviglierei se avesse successo e si portasse via qualche premio».
Sulla prima pagina del parere di lettura, in alto a sinistra si scorge un appunto scritto a penna, inchiostro nero: «Sentire Romanò in seconda lettura, tuttavia sarei già propenso alla pubblicazione». Siglato E.V., ossia Elio Vittorini.
Entra in scena proprio Romanò, in seconda lettura: è il 13 settembre 1956. Egli mette subito in rilievo alcune peculiarità della scrittura di Russello, come la «sintassi a scatti, di tipo fondamentalmente lirico», «l’accavallarsi dei simboli». Una «musica emotiva» gonfia e appesantisce un po’ le pagine ma il libro è valido perché ha una sua «vitalità e novità». «Il parere è dunque favorevole» conclude Romanò, proponendo però di cambiare il titolo, che gli sembra «troppo rettorico e quindi inespressivo, anche se ha un riferimento con uno dei simboli dominanti, quello della luna lupinara».
A questo punto interviene Vittorini in persona dalla Segreteria editoriale (20 settembre 1956): «Farei proposta di contratto (e con ciò lascerei cadere, beninteso, l’altro libro dello stesso, tanto inferiore a questo). Ritengo inutile (dopo i pareri favorevoli di un Antonielli e di un Romanò) sentire altro lettore».
A Vittorini risponde Roberto Cantini, il 10 ottobre dello stesso anno: «Sì, ma le restrizioni che ci vengono attualmente imposte dalle esigenze di programma ci impediscono nel momento di prendere in considerazione questo scrittore».
Sembrava fatta per Russello, ma si mettono di mezzo le restrizioni dettate dalle esigenze di programma della casa editrice.
Passa più di un anno e in casa editrice si rimette mano al fascicolo Russello: è la volta del terzo lettore, Giuseppe Cintioli, che non si mostra tenero nei confronti del romanzo: non lo convince il «linguaggio agglutinante, a scosse, a singhiozzi», lo infastidisce la «mancanza di nerbo narrativo». Legge, tra le righe, suggestioni «di tipo verghiano, e comissiano e pavesiano» (il Pavese di Feria d’agosto). Lo colpiscono però alcuni pezzi «provvisti di proprio impeto, di foga da leggenda: in merito ai rapporti del sangue; ai fenomeni della natura; alle cose nel loro aspetto più toccante». È probabile, ipotizza Cintioli, che l’autore abbia imboccato una strada «che potrebbe anche non essere sbagliata, a patto ch’egli riesca a liberarsi di tutte le frange e del falso stilismo che per ora lo opprimono»: il giudizio alla fine è negativo.
Il 4 aprile 1958 (due giorni dopo rispetto alla data in cui Russello scrive la lettera indirizzata al direttore Orlandi) Vittorini prova a tirare le somme: «Due lettori, per solito piuttosto severi, si sono pronunciati favorevolmente nel ’56. Anch’io gli diedi una scorsa, sempre nel ’56, e trovai che poteva entrare senza disdoro nella medital [Medusa degli italiani, n.d.a.]. Ora un terzo critico di più fresco gusto lo giudica invece falso e confuso». Alla luce di ciò, lo scrittore siracusano crede che sia meglio non firmare il contratto. «Potremmo tuttavia chiedergli se intanto (giacché sono passati due anni) ha scritto dell’altro, farci mandare in esame quello che eventualmente avesse scritto e prendere la decisione in base al risultato che tale nuova prova ci desse».
Nello stesso giorno si pronuncia Mario Rivoire, storico, traduttore e consulente mondadoriano: «Ho parlato con Vittorini, al quale ho fatto presente che promesse e impegni hanno a volte pari valore dei contratti. E che, d’altra parte, il suo stesso giudizio era stato, dapprima, favorevole. Pertanto egli concorda nell’accettare il romanzo, pur con il timore che non abbia ad essere seguito da altre opere, e dice che in un secondo tempo si deciderà se Medital o altra collana. Io sarei per Medital e credo che anche Vittorini finirà col ritornare al suo primo sì».
Passano undici giorni e finalmente la situazione si sblocca: «Vittorini preferisce ro.ra.do. [la collana in questione è quella di “Romanzi e racconti italiani”, n.d.a.]».
Rivoire a questo punto si pronuncia definitivamente: «Allora, facciamo come dice Vittorini: ro.ra.do. Grazie».
Russello finalmente esce fuori dal limbo, esordisce con un marchio di fabbrica di tutto rispetto. Nonostante le difficoltà incontrate, i differimenti e le incomprensioni egli non molla: l’autore di La grande sete torna infatti ripetutamente alla carica proponendo altri lavori alla casa editrice milanese, come ad esempio Venezia zero, che poi sarebbe uscito nel 1985 per i tipi delle Edizioni della Galleria (Treviso) e successivamente riproposto da Santi Quaranta col titolo La danza delle acque.
Qui Russello sceglie, come recita il titolo, la città lagunare quale teatro delle vicende narrate. Vicende che l’autore declina secondo tre diversi registri che egli stesso così definisce: una prima «pittorica», una seconda «musicale», una terza «vitrea o acquatica». Al centro della storia, il giovane siciliano Gabriele, laureato in lettere, giunto a Venezia per prendere servizio alla Banca del Sud. Lo sguardo dell’autore è una sorta di grandangolo, in grado di deformare ogni cosa, di trascendere la referenzialità del quotidiano, per attingere a un immaginario abnorme. Da qui deriva l’estraneità del punto di osservazione del protagonista della storia, il quale, «con la testa a pelo d’acqua», trova il modo d’affondare e da sott’insù vedere come «i palazzi scorrono capovolti, ora da palazzo a palazzo le ombre dei nobili con le loro mani uscenti da maniche di broccato, in un girotondo d’aspirazioni aristocratiche mediocri, si danno la mano». Per poi, alla fine, ammettere: «M’accorgo che ho imparato a vedere da un altro angolo le cose».
A leggere il dattiloscritto saranno Carlo Della Corte (20 novembre 1968), Inìsero Cremaschi (13 dicembre 1968) e Carlo Quintavalle (19 febbraio 1969).
Il primo e il terzo giudicano negativamente l’opera: Della Corte pur affermando che «Russello ha delle qualità, sa scrivere» definisce il risultato alla fine «decoroso, professorale ma incerto»; Quintavalle prende una solenne cantonata allineando il nome di Russello accanto a quello di Massino Simili, scrittore umorista mille miglia distante dall’autore favarese.
Cremaschi rimane ben impressionato, precisa che Russello «si pone su un piano di ricerca letteraria che sa poi affrontare con lucidità e discreti mezzi espressivi». Apprezza il piglio rivoluzionario anche se l’autore avrebbe potuto osare di più: «Forse è mancato il coraggio di andare più in là, di rompere definitivamente col verismo, in una parola di sperimentare fino in fondo la possibilità di una narrativa “pulita” dalle scorie romanzesche». Qui Cremaschi centra il bersaglio critico; in chiusura specifica che «un tentativo del genere poteva diventare autentica eversione, contestazione letteraria, perfino sberleffo della “significazione” – e trovare una utilità proprio nella sua apparente inutilità di gioco funambolico». Il giudizio infine è «complessivamente positivo non fosse altro che per le ardite intenzioni polifoniche e per le estreme difficoltà del percorso».
Viene fuori, da questo periplo attorno alle carte mondadoriane, l’immagine di uno scrittore inafferrabile, che non agevola il procedimento dell’agnizione. Ogni volta che egli mette mano a un’opera (ci riferiamo a quelle più riuscite), rinnega se stesso, manda in soffitta la sua storia precedente; ricomincia daccapo, inizia un nuovo cammino scegliendo il sentiero più impervio e meno conosciuto.
Romanziere polimorfico, Russello non ha tollerato le camicie di forza interpretative, le gabbie ermeneutiche; ha preferito mostrare ogni volta un nuovo sembiante. Si è trattato di penuria di coerenza poetica, di uniformità stilistica? Oppure il fatto che lo scrittore siciliano non potesse essere compreso in un solo modo, in una direzione univoca, rappresentò una sorta di deterrente critico, di castrante inibizione interpretativa?

(Riproduzione riservata)

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Salvatore Ferlita nato a Palermo nel 1974, è professore associato di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli studi di Enna Kore. Collabora a “la Repubblica” (edizione siciliana) e al mensile “Segno”. Ha scritto, tra l’altro, I soliti ignoti (Dario Flaccovio, 2005), Sperimentalismo e avanguardia (Sellerio, 2008), Novecento futuro anteriore. Saggi di letteratura (Di Girolamo, 2009), Contro l’espressionismo. Dimenticare Gadda e la sua eterna funzione (Liguori, 2011), Le arance non raccolte. Scrittori siciliani del Novecento (Palumbo, 2011), Alla corte di Federico (Bonanno, 2012) e Non per viltade. Papi sull’orlo di una crisi (Mimesis, 2013).
Per il Palindromo dirige la collana “Le città di carta”, di cui ha scritto il primo volume: Palermo di carta. Guida letteraria della città, ed è autore di Letture ricreative. Traiettorie e costellazioni letterarie. Ha inoltre scritto l’introduzione alla nuova edizione di I fatti di Petra di Nino Savarese.

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di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato a questo nuovo saggio di Francesco Roat intitolato “Il cantore folle. Hölderlin e le Poesie della torre” (Moretti & Vitali). Il libro è incentrato sulla figura del poeta Friedrich Hölderlin (1770-1843), sulla sua poesia e… sulla sua “follia”.
Ho avuto modo di discuterne con l’autore…

-Caro Francesco, come nasce il tuo interesse per le poesie di Friedrich Hölderlin? E come si è evoluto questo tuo interesse al punto da spingerti a dedicargli un saggio?
Hölderlin (1770-1843) a tutt’oggi è considerato unanimemente non solo uno tra i più grandi lirici/scrittori germanici, ma pure uno dei massimi poeti moderni occidentali. Ed io, che sono nato in una regione di confine tra il mondo italiano e quello tedesco (il Trentino-Alto Adige), ho sempre avuto un forte interesse per la letteratura e, in genere, per la cultura tedesca. Negli ultimi anni, non a caso, ho scritto saggi intorno a Goethe, su Rilke e Robert Walser. Era quindi fatale approvassi ad Hölderlin, la cui opera poetica è da senz’altro ritenersi anticipatrice di istanze, inquietudini e forme stilistiche innovative; per certi versi – oso affermare provocatoriamente − quasi novecentesche.

-Approfitterei di questa intervista per contribuire a far conoscere la figura di Hölderlin. Parliamo di lui: che tipo d’uomo è stato?
Direi innanzitutto un personaggio notevole sin dalla più giovane età. Sensibilissimo, appassionato di musica (fu un discreto pianista) e dell’arte in generale, si interessa dapprima dei poeti greci e latini, poi di quelli a lui contemporanei e inizia quindi a comporre egli stesso, andando contro i desiderata della madre che lo vorrebbe pastore protestante. Nello Stift di Tubinga ‒ celebre collegio di studi teologico-filosofici ‒ incontra Schelling ed Hegel, il quale diverrà suo amico fraterno. Ma le loro vie ben presto si divideranno: vocato alla filosofia quest’ultimo, alla poesia Hölderlin, che in seguito avrà la ventura di conoscere Schiller, von Humboldt, Novalis e persino di incontrarsi col vecchio Goethe. Il Nostro scriverà numerose opere: il romanzo Iperione e testi poetici eccelsi, come gli Inni, le Odi e le Elegie; tuttavia egli non verrà comunque mai apprezzato/riconosciuto appieno durante la sua vita. Solo nel secolo successivo infatti la produzione hölderliniana riceve finalmente la considerazione che merita. Ma veniamo al fatidico 1807, quando il poeta cade preda della pazzia, finendo relegato sino alla morte, per i successivi 36 anni, nella cosiddetta torre di Tubinga, dove egli scriverà i suoi ultimi testi, intitolati giusto: Poesie della torre.

-Approfondiamo un po’ di più l’aspetto relativo al disagio psichico di questo poeta. Del resto il titolo del saggio è molto indicativo: “Il cantore folle”. Da dove trae origine la sua “follia”?
Da una grave forma di psicosi, appunto, ovvero la schizofrenia, forse provocata o favorita dalla morte prematura e improvvisa della sua amatissima Diotima (così lui chiamava Susette Gontard), dopo la cui scomparsa Hölderlin precipita in breve tempo in una pazzia devastante, da cui non guarirà più. Rinchiuso nella “torre” a causa della sua ingestibilità, il poeta viene abbandonato da amici e conoscenti, che gli fanno visita via via sempre più di rado: “vuoi perché la loro pietà era talmente grande da lasciarli scossi fino alle radici alla vista di un crollo spirituale così compassionevole” – come scrive Wilhelm Waiblinger nella sua biografia sul poeta −, “vuoi perché se ne stancavano velocemente, ritenendo che non si potessero scambiare con lui nemmeno due parole di senso compiuto”. Eppure, e questo è un autentico miracolo, durante i lunghi e solitari decenni della sua reclusione Hölderlin continua a scrivere, componendo/distillando una cinquantina di poesie, che vari critici ritengono rappresentino l’apice creativo della sua pur vasta produzione. Va precisato, comunque, che probabilmente egli produsse altri testi poetici, finiti chissà dove o trafugati dopo il suo decesso.

Risultati immagini per francesco roat-Che tipo di influenza ha avuto la schizofrenia nell’arte poetica di Hölderlin?
La ha profondamente mutata, questo è fuori dubbio. Se prendiamo gli inni tardi e le liriche scritte prima del ricovero nella clinica psichiatrica (1807) e li confrontiamo con le Poesie della torre, vi troveremo una differenza abissale: riguardo a temi, stile, linguaggio, ampiezza dei testi persino: molto più brevi sono in genere queste ultime ed assai più semplici. Ciò non vuol dire però poeticamente meno intense. Anzi, come ho accennato prima, l’ultima peculiarissima produzione creativa del Nostro ‒ così icastica, lineare, quasi naif direi, con un ritorno all’uso della rima ‒ è forse la più felice. Anche se la sintassi delle Turmgedichte si fa talvolta eccentrica e in alcuni casi la strofa è a rischio d’incoerenza grammaticale; così come l’ostinatezza reiterata di certe immagini può far pensare a una coazione ossessiva a ripetere. Ciò che in ogni caso colpisce in tali poesie d’estremo nitore  è una grande levità, il respiro musicale e placido di una versificazione sobria ed essenziale ma ricca di echi, rimandi, suggestioni.

-È possibile scindere l’arte poetica dal sopravvenuto disagio psichico del suo autore (a cui abbiamo già fatto riferimento) o le due componenti finiscono con l’essere inevitabilmente (e ineluttabilmente) legate?
Questione difficile, a cui è difficile rispondere in poche parole, ma cercherò di farlo sottolineando come la tarda produzione poetica hölderliniana resta comunque contrassegnate dal marchio deturpante della psicosi, se non altro per quanto concerne la firma e la datazione. Molte di esse infatti sono firmate Scardanelli, che non è un vero e proprio pseudonimo, poiché, a mio avviso, esso indica l’abbandono dell’identità, l’abdicazione dell’io, il venir meno del soggetto raziocinante Hölderlin. Per non parlare delle date incongrue con cui sono siglate le poesie, una delle quali reca la data più assurda e inquietante: il 1943. Eppure, ad onta della schizofrenia e della reclusione alienante, il poeta continua ad essere tale, pervenendo infine ad una sorta di accettazione mistica della propria sofferenza e, spogliatosi di ogni egoità, raggiunge una purezza espressiva commovente/coinvolgente.

-Cosa puoi dirci in merito ai giudizi contrastanti sui testi di Hölderlin prodotti, appunto, nel periodo creativo segnato dalle problematiche psichiche?
Sulla tarda produzione hölderliniana e sulla sua pregnanza poetica permangono ancora dei giudizi contrastanti, anche se sempre più si sta affermando la consapevolezza del valore delle Poesie della torre. E, modestamente, con questo saggio io cerco di addurre argomenti a favore di quest’utima tesi. In estrema sintesi Hölderlin, a mio avviso, resta grande sino all’ultimo.

-Che tipo di riscontro hanno avuto le poesie di Hölderlin nel nostro Paese? Mi riferisco soprattutto al ruolo svolto da Ungaretti, Luzi, Montale, Zanzotto (ma anche da Guardini e Reitani)…
Qui tocchiamo un tasto dolente. La poesia, in Italia, non ha mai goduto dell’attenzione che meriterebbe presso i lettori. Oggi, purtroppo, meno che mai. Parliamoci con franchezza: la maggior parte della gente non sa nemmeno chi sia Hölderlin. Certo gli intellettuali, gli uomini di cultura che tu citi hanno invece fatto molto per far conoscere nel Belpaese il poeta tedesco. Soprattutto gli ultimi due. Romano Guardini ha scritto un testo critico fondamentale sulla sua opera (parlo di Hölderlin. Immagine del mondo e religiosità, edito dalla Casa Ed. Morcelliana) e Luigi Reitani ne ha tradotto tutte le poesie e sta inoltre allestendo un volume dei Meridiani Mondadori che raccoglierà tutti gli altri scritti del Nostro. Tuttavia, ripeto, resta che la poesia da noi si legge troppo poco.

-A proposito di poesia (che va letta!)… come epigrafe del libro hai scelto questi versi tratti dalla poesia “Brod und Wein” (Pane e vino) di Friedrich Hölderlin. Li ricopio di seguito…
Un fuoco divino pur ci sospinge, di giorno e di notte, / a metterci in marcia. Su, vieni! Guardiamo nell’Aperto, / cerchiamo qualcosa di nostro, per quanto sia ancora / lontano.
Perché hai scelto proprio questi versi come “anticamera testuale” del tuo saggio?

Perché possono davvero riassumere la poetica di Hölderlin. Il concepire ogni cosa, ogni singolo essere come parte del divino o del sacro che dir si voglia ‒ vedasi la famosa definizione, di provenienza eraclitea, ἓν ϰαὶ πᾶν (Uno e Tutto) ‒, qui visto quale fuoco, corrente energetica che urge in noi, stimolandoci ad agire e creare. È al contempo l’invito a guardare all’Aperto (das Offene): all’oltre, all’altrove e all’altro rispetto alla notra piccola monade egocentrica ed egocentrata. Un’apertura che corrisponde alla nostra autenticità di eterni viandanti senza stelle fisse all’orizzonte.

-In definitiva qual è, a tuo avviso, la principale eredità culturale (e poetica) che ci lascia Friedrich Hölderlin?
Invece di rischiare parole retoriche o di circostanza, preferirei lasciare che parli il poeta stesso, citando in conclusione di questa nostra chiacchierata giusto l’ultima poesia della torre, scritta forse il giorno prima di morire. Meditando su di essa, che accenna alla morte non come annichilimento definitivo ma come metamorfosi, i lettori si misureranno con la sua estrema, lucida e felice testimonianza. Si tratta della lirica dal titolo La veduta, che io ho cercato di tradurre, consapevole di come ogni tentativo di questo genere sia sempre operazione limitata e infedele, essendo sin troppo vero che tradurre equivale pur sempre a tradire.

Quando va lontano la vita che dimora negli umani,
dove lontano splende il tempo della vite,
v’è pure accanto il campo spoglio dell’estate,
e il bosco appare con la sua immagine scura.
Che la natura completi l’immagine delle stagioni,
che lei rimanga, esse trascorron via veloci,
è per sua perfezione; allor l’alto del cielo
all’uom riluce, come la fioritura gli alberi incorona.

-Grazie, caro Francesco. Invitiamo gli amici lettori a leggere le poesie di Friedrich Hölderlin e ad approfondire la conoscenza di questo poeta e delle sue opere attraverso la lettura di questo tuo saggio.

* * *

Francesco Roat ha pubblicato i testi narrativi: Tra-guardo (Argo-1999), Una donna sbagliata (Avagliano-2002), Amor ch’a nullo amato (Manni-2005), Tre storie belle (Travenbooks-2007), I giocattoli di Auschwitz (Lindau-2013), Hitler mon amour (Avagliano-2014); e i saggi: L’ape di luglio che scotta. Anna Maria Farabbi poeta (LietoColle-2005), Le Elegie di Rilke tra angeli e finitudine (Alpha beta- 2009), La pienezza del vuoto. Tracce mistiche negli scritti di Robert Walser (Vox Populi-2012), Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove (Moretti&Vitali-2015).

* * *

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INTERVISTA (impossibile) A UMBERTO ECO: Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/04/30/intervista-impossibile-a-umberto-eco/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/04/30/intervista-impossibile-a-umberto-eco/#comments Sat, 30 Apr 2016 09:53:07 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7128 pape-satan-aleppe

Ipotetica conversazione sul volume “Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida” di Umberto Eco (La nave di Teseo)

di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è incentrato sull’ultimo libro di Umberto Eco intitolato Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida” (La nave di Teseo). Ho già avuto modo di presentare questo libro nell’ambito del post (omaggio) dedicato alla memoria di Umberto Eco, scomparso il 19 febbraio 2016 (all’età di 84 anni). Tuttavia desideravo offrire un ulteriore spazio a questo libro così ricco di occasioni di riflessione. Sono tantissime, infatti, le problematiche che Umberto Eco affronta (partendo dal concetto stesso di società liquida) attraverso la pubblicazione di una selezione delle sue Bustine di Minerva apparse sul settimanale l’Espresso nell’arco di quest’ultimo quindicennio. Problematiche che si evincono già dalla lettura dei titoli dei vari capitoli che compongono il libro (che elenco qui di seguito): “A passo di gambero”, “Essere visti”, “I vecchi e i giovani”, “On line”, “Sui telefonini”, “Sui complotti”, “Sui mass media”, “Varie forme di razzismo”, “Sull’odio e la morte”, “Fra religione e filosofia”, “La buona educazione”, “Sui libri e altro”, “La Quarta Roma”, “Dalla stupidità alla follia”.
Avrei tanto desiderato discuterne con lo stesso Eco. Purtroppo, per via della sua scomparsa, non ne ho avuto l’opportunità.
Leggendo il libro, però, mi sono accorto che all’interno del testo erano già presenti le risposte alla maggior parte delle domande che avrei voluto porgli. A quel punto mi sono tornate in mente “Le interviste impossibili” realizzate nell’ambito di un programma radiofonico andato in onda dal 1973 al 1975 sulla seconda rete Rai, in cui uomini di cultura contemporanei (tra cui lo stesso Umberto Eco) elaboravano interviste (“virtuali”) a persone appartenenti a un’altra epoca (e, dunque, impossibili da incontrare nella realtà). Bompiani, nel 1975, pubblicò un libro contenente una selezione di tali interviste.
È da questo pensiero che nasce l’idea di una mia intervista “impossibile” a Umberto Eco (con la differenza che, in questo caso – come già accennato – le risposte non sono “immaginate”… ma veri e propri stralci del testo medesimo).
Prima di procedere ho ritenuto doveroso consultarmi con Elisabetta Sgarbi (editore de “La casa di Teseo”), la quale – a sua volta – ha ritenuto opportuno chiedere il parere dei famigliari di Eco.
Ne approfitto subito, dunque, per ringraziare Elisabetta e i famigliari di Umberto Eco per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicare gli stralci di testo che leggerete tra le risposte della seguente “intervista impossibile” (che vuole essere un ulteriore omaggio a Eco, al suo pensiero, ai suoi scritti, ma anche alla sua… ironia).

* * *

- Carissimo prof (posso chiamarla così?), intanto vorrei dirle che sono molto felice di poter dedicare a Lei e al suo nuovo libro questo spazio…
Non ho mai potuto sopportare, diciamo dagli ottanta in avanti, che mi si chiamasse “prof”. Forse che un ingegnere lo si chiama “ing” e un avvocato “avv”? Al massimo si chiamava “doc” un dottore, ma era nel West, e di solito il doc stava morendo tisico e alcolizzato.

- Mi scusi, non ero a conoscenza di questo suo fastidio
Non è che abbia mai protestato esplicitamente, anche perché l’uso rivelava una certa affettuosa confidenza, ma la cosa mi dava noia e me la dà ancora. Meglio quando, nel Sessantotto, gli studenti e i bidelli mi chiamavano Umberto e mi davano del tu.

- Non mi permetterò di darLe del tu e mi limiterò a chiamarla prof. Umberto Eco, o professor Eco…
Ripartiamo dall’inizio: come le dicevo sono molto lieto di questo spazio dedicato a “Pape Satàn Aleppe“. In qualche modo questo suo libro aiuta noi lettori ad accettare la sua scomparsa. Inutile dirLe che ci manca molto e che avremmo voluto che rimanesse con noi per molto altro tempo ancora…

Ricordo che quando ero ragazzo mi dicevo che non era giusto superare i sessant’anni, perché dopo sarebbe stato terribile sopravvivere acciaccato, bavoso e demente in un ricovero per poveri vecchi. E quando pensavo al Duemila mi dicevo che sì, teste Dante, avrei potuto vivere sino ai settanta e quindi arrivare sino al 2002, ma era un’ipotesi molto remota e di rado si raggiungeva quella venerabile età.

- Comunque sia, Lei continua a essere presente tra noi con i suoi libri e con “Pape Satàn Aleppe” in particolare. Parliamo di questo libro. Un libro che deriva dalle sue Bustine di Minerva pubblicate su l’Espresso. Ci racconti di questa esperienza…
Ho iniziato la rubrica La Bustina di Minerva sull’Espresso nel 1985, a lungo ogni settimana, e poi quindicinalmente. Come ricordavo all’inizio, le bustine di fiammiferi Minerva avevano all’interno due spazi bianchi su cui si potevano prendere appunti, e pertanto intendevo quei miei interventi come brevi annotazioni e divagazioni sui vari fatti che mi passavano per la testa – di solito ispirati all’attualità, ma non solo, perché ritenevo d’attualità che una certa sera mi fosse preso l’uzzolo di rileggermi, che so, una pagina di Erodoto, una fiaba di Grimm o un fumetto di Braccio di Ferro.
Molte Bustine le avevo inserite nel mio Il secondo diario minimo, del 1992, un numero considerevole era apparso in La Bustina di Minerva, che teneva conto di quelle pubblicate sino a inizio 2000, alcune erano state ricuperate in A passo di gambero nel 2006. Ma dal 2000 al 2015, calcolando ventisei Bustine all’anno, di Bustine ne avevo scritte più di quattrocento e ho ritenuto che alcune fossero ancora ricuperabili.

- C’è qualcosa che accomuna le sue Bustine raccolte in “Pape Satàn Aleppe”?
Mi pare che tutte (o quasi tutte) quelle che raccolgo in questo libro possano essere intese come riflessioni sui fenomeni della nostra “società liquida”, di cui parlo in una delle Bustine più recenti, che pongo a inizio della serie.

- Le sarei grato se potesse approfondire il concetto di “società liquida”…
L’idea di modernità o società “liquida” è dovuta, com’è noto, a Zygmunt Bauman. Per chi voglia capire le varie implicazioni di questo concetto può essere utile Stato di crisi (Einaudi, 2015) dove Bauman e Carlo Bordoni discutono di questo e altri problemi.
La società liquida inizia a delinearsi con quella corrente detta postmoderno (peraltro termine “ombrello” sotto cui si affollano diversi fenomeni, dall’architettura alla filosofia e alla letteratura, e non sempre in modo coerente). Il postmodernismo segnava la crisi delle “grandi narrazioni” che ritenevano di poter sovrapporre al mondo un modello di ordine; si è dedicato a una rivisitazione ludica o ironica del passato, e in vari modi si è intersecato con le pulsioni nichilistiche. Ma per Bordoni anche il postmodernismo è in fase decrescente.

- Bauman parla di crisi dello Stato. Come si delinea?
Scompare un’entità che garantiva ai singoli la possibilità di risolvere in modo omogeneo i vari problemi del nostro tempo, e con la sua crisi ecco che si sono profilate la crisi delle ideologie, e dunque dei partiti, e in generale di ogni appello a una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni.

- Dunque la crisi dello Stato porta con sé la crisi del concetto di comunità…
E con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada di ciascuno ma antagonista, da cui guardarsi. Questo “soggettivismo” ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione nella quale, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono l’apparire a tutti i costi, l’apparire come valore (fenomeni di cui mi sono sovente occupato nelle Bustine) e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo (il nuovo telefonino ci dà pochissimo rispetto al vecchio, ma il vecchio va rottamato per partecipare a quest’orgia del desiderio).

- C’è un modo per sopravvivere alla liquidità?
C’è, ed è rendersi appunto conto che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti. Ma il guaio è che la politica e in gran parte l’intellighenzia non hanno ancora compreso la portata del fenomeno. Bauman rimane per ora una “vox clamantis in deserto”.

- Parliamo un attimo del titolo del libro. Perché “Pape Satàn Aleppe”?
La citazione è evidentemente dantesca (“Pape Satàn, pape Satàn aleppe”, Inferno, VII, 1) ma, com’è noto, benché schiere di commentatori abbiano cercato di trovare un senso a questo verso, la maggior parte di essi ritiene che esso non abbia alcun significato preciso. In ogni caso, pronunciate da Pluto, queste parole confondono le idee, e possono prestarsi a qualunque diavoleria. Mi è parso pertanto comodo usarle come titolo di questa raccolta che, non tanto per colpa mia quanto per colpa dei tempi, è sconnessa, va – come direbbero i francesi – dal gallo all’asino, e riflette la natura liquida di questi quindici anni.

- Tra le altre cose, nel libro, affronta la questione della cosiddetta “sindrome del complotto” (tema a me molto caro). Come nasce, intanto, questa “sindrome”?
La sindrome del complotto è antica quanto il mondo e chi ne ha tracciato in modo superbo la filosofia è stato Karl Popper, in un saggio sulla teoria sociale della cospirazione che si ritrova in Congetture e refutazioni (Il Mulino, 1972). “Detta teoria, più primitiva di molte forme di teismo, è simile a quella rilevabile in Omero. Questi concepiva il potere degli dei in modo che tutto ciò che accadeva nella pianura davanti a Troia costituiva soltanto un riflesso delle molteplici cospirazioni tramate nell’Olimpo. La teoria sociale della cospirazione è in effetti una versione di questo teismo, della credenza, cioè, in divinità i cui capricci o voleri reggono ogni cosa. Essa è una conseguenza del venir meno del riferimento a dio, e della conseguente domanda: ‘Chi c’è al suo posto?’. Quest’ultimo è ora occupato da diversi uomini e gruppi potenti – sinistri gruppi di pressione, cui si può imputare di avere organizzato la grande depressione e tutti i mali di cui soffriamo… Quando i teorizzatori della cospirazione giungono al potere, essa assume il carattere di una teoria descrivente eventi reali. Per esempio, quando Hitler conquistò il potere, credendo nel mito della cospirazione dei Savi Anziani di Sion, egli cercò di non essere da meno con la propria controcospirazione.”

- Grazie per la citazione di Popper. Ma se volessimo sintetizzare la “sindrome” in una frase comprensibile a tutti?
La psicologia del complotto nasce dal fatto che le spiegazioni più evidenti di molti fatti preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male accettarle.

- Ma che utilità ne ricavano, coloro che credono nel complotto?
L’interpretazione sospettosa in un certo senso ci assolve dalle nostre responsabilità perché ci fa pensare che dietro a ciò che ci preoccupa si celi un segreto, e che l’occultamento di questo segreto costituisca un complotto ai nostri danni. Credere nel complotto è un poco come credere che si guarisca per miracolo, salvo che in questo caso si cerca di spiegare non una minaccia ma un inspiegabile colpo di fortuna (vedi Popper, l’origine è sempre nel ricorso alle mene degli dei).
Il bello è che, nella vita quotidiana, non vi è nulla di più trasparente del complotto e del segreto. Un complotto, se efficace, prima o poi crea i propri risultati e diventa evidente.

- Grazie, professor Eco! È stato molto chiaro. I nostri amici lettori che volessero saperne di più troveranno, tra le pagine del libro, ulteriori riflessioni e quant’altro…
A essere sincero, preferisco i neologismi giovanili al vizio adulto di dire a ogni piè sospinto e quant’altro. Non potete dire e così via o eccetera?

- Ha ragione! La prego di scusarmi!
Per fortuna son tramontati attimino ed esatto, per cui l’Italia era diventato il bel paese dove l’esatto suona, ma quant’altro rimane anche nei discorsi di persone serie ed è pareggiato in Francia solo dall’uso incontenibile di incontournable.

- Incontournable?
Serve a dire (udite, udite) che qualcosa è importante (e al massimo è imprescindibile). Incontournable è qualcosa che quando lo incontri non puoi girargli intorno ma devi farci i conti, e può essere una persona, un problema, la scadenza del pagamento delle tasse, l’obbligo della museruola per i cani o l’esistenza di Dio.

- Capisco! La ringrazio molto per l’informazione… incontournable.
Spostiamoci sui libri, professor Eco. So che lei non è molto favorevole all’ebook. In una delle sue Bustine sull’argomento ha parlato di una sorta di pseudoproposta commerciale che pubblicizza una novità. Di che si tratta?

Del Built-in Orderly Organized Knowledge, la cui sigla dà book, ovvero libro.

- Ci spieghi meglio le caratteristiche di questo prodotto…
Niente fili, niente batteria, nessun circuito elettrico, nessun interruttore o bottone, è compatto e portatile, può essere usato anche seduti davanti al caminetto. È costituito da una sequenza di fogli numerati (di carta riciclabile) ciascuno dei quali contiene migliaia di bit d’informazione. Questi fogli sono mantenuti insieme nella sequenza corretta da un’elegante custodia detta rilegatura.
Ogni pagina viene scannerizzata otticamente e l’informazione è direttamente registrata nel cervello. C’è un comando “browse” che permette di passare da una pagina all’altra, sia in avanti che all’indietro, con un solo colpo di dito. Un’utility detta “indice” permette di trovare istantaneamente l’argomento voluto alla pagina giusta. Si può acquistare un optional chiamato “segnalibro” che permette di tornare dove ci si era fermati la volta prima, anche se il book è stato chiuso.

- Mi piace questo Built-in Orderly Organized Knowledge. Credo proprio che lo comprerò.
Rimanendo in tema di libri (e letteratura), in uno dei capitoli del libro parla di Salgari e di Verne. Nella parte iniziale ne parla come se, in un certo senso, questi due autori fossero in contrapposizione…
Quando eravamo ragazzi eravamo divisi in due partiti: quelli che tenevano per Salgari e quelli che tenevano per Verne. Confesso subito che all’epoca tenevo per Salgari, e ora la Storia mi obbliga a rivedere le mie opinioni di un tempo. Salgari, riletto, citato a memoria, amato da tutti coloro che lo hanno vissuto nella loro infanzia, non seduce più (a quanto pare) le nuove generazioni e – a dire il vero – anche gli anziani, quando lo rileggono, o ci mettono un pizzico di nostalgia e ironia, oppure la lettura si fa faticosa, e quei troppi paletuvieri e babirussa vengono a noia.
Per quanti meriti si debbano riconoscere al nostro Salgari, il padre di Sandokan non aveva un gran senso dell’umorismo (come del resto i suoi personaggi, tranne Yanez)…

- Verne, invece?
I romanzi di Verne sono pieni di humour, basti ricordare quelle pagine splendide del Michele Strogoff dove, dopo la battaglia di Kolyvan, il corrispondente del Daily Telegraph, Harry Blount, per impedire al suo rivale Alcide Jolivet di trasmettere la sua corrispondenza a Parigi, tiene occupato l’ufficio telegrafico dettando versetti della Bibbia per l’ammontare di qualche migliaio di rubli; sino a che Jolivet riesce a rubargli la posizione allo sportello telegrafico e lo blocca trasmettendo canzoncine di Beranger. Recita il testo: “– Aoh! – fece Harry Blount. – Così è, – rispose Alcide Jolivet.” E ditemi se questo non è stile.

- Stile e ironia: un bel connubio. Cos’altro le piace di Verne?
Un altro motivo di fascino è che molti racconti di anticipazione, letti a distanza di tempo, quando ormai quello che annunciavano si è in qualche modo avverato, lasciano un poco delusi, perché le cose veramente avvenute, le invenzioni veramente realizzate, sono molto più stupefacenti di quanto il romanziere di un tempo immaginasse. Con Verne no, nessun sottomarino atomico sarà mai più tecnologicamente stupefacente del Nautilus, e nessun dirigibile o jumbo jet avrà mai il fascino della maestosa nave a eliche di Robur il Conquistatore.

- So che, con riferimento a Verne e alle sue opere, teorizza anche un terzo elemento di attrazione. Per conoscerlo i nostri amici lettori sono invitati a (appunto) leggere il libro. E rimanendo ancora nell’ambito dei libri: c’è un capitoletto molto interessante sulla… richiesta di prefazioni. Cosa può dirci in tal senso?
Quello di cui sto per parlare non accade certamente solo a me, ma in genere a tutti coloro che, avendo pubblicato libri o articoli, godono di una qualche notorietà in un campo specifico. Ma non bisogna solo pensare a un grande poeta, a un premio Nobel, a uno studioso emerito.

- So cosa intende. Anche a me, di tanto in tanto, chiedono prefazioni…
Accade persino a chi non è ritenuto né dotto né attendibile, e forse neppure rispettabile, ma che è diventato ormai noto e famoso, magari per essersi esibito in mutande a un talk show televisivo.

- Giuro di non essermi mai esibito in mutande a un talk show televisivo. La prego, ci racconti la sua esperienza. Come reagisce quando qualcuno le chiede l’ennesima prefazione?
Rispondo di solito che (a parte l’impossibilità di leggere tutti quei manoscritti, e il rischio di apparire come prefatore a tassametro), avendo già detto di no ad amici carissimi, dire di sì a un altro suonerebbe per loro come offesa. E di solito la cosa finisce lì.

- E quando il richiedente è un amico?
Perdo tempo a scrivere una lettera più particolareggiata, in cui cerco di spiegare quanto molti decenni di lavoro nel mondo dei libri mi hanno insegnato. Spiego pertanto che il mio rifiuto mira a salvarlo o salvarla da un disastro editoriale.
Io, personalmente (e sarà magari un deplorevole eccesso di hybris, non discuto) non vorrei mai farmi prefare da nessuno – anzi, sono persino contrario al caso del maestro universitario che scrive la prefazione all’allievo, perché rappresenta il modo più letale (per le ragioni sopra elencate) per sottolineare la giovinezza e l’immaturità dell’autore.

- Questo approccio si è rivelato vincente?
Ebbene, di solito il mio interlocutore non rimane convinto, e ritiene che il mio ragionamento sia ispirato a malanimo. Così, a mano a mano che invecchio, molte persone che ho tentato di beneficiare col mio rifiuto mi diventano nemiche.
A meno che si verifichi il caso (che, giuro, si è verificato davvero) del tizio che ha poi pubblicato il libro a proprie spese ponendovi come prefazione la mia cortesissima lettera di rifiuto. Tale è l’umana sete di prefazioni.

- Be’, in un certo senso questo concetto di “umana sete” (legata alla carta) ci riporta quello di “società liquida”.
In chiusura, caro professor Eco, mi piacerebbe che spendesse qualche parola sulla piuttosto recente polemica degli “imbecilli del Web”…
Mi sono molto divertito con la storia degli imbecilli del Web. Per chi non l’ha seguita, è apparso on line e su alcuni giornali che nel corso di una cosiddetta lectio magistralis a Torino avrei detto che il Web è pieno di imbecilli.

- E invece…?
È falso. La lectio era su tutt’altro argomento, ma questo ci dice come tra giornali e Web le notizie circolino e si deformino.

- Ma come è nata questa polemica?
La faccenda degli imbecilli è venuta fuori in una conferenza stampa successiva nel corso della quale, rispondendo a non so più quale domanda, avevo fatto un’osservazione di puro buon senso.

- Quale?
Ammettendo che su sette miliardi di abitanti del pianeta ci sia una dose inevitabile di imbecilli, moltissimi di costoro una volta comunicavano le loro farneticazioni agli intimi o agli amici del bar – e così le loro opinioni rimanevano limitate a una cerchia ristretta. Ora una consistente quantità di queste persone ha la possibilità di esprimere le proprie opinioni sui social network. Pertanto queste opinioni raggiungono udienze altissime, e si confondono con tante altre espresse da persone ragionevoli.
Si noti che nella mia nozione di imbecille non c’erano connotazioni razzistiche. Nessuno è imbecille di professione (tranne eccezioni) ma una persona che è un ottimo droghiere, un ottimo chirurgo, un ottimo impiegato di banca può, su argomenti su cui non è competente, o su cui non ha ragionato abbastanza, dire delle stupidaggini. Anche perché le reazioni sul Web sono fatte a caldo, senza che si abbia avuto il tempo di riflettere.

- E crede che questo sia sbagliato?
È giusto che la rete permetta di esprimersi anche a chi non dice cose sensate, però l’eccesso di sciocchezze intasa le linee. E alcune scomposte reazioni che ho poi visto in rete confermano la mia ragionevolissima tesi. Addirittura, qualcuno aveva riportato che secondo me in rete hanno la stessa evidenza le opinioni di uno sciocco e quelle di un premio Nobel, e subito si è diffusa viralmente una inutile discussione sul fatto che io avessi preso o no il premio Nobel. Senza che nessuno andasse a consultare Wikipedia.

- Lei sostiene anche che un utente normale della rete dovrebbe essere in grado di distinguere idee sconnesse da idee ben articolate, ma – dato che non è sempre detto – sorge un altro problema: quello del filtraggio…
Che non riguarda solo le opinioni espresse nei vari blog o via Twitter, ma è questione drammaticamente urgente per tutti i siti Web, dove (e vorrei vedere chi ora protesta negandolo) si possono trovare sia cose attendibili e utilissime, sia vaneggiamenti di ogni genere, denunce di complotti inesistenti, negazionismi, razzismi, o anche solo notizie culturalmente false, imprecise, abborracciate.

- Come filtrare?
Ciascuno di noi è capace di filtrare quando consulta siti che riguardano temi di sua competenza, ma io per esempio proverei imbarazzo a stabilire se un sito sulla teoria delle stringhe mi dica cose corrette o meno. Nemmeno la scuola può educare al filtraggio perché anche gli insegnanti si trovano nelle mie stesse condizioni, e un professore di greco può trovarsi indifeso di fronte a un sito che parla di teoria delle catastrofi, o anche solo della guerra dei trent’anni.

- E dunque?
Rimane una sola soluzione. I giornali sono spesso succubi della rete, perché ne raccolgono notizie e talora leggende, dando quindi voce al loro maggiore concorrente – e facendolo sono sempre in ritardo su Internet. Dovrebbero invece dedicare almeno due pagine ogni giorno all’analisi di siti Web (così come si fanno recensioni di libri o di film) indicando quelli virtuosi e segnalando quelli che veicolano bufale o imprecisioni. Sarebbe un immenso servizio reso al pubblico e forse anche un motivo per cui molti navigatori in rete, che hanno iniziato a snobbare i giornali, tornino a scorrerli ogni giorno.

- Lei stesso, però, sostiene che per affrontare questa impresa un giornale avrebbe bisogno di una squadra di analisti, molti dei quali da trovare al fuori della redazione…
È un’impresa certamente costosa, ma sarebbe culturalmente preziosa, e segnerebbe l’inizio di una nuova funzione della stampa.

Speriamo che i responsabili dei quotidiani prendano in considerazione questa sua saggia proposta.
Grazie per le sue parole, caro professor Eco. E grazie per essere ancora qui con noi.

© [Per gentile concessione degli eredi di Umberto Eco].

© La nave di Teseo

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MARCEL PROUST – SAGGI: intervista a Mariolina Bertini http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/01/09/marcel-proust-saggi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/01/09/marcel-proust-saggi/#comments Sat, 09 Jan 2016 08:06:49 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7008 MARCEL PROUST – SAGGI (Il Saggiatore)

edizione integrale curata da Mariolina Bongiovanni Bertini e Marco Piazza

di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è incentrato su un bellissimo e corposo volume dedicato all’intera produzione saggistica di Marcel Proust. Il libro, edito da Il Saggiatore e intitolato “Marcel Proust – Saggi” (pagg. 974, euro 75), offre molteplici spunti di riflessione sulle svariate tematiche culturali e letterarie che l’autore della Recherce ha prodotto nel corso dell’esistenza in parallelo alla sua attività di romanziere.

Ne ho discusso con Mariolina Bertini (foto in basso), curatrice dell’opera (nonché, tra le altre cose, docente di Letteratura francese all’Università di Parma; curatrice delle edizioni delle principali opere di Proust presso Einaudi, Bollati Boringhieri e Suhrkamp; curatrice, nei Meridiani Mondadori, di una scelta in tre volumi della Commedia umana di Balzac: un estratto della prefazione del 3° volume è disponibile qui).

-Marcel Proust è universalmente noto per la sua Recherche. Nell’ambito della sua attività saggistica (raccolta in quest’opera monumentale pubblicata da “Il Saggiatore”) quali sono gli elementi che lo avvicinano e quali quelli che lo distanziano dalla sua attività di romanziere?
Una delle particolarità della Ricerca del tempo perduto è quella di essere un’opera nella quale sono confluite  tutta l’esperienza  e tutta la cultura del suo autore.  I critici si affannano a ripetere ai lettori comuni che la Ricerca non è un’autobiografia e che il personaggio che da un capo all’altro dei sette romanzi che la compongono dice “io”, non è Marcel Proust. Tuttavia  il lettore ingenuo, non prevenuto, che tende ad identificare Proust con il suo narratore , coglie una verità profonda dell’opera:  il fatto che dal 1908 al 1922 Proust ha lavorato a trasporre e rielaborare nel suo romanzo i propri ricordi, la propria conoscenza della società francese, il proprio pensiero sull’arte e sui rapporti tra l’arte e la vita. Dunque , nella Recherche c’è tutto Marcel Proust, l’inventore di personaggi ma anche il critico (vi troviamo pagine su Dostoevskij, su Balzac  e su altri scrittori), l’umorista, il sociologo, lo psicologo…  Una ricchezza senza fine. Attraverso i Saggi, è possibile seguire la genesi nel tempo di questa ricchezza di idee che caratterizza la Recherche : negli articoli  giovanili  emergono l’interesse per l’arte medioevale , ma anche la curiosità per la mondanità e per la moda, l’attenzione per le letture infantili, le riflessioni sulla creazione artistica. Leggere questi Saggi spesso  equivale dunque ad entrare nel laboratorio mentale da cui nasce la Ricerca , con tutti i suoi temi  e con lo sfondo della cultura fin de siècle vista da un testimone d’eccezione.

-Nel dedicarsi alla lettura di questi saggi qual è la sorpresa principale in cui potrebbe imbattersi il conoscitore di Proust romanziere?
Come dicevo prima, la Ricerca ha una forte dimensione autobiografica : mette in scena un narratore chiuso ermeticamente nelle proprie impressioni, nei propri desideri, nelle proprie fantasie. Dai Saggi viene fuori  invece – gradevole sorpresa per il lettore del grande romanzo- un Proust attento a tutto e curioso del mondo esterno, pronto a pronunciarsi polemicamente su una legge che non gli piace (la legge laicista che voleva trasformare le cattedrali in musei) o a commentare con accento dostoevskiani una tragedia di cronaca nera (Sentimenti filiali di un matricida).

-Se invece volessimo rivolgerci a coloro che non hanno mai letto nulla di Proust… quali opportunità offre questa raccolta di saggi?
Per chi non sia un frequentatore della Ricerca, questi saggi costituiscono comunque una via d’accesso privilegiata al mondo artistico e intellettuale europeo dell’epoca . Leggerli ci offre l’occasione di guardare la pittura di Gustave Moreau o  le cattedrali amate da Ruskin con gli occhi di un giovane colto vissuto tra la fine del XIX° secolo e l’inizio del XX°; un giovane che ha fatto a tempo a  conoscere personalmente Oscar Wilde ma che è anche tra i primi ammiratori di Picasso, in quel momento cruciale e contraddittorio che è l’ aurora della cultura modernista.

-Nel volume sono raccolti saggi, recensioni e cronache mondane che ricoprono un arco temporale molto ampio della vita dello scrittore (dagli anni del Collège fino al periodo successivo alla Prima guerra mondiale). Cosa puoi dirci in merito alla evoluzione della scrittura di Proust, con riferimento a questi suoi testi?
Proust conquista  presto una scrittura personale : già le pagine, inedite in vita, scritte sull’ispirazione e sulle leggi della poesia negli ultimi anni del XIX° secolo, annunciano la lunga frase sinuosa della Recherche, che cerca di far percorrere al lettore lo stesso cammino mentale  che lo scrittore intraprende per comunicargli le proprie impressioni. E’ interessante leggere, a questo proposito , il saggio Sulla lettura , del 1905 , in cui un Proust non ancora romanziere (ha alle spalle soltanto un tentativo non riuscito, l’autobiografico Jean Santeuil ) ci conduce nel mondo della sua infanzia, nel giardino di Illiers dove ha  fatto le sue prime esperienze di lettore. La Ricerca non è ancora stata concepita, eppure il suo tema centrale (quello della memoria “involontaria”, destata da sensazioni improvvise) comincia a profilarsi, in un contesto dal fascino singolarissimo. E  questo tema  esige una scrittura  che lo esprima con assoluta originalità: la scrittura che sarà della Ricerca, ma che vede la luce in queste pagine saggistiche del 1905.

-Per ciò che emerge da questi saggi, come si pone Proust rispetto ai principali scrittori e critici suoi contemporanei?
Proust, tra i suoi contemporanei, è piuttosto isolato; non ama i cenacoli simbolisti e nemmeno  i gruppi in cui si formulano i manifesti delle avanguardie. Quando Gallimard diventa il suo editore, nel 1918, la rivista di Gallimard, la “Nouvelle Revue Française”, gli apre le porte e pubblica due dei suoi più importanti saggi critici , quello su Baudelaire e quello su Flaubert. Agli occhi del pubblico, Proust è allora un autore targato “NRF”, come Gide ; ma lui non si sente affine né a Gide né ad altri suoi grandi contemporanei, come Claudel o Péguy.  Non sottovaluta i suoi “compagni di strada” e nella sua corrispondenza ha spesso parole incoraggianti nei confronti degli esordienti che gli chiedono consiglio, o di vecchi amici che hanno deciso di intraprendere la via della letteratura; ma rifugge da ogni impresa collettiva, attento alla specificità della sua estetica e totalmente assorbito dall’elaborazione della sua opera personale.

-Il volume apre con un saggio di particolare importanza intitolato “Contro Sainte-Beuve”. Quali sono gli elementi di principale interesse che offre questo testo?
Per il lettore italiano che prenderà in mano questo volume, la sorpresa più grande sarà certamente costituita  dal saggio del 1908-09 Contro Sainte-Beuve. Di questo saggio infatti, che Proust non portò mai a termine, sinora era stata tradotta in italiano soltanto la versione ricostruita da Pierre Clarac nel 1971. Era una versione composta di soli frammenti critici, nei quali Proust si sforzava di dimostrare che Sainte-Beuve – critico autorevolissimo scomparso qualche anno prima- aveva commesso un grande errore focalizzando le sue analisi sulla biografia degli scrittori studiati. L’io profondo che si manifesta nella creazione letteraria, per Proust, non può essere catturato con gli strumenti della biografia, ma va rintracciato nella dimensione stilistica e tematica dell’opera. Però i testi saggistici isolati da Pierre Clarac erano soltanto una piccola parte dell’opera magmatica, in costante divenire, cui Proust pose mano nel 1908-09. Nei quaderni dello scrittore, questi testi saggistici coesistevano con abbozzi narrativi nei quali cominciavano a far capolino i personaggi della futura Ricerca. La nuova edizione del Contro Sainte-Beuve contenuta nei Saggi e curata da un giovane studioso della filosofia di Proust, Marco Piazza, dà un’idea più realistica di qesta fase del lavoro di Proust, fase in cui il suo romanzo maggiore comincia ad emergere dalla riflessione critica, con cui è inizialmente intrecciato.

-Tra le altre cose, cara Mariolina, sei la curatrice dei Meridiani Mondadori dedicati a Balzac… dunque non posso non chiederti di raccontarci qualcosa in merito al “ritratto” che Proust ci offre di Balzac. Cosa puoi dirci a tal proposito?
La commedia umana vol.3Con il suo grande predecessore Balzac,  Proust ha un rapporto complesso , e anche contraddittorio. Nelle pagine del Contro Sainte-Beuve esprime su di lui un giudizio severo : a differenza di Flaubert, che persegue la purezza e la perfezione assoluta dello stile, Balzac inserisce nei suoi racconti digressioni e riflessioni  di varia natura che compromettono  l’omogeneità della sua scrittura. Possiamo dire che  Il Proust del Contro Sainte-Beuve legge Balzac con gli occhi di Flaubert , che in una delle sue lettere aveva sospirato: “Che uomo sarebbe stato Balzac, se avesse saputo scrivere!”. Tuttavia, nel corso della lunga elaborazione della Ricerca, il modello balzachiano  esercita un ascendente forte su Proust : la grande figura del barone di Charlus, che nasconde la propria omosessualità e il proprio masochismo  dietro una facciata di intransigente virilità, deve molto a Vautrin, il genio criminale che in Papà Goriot e in Illusioni perdute impone la propria ambigua protezione ai giovani  verso cui lo orienta un irresistibile desiderio erotico.
Inoltre, Balzac è stato  tra i primi romanzieri a dare largo spazio a quello che Carlo Ginzburg ha definito il “paradigma indiziario” . Le sue descrizioni ossessivamente dettagliate hanno lo scopo di fornire al lettore gli indizi  per decifrare la realtà:  nell’arredamento di casa Grandet è scritta l’avarizia del padrone di casa;  l’abito grigio della principessa di Cadignan  esprime il  segreto desiderio di questa grande seduttrice di mostrarsi per una volta dimessa , riservata e quasi timida.  Sarà proprio Proust a ereditare – più di qualsiasi altro romanziere delle generazioni successive – questa  strenua volontà balzachiana di decifrare il reale, di leggere la realtà psicologica e sociale facendone emergere i significati nascosti.

-In definitiva, qual è – a tuo avviso – la principale eredità che Proust ci lascia con riferimento specifico all’attività di saggista e di critico?
Il fascino di questi saggi sta nella molteplicità degli stimoli che offrono: ci portano nei salotti degli anni Novanta dell’Ottocento  ma anche davanti alle sculture della cattedrale di Amiens, e nel parco di Illiers dove lo scrittore bambino sperimenta per la prima volta il sortilegio della lettura.  Per chi poi nutra interesse per la critica letteraria, i saggi del periodo che segue il primo conflitto mondiale sono davvero irrinunciabili. Proust vi espone la propria teoria dello stile,  “grande ossatura inconscia”  sottesa alle opere  , e la mette alla prova in analisi magistrali dello stile di Baudelaire e di Flaubert . E’ sicuramente in queste pagine, che ispireranno la critica stilistica di Curtius e di Spitzer, che sta la grande eredità del Proust critico, destinata a lasciare un segno profondo nella cultura del Novecento.

-Grazie mille per la tua disponibilità e per le belle risposte che ci hai offerto, cara Mariolina.

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La scheda del libro

Autore centrale del canone letterario novecentesco, ricordato per quella fluviale opera-mondo e insuperabile costruzione romanzesca che è Alla ricerca del tempo perduto, Marcel Proust ha accompagnato, lungo tutto l’arco della sua vita, l’attività narrativa a quella saggistica, consegnando alla posterità un’impressionante messe di recensioni, articoli, interventi di critica letteraria e del gusto, riflessioni teoriche legate al significato dell’arte, alla sua permanenza, alla sua possibilità di offrire – a chi legge come a chi, rapito, osserva una statua antica in cima a una colonna o una guglia contro il cielo del mattino – specchi in cui vedere e capire se stessi. Padrone di una lingua dalle risorse inesauribili e dotato di un’erudizione mai fi ne a se stessa e sempre impiegata per leggere in profondità il libro del mondo, Marcel Proust fonde in questiSaggi – che il Saggiatore presenta nell’edizione integrale curata da Mariolina Bongiovanni Bertini e Marco Piazza – cronaca e racconto, analisi e divagazione, engagementdivertissement, minando le tradizionali distinzioni di genere e registro. Una recensione di John Ruskin è allora l’occasione per un’evocazione immaginifica di Venezia, e la ricusa di uno dei critici più importanti dell’Ottocento francese – il famoso Contro Sainte-Beuve, qui arricchito di materiali finora inediti in Italia – si trasforma in uno dei più lucidi documenti di teoria letteraria del ventesimo secolo. Questa raccolta, che dai primi componimenti scolastici arriva fi no alle più compiute elaborazioni critiche della maturità – come quella, rimasta celebre, sullo stile di Gustave Flaubert –, è un prisma privilegiato attraverso cui guardare a Marcel Proust e, nel suo tracciarne la chiara parabola umana e artistica, si rivela uno strumento imprescindibile a chi ne voglia avvicinare con piena consapevolezza l’opera letteraria.

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Mariolina Bertini insegna Letteratura francese all’Università di Parma. Ha curato edizioni delle principali opere di Proust presso Einaudi , Bollati Boringhieri e Suhrkamp. Presso Bollati Boringhieri ha pubblicato nel 1996 “Proust e la teoria del romanzo”; presso Unicopli , nel 2010, “Incroci obbligati. Romanzo, ritratto, mélodrame”. Ha curato, nei Meridiani Mondadori, una scelta in tre volumi della Commedia umana di Balzac (1994- 2013) e Ritratti personaggi fantasmi di Giovanni Macchia (1997) . Ha diretto insieme ad Antoine Compagnon, Morales de Proust, n. IX-X dei “Cahiers de littérature française”, novembre 2010 e, insieme a Patrizia Oppici, il n. 64 di “Francofonia”, Du côté de chez Swann 1913/2013 , Primavera 2013. E’ vicedirettore de “L’Indice dei libri del mese”, membro del Consiglio direttivo del Groupe International de Recherches Balzaciennes, corrispondente per l’Italia dell’”Année Balzacienne” e membro corrispondente dell’Accademia delle Scienze.

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ON WRITING DI STEPHEN KING: intervista a Loredana Lipperini http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/27/on-writing-di-stephen-king/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/27/on-writing-di-stephen-king/#comments Fri, 27 Nov 2015 15:31:11 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6974 ON WRITING DI STEPHEN KING: intervista a Loredana Lipperini

Autobiografia di un mestiere

di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è incentrato su un libro che è interamente dedicato alla scrittura e che porta la firma di uno degli scrittori più noti e letti al mondo. Il libro si intitola “On writing“, l’autore è Stephen King (a proposito di King, ne approfitto, peraltro, per ricordare questo dibattito online relativo al romanzo “22/11/63“).

Nei giorni scorsi Frassinelli ha pubblicato una nuova edizione di “On writing“, con la traduzione di Giovanni Arduino e l’ottima prefazione di Loredana Lipperini (qui, il post su Lipperatura). Ne ho discusso con la stessa Loredana (che ringrazio per la cortesia e disponibilità), nell’ambito di un’ampia intervista che propongo qui di seguito…

- Cara Loredana, parlaci del tuo incontro con Stephen King? In quale fase della tua vita è avvenuto? E con quale libro?
Non sarò breve, premetto. Ricordo bene anno e contesto: era il 1988, passavo qualche giorno nella casa di un amico. L’amico e mio marito andavano a pesca sul fiume, io mi annoiavo. Frugando nella libreria, ho trovato “It”. Non avevo ancora letto nulla di Stephen King, anche se l’horror mi era piaciuto da adolescente, quando un fidanzato mi regalò i racconti di Lovecraft, e prima ancora c’era stato il tempo di Edgar Allan Poe, e poi sarebbe venuto il tempo di Machen e di Matheson. Ma non di King. In quel 1988 avevo un’idea molto selettiva di cosa dovesse essere un libro salvifico: doveva essere tagliente e lucido, squarciare ogni consuetudine, cambiare il modo di guardare il mondo, squassarti l’anima. Molto romantico, a ripensarci. Doveva, quel libro perfetto, suscitare la stessa euforica sensazione di aver compreso le pieghe segrete dell’esistenza che avevo scoperto, sedicenne, ne La nausea di Sartre e ne Lo straniero di Camus. Doveva impegnarmi, farmi soffrire e smarrire sulle pagine più ardue, come aveva fatto Thomas Mann con i dialoghi tra Naphta e Settembrini ne La montagna incantata. Doveva essere un corpo a corpo con le parole, freddo e perfetto come quando, giusto un paio di anni prima, avevo affrontato L’opera al nero di Marguerite Yourcenar.
C’era, però, qualcosa che ancora non avevo avuto dalle mie letture: qualcosa che andasse oltre l’appagamento intellettuale, l’ammirazione, l’empatia. Non lo sapevo ancora, ma quel che mi mancava era la seduzione: ovvero, il non riuscire a staccarmi da una storia, e finirla desiderando di avere tra le mani, subito, un altro libro dello stesso autore.
Eppure, avevo sempre letto molto. Moltissimo, anzi. Sono stata una di quelle bambine e poi ragazze e poi donne che hanno sempre un libro nello zaino (e per questo difficilmente usano borsette piccole e graziose) perché sanno che il tempo è pieno di buchi da riempire. Lo spazio vuoto mentre si aspetta l’autobus e mentre l’autobus stesso arriva a destinazione. Il panino e la spremuta d’arancia al bar, prima di tornare in redazione (non era anche quello un tempo da dividere, pane e carta, e non era piacevolissimo averne insieme?). Quando si legge troppo, però, l’emozione arriva più raramente: il punto è che, quando arriva, è doppiamente forte.
E’ lo stesso Stephen King a dirlo, in Danse macabre: “Non si apprezza la panna senza aver prima bevuto molto latte, e forse non si apprezza il latte finché non se ne è bevuto un po’ di inacidito”. Diciamo dunque che avevo bevuto molto latte e avevo mangiato, naturalmente, dell’ottima panna. Ma la panna apparteneva quasi tutta al passato, o così mi sembrava. Diciamo anche che mi annoiavo, che non avevo voglia di rileggere né c’era molto di nuovo che mi attirasse. Venivo da una sbornia di minimalisti, o da quelli che allora venivano definiti tali. Furoreggiava David Leavitt con Ballo di famiglia, e mi era piaciuto, ma ero sazia.
It n.e.Così, nella casa sul fiume, avevo adocchiato It. E appunto non mi attirava l’autore, perché all’epoca nutrivo ancora diffidenza verso un autore COSI’ famoso, perché ero giovane e sciocca e convinta che tutto quello che era immensamente popolare non potesse che essere scadente. Crescendo, avrei imparato che anche fra i non giovani e i non sciocchi la convinzione era identica: e, a differenza di quanto era avvenuto a me, permaneva, e permane.
Ma dal momento che faceva caldo e non avevo altro da leggere, lo aprii. E constatai con qualche insofferenza che cominciava contraddicendo tutte le regole e regolette di scrittura che ancora oggi tormentano i lettori avveduti (cos’è quel narratore onnisciente? Via! Cos’è quel narrato e non mostrato? Matita rossa!). Cominciava, per essere precisi, così:
“Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia”.
Tutte quelle virgole, e una parola così forte come “terrore”, subito all’inizio, e poi un’insignificante barchetta di carta che, scoprii nelle righe successive, beccheggia, si inclina, si raddrizza e affronta “con coraggio” i gorghi infidi e prosegue la sua corsa in quello che è un pomeriggio d’autunno del 1957, in una città che si chiama Derry e che non esiste – ma questo lo avrei scoperto poi – e che si annuncia come malvagia fin dall’inizio, con quelle tre lampade del semaforo che sono irragionevolmente spente, anche se piove a dirotto, e piove da una settimana, e il vento soffia infilandosi nei vicoli, e tutti i quartieri sono rimasti senza corrente, e questo già è strano, e siamo ancora alla fine del secondo paragrafo.
Mucchio d'ossaInsomniaCittà sbagliata, Derry. Anche questo lo avrei capito dopo aver letto tutti i romanzi che King vi ambienta: Mucchio d’ossa, dove la giovane e amatissima moglie di Mike Noonan muore mentre esce da una farmacia, per un ictus (forse) e l’asfalto bollente le segna le guance e il marito dovrà rivederla così all’obitorio, con quei frammenti di Derry sul viso, per l’eternità. E Insomnia, dove la città ha due anime, o due modi di essere vista, e un sacco mortuario nero come fumo la avvolge, e Dolores Claiborne, che fa quel che deve nel giorno dell’eclissi, fino a 22.11.63, dove la prima tappa del viaggio nel passato del protagonista è proprio Derry, la Derry di It, ed è sbagliata come allora e forse ancora di più.
Dolores Claiborne22/11/63Perché se gli abitanti di Derry ignorano l’orrore che vive e prospera nel suo sottosuolo, pure contribuiscono ad alimentarlo: non amano gli estranei, non  vogliono che si metta in crisi quella che è una tranquillità solo apparente, perché Derry vive di odio e di rancore, e di sangue, e di segreti. Al 29 di Neibolt Street i vagabondi cercano riparo, ma possono trasformarsi in lebbrosi affamati di carne. Le Ferriere Kitchener esplosero nel 1906, uccidendo i bambini che cercavano uova di Pasqua, e ora ronzano di crudeltà quando si posa il piede da quelle parti. Bambini. Bambini che affogano nella Cisterna. Bambini inseguiti, braccati, divorati come farebbe il troll che si nasconde sotto il ponte aspettando il passaggio dei capretti.
Bambini. C’è un bambino dietro la barchetta. Ha sei anni, un impermeabile giallo e stivaletti rossi. Si chiama George Denbrough e morirà nel giro di quindici pagine con un braccio strappato di netto come un’ala di mosca. Moriranno molti bambini, nel romanzo, e anche non pochi adulti. Perché, ma questo è quasi banale dirlo, It è una storia sul male: o meglio ancora, su come la questione del male possa essere declinata in questo e altri mondi. Il male cosmico che si cela nelle galassie vomitate dalla benefica Tartaruga e nelle geometrie sghembe da cui proviene It. Il male quotidiano, perché se It si nutre di bambini, quegli stessi bambini vengono picchiati da genitori alcolisti, o vessati da madri ansiose, o semplicemente ignorati, come avviene al fratello di George, Bill, dopo che la morte ha raggelato la sua famiglia, e cosa può mai fare un ragazzino quando le mani della madre volano alle tempie come uccellini e il padre piange abbracciato agli scatoloni di giocattoli che nessuno userà più?
21-5-98-Bag Of Bones AuEd è anche molto di più,  lo avrei scoperto in quel luglio caldo dove la gelida pioggia di Derry scorreva sulle pagine: perché insieme ci sono l’amore per la narrazione e la memoria che sparisce se non viene, appunto, raccontata, e c’è un inno all’infanzia come  stagione terribile e felice, dove una bicicletta può battere il diavolo, specie se si chiama Silver ed è troppo alta per un bambino. Tema che a King è carissimo e che riesce a trattare, ogni volta, con quel miscuglio di amore e malinconia (e di ferocia) che raramente si trova in altri scrittori. C’è un passaggio di It che lo spiega bene, ed è un risveglio di Bill adulto, dopo un sogno in cui era tornato indietro, nel se stesso che non era più:
“Si sveglia da questo sogno incapace di ricordare esattamente che cosa fosse, a parte la nitida sensazione di essersi visto di nuovo bambino. Accarezza la schiena liscia di sua moglie che dorme il suo sonno tiepido e sogna i suoi sogni; pensa che è bello essere bambini, ma è anche bello essere adulti ed essere capaci di riflettere sul mistero dell’infanzia… sulle sue credenze e i suoi desideri. Un giorno ne scriverò, pensa, ma sa che è un proposito della prim’ora, un postumo di sogno. Ma è bello crederlo per un po’ nel silenzio pulito del mattino, pensare che l’infanzia ha i propri dolci segreti e conferma la mortalità e che la mortalità definisce coraggio e amore. Pensare che chi ha guardato in avanti deve anche guardare indietro e che ciascuna vita crea la propria imitazione dell’immortalità: una ruota. O almeno così medita talvolta Bill Denbrough svegliandosi il mattino di buon ora dopo aver sognato, quando quasi ricorda la sua infanzia e gli amici con cui l’ha vissuta”.

- Grazie di cuore per questa tua corposa risposta, Loredana. So che consideri King (e si evince anche dalle tue parole che abbiamo appena letto) come uno dei massimi scrittori viventi. In cosa consiste, a tuo avviso, la sua grandezza?
A volte ritornanoIn quello che mi accadde allora. Quando, nel giro di cinque giorni, ho chiuso It, ho cominciato a cercare altri romanzi di Stephen King. Perché a questo servono gli scrittori che raccontano il Male e raccontano la paura: a parlare di te e delle tue ombre e a farlo come altri non riescono. Nella prefazione di A volte ritornano è King stesso a dirlo:
“Le opere di Edward Albee, di Steinbeck, di Camus, di Faulkner, trattano di paura e di morte, talvolta con orrore; ma in genere questi scrittori mainstream lo fanno in modo più normale, più realistico. Il loro lavoro si colloca entro la cornice del mondo razionale: sono storie che possono accadere. Viaggiano lungo quella linea sotterranea che corre attraverso il mondo esterno. Ci sono altri autori (James Joyce, di nuovo Faulkner, poeti come T.S.Eliot, Sylvia Plath, Anne Sexton) la cui opera si colloca nella terra dell’inconsapevolezza simbolica. Viaggiano sulla sotterranea che corre attraverso il paesaggio interno. Ma chi scrive racconti dell’orrore, quando coglie nel segno, è quasi sempre al terminal dove le due linee fanno capo”.

- Nel passato King è stato un po’ “snobbato” da parte della critica. E oggi? Cosa puoi dirci in tal senso?
Sospetto, e frequentemente, che chi lo critica non lo abbia letto. In assoluto, penso che Il motivo per cui chi scrive fantastico ha sempre goduto di scarsa considerazione, come dice King, sta nel fatto che l’autore di fantastico  affronta la prova generale della nostra morte. Una volta guardata in faccia, non si lascia più. Una volta letto King, una volta perduti nelle sue storie (e nella sua abilità linguistica, si ricredano i supponenti: il linguaggio di King è uno dei più complessi e raffinati, e migliora anno dopo anno), non si lascia più. A meno di non essere preda dell’antico pregiudizio che separa i “leggibili” dagli “sperimentali”, e dunque il romanzo è morto, la trama è il male, e tutto quel che ci sentiamo ripetere da decenni. Una polemica oggi più che mai priva di senso, credo.

- Che tipo di esperienza è stata per te il cimentarti con la scrittura della introduzione di “On Writing” (un testo che, di certo, hai amato tanto)?
Come ho scritto sul blog, è stato emozionante e appassionante, come sempre avviene quando ti viene chiesto di scrivere su chi ami. Anche paralizzante, in effetti. Non solo perché scrivere di e su King significa fare i conti con un esercito di Fedeli Lettori giustamente assai esigenti, ma perché la Fedele Lettrice che è in me vigilava, occhiuta, su ogni parola. Poi, per fortuna, nel paese dove stavo scrivendo si sono rotte tutte le caldaie. E mi è venuta un’idea, che è quella che conclude l’introduzione ma che mi è servita a prendere il via.

- In cosa si differenzia, “On Writing”, rispetto ai tanti libri che si occupano di “scrittura creativa” e che sono disponibili in commercio?
E’ “Il” libro. Perché non si limita a fornire qualche suggerimento tecnico, ma comunica la suggestione principale: scrivere è acqua di vita, è magia, è gratis, puoi farlo anche tu.

- Oltre alla nuova traduzione di Giovanni Arduino (e alla tua bella introduzione) ci sono altri motivi per i quali chi possiede già una copia di “On Writing” potrebbe essere invogliato ad acquistare questa nuova edizione?
Perché ci sono alcune pagine inedite. Perché ogni volta che esce una traduzione nuova è bello possedere entrambe le versioni. Perché ha una copertina stupenda. Perché è King.

- Qual è la principale “lezione” che un aspirante scrittore potrebbe trarre dalla lettura di “On Writing”?
Leggi, vivi, sii felice.

- Grazie di cuore per la tua disponibilità, cara Loredana.

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La scheda del libro
Alla domanda: «Che cos’è On Writing?» Stephen King ha risposto: «È il romanzo della mia vita, non perché la mia vita sia un romanzo, ma perché la mia vita è scrivere». Ecco perché questo libro è l’autobiografia di un mestiere in cui la storia personale e professionale del Re si fondono totalmente. Il brillante «Curriculum vitae» d’apertura ripercorre gli anni della formazione, in un collage di ricordi che dall’infanzia arrivano al primo, grande successo con Carrie; «Cassetta degli attrezzi» è un’acuta e disincantata elencazione dei ferri del mestiere – quali sono, a che cosa servono, come mantenerli efficienti e sempre pronti all’uso –; «Sulla scrittura», la parte più interessante per gli addetti ai lavori, illustra le fasi del processo creativo fino all’approdo editoriale; e infine «Sulla vita», ricco di pathos, racconta come King abbia visto la morte da vicino, dopo lo spaventoso incidente in cui è stato coinvolto, e come, grazie alla scrittura, sia ritornato alla vita. Diario, confessione, chiacchierata… On Writing abbraccia e supera tutti i generi e, per l’aspirante scrittore, è uno strumento utile e illuminante, ricco di esempi e riferimenti pratici, capace di affrontare senza fumosità un argomento difficile; per il lettore affezionato è un must in cui potrà ritrovare, nella loro dimensione reale, un’infinità di situazioni, storie e personaggi che hanno ispirato i romanzi di King. Per tutti, è una lettura avvincente e profonda nello stile inconfondibile dell’autore, capace di trasformare tutto ciò che tocca in un racconto magistrale.

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STEPHEN KING vive e lavora nel Maine con la moglie Tabitha e la figlia Naomi. Da più di trent’anni le sue storie sono bestseller che hanno venduto 500 milioni di copie in tutto il mondo e hanno ispirato registi famosi come Stanley Kubrick, Brian De Palma, Rob Reiner, Frank Darabont. Oltre ai film tratti dai suoi romanzi, vere pietre miliari come Shining, Stand by me, Le ali della libertà, Il miglio verde – per citarne solo alcuni – sono seguitissime anche le sue serie TV, ultima in ordine di apparizione quella tratta da The Dome, trasmessa da RAI2. Recentemente King si è dedicato ai social media e in breve tempo ha conquistato centinaia di migliaia di follower su Facebook e soprattutto su Twitter.

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© Letteratitudine

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LEO LONGANESI. Il borghese conservatore http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/22/leo-longanesi-il-borghese-conservatore/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/22/leo-longanesi-il-borghese-conservatore/#comments Tue, 22 Sep 2015 18:00:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6897 Leo LonganesiIl nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Leo Longanesi. Il borghese conservatore” (Odoya), di Francesco Giubilei.

Dalla scheda del libro: “Scrittore, editore, illustratore, grafico… Sintetizzare la figura di Leo Longanesi in un’unica definizione risulta impossibile. Sicuramente fu una delle più geniali e irriverenti figure del panorama culturale italiano del Novecento, un intellettuale difficilmente incasellabile in una categoria precisa.
Pungente umorista, coniò frasi e aforismi destinati a rimanere nell’immaginario collettivo. Inventore del rotocalco, scopritore di alcuni dei più importanti narratori italiani (tra cui Buzzati e Flaiano), pubblicò per la prima volta in Italia autori stranieri alla stregua di Hemingway e nel dopoguerra riuscì a coniugare il principio di editoria di progetto con le richieste del mercato. Negli ultimi anni sembra essere calata sulla sua figura una coltre di silenzio, ad eccezione di sporadiche iniziative: tipico destino riservato ai personaggi scomodi
.”

Di seguito pubblichiamo: un intervento dell’autore e l’introduzione del volume.

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Francesco Giubilei racconta “Leo Longanesi. Il borghese conservatore” (Odoya)

di Francesco Giubilei

Sono sempre stato affascinato dagli irregolari, intellettuali, scrittori, giornalisti, difficilmente incasellabili ma geniali per il contenuto e il valore della propria opera.
Molto spesso queste figure – da Bianciardi a Papini, da Gallian a Soffici – a causa del loro pensiero non furono sufficientemente comprese e ancora oggi, anni dopo la loro scomparsa, ad eccezione di addetti ai lavori o lettori forti, non sono conosciuti dal grande pubblico.
Longanesi in tal senso è il personaggio forse più rappresentativo e ingiustamente dimenticato – o poco ricordato – per tutta una serie di ragioni che hanno contribuito a far calare su di lui un’ingiusta coltre di silenzio. In primis l’etichetta di fascista ingiustamente affibbiatagli, vuoi per una scarsa conoscenza del personaggio, vuoi per malafede. A scagionare Longanesi da tale accusa, è sufficiente citare un episodio: nel ‘39 il regime mussoliniano chiuse la sua rivista Omnibus, il primo esempio di rotocalco pubblicato nel nostro paese.
Si aggiunga che Longanesi, come me, è romagnolo di origine e nella nostra terra sono celebrati e ricordati personaggi di gran lunga inferiori a Longanesi per il contributo che lasciarono alla cultura italiana.
L’appartenenza a una nazione si basa sulla memoria e sulla storia culturale che è fatta da persone che, attraverso il proprio lavoro, hanno offerto un lascito alle generazioni future. Dimenticare questa memoria o, ricordarla in modo frammentario tralasciando le esperienze di personaggi che hanno vissuto una vita estranea a piaggerie o non si sono legate a un partito piuttosto che un’organizzazione, vorrebbe dire avere una visione parziale e limitata della cultura italiana. Per questo motivo credo che, specie in un periodo caratterizzato da un dibattito culturale stantio e autoreferenziale, come quello attuale, sia necessario conoscere la storia dei grandi italiani, per lo meno del ‘900. In tal senso ogni persona che lavora nel mondo dell’editoria, del giornalismo, della grafica o della cultura, dovrebbe conoscere e approfondire la figura di Leo Longanesi, il borghese conservatore.

* * *

INTRODUZIONE

Scrivere un libro su Leo Longanesi senza essere influenzati dalla biografia che Indro Montanelli e Marcello Staglieno[1] gli dedicarono nel 1984, oltre che una carenza bibliografica, costituirebbe una grave mancanza nella comprensione del personaggio. Appurato il valore del libro di Montanelli e Staglieno e costatata la presenza di altri testi dedicati alla figura di Longanesi[2], è lecito domandarsi l’utilità di un’altra biografia sull’intellettuale romagnolo.
Le motivazioni sono molteplici: anzitutto il libro di Montanelli e Staglieno, uscito negli anni ’80, è fuori commercio e difficilmente reperibile (al di là delle biblioteche), in secondo luogo per dire una banalità – che in realtà non è tale – non si finisce mai di scrivere e raccontare la vita dei grandi uomini.
Una terza motivazione è la coltre di silenzio calata negli ultimi anni sulla vita e sulle opere di Longanesi, un destino comune ai personaggi scomodi e difficilmente etichettabili. Sintetizzare la sua figura con una definizione è complesso: controcorrente, irriverente, conservatore scomodo (come lo definì Andrea Ungari nel  titolo del suo libro[3]). Chiamarlo “fascista” sarebbe invece errato (eppure fu lui a coniare il celebre motto “Mussolini ha sempre ragione”), allo stesso modo l’etichetta di antifascista non gli si addiceva. Fu un borghese e allo stesso tempo critico e fustigatore dei vizi della borghesia italiana, un personaggio scomodo ma dotato di un intuito giornalistico, un humour, una raffinatezza d’intelletto che difficilmente nella storia culturale italiana si sono riscontrati in altre personalità.
Lo stesso Longanesi era conscio di questa sua incollocabilità: “lo storico che fra cent’anni scriverà la storia di questo straordinario ‘Italiano’, se pure in quel tempo userà ancora dedicarsi a una simile professione, dovrà essere un bel tipo. Solo un matto potrebbe intraprendere un tale lavoro; ma vedrete che il matto si troverà”[4].
Mitizzò l’Ottocento consapevole che il mondo che rimpiangeva non era mai esistito, o meglio non era esistito come l’immaginava lui: “gli serviva, quel mondo, come contrappunto alla volgarità del mondo moderno con cui non si riconciliò mai. Longanesi detestava la volgarità”[5].
Longanesi si oppose per tutta la vita alle tentazioni della modernità consapevole che ogni cosa scade lasciando spazio alla moda successiva, destinata anch’essa, dopo qualche tempo, a essere sostituita: “il moderno invecchia e il vecchio torna di moda”.
[...]
La migliore eredità di Longanesi e l’unico modo che ci rimane per comprenderlo realmente, è la sua opera che si articola in varie discipline: dalla scrittura all’editoria, dalla pittura al giornalismo poiché, come annota giustamente il figlio Paolo, “il nostro tempo non ci consente di avere sotto mano molti altri esempi come il suo, essenziale nella qualità e abbondante nella quantità”[6].
La grandezza di Leo consisteva nel suo essere poliedrico, difficilmente incasellabile, sempre con la battuta pronta. Sapeva trasmettere le proprie idee e pensieri attraverso un linguaggio che lo caratterizzava in modo inconfondibile: “Longanesi detesta gli articoli lunghi, usa gli aforismi, le finestre, cambia i caratteri a secondo degli autori, cerca gli autori in funzione dei caratteri tipografici che preferisce”[7]. Nel suo giornalismo univa il linguaggio politico a quello letterario conquistandosi un proprio pubblico attraverso “volute sovrapposizioni e ricercate in-comprensioni”.
[...]
Leo LonganesiLonganesi fu un fustigatore dei vizi del bel paese, lo fece con grande ironia ma anche nello stile schietto e diretto che gli apparteneva provenendo da una terra dove la concretezza veniva prima di tutto: “se vogliamo trarre un utile dalla lezione di questo uomo, dobbiamo rassegnarci a riconoscere i nostri difetti che egli vide e descrisse circa mezzo secolo fa senza però mai essere un inquisitore. Superato questo scoglio avremo l’occasione di mettere le mani sull’eredità che Longanesi ci ha lasciato”[8].
Dal ’45 in avanti Leo comprese che il suo lavoro difficilmente sarebbe stato compreso dalla maggioranza degli italiani, eppure le sue pubblicazioni e riviste raggiungevano un grande pubblico ottenendo successo e ottimi riscontri.
“I nostri ammiratori, Dio mio, meglio non conoscerli” scriveva in La mia signora e aggiungeva “superficiali sì, ma di buona famiglia”.
Un personaggio con posizioni politicamente scorrette come Longanesi, non poteva che non essere compreso dalla società del tempo. Appoggiò idee scomode, spesso perdenti, mai legate al sentire e all’opinione comune. Tuttavia non condivido l’analisi di Marco Vallora in La patria col bagno[9]: “riuscire a comprendere come un’intelligenza tanto folgorante e in fondo anticonformista, una genialità così moderna e sulfurea, sia poi stata messa al servizio non diciamo delle cause perse, che sarebbe anche encomiabile e simpatico, ma di idee stantie e grevi, odorose di scadente tabacco e di scottante cialtronaggine”. Longanesi scelse sempre la strada più difficile; frondista e castigatore dei vizi del regime – così come lo sarà, per tutta la vita, dei vizi degli italiani – e nostalgico di un fascismo che aveva ripensato nella sua mente, non riuscì mai a integrarsi appieno nel tempo in cui viveva.
Di tutte le sue decisioni, quella che stupisce di più un osservatore esterno, fu la scelta nostalgica nel dopoguerra. In fin dei conti Mussolini gli aveva fatto chiudere Omnibus, un episodio di tale gravità da poter essere facilmente utilizzato per cercare di riabilitarsi come oppositore del fascismo nel dopoguerra. Così avevano fatto molti intellettuali legati al regime tanto quanto Longanesi che assunsero posizioni antifasciste. Su Leo gravava però come una scure il fatto di essere stato l’artefice della frase “Mussolini ha sempre ragione” che gli rimase addosso per tutta la vita.
Leo, da sempre bastian contrario, giudicava un tradimento la decisione di tanti giornalisti, scrittori e politici che avevano aderito al fascismo usufruendo dei vantaggi legati all’iscrizione al PNF, di dichiararsi convinti antifascisti non solo rinnegando il proprio passato ma attaccando apertamente il fascismo.
E dire che proprio lui, il 25 luglio del ’43, si era unito alla folla che festeggiava a Roma la caduta del regime.

* * *

Francesco Giubilei (Cesena, 1992), direttore editoriale di Historica edizioni e Giubilei Regnani Editore, ha fondato il quotidiano online di informazione culturale Cultora.it. Laureato in Lettere Moderne e in Cultura e Storia del Sistema Editoriale, ha partecipato alla Summer School della London School of Journalism. Collabora con varie riviste e siti internet e con il quotidiano La Voce di Romagna, di cui è stato anche responsabile marketing. Docente al Corso di Editoria di Milano organizzato dall’agenzia letteraria Herzog, è stato inserito nel “Catalogo dei viventi” dal Corriere della Sera. Questo è il suo quinto libro pubblicato.


[1] Montanelli I. Staglieno M, Leo Longanesi, Milano, Rizzoli, 1984.

[2] Vedi bibliografia.

[3] Ungari A., Un conservatore scomodo. Leo Longanesi dal fascismo alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2007.

[4] Leo Longanesi, 15/02/1927.

[5] Montanelli I. Staglieno M, Leo Longanesi, cit., p.179.

[6] Ivi, p.22.

[7] Longanesi e gli italiani di Mariuccia Salvati in Longanesi e italiani, Faenza, Edit Faenza, 1997, p.175.

[8] Longanesi P., Longanesi, un antidoto contro la mediocrità in Leo Longanesi. Editore, scrittore, artista, cit.

[9] Vallora M., La patria col bagno in Longanesi, un antidoto contro la mediocrità in Leo Longanesi. Editore, scrittore, artista, cit.

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NON SCRIVERE DI ME, di Livia Manera Sambuy http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/06/10/non-scrivere-di-me-di-livia-manera-sambuy/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/06/10/non-scrivere-di-me-di-livia-manera-sambuy/#comments Wed, 10 Jun 2015 20:42:28 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6815 Nel nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” ci occupiamo di un volume che non è – in effetti – un saggio letterario (in senso stretto), ma che  (attraverso storie di incontri con scrittori americani) aiuta a comprendere meglio la letteratura prodotta da autori del calibro di Philip Roth, Richard Ford, Paula Fox, Judith Thurman, David Foster Wallace, Joseph Mitchell, Mavis Gallant, James Purdy, Raymond Carver, Mordecai Richler e Karen Blixen.

Il libro si intitola “Non scrivere di me“, l’ha scritto Livia Manera Sambuy ed è pubblicato dalla Feltrinelli. Di seguito, un’intervista all’autrice.

Le prime pagine del libro sono disponibili qui.

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NON SCRIVERE DI ME, di Livia Manera Sambuy

di Massimo Maugeri

Pochi conoscono Philip Roth come Livia Manera Sambuy. Dice di lei Dave Eggers: “Livia Manera Sambuy ci consegna un ritratto di Philip Roth tra i migliori che abbia mai letto – scritto splendidamente, personale, intimo eppure rispettoso. I suoi ritratti sono di una dignità e di un rigore straordinari, e la sua conoscenza della letteratura contemporanea resta senza pari.” Livia è una giornalista letteraria che scrive sul “Corriere della Sera” (ha vissuto tra Milano e New York; ora vive tra Parigi e la Toscana). Al suo attivo ha, tra le altre cose, la realizzazione di due film documentari su Philip Roth. E il titolo del suo libro, “Non scrivere di me” (Feltrinelli), ha a che fare – per l’appunto – con lo strettissimo rapporto intrattenuto con il celebre scrittore americano che, a un certo punto, le intimò di non scrivere più di lui. In alcuni casi, però, un divieto equivale a un invito. Di questa equivalenza si è servita Livia Manera che, all’interno di questo coinvolgente volume (consigliatissimo agli amanti della letteratura americana… ma non solo), ha aperto ampie e illuminanti finestre sulla produzione artistica e sulle esistenze di Roth e di altri autori e autrici (da Richard Ford a Paula Fox, da Judith Thurman a David Foster Wallace, da Joseph Mitchell a Mavis Gallant… e poi, ancora: Purdy, Carver, Richler, Blixen).

Ho avuto il piacere di discuterne con l’autrice…

- Cara Livia, nelle prime pagine del libro racconti come nasce “Non scrivere di me”. Perché hai deciso di scriverlo proprio adesso, in questa fase della tua vita?
La crisi del 2008 ha cambiato la vita di quasi tutti i giornalisti. Prima, fermarsi per scrivere un libro era una scelta interessante ma improduttiva dal punto di vista economico. Dopo, le cose sono cambiate. E’ il lavoro giornalistico ad essere diventato economicamente improduttivo. Ma come tutte le crisi, lo scossone del cambiamento ha aperto nuove possibilità. Io avevo l’impressione di avere raggiunto, nel mio lavoro di giornalista letteraria per il Corriere della Sera, più o meno il massimo di quello a cui potevo ambire. E da tempo avevo voglia di qualcosa di nuovo, e soprattutto di qualcosa da imparare. E così ho fatto due film documentari e ho scritto un libro. L’idea del libro era di dare un senso al lavoro che avevo svolto fino ad allora, un senso che toccasse corde più profonde e personali. Non, insomma, di pubblicare una raccolta dei miei articoli. Ed è così che ho incominciato a scrivere il libro che nella mia testa si è chiamato per due anni “Making sense” (titolo intraducibile) e che è poi uscito col titolo “Non scrivere di me”: per rileggere la mia esperienza di persona, lettrice e giornalista letteraria, alla luce di qualcosa che andasse al di fuori degli schemi della critica o del giornalismo. E ho scelto la formula americana della “narrative non fiction”, cioè dei racconti dal vero.

- In che cosa la letteratura nordamericana si differisce da quella prodotta in altri paesi e in altre zone del mondo, a tuo avviso? Qual è il suo elemento caratterizzante (ammesso che ne esista uno)?
Domanda difficilissima: dovrei essere più ferrata sulla letteratura contemporanea di altri paesi per rispondere seriamente. Posso dire però che nella narrativa americana c’è un certo pragmatismo che trovo meno altrove: un’altissima professionalità dello scrivere con cui gli autori sono obbligati a confrontare le proprie ambizioni artistiche. Questa a mio avviso è un’ottima cosa, perché áncora la scrittura alla realtà e aiuta i lettori a decifrarla. In Francia, invece, uno scrittore o un regista sono in primo luogo artisti e solo in secondo luogo dei professionisti. E questo espone facilmente a una certa auto indulgenza.

- New York e Parigi sono due mete ambitissime da parte di scrittori e intellettuali. Tu le conosci molto bene. In cosa si assomigliano e in cosa si differenziano le due città, in relazione al rapporto con le scrittrici e gli scrittori che vi abitano?
Non si somigliano in nulla. New York è aperta, competitiva, “workaholic” e giovane nello spirito, ahimè, fortemente capitalistico. Parigi è la tradizione, ha una società chiusa, guarda poco “altrove”, ma essere intellettuali e poveri a Parigi è una medaglia. Ambedue sono internazionali, ma Parigi non lo sa, sembra addirittura ignorare di avere l’opzione di trasformarsi nella capitale culturale d’Europa – se solo riconoscesse gli elementi stranieri che compongono la sua società artistica e letteraria. Faccio un esempio. Una scrittrice come Mavis Gallant, che era canadese, è rimasta quasi sconosciuta ai francesi, pur avendo vissuto a Parigi per sessantacinque anni. Un giorno Bernard Pivot l’ha invitata alla sua celebre trasmissione sui libri “Apostrophes”. E solo allora i vicini di Rue Ferrandoni hanno scoperto che la signora che da quarant’anni abitava al secondo piano era una delle più grandi scrittrici di racconti del mondo. Faccio fatica a immaginare che la stessa cosa possa succedere a Londra, o Roma, o Berlino.

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- Domanda analoga con riferimento alle scrittrici e gli scrittori che racconti nel libro. C’è qualcosa che, in un modo o nell’altro, li accomuna tutti?
Sono diversissimi tra loro, come qualunque essere umano. Gallant intelligentissima, insofferente, spiritosa. Thurman molto intellettuale, sofisticata, piena di “Jewish wit”. Wallace disperato e introverso. Ford amabilissimo e sanguigno. Mitchell un ammutinato gentile. Purdy fiero della sua debolezza. Fox una sopravvissuta, piena di una saggezza al di fuori degli schemi. E Roth seducente, manipolatore, capriccioso, intenso e fedele. No: nulla li accomuna, a parte l’essere delle creature tormentate dalla malattia dello scrivere, con tutto ciò che comporta: ansie, frustrazioni, soddisfazioni occasionali, genio.

Philip Roth. Una storia americana. DVD. Con libro- Pensando a Philip Roth: cosa ti rimane, più di ogni altra cosa, del rapporto con il Roth scrittore? E con l’uomo?
Del Roth scrittore mi rimane la straordinaria esperienza di avere letto (e in alcuni casi riletto) tutta la sua opera in ordine cronologico, nell’edizione della Modern Library. Trentuno libri sono una maratona gigantesca, ma anche una chiave di accesso unica a ciò che rappresenta il mondo di un autore. L’ho fatto all’epoca in cui preparavo per ARTE il documentario “Philip Roth: una storia americana”, che poi è stato pubblicato da Feltrinelli Real Cinema. La gente pensa che Roth si sia aperto con me perché ci conoscevamo così bene da essere diventati complici. Ma non conoscono Roth. Si è aperto con me perché ero diventata la sua memoria: conoscevo la sua opera meglio di lui, si potrebbe dire con una battuta. Perché un segreto degli scrittori è che odiano rileggersi, e se possono evitano. Io in quei mesi gli ho fatto da sponda e da specchio. Ci siamo divertiti.
Del Roth uomo, invece, mi sono rimasti un affetto e una complicità molto profondi. E’ uno dei punti di riferimento della mia vita – e non parlo professionalmente.

- C’è qualcuno, tra gli autori presenti nel libro, con cui ti sei sentita più affine? E per quale motivo?
“Non scrivere di me” è un gioco di specchi. Ogni racconto contiene la scoperta di un’affinità con l’autore che ne è protagonista. Con Judith Thurman un certo rapportarsi al mondo attraverso la lente psicanalitica e quella femminile. Con Paula Fox il riconoscersi in certi valori non scontati. Con Mavis Gallant uno sguardo ironico verso una realtà piuttosto dura. Con Roth l’inseparabilità di mente ed eros. Solo con David Foster Wallace non ho trovato alcuna affinità. Non sarebbe stato possibile: era troppo chiuso nella sua ansia, la sua paranoia, l’infelicità che avrebbero finito per ucciderlo.

- Trovo che la copertina del libro sia particolarmente bella. Ti andrebbe di commentarla?
E’ una copertina molto efficace che devo all’Art Director della Feltrinelli Giordano Guerri. E’ lui che ha scelto Adrian Tomine nella scuderia dei disegnatori del New Yorker, e insieme abbiamo approvato questo particolare disegno. E’ un’arte, quella delle copertine, che io non conosco. Ma so che questa particolare copertina ha “parlato” all’immaginazione di molti lettori e anche a quella di alcuni critici che ne hanno scritto (non succede mai). C’è la notte, c’è New York, c’è l’intimità di una conversazione a due, c’è una rivisitazione di Edward Hopper. Solo dopo avere visto il libro pubblicato ho capito quanto fosse azzeccata. E’ questo il mistero dei libri. Tu, autore, hai bisogno della distanza dello sguardo degli altri, per capire cos’è l’oggetto che ti sta davanti e che porta il tuo nome.

- Lo abbiamo già accennato prima: tra le varie cose che hai fatto, hai realizzato due film documentari su Philip Roth. Hai in programma di realizzarne di ulteriori, magari su qualcun altro degli scrittori protagonisti di questo libro?
Vorrei farne uno su Mavis Gallant e ho cercato anche di farne uno su Richard Ford, ma è molto difficile, anche se le trattative sono ancora aperte. Persino in Francia, dove lo Stato finanzia generosamente il cinema. La verità è che gli scrittori sono poco seguiti in televisione. E forse è giusto così. Il loro mezzo espressivo è un altro. Non sono attori. A parte Roth, naturalmente, che è un vero istrione. Ma lui si diverte a essere un bastian contrario su tutto. E’ la sua forza. Non ti pare?

- Credo proprio di sì, cara Livia. Grazie di tutto!

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Livia Manera Sambuy è una giornalista letteraria che scrive sul “Corriere della Sera”. Ha realizzato due film documentari su Philip Roth. Ha vissuto tra Milano e New York, ora vive tra Parigi e la Toscana. Philip Roth. Una storia americana è stato pubblicato da Feltrinelli nella collana di dvd “Real Cinema” nel 2013.

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SICILIANI ULTIMI? http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/04/28/siciliani-ultimi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/04/28/siciliani-ultimi/#comments Tue, 28 Apr 2015 18:00:06 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6762 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Siciliani Ultimi? Tre studi su Sciascia, Bufalino, Consolo. E oltre” di Giuseppe Traina (Mucchi editore).

La prefazione del libro firmata da Giuliana Benvenuti è disponibile cliccando qui.

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di Massimo Maugeri

Giuseppe Traina è professore associato di Letteratura Italiana presso l’Università di Catania e insegna nella Struttura Didattica Speciale di Ragusa, città dove vive. Ha studiato autori italiani fra Sette e Novecento, dedicando particolare attenzione a Sciascia (La soluzione del cruciverba, 1994; Leonardo Sciascia, 1999; In un destino di verità, 1999; Una problematica modernità, 2009), a Bufalino (“La felicità esiste, ne ho sentito parlare”. Gesualdo Bufalino narratore, 2012), a Consolo (Vincenzo Consolo, 2001). Si occupa attualmente di letteratura comica e satirica.
Per la collana Lettere Persiane di Mucchi ha pubblicato di recente il volume “Siciliani Ultimi? Tre studi su Sciascia, Bufalino, Consolo. E oltre“.
Ho avuto modo di incontrare Pippo Traina porprio per discutere di quest’ultimo libro.

- Giuseppe, partiamo dalle ragioni che ti hanno spinto a pubblicare “Siciliani Ultimi?”…
Le ragioni principali sono l’amore per la grande tradizione letteraria siciliana, di cui Sciascia, Bufalino e Consolo sono considerati gli ultimi autorevoli esponenti, e, d’altra parte, il fastidio per ogni ragionamento troppo pessimista sulle sorti della letteratura nel secolo ventunesimo.
Avevo in precedenza già scritto i saggi su “L’affaire Moro” di Sciascia, sull’attività di Bufalino come antologista e sul romanzo “Retablo” di Consolo: ho pensato che raccoglierli in un libro, dopo averli un po’ rivisti e aggiornati, poteva essere un modo per tornare ancora una volta su autori già studiati in passato e sui quali ho pubblicato diversi libri, per valorizzarne aspetti poco noti oppure per rivalutare opere meno considerate rispetto ad altre. Ma mi sembrava anche giusto capire che cosa della loro eredità è considerato ancora valido dagli scrittori siciliani di oggi e che cosa, invece, è cambiato – anche radicalmente – nella scrittura di questi ultimi.

- Il titolo del libro non passa inosservato. Perché questa scelta?
Perché Sciascia, Bufalino e Consolo sono davvero stati gli ultimi grandi esponenti di una tradizione letteraria siciliana che – pur nelle inevitabili diversità fra autore e autore, fra stile e stile – ha dimostrato di avere non pochi tratti in comune: per esempio, la coscienza scontrosa di un’alterità antropologica; un antistoricismo tenace; una predilezione per la grande cultura europea unita alla scelta della Sicilia e dei siciliani come oggetto d’analisi; la tentazione di scrivere un romanzo–cattedrale, che sia affresco sociale o saga familiare; una scrittura che procede sui sentieri sinuosi del barocco o della prosa lirica o su quelli, non meno sinuosi, del ragionamento analitico in stile scabro ed essenziale. Insomma, quel quadro mosso ma coerente che Massimo Onofri ha rubricato all’insegna della “modernità infelice”. Ma, come dicevo prima, nell’introduzione al libro ho provato a dimostrare che, dopo i risultati splendidi raggiunti da questi tre grandi scrittori non c’è il nulla, c’è invece un “oltre”: altre forme di scrittura che, seppure in buona parte lontane dalle loro, ci dicono cose tutt’altro che secondarie sulla Sicilia di oggi, sull’Italia di oggi.

pippo-traina- Sciascia, Bufalino, Consolo: tre pilastri, dunque, della letteratura siciliana (e non solo) del secondo Novecento. Quali sono gli elementi che li accomunano? E quali quelli che li dividono?
Ad accomunarli mi pare sia soprattutto la fiducia nella letteratura come mezzo per esprimere e testimoniare un’alternativa possibile alla massificazione culturale e all’indifferenza valoriale. Anche un elemento che apparentemente li divide – mi riferisco alle scelte linguistico-stilistiche – può rivelare, se studiato a fondo e senza pregiudizi, interessanti aspetti in comune: penso alla complessità del periodare, che poi, naturalmente, ognuno di loro riveste di una patina lessicale molto personale. A dividerli abbastanza nettamente, invece, mi pare ci sia l’atteggiamento verso il proprio mondo interiore: che Bufalino affrontava a viso aperto, anzi esibendo una quasi impudica attitudine ad auscultare le proprie ragioni del cuore, mentre Sciascia e Consolo si aggrappavano tenacemente alle ragioni della ragione per schermare al lettore l’accesso a un mondo che doveva rimanere il più recondito possibile.

- Se oggi avessi la possibilità di scrivere una lettera a uno di questi tre grandi scrittori (e di ricevere risposta), a chi scriveresti? E perché?
Sciascia è l’unico dei tre che non ho conosciuto personalmente e la tentazione di scrivergli almeno una lettera immaginaria sarebbe molto forte; tuttavia, credo proprio che preferirei scrivere a Bufalino per chiedergli chi bussava alla porta nel terzo capitolo (mai scritto) di “Shah Mat” o se (laggiù o lassù dove adesso si trova) si odono ancora voci di pianto da un lettino di sleeping-car…

- In che modo la letteratura siciliana sta cambiando volto?
La letteratura siciliana cambia volto come un po’ tutta la letteratura mondiale: ibridando generi e tradizioni, linguaggi letterari e non letterari, lingue e pidgins; rimettendo in discussione gli stereotipi e magari correndo il rischio di crearne di nuovi; frequentando scuole di scrittura creativa ma anche continuando ostinatamente a frugare negli archivi; ricalcando la strada del realismo (ma guardando, in questo caso, di necessità a una realtà profondamente diversa) o spingendosi coraggiosamente nei territori del visionario, del grottesco. Naturalmente la distanza dalla tradizione potrà essere massima nei più giovani talenti (penso a Viola Di Grado) o minore nei letterati più esperti (un Santo Piazzese, una Silvana Grasso): quella che mi pare manchi, in generale (e per fortuna!), è la nostalgia del passato.

- A proposito di nostalgia del passato e di rapporto con il futuro… cosa puoi dirci dal tuo punto di vista?
Verso il passato nutro il massimo rispetto ma, appunto, nessuna nostalgia, semmai il desiderio di esplorarlo meglio, per riuscire a ricredermi su taluni pregiudizi o a riscoprire scrittori oggi ingiustamente dimenticati: penso, fra gli altri, a scrittori che erano siciliani per nascita ma che poi sono diventati scopritori insostituibili di altri orizzonti culturali: l’ispanista Carmelo Samonà o il sommo slavista Angelo Maria Ripellino, per esempio.
Quanto al futuro, come dicevo all’inizio, non sopporto i discorsi sulla crisi della letteratura che mi pare nascondano, sempre, la crisi personale dell’interprete rispetto a quel che sta cambiando, troppo velocemente, davanti ai suoi occhi pigri. Insomma, per concludere, prendo in prestito un’idea di Bufalino, il quale sosteneva che, mentre noi stiamo qui a discutere sulla crisi irreversibile della letteratura, da qualche parte nel mondo un novello Shakespeare sta imparando a compitare le sue prime parole.

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SOLI ERAVAMO – di Fabrizio Coscia http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/04/14/soli-eravamo-di-fabrizio-coscia/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/04/14/soli-eravamo-di-fabrizio-coscia/#comments Tue, 14 Apr 2015 18:00:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6745 Nel nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” diamo spazio al volume SOLI ERAVAMO e altre storie (ad est dell’equatore) di Fabrizio Coscia.
Un libro, in questo caso, che non si occupa solo di letteratura, ma (più in generale) di arte… tornando, però, alla letteratura.

Possono un romanzo, una poesia, un quadro o una musica cambiare la nostra vita? Illuminarla di un significato che ci era stato nascosto fino a un attimo prima? Mostrarci una strada mai percorsa? Secondo l’autore di questo libro sì. A patto di lasciarci coinvolgere incondizionatamente dall’amore per l’arte.

Di seguito: un intervento dell’autore (predisposto in esclusiva per Letteratitudine,  in cui ci racconta qualcosa sul volume) e un estratto del libro.

Massimo Maugeri

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Fabrizio Coscia ci “racconta” SOLI ERAVAMO E ALTRE STORIE (ad est dell’equatore)

di Fabrizio Coscia

http://i.ytimg.com/vi/w9LsHDqQg-w/hqdefault.jpgHo scritto questo libro perché volevo guadagnarmi uno spazio di libertà, innanzitutto. Libertà dai generi, dai vincoli, dalle regole editoriali. E perché era da un po’ di tempo che provavo una certa stanchezza nei confronti della fiction, della terza persona, delle storie da inventare. Ho provato, allora, a mettermi nei panni del lettore, prima ancora che dello scrittore. E ho cercato una voce affidabile, credibile, da modulare. Sono nate così queste piccole storie che parlano di grandi scrittori, artisti, compositori, delle loro vicende biografiche e delle loro opere, raccontate da un personaggio-uomo (per usare una celebre definizione di Giacomo Debenedetti) che dice io, e che porta con sé tutto il suo carico di vissuto e tutta la sua esperienza di lettore emotivo: un lettore in carne e ossa e anima, che inframmezza i suoi ricordi, le sue sensazioni ai racconti degli episodi biografici. Ne è venuta fuori una sorta di romanzo di formazione, di autobiografia intellettuale, anche se in tono minore, qualcosa che però sfugge a una definizione univoca, perché, appunto, scritto in piena libertà di intenti. Si racconta, dunque, della tardiva e fatale fuga dall’oppressione matrimoniale di un Tolstoj ottantaduenne e di quella ribelle e adolescenziale di Rimbaud per l’Africa. Si racconta di un Kafka che s’improvvisa postino delle bambole per lenire il dolore di una bambina in un parco di Berlino; di un quadro di Edward Hopper che rimanda al finale di un racconto di Joyce, dell’incontro disastroso dello stesso Joyce con Proust, di un Leopardi ingordo di gelati, dei «suicidi imperfetti» di Virginia Woolf e Cesare Pavese, della fucilazione di Garcia Lorca e Isaak Babel’, dell’incontro probabilissimo tra il vecchio Casanova e il «Don Giovanni» di Mozart. E ancora: della vita e dell’arte votati consapevolmente al fallimento di Silvio D’Arzo e Robert Browning, della misteriosa vita erotico-sentimentale di Schubert e del «desiderio triangolare» che lega Brahms, Schumann e sua moglie Clara, della volontà di sparire completamente di Robert Walser, del doppio omicidio passionale di Carlo Gesualdo e di Gianciotto Malatesta.

E si racconta della vita e della musica di Bill Evans, sublime pianista jazz e martire dell’eroina, di una canzone dei Radiohead, dei quadri di Vermeer e Caravaggio e delle poesie d’amore di Keats, del mantello di Albertine, il personaggio della Recherche proustiana, e del canto ferito di Violeta Parra. E ciascuno di questi racconti è filtrato dalla sensibilità di un narratore che non esita a mostrarsi così com’è: non solo un decifratore di segni, un estensore di note, un compilatore di ecfrasi (ovvero quella descrizione di opere d’arte con cui da sempre – fin dai tempi di Omero – la prosa si cimenta, in una sorta di gara nel dire ciò che non può dire, nel raccontare le immagini, la musica o in generale l’altro da sé); ma anche e soprattutto una voce nuda, che si mostra così com’è, senza infingimenti. Tutti questi miei racconti rappresentano così altrettante tappe nel percorso di un viaggio interiore, al quale mi ha spinto da un lato la mia sconfinata ammirazione per questi artisti (esercizi di ammirazione, potrebbero, infatti, essere definiti), e dall’altro, forse, un presentimento di “fine dei tempi”, come se avessi voluto intonare un commosso, partecipato epicedio per un’idea di cultura che ha accompagnato la mia giovinezza e che vedo allontanarsi sempre di più dall’orizzonte formativo dei giovani con cui mi trovo ogni giorno, per il mio lavoro di insegnante, a parlare e a confrontarmi. Sarei felice, naturalmente, di sbagliarmi: mi piacerebbe addirittura che questo mio piccolo libro potesse invece risvegliare curiosità e nuovi ardori. In fondo, è semplicemente un libro che parla di altri libri, di quadri, di musiche, o delle vite di coloro che hanno scritto, dipinto, composto. Un tentativo di dimostrare quanto l’arte possa arricchire la nostra esistenza, ma anche lenire le sue ferite o illuminarla di significati nascosti e perfino mostrarci il suo lato meno addomesticabile e più insondabile. Un libro, dunque, che racconta la vita attraverso l’arte e l’arte attraverso la vita.

(Riproduzione riservata)

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da  SOLI ERAVAMO E ALTRE STORIE (ad est dell’equatore) di Fabrizio Coscia

KAFKA, IL POSTINO DELLE BAMBOLE

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b4/Kafka.jpgDi fronte al pianto disperato di mia figlia, alla quale avevo strappato via da mano, per punirla di un capriccio, il libro appena regalatole – quel pianto struggente, catastrofico, indifeso, che solo i bambini sono capaci di produrre, come se tutto il dolore del mondo sgorgasse dalle loro lacrime – mi tornò in mente una volta una delle storie più bizzarre e commoventi che conosca. La storia di un altro disperato pianto di bambina, nel quale s’imbatté per caso in un parco berlinese, nel 1923, Franz Kafka. Lo scrittore si era appena trasferito a Berlino, dove viveva con la giovane polacca Dora Diamant, ebrea come lui, conosciuta quell’estate in una stazione balneare sul Baltico. Con lei – forse il suo unico, vero amore – Kafka avrebbe trascorso, a quanto pare serenamente, l’ultimo anno della sua vita, facendo progetti comuni, come quello di emigrare insieme in Palestina e di aprire un ristorante (suppongo vegetariano) a Tel Aviv.
Anche quel giorno Kafka e Dora erano insieme, al parco di Steglitz, dove passeggiavano spesso, quando incontrarono la bambina che piangeva. I due le si accostarono e cominciarono a parlare con la piccola, cercando di rassicurarla. Lui le domandò cos’era che la faceva tanto soffrire, e se si fosse persa.
«Non io, la mia bambola si è persa», gli rispose lei, tra i singhiozzi.
Sorpreso dalla risposta, Kafka s’inventò lì per lì una scusa per spiegare quella sparizione e cercare di lenire il dolore della bambina.
«La tua bambola non si è persa – le disse – È solo partita per un viaggio».
La bambina lo guardò diffidente.
«E tu che ne sai?» gli chiese, smettendo di piangere.
«Lo so. Mi ha mandato una lettera», le rispose Kafka, fingendo di essere un postino delle bambole.
«Ce l’hai qui con te?» gli chiese ancora la piccola.
«No, mi dispiace, l’ho lasciata a casa. Però domani te la porterò».
Era bastata quella promessa a far dimenticare alla bambina il dolore della scomparsa. Incerta se credere o no a quel signore dal sorriso gentile, alto e snello, elegante e dalla pelle olivastra come quella di un principe indiano, e sempre più incuriosita, la bimba decise di fidarsi.
«Allora ti aspetto qui, domani».
Kafka tornò subito a casa e si mise a scrivere la lettera della bambola. Dora, che per fortuna ci ha raccontato nelle sue memorie questo stupefacente aneddoto, dirà che quel giorno lo vide entrare «nella stessa condizione di tensione in cui si trovava non appena si sedeva alla scrivania».
Il giorno dopo Kafka ritorna al parco con la lettera e trova la bambina che lo sta aspettando, seduta su una panchina. E lui, con voce serissima e mansueta, le legge il messaggio della bambola. È molto dispiaciuta di averla lasciata, le dice, ma aveva bisogno di cambiare aria, di conoscere il mondo. Non è che non vuole più bene alla bambina: ha solo voglia di viaggiare, incontrare altra gente, fare nuove esperienze. E a questo punto succede qualcosa di sensazionale: Kafka, l’autore di capolavori che hanno cambiato il nostro modo di vedere la realtà, l’uomo che già sapeva di avere i giorni contati perché ammalato – morirà di lì a poco di tisi in un sanatorio nei pressi di Vienna, a 41 anni – si impegna a scrivere ogni giorno una lettera alla bambina, per aggiornarla su come sta e su quello che sta facendo la sua bambola. Glielo fa promettere dalla bambola stessa, nella lettera, e manterrà la promessa per le successive tre settimane. Venti lettere per venti giorni, scritte con la massima dedizione, con ascetico impegno, al solo scopo di rendere accettabile per la bambina l’angoscia dell’abbandono, il trauma della separazione. Un gioco serissimo, spinto fino al limite del possibile. Ogni giorno Kafka si reca al parco, si siede sulla panchina accanto alla bambina e le legge una lettera. La bambola cresce, comincia ad andare a scuola, a fare nuove amicizie, continua a ripetere alla bambina che le vuole bene, ma ogni volta si frappone qualche ostacolo, qualche complicazione che non le permette di tornare. Kafka ritarda il momento dell’addio definitivo, costruisce divagazioni, sotterfugi, rallentamenti. Dora ricorda addirittura che aveva una «paura terribile» di non essere all’altezza di scrivere un finale autentico. In realtà ha paura che la scrittura possa non reggere l’urto della verità, che si riveli inefficace, incapace di creare un ordine che sostituisca «il disordine causato dalla perdita del giocattolo». Guarire il dolore della bambina è l’unico obiettivo che Kafka si pone in quei venti giorni, continuando a intrecciare quella implacabile, rigorosa menzogna che è la letteratura, nella quale il genio di Praga ha identificato tutto il suo essere e tutta la sua vita («Non posso né voglio essere altro che letteratura», scrisse nei suoi Diari). È come se di fronte a quel pianto di bambina – e alla possibile capacità di compensazione, di risanamento della parola – si giocasse la sua intera esistenza di scrittore.
Dopo molte riflessioni e incertezze, Kafka decise infine di far sposare la bambola. Nella sua ultima lettera descrisse il futuro marito, la festa di fidanzamento, i preparativi del matrimonio in tutti i dettagli, e perfino la casa dove i novelli sposi sarebbero andati a vivere. Alla fine, le ultime parole che la bambola scrive alla bambina sono queste: «Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro».

Quel che mi sorprende, in questa storia di Kafka e della bambina nel parco, è il fatto che non abbia in fondo proprio nulla di kafkiano. È una storia piena di tenerezza e di umanità, con tratti perfino patetici. Per non parlare del finale immaginato nelle lettere, così consolatorio e convenzionale, col matrimonio della bambola. Niente di più lontano dall’arcano e crudele mondo di Kafka, fatto di punizioni efferate e condanne inesplicabili, metamorfosi orrende e strani incroci, esecuzioni e macchine di torture, messaggi mai arrivati e divieti incomprensibili. Eppure, quanta profonda saggezza si nasconde in questo episodio di vita tardivo! Forse, a pensarci bene, l’aspetto più kafkiano dell’intera vicenda è proprio la sua imprevedibilità, e la capacità di rivelarci una verità nascosta, che il pianto disperato di mia figlia mi aveva fatto appena intravedere, tutta consegnata nell’ultima frase dell’ultima lettera scritta dalla bambola e portata dal postino Kafka: «Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro».
Alla fine, dunque, il miracolo della scrittura si compie. I venti giorni non sono passati invano e le lettere – che la Gestapo sequestrerà a Dora Diamant, privandoci per sempre di un tesoro inestimabile – hanno adempiuto al loro scopo, preparando il distacco. La piccola, infatti, accetta finalmente la sparizione della bambola, la rinuncia. E accetta l’ineluttabile necessità che ci spinge avanti, ci provoca strappi, abbandoni, conflitti, paure.
Perché nel pianto della bambina nel parco che ha perso la sua bambola preferita – così come nel pianto di mia figlia che si è vista portar via da suo padre il libro illustrato che lui stesso le aveva appena donato – c’è in fondo l’infelicità di chi si affaccia alla vita. Un’infelicità che va presa molto sul serio, e che va condivisa, cercando un accomodamento, un varco, una transazione possibile: «Vedi tu stessa», scrive, non a caso, la bambola. Come a dire che non può esserci alternativa al riconoscimento della necessità del dolore. La bambola persa, il libro negato non sono infatti che le prime prefigurazioni di ciò che ci verrà tolto. È per questo che Franz Kafka, tra gli autori più impenetrabili della cultura occidentale, dedicò gli ultimi giorni della sua vita di scrittore a inventarsi semplici lettere di una immaginaria bambola per consolare una bimba sconosciuta. Perché sapeva che la scrittura nasce sempre da una perdita, da una complicazione del vivere e dal desiderio di compensare il dolore che essa provoca. E sapeva che quel dolore, quel vuoto, ci riguarda tutti. Ci interroga tutti.

(Riproduzione riservata)

© ad est dell’equatore

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Fabrizio Coscia, Napoli, 1967. È insegnante, scrittore e giornalista. Ha collaborato al quotidiano «Liberazione» e al settimanale «Il Diario». Scrive da anni sulle pagine culturali del quotidiano «Il Mattino». Ha pubblicato il romanzo Notte abissina (Avagliano, 2006) e il racconto «Dove finisce il dolore», nella raccolta antologica Napoli per le strade (Azimut, 2009, Premio Girulà 2009).

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DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove – di Francesco Roat http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/27/desiderare-invano/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/27/desiderare-invano/#comments Fri, 27 Feb 2015 16:48:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6694 Nel primo appuntamento del nuovo spazio di Letteratitudine dedicato alla “Saggistica Letteraria” diamo spazio al volume “DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove” di Francesco Roat (Moretti & Vitali).
Di seguito: una nota sul libro (tratta dalla postfazione di Flavio Ermini), un intervento dell’autore (predisposto in esclusiva per Letteratitudine,  in cui ci racconta qualcosa sul volume) e un estratto del libro.
Massimo Maugeri

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Dalla postfazione di Flavio Ermini

La leggenda del patto tra Faust e il demonio può essere letta come un mito: ovvero come una narrazione primordiale, grazie alla quale interrogarci sulla natura dell’essere umano e finanche sulla sua essenza.
È quanto fa Francesco Roat in Desiderare invano, seguendo passo per passo la vicenda narrata da Goethe, ma senza dimenticare – in frequenti, vertiginosi excursus – le tante altre opere letterarie, teatrali o musicali ispirate alla figura dello studioso che sottoscrive il più celebre dei patti stipulati tra l’essere umano e il diavolo. È lucidissima, a questo proposito, la riflessione che l’autore mette in campo intorno alle forme del desiderio e ai suoi aspetti irrisolti e paradossali.
Il desiderio di conoscere ogni cosa e di carpire tutti i misteri del mondo è un’ambizione che eccede l’umano e si traduce, come osserva Roat, “non già in un anelito sovrumano quanto disumano”! L’umanità sta da un’altra parte. Si rivela solo affrancandosi dalle illusioni.
Ritenere di poter sfuggire all’esperienza della morte e del dolore è perversione, è tradimento, è corteggiare un precipizio. Solo la coscienza della profonda unità del cosmo – alla quale siamo chiamati nascendo – può placare l’angoscia della caducità e può consentirci di abbracciare una visione della vita che sposti l’accento sul morire come legge dell’esistenza; può indurci a prendere consapevolezza dell’impossibilità di ogni assoluto, di ogni eterno piacere. Può consentirci di abbracciare i chiaroscuri di una persistente umbratilità.

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Francesco Roat ci “racconta” DESIDERARE INVANO

di Francesco Roat

F. Roat leggeIl mito di Faust nasce a cavallo tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna, ma la storia dell’uomo che ha venduto la propria anima al diavolo è riconducibile a un personaggio realmente vissuto, riferendosi al negromante e astrologo tedesco Johann Faust (1480-1540); anche se in essa non mancano rimandi a racconti e a mitologemi di derivazione ancora più remota.Nel mio saggio (“Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove”, edito da Moretti&Vitali) sostengo, sulla scia di André Neher, che quello faustiano sia “il mito dell’uomo moderno” per antonomasia, incarnando il suo protagonista il desiderio di affrancarsi dai retaggi dogmatici e l’urgenza di tendere in modo inesausto a superare ogni limite: atteggiamento spesso destinato a tradursi in velleitario desiderio d’onnipotenza, il quale trova la sua massima espressione storica non tanto nell’Übermensch nicciano, quanto nell’aberrazione che di tale figura ha prodotto il nazismo.
Faust è però anche l’anticonformista che vuole gustare ogni piacere, appagare ogni istinto o voglia. Al contempo egli esprime l’insoddisfazione dell’individuo perennemente inquieto e mai davvero pago di nulla. Il mito di Faust – è dunque la tesi del saggio − fornisce una chiave di lettura dell’uomo occidentale post/tardo-moderno agli inizi del terzo millennio: incline al disincanto e deluso da ogni “credo” ideologico, monade imbozzolata nella sua chiusura all’insegna d’un narcisismo tendente alla reificazione dell’altro da sé e tutto preso da una perenne tensione desiderante; quando non si lasci irretire dal tedium vitae o, peggio ancora, da un nichilismo mortifero.
Il mio libro intende perciò esplorare ciò che è sotteso all’inquietudine desiderante di Faust (lo Streben), ovvero una hybris antica quanto l’uomo o forse ancor di più. Non a caso il primo personaggio preso in esame dal testo è Lucifero, che – nell’ambito della cultura giudaico-cristiana – rappresenta la scaturigine del male in quanto espressione di somma tracotanza. Ѐ Lucifero infatti a indurre la coppia primordiale umana all’illusoria speranza di divenir pari a Dio. Seconda figura mitologica cruciale risulta – qui, accanto ad altre − quella di Prometeo, il cui titanismo/superomismo (espressione dell’eccesso e della dismisura) finisce per alienare l’uomo da ciò che gli è più proprio: il limite, la vulnerabilità e la caducità.
Vengono quindi analizzati due aspetti basilari del carattere faustiano: il nichilismo e la Stimmung melanconica. Tratti significativi dell’irrisolutezza e debolezza del “sentire” faustiano; e del bisogno d’ancorarsi a un alter ego che nel mito in questione assume i panni del demonio Mefistofele − secondo Goethe: “lo spirito che sempre nega” − istigando Faust a firmare col proprio sangue il noto patto, in seguito al quale egli sarà disposto a cedere l’anima al diavolo se riuscirà a gustare un del tutto appagante “attimo bello”.
Fulcro centrale dell’opera è costituito da un’ampia riflessione intorno al desiderio e ai suoi aspetti irrisolti e paradossali. Soprattutto nei confronti del desiderio per antonomasia, quello amoroso, che qui annovera tra i suoi estimatori personaggi che vanno da Orfeo a Don Giovanni, dalla Diotima del Convivio platonico a Elena di Troia: archetipo ineguagliabile di bellezza muliebre.
Dopo aver trattato dell’invidia quale contraltare patologico del desiderio, un capitolo è dedicato ai due volti antitetici della “cura” (angoscia e sollecitudine) prendendo spunto dalla lezione di Heidegger e facendo riferimento a una delle scene più inquietanti del Faust di Goethe. Mentre l’ultima parte del saggio è rivolta alla disamina della conclusione del capolavoro goethiano in cui compaiono figure allusive e simboliche, forti d’una intensissima espressività poetico-metaforica, in grado di accennare – come non può il discorso saccente della razionalità − all’indicibile della metafisica.
Per terminare infine la lettura del mito faustiano suggerendo la possibilità d’una terza via tra la hybris − tesa a oltrepassare ogni limite, illudendoci di poter abolire la weiliana necessità ineludibile − e l’inerzia sterile dell’autocompiacimento o del disincanto, auspicando la nascita di una nuova parola che sappia andare oltre logos e mithos senza però la tracotanza d’impossibili svelamenti definitivi. Poiché non si tratta più per noi di far chiara luce; piuttosto d’abitare i chiaroscuri di un’umbratilità destinata a rimanere tale in quanto mai totalmente illuminabile dal faro abbacinante della ragione o dalla visionarietà estatica.

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UN ESTRATTO di DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove” di Francesco Roat (Moretti & Vitali).

Riacquistare la giovinezza perduta

Nel capolavoro goethiano il primo intervento compiuto da Mefistofele
è una trasmutazione prodigiosa. Con una sorta di pseudomiracolo,
il demonio − nella “cantina di Auerbach a Lipsia” (Auerbachs
Keller in Leipzig) dove i due compari si sono recati − riesce
a far sgorgare del vino da un tavolo che egli ha perforato con un
“succhiello” (Bohrer). È una chiara allusione/profanazione rispetto
al primo miracolo compiuto da Cristo, quello delle “nozze di
Cana” (Gv. 2, 1-11), nel quale Gesù trasforma dell’acqua in vino.
Va tenuto conto che sin dall’Antico Testamento il vino – immaginificamente
– indicava il legame sponsale tra il popolo eletto e
YHWH, e nel Nuovo Testamento non si fa che ribadire come il
vino sia simbolo dell’amore di Dio e del Figlio verso gli uomini.
L’ultima cena, poi, segnerà l’apoteosi di questa antica metafora;
in quanto nell’eucarestia il Cristo, mediante la transustanziazione,
muterà il vino nel proprio sangue, offerto in dono ai credenti.
Mefistofele dunque appare qui come simia Christi, quale fraudolento
e goffo contraffattore evangelico. Il suo trucco illusionistico
però non soddisfa per nulla Faust, che non mostra stupore
o interesse per quella specie di “miracolo” (Wunder) da baraccone.
Anzi egli dice in modo sbrigativo al suo servitore di voler
allontanarsi dalla bettola: «Ora io avrei voglia di andar via». La
mera ebbrezza non riesce perciò ad appagare minimamente il magister
e il primo atto diabolico si conclude in un nulla di fatto. Da
qui la seconda carta giocata da Mefistofele, che è poi quella di far
ringiovanire Faust. Così i due si recheranno in una “cucina di strega”
(Hexenküche), dove l’attempato dottore berrà una magica “pozione”
(Trank) destinata a svecchiarlo in un baleno di vari decenni.
Il desiderio di tornare (o rimanere) giovani è forse antico quanto
l’umanità. A livello mitologico, presso diverse antiche culture
– tanto in Europa che in Asia, quanto in America −, è possibile
rinvenire numerose varianti relative alla ricerca della favolosa fonte
(o sorgente) della giovinezza, che consentirebbe a chi beve (o si
asperge) di quell’acqua l’ottenimento dell’eterna gioventù, della
salute e persino dell’immortalità. Tali leggende sono strettamente
legate al mito di Faust, il quale, grazie alla magia, ottiene
di ringiovanire: sogno oggi quanto mai vagheggiato da chi cerca
soluzioni altrettanto miracolistiche attraverso la chirurgia estetica
e la cosmesi o spera in utopistici prodigi biotecnologici. Ma la
realizzazione d’una più o meno perpetua giovinezza e/o il (per ora
solo fantascientifico) prolungamento ad libitum dell’esistenza potrebbe
comportare cosa? Se lo è chiesto anche Naief Yehya, in un
recente saggio intorno ai futuribili e inquietanti scenari del corpo
postumano, e questa è la sua risposta: «È indubbio che la prospettiva
di cambiare corpo come si cambia auto o appartamento è affascinante,
ma che ne sarà dello spirito umano in un mondo senza
vecchiaia dove si potrà comprare la vita eterna?». E abbozza una
risposta concludendo che la specie Homo sapiens: «Si definisce
attraverso la preminenza e l’irreversibilità dei cicli vitali. La mortalità
e la certezza del fatto che ogni istante è unico, e che la vita
è irripetibile e preziosa. In un mondo dal quale sia stata sradicata
la tragedia umana, morire senza lasciare traccia sarà forse l’unico
atto rivoluzionario».
Ma se non ci è dato sapere cosa accadrà all’Homo cyborg, siamo
però a conoscenza di quel che è successo a Faust, il quale, pur
riacquistando la giovinezza, non l’ha certo ritenuta appagamento
bastevole al suo Streben. Di conseguenza Mefistofele è costretto
a giocare una terza carta: quella con cui cercherà di saziare l’appetito
sessuale del suo protetto e altresì la brama di conquistare e
far propria una ragazza “così modesta e così virtuosa” (so sitt- und
tugendreich), quale l’inesperta Margherita. Ciononostante − come
potrà immaginare anche chi non conosca la trama del Faust − neppure
aver sedotto la giovane farà dire all’uomo: «Attimo: resta, sei
così bello!».
E la prima parte dell’opera di Goethe termina piuttosto con la
reiterata/scontata frustrazione/insoddisfazione del protagonista. A
ben poco è valso proporre al nostro dottore la troppo facile ebbrezza
della droga alcolica, farlo apparentemente/esteriormente
ringiovanire (è però possibile, a onta della magia mefistofelica, che
l’anziano accademico − tornato giovane solo nel fisico, ma rimasto
a livello mentale il vecchio magister di prima – sia davvero ringiovanito?)
e infine fargli sedurre una pur splendida adolescente. Unico
scopo raggiunto da Mefistofele è alimentare e far perdurare la spirale
perversa costituita dal reiterarsi di brama-appagamento-nuova
brama. Il misero Faust lo comprende perfettamente, ma l’averne
coscienza non basta a fare in modo che il circolo vizioso s’interrompa.
E: «Così trascorro dal desiderio al godimento, / e nel godimento,
anelo al desiderio», confessa il protagonista, incapace di
sottrarsi alla folle giostra del desiderare invano.

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Francesco Roat ­­­– narratore, saggista e critico letterario trentino ­–, già insegnante di lettere nella Scuola Secondaria e consulente editoriale, si occupa di cultura su quotidiani, settimanali e riviste. (Suoi interventi sono apparsi su: L’AdigeL’Alto AdigeAvvenimentiCartaCaffè EuropaCafè letterario di AliceChe libriDiarioIl ManifestoIl Mucchio selvaggioIl Nuovo, Il Sussidiario, Il Trentino, InchiostroLeggereLiberazioneLiberalL’ImmaginazioneL’Indice, Linea d’ombra, L’UnitàNautilusPickwickPulpStilosWeb Magazine, Wuz). Ha pubblicato il libro di racconti Tra-guardo (Argo) – i romanzi: Una donna sbagliata (Avagliano),Amor ch’a nullo amato (Manni), Tre storie belle (Travenbooks), I giocattoli di Auschwitz (Lindau), Hitler mon amour (Avagliano) – i saggi: L’ape di luglio che scotta – Anna Maria Farabbi poeta(Lietocolle), Le Elegie di Rilke tra angeli e finitudine (Alpha-Beta), La pienezza del vuoto ­– Tracce mistiche negli scritti di Robert Walser (Vox Populi). A gennaio del 2015 verrà pubblicato il nuovo saggio: Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove (Moretti&Vitali). Un suo romanzo (Tre storie belle), recentemente tradotto in tedesco, è stato presente  all’ultima Fiera del Libro di Francoforte. L’autore sta inoltre curando per l’Ed. Lietocolle una nuova traduzione delle “Poesie della torre”, di Hoelderlin. (Francesco Roat dedica inoltre gratuitamente parte del suo tempo al volontariato in ambito sanitario-assistenziale: presso l’Ospedale S. Chiara, l’Hospice, nonché il Centro diurno Alzheimer di Trento). La sua opera più recente è il romanzo “HITLER MON AMOUR” (Avagliano)

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SAGGISTICA LETTERARIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/27/saggistica-letteraria/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/27/saggistica-letteraria/#comments Fri, 27 Feb 2015 16:12:51 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6691 saggistica-letterariaApro un nuovo spazio di Letteratitudine interamente dedicato alla “SAGGISTICA LETTERARIA” (in tutte le sue possibili declinazioni).

Un spazio che raccoglierà vari tipi di contributi (dedicati, appunto, alla saggistica letteraria del presente e del passato): articoli, interviste, estratti, recensioni, interventi e quant’altro

Massimo Maugeri

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