LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Albert Camus http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 LA PESTE di Albert Camus (Leggerenza n. 21) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/06/04/la-peste-di-albert-camus/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/06/04/la-peste-di-albert-camus/#comments Thu, 04 Jun 2020 12:55:06 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8501 imagedi Gianni Bonina

Rileggere La peste dopo il coronavirus è come farlo per la prima volta. Pur ammirando la forte precisione del quadro generale quanto soprattutto agli effetti psicologici sia individuali che collettivi, tali da far sembrare che Camus abbia vissuto una vera epidemia, mentre non si è che documentato su quelle passate, se ne colgono tuttavia lacune che prima sarebbe stato difficile trovare: non tanto le inesattezze scientifiche circa la differenza tra peste bubbonica e polmonare, da Camus confuse nelle manifestazioni fisiche e la seconda posta come complicanza della prima, quanto le misure di contenimento che abbiamo imparato oggi a comprendere in termini di “lockdown”. Benché la peste polmonare si diffonda attraverso saliva, sudore e particelle di sternuto e tosse, le autorità prefettizie di Orano (la città algerina di Camus dove la pestilenza divampa) non prescrivono alcuna quarantena, ma al culmine dei contagi e del conseguente pericolo per l’ordine pubblico ordinano il coprifuoco dopo le ventitré (provvedimento esorbitante dopo aver parlato di semplice febbre perniciosa sui manifesti affissi nelle sole strade secondarie) e intanto dispongono che la città sia chiusa e considerata una “zona rossa” dalla quale non si possa uscire e nella quale sia proibito entrare.
Ma dentro la città blindata “i prigionieri della peste” sono liberi durante il giorno di frequentare bar e ristoranti senza alcun distanziamento, affollare autobus con la sola cautela di darsi le spalle, andare a teatro e magari assistere alla morte sulla scena dell’attore protagonista, gremire i cinema solo per vedere lo stesso film ripetuto ogni giorno. L’isolamento non è degli abitanti di Orano ma della città in sé, priva anche di approvvigionamenti che non siano provento del mercato nero, dove però i giornali continuano ad uscire, i tipografi stampano testi di maghi e santi della Chiesa, le persone circolano senza mascherine sterili né tantomeno guanti, i preti possono evocare dai pulpiti la punizione divina su centinaia di fedeli assembrati al chiuso e la gente può toccarsi, stringersi la mano, accarezzare infettati e abbracciarsi senza  precauzione alcuna.
imageQueste dissonanze che Camus forse nemmeno immaginò, perché la storia della peste non indugia sulla profilassi, conferiscono al romanzo un senso di quella “astrazione” dal reale che in diversa cotta Camus indica come il fondamento del modello di vita collettiva cui cinicamente costringe la peste in contrasto con la felicità personale ricercata da ogni individuo. È questo il punctum individuationis del romanzo. Mentre noi oggi lo rileggiamo come un apologo sociale e non come un rapporto realistico, l’autore lo intese in guisa di un dostoevskjano dissidio psicomachico, del singolo come della società, tra la ragione dei propri sentimenti e l’obbligo del dovere morale che diviene etico: l’astrazione integra dunque il sacrificio che ogni individuo fa dei propri bisogni e dunque della realtà del proprio essere a favore di una condizione generale che assurge – astrattamente, astrusamente – a prioritaria. Tutti i personaggi possono invero tirarsi fuori e salvarsi, ma nessuno lascia gli appestati: non lo fa il giornalista Raymond Rambert che come forestiero progetta di scappare ma poi si sente chiamato da quella astrazione dal cuore a scegliere di restare piuttosto che riabbracciare la fidanzata, né lo fa il misterioso e anch’egli non oranese Jean Tarrou che di peste finisce pure per morire proprio quando l’epidemia è quasi cessata, così come muore padre Paneloux, impotente testimone di centinaia di morti e quaresimalista di una teodicea affranta. Neppure Bernard Rieux, il medico più impegnato sul fronte sanitario, pensa mai di lasciare la città per raggiungere la moglie andata in un lontano sanatorio dove morirà di tubercolosi (il morbo di cui già da ragazzo è affetto Camus), convinto che ci sia un solo modo per essere santi senza Dio ed è quello di fare il proprio dovere.
Si delinea qui un aspetto dell’“uomo in rivolta” che costituirà presto il tema del pensiero camusiano fondato sulla coscienza contro ogni dogma o imperativo politico e religioso. Sicché la peste sottende il banco di prova che misura la vera natura umana e mette di fronte alla scelta tra la ricerca della felicità, che vuol dire scappare, e il richiamo del dovere, che vuol dire restare, anche a morire come in una guerra. Scrive Camus: «Così non c’erano più destini individuali, ma una storia comune costituita dalla peste e sentimenti condivisi da tutti. Il più forte era quello della separazione e dell’esilio, con tutto ciò che comportava in termini di paura e di rivolta». E allora quando Rambert, in procinto di andare via, dice a Rieux che il bene comune è fatto della felicità di ognuno, appare evidente nella condotta di Rieux come degli altri che, sebbene il giornalista dica il vero, è la rinuncia ad essa a formare quel bene. Di qui l’astrazione, che è cinica perché involge un rovescio della verità e una rivolta morale: se Rambert vuole che gli uomini vivano e muoiano per ciò che amano, la peste (dalla quale per Rieux l’uomo può uscire elevato) dimostra invece, ribaltando il teorema, che si debba vivere e morire per ciò in cui si crede, per un ideale dunque e non per un amore. Se il pubblico viene prima del privato, è la sfera pubblica che la peste colpisce, giuste le ultime parole del romanzo, che sono pari a una preconizzazione: «La peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice». Per renderla infelice. Ecco allora l’equazione camusiana: il dovere morale è un imperativo kantiano che è in contrasto con la felicità, per modo che lo si può adempiere a costo dell’infelicità.
imageMa, detto tutto ciò, La peste non manca di predittività: i “campi di isolamento” dove concentrare contagiati e primi sintomatici, le “formazioni sanitarie” di volontari simili a “guardie civiche” di assistenza e di controllo, l’idea di immunità di gregge che forse può spiegare la libertà di movimento in città, la fase di plateau uguale al picco, il calcolo quotidiano di contagi e decessi (che la prefettura sceglie di divulgare quotidianamente e non più ogni settimana così da fornire numeri più bassi), la presenza di uomini come gli infermieri e i seppellitori sempre disposti a sfidare la morte, gli autobus trasformati in mezzi per trasportare all’incenerimento i cadaveri, i funerali di fretta e di massa con la sola benedizione del prete nelle fosse comuni, le maggiori preoccupazioni per il calo dell’economia per cui «la miseria si dimostrò sempre più forte della paura», la comune sensazione che sotto il flagello dell’epidemia si viva confinati nel passato e che immaginare il futuro significhi infliggersi ferite – sono tutti elementi che l’esperienza del coronavirus ha riproposto all’umanità.
Insieme con essi abbiamo anche fatto prova di alcune grandi intuizioni avute da Camus: il progressivo contrasto tra l’incalzare della tragedia e l’interesse per le singole vite quotidiane, l’evenienza di una bella giornata per suscitare ottimismo, il pensiero più di galleggiare che di vivere, l’angustia dell’isolamento, l’indifferenza di fronte al sentimento della morte e l’incapacità di concepire un’ecatombe, tale da indurre Camus a suggerire di immaginare, perché si comprenda quanti siano diecimila cadaveri, una piazza piena di persone che escano da cinque cinema e che vengano uccise tutte insieme. E poi la più grande di tutte le intuizioni: la monotonia della peste, le cui “terribili giornate” sono simili a un “interminabile scalpiccio che annientava tutto al suo passaggio” e non a “fiammate sontuose e crudeli”, giornate fatte non di eroi né di fatti straordinari ma di un continuum senza storia, perché privo di vita, del quale non si vuole parlare né durante né soprattutto dopo, troppo acuto essendo il trauma da doverlo solo esorcizzare.
Ecco allora che uno dei personaggi centrali, Cottard il rentier, il solo contento della peste perché si arricchisce con il contrabbando, dice a Tarrou che la peste non viene a chi è già malato: «Supponga di avere un cancro serio o una bella tubercolosi, è impossibile che si prenda anche la peste o il tifo», per poi aggiungere: «Non si è mai visto un malato di cancro morire in un incidente d’auto». Uno scongiuro divinatorio e un paradosso elucubratorio: sennonché proprio Camus, malato di tubercolosi, morirà giusto in un incidente automobilistico, caso di cui per tutta la vita ha avuto angoscioso timore, laddove scrive che il caso (sul quale i suoi oranesi scommettono per scongiurare la peste) non appartiene a nessuno perché può colpire chiunque.
Gli oranesi sono quelli che Camus chiama “concittadini”, residenti di una città di cui egli non perde occasione per dire il male possibile e che sceglie come unico teatro della pestilenza, giacché nulla si sa di quanto accade nel mondo. Ma la “cronaca”, come la chiama, dei mesi dell’epidemia è riferita da un autore che è Camus, il quale affida il racconto a un secondo narratore solo alla fine rivelato in Rieux e indicato come la propria fonte. Un virtuosismo letterario quello di Camus: che si esprime in veste di autore rivolto ai suoi concittadini per riportare loro quanto il narratore ha lasciato scritto servendosi a sua volta di un’altra fonte, costituita dai taccuini lasciati da Tarrou (carnets che per conto suo Camus va da oltre dieci anni riempiendo di note e appunti destinati a essere pubblicati postumi), necessari perché Rieux possa dare conto di avvenimenti di cui non ha contezza diretta.
Il farraginoso espediente torna utile a Camus per sottrarsi a un’accusa di anticampanilismo che forse sente per i cattivi giudizi espressi sulla città e soprattutto dopo avere scritto un romanzo come Lo straniero dove certamente Orano non è apparsa neanche allora sotto una buona luce, avendo un narratore fittizio raccontato in prima persona di aver ucciso un arabo senza alcuna ragione, così allargando polemicamente il divario tra le due razze costrette a dividersi la stessa città. In La peste gli arabi non ci sono se non nel vago proposito di Rambert di descrivere la loro condizione sociale, perché evidente indice di una minorità o di una diversità. Ma c’è ancor meglio Orano, topograficamente più definita e richiamata intatta negli stessi atteggiamenti culturali come quello, proprio anche di Camus, di stare per lunghe ore affacciati al balcone per vedere la vita in strada. In La peste ci sono anche le terrazze panoramiche da dove osservare l’intera città anziché uno scorcio sotto casa, con in più l’immagine di un Rieux che si affaccia per verificare se la peste ha stravolto anche l’aspetto della città come ha cambiato i suoi abitanti. Quel che vede e sente è quanto Camus ha più volte vissuto da sé: Orano raggiunge Rieux «con i suoi mormorii, sentori di carne alla griglia, il brusio allegro e odoroso della libertà che piano piano riempiva la strada invasa da una gioventù chiassosa». La propria città si conosce quindi dal balcone di casa, sentimento che è di Rieux come è stato di Meursault, l’io narrante di Lo straniero, libro uscito cinque anni prima, nel 1942, e che con La peste forma un dittico oranese.
Lo stesso Camus li collega esplicitamente. Come autore rivolto ai suoi concittadini scrive infatti della peste avvenuta settant’anni prima a Canton e indica la data del 1871. Settant’anni dopo si arriva al 1941, l’anno che precede l’uscita de Lo straniero. Benché completato nel 1946 durante un viaggio negli Stati Uniti, La peste può essere stato dunque iniziato a ridosso del precedente romanzo, ma quel che è certo è la sua ambientazione nella Orano dello stesso anno. C’è il riscontro nella tabaccaia che parla di «un recente arresto che aveva fatto scalpore ad Algeri. Si trattava di un giovane impiegato che aveva ucciso un arabo in spiaggia». L’impiegato è Meursault, che è stato arrestato ma non ancora giustiziato, segno che nella finzione narrativa la peste si ha a Orano poco tempo dopo il delitto, tra l’arresto e la condanna a morte. La tabaccaia parla infatti di “recente arresto”, cosa che fa pensare che il processo (cioè la seconda parte de Lo straniero) non si è ancora aperto. Non può esserlo, perché comincia dopo undici mesi di istruttoria. Camus è stato molto attento nel rendere coerenti i due romanzi, ciò che porta a supporre che la peste appaia ad Orano nella primavera successiva al delitto sulla spiaggia (il quale cade in estate) ed esploda con il nuovo caldo. Da un’estate all’altra allora e da una canicola all’altra.
E come il caldo è stato il movente addotto da Meursault per spiegare l’”assurdo” delitto commesso, ancora il caldo è il propellente che scatena l’epidemia nel gioco di effetti del “pensiero meridiano” che regge la visione camusiana del mondo entro la quale ogni cosa succede, principalmente se negativa, per colpa del solleone. «Tutta colpa del clima» stabilisce il commissario de La peste per spiegare l’epidemia. E l’autore gli fa eco: «Il sole inseguiva i nostri concittadini ovunque e, se solo si fermavano, li colpiva». Il “sole della peste” alimenta «un fiume di caldo che scorre inarrestabile lungo gli alti edifici grigi» e «alle quattro del pomeriggio la città cuoceva a fuoco lento sotto un cielo opprimente. Era una di quelle ore in cui la peste diventava invisibile. Il silenzio, la morte dei colori e dei movimenti potevano essere quelli dell’estate come del flagello. Non si capiva se l’aria era densa di minacce o di polvere e di calore».
E forse a contrario è il caldo che culmina con l’epidemia in una sinestesia tragica, estenuante e ossessiva che non offre spiragli se non uno, quasi miracoloso: è il caso di Joseph Grand, il vecchio impiegato del Comune, sofferente di cuore e incaricato di tenere il conto dei decessi, che trascorre le sue sere solitarie provando a scrivere un libro e riscrivendone l’inizio come una Penelope alla tela, insoddisfatto delle parole. Il “narratore” lo elegge unico eroe della “cronaca”, perché pur a contatto con gli appestati e faccia a faccia con la peste non ha pensiero che per il suo romanzo e chiede consigli a tutti sui migliori termini da trovare perché un giorno i critici possano fargli “tanto di cappello”. Nel mondo che va in rovina, nel trionfo della morte, il vecchio Grand pensa alla letteratura ed è fermo alle prime parole. Camus non poteva immaginare antidoto migliore o vaccino più efficace: perché quando si ammala e Rieux lo dà per spacciato, il buon Grand è tra i pochi a guarire spontaneamente e torna al suo incipit. Ha vissuto l’infelicità per dare il suo contributo alla lotta contro la peste e rinunciato alla felicità perché vicino alla morte chiede che il manoscritto sia buttato nelle fiamme, ma la forza in un amore che è anche un ideale lo salva. Forse la scena più bella del romanzo è quella nella quale Grand legge a Riuex il suo manoscritto di una sola frase, quasi solfeggiando, mentre il dottore presta anche «orecchio a una specie di vago ronzio che in città sembrava rispondere al fischio del flagello». Il rumore di fondo e terrificante della peste che si alza contro il suono ispirato di un romanzo che nasce.

© Gianni Bonina

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[il nuovo romanzo di Gianni Bonina è: "Ammatula" (Castelvecchi) - di recente in libreria anche il volume: "Fatti di mafia" (Theoria)]

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LO STRANIERO di Albert Camus (Leggerenza n. 4) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/14/lo-straniero-di-albert-camus/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/14/lo-straniero-di-albert-camus/#comments Sun, 14 Apr 2019 06:00:03 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8127 imagedi Gianni Bonina

Alberto Moravia nel 1929 con Gli indifferenti, Jean-Paul Sartre nel ‘34 con La nausea e Albert Camus nel ‘42 con Lo straniero hanno interpretato, lungo una stessa stagione e rilanciando temi sveviani e joyciani primonovecenteschi, l’inquietudine esistenzialistica nelle forme rispettivamente dell’insensibilità, dell’isolamento e dell’assurdo. Il romanzo di Camus richiama quello di Moravia per l’insensatezza di un omicidio qui solo maldestramente tentato e lì consumato senza ragione, mentre si accorda a quello di Sartre per il fondo di diario filosofico condiviso con quello narrativo.
L’incipit – «Oggi è morta mamma. O forse ieri, non so» – è spia infatti di un diario quotidiano che però diventa subito racconto, reso al passato prossimo, di fatti ricordati anziché annotati, ma mantiene la sua natura di riflessione filosofica sul significato delle azioni umane anche quando, all’inizio dell’ultimo capitolo, il tempo della narrazione coincide di nuovo con quello della scrittura – sicché leggiamo dell’incontro con il prete: «Non ho niente da dirgli, non ho voglia di parlare e dovrò comunque vederlo presto» – e quando soprattutto nell’intensissimo desinit così l’autore si congeda: «Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio».
Sebbene non assistiamo all’esecuzione di Meursault, l’autore ne dà per certa la morte sottendendo dunque la bocciatura del ricorso in Cassazione, speranza che è compagna degli ultimi giorni del condannato: e si capisce che è quanto egli stesso ha in fondo ritenuto giusto che accadesse nella misura dell’assurdo vissuto come paradigma della vita, ancora troppo lontano nel tempo essendo quell’appello alla “rivolta” – altro caposaldo della ricerca di Camus, ma più girato dal lato dell’impegno politico – che si annuncerà quale forma di riscatto sociale inteso a vincere l’assurdità individuale denunciata da Lo straniero e quella collettiva di cui sarà portatore Il mito di Sisifo: a meno che nella interruzione del racconto, che rimane dopotutto inconcluso, non si voglia scorgere una sospensione sul rovesciamento impronosticato della sorte, un presagio in nuce di rivolta, come un’apertura di credito soterica e irenica. Ma, a stare all’evidenza anziché all’evenienza, l’augurio di essere odiato in punto di morte come risultato di una condotta sconsiderata e del riconoscimento di essa suona quale rifiuto – uguale a quello opposto all’estrema unzione – di ogni atto di commiserazione cristiana e segno di desacralizzazione della vita. L’uomo che un giorno sarà in rivolta è, alla fine de Lo straniero, un uomo arreso e carnefice di sé stesso. Un self-hater.
Eppure in una sola occasione ricorre il riferimento esplicito all’assurdo: quando Camus scrive «Dal fondo del mio futuro, per tutta la vita assurda che avevo condotto…», così coniugando ancora una volta, secondo un ricorsivo andirivieni diacronico, avvenire e passato, domani e ieri, entro un presente nel cui schema può rintracciarsi una soddisfacente definizione dell’assurdo: la vita è ciò che avviene. Camus lo cita una sola volta, ma l’assurdo è la materia oscura del romanzo. Quando Raymond, l’amico di Meursault, che è l’io narrante, dice ai giudici che per caso l’imputato si trovava sulla spiaggia e che ancora per caso gli è successo di scrivere per lui la lettera alla fidanzata, tanto che il pubblico ministero ribatte che «in quella storia il caso aveva già molti misfatti sulla coscienza», Camus non fa che imputare gli avvenimenti non alla volontà umana ma all’accidentalità naturale, quindi a una sporade di effetti privi di cause razionali, fenomeno al quale, se proprio occorre dare un nome, l’assurdo è l’archetipo più appropriato. Assurdo, preciserà altrove Camus, che si ha nel divorzio tra l’uomo e il mondo: esso non sta in uno o nell’altro, quanto nella loro presenza in comune. L’uomo chiede una cosa al mondo e il mondo, ovvero l’esistenza, gli offre tutt’altro, anche l’inatteso e l’indesiderato. Essere gettati nel mondo significa allora per Camus non ciò che Heidegger concepisce nei modi di una deriva che comunque ha le sue determinazioni umane, ma dipendenza eschilea dal Fato, resa incondizionata al fortuito e al destino che ammettono anche l’implausibile, l’assurdo.
Assurda è anche la spiegazione che – in aggiunta alle ragioni casuali addotte da Raymond – dà dell’omicidio Meursault ai giudici, dicendo loro che è stato precisamente per via del sole se ha ucciso, suscitando le risate dell’aula nonché la scrollata di spalle del suo avvocato. Eppure, riferendo non il movente ma il motivo in preda al quale ha agito, Meursault ha detto la verità. Il pubblico ride trovando appunto ridicola la risposta giacché si aspetta di conoscere un movente che sia razionale mentre viene colto di sorpresa da quella che appare una battuta di spirito. È la scena capitale del romanzo. Dando una risposta che muove al riso, l’imputato non può non apparire che grottesco, sennonché è proprio lui, accusando il sole, il primo a sentirsi ridicolo.
Per Camus ridicolo è colui il quale viene visto tale: per esempio l’ultimo passeggero che salga sul tram e venga osservato dagli altri viaggiatori solo per scoprire cosa abbia di ridicolo, con lo stesso intento dei giurati della corte che guardano l’imputato dietro le sbarre. Nell’ultimo arrivato, nella persona che cioè vediamo per la prima volta o di cui abbiamo sentito parlare, cerchiamo di cogliere inspiegabilmente l’elemento che ce lo renda ridicolo. “Panca del tram” chiama Camus questo atteggiamento comune che è fonte dell’assurdo e che si riproduce anche in un’aula di giustizia. «So che era un’idea stupida – scrive l’autore – visto che ciò che cercavano era il delitto, non il ridicolo. Tuttavia non c’è molta differenza, e comunque è quella l’idea che m’è venuta». La linea è segnata: se non c’è molta differenza tra delitto e ridicolo, il risultato è l’assurdo, un delitto potendo dunque essere istigato dal sole in una circostanza oggettivamente ridicola, sebbene fondata sul presupposto naturale e reale che la temperatura bollente possa altrettanto oggettivamente turbare la lucidità di un uomo.
Il romanzo è ambientato non a caso in due estati consecutive che corrispondono alle due parti nelle quali esso è deliberatamente diviso: la prima che culmina nell’omicidio dell’arabo, la seconda dedicata al processo. Da uno spazio aperto fatto di strade, spiagge, gente di città si passa a uno claustrofico, un’aula giudiziaria e una cella carceraria, rimanendo tuttavia come fattore naturale di condizionamento il clima torrido e opprimente di una Algeri sotto la cui canicola soffocante Meursault percorre la via di progressiva estraniazione a sé stesso che lo porta prima al delitto e poi alla ghigliottina: obnubilato dal sudore, stremato dalla calura, uccide un arabo nella sola supposizione che possa essere colpito dal pugnale che vede scintillare al sole. Bisogna aver fatto esperienza di questo eccesso di caldo estivo per riuscire in qualche modo a immaginare lo stato fisico e mentale di Meursault, trasposizione di un autore che altrimenti non può essere definito – e lui stesso tiene a ricordarlo – che mediterraneo, figlio delle sabbie rosse incendiate dal sole, dell’aria ferma e rovente, della luce accecante, del sudore indetergibile.
Seduto nel banco degli imputati, il pensiero di Meursault è solo alle pale elettriche insufficienti, al suo malessere, al desiderio di tornare presto in cella per sfuggire all’aria pesante. Sentire “la morsa del sole” è per Meursault come ascoltare una voce che esorti a liberarsi dei propri vincoli morali come fossero vestiti da togliersi di dosso per trovare refrigerio. Un’assurdità, è vero, che la società non ammette nel numero delle esperienze umane, ma che pure può accadere, perché la vità è appunto ciò che avviene, senza che sia ammesso chiedersi se quanto avvenga sia assurdo o meno. Siamo noi a crederlo assurdo. Ovvero estraneo. Straniero. Quale si sente Meursault: un intruso nel processo, perché ha «l’impressione di essere di troppo», pur essendone la figura centrale.
Questo senso di estraneità, indotto da una visione extra ordinem del mondo, suona come ripudio di ogni intrapresa e riecheggia la condotta dello scrivano di Melville che di fronte all’invito ad agire risponde sempre “Preferirei di no”, così esprimendo un dissenso e assumendo uno stato di estraneità. Allo stesso modo Meursault, anche a Marie che vuole sposarlo o a Raymond che gli chiede di fare da testimone oppure alla proposta di trasferirsi a Parigi, risponde invariabilmente che per lui è lo stesso e che niente gli è importante. Le cose che dice di trovare interessanti e alle quali presta orecchio sono solo tre: quanto dice il portinaio, quanto poi gli racconta Raymond Sintès (cognome mutuato dalla madre) e quanto al processo sente dire di sé. Per il resto il suo distacco dal mondo, la sua atarassia, lo fanno apparire assente.
In questo quadro di irrazionalità che i giudici non sanno a quale categoria riferire per dargli una natura prima unama e poi giuridica, il processo per omicidio che Meursault affronta finisce per riguardare con il delitto anche il suo carattere, dovendo egli rispondere di un comportamento che non rispetta le convenzioni: non piange per la morte della madre, va via subito dopo il funerale, il giorno dopo porta una donna a vedere un film comico e anche al mare. Ciò non è umano, non essendo normale, per cui il pubblico ministero, ricordando l’imputato che davanti alla salma della madre accetta il caffè dal portinaio, sbotta: «Un estraneo poteva offrire sì il caffè ma un figlio aveva il dovere di rifiutarlo». Entro questa sfera di assurdità si creano due fronti, in uno dei quali militano il pubblico ministero, i giudici, i giurati, i giornalisti, il pubblico e pure gli amici di Meursault, che invece figura da solo nell’altro. È per questo che quanti lo conoscono e gli si dicono amici, testimoniano in parte contro di lui e tutti comunque – ne è ben consapevole Meursault – lo dimenticheranno presto, rimuovendolo come un corpo estraneo. Straniero appunto.
Ma l’assurdo di Meursault, per il senso di totale insignificanza reale, ha di diverso che adduce noia, motivo questo centrale della letteratura del Novecento, bastando qui ricordare Brancati o Borgese. E cosa fa Meursault per non annoiarsi? Compie un esercizio che è ancor più novecentesco: si affida ai ricordi cercando di recuperarli nella loro precisione più acribitica: «Non mi sono più annoiato dopo aver imparato a ricordare» dice una volta passato dall’essere una persona che insegue pensieri da uomo libero (un’intera domenica trascorsa al balcone a vedere la gente per strada e pensare ad essa, una chiacchierata col vicino di casa pensando al cane che è scomparso…) a un’altra inseguita da pensieri da uomo prigioniero, quando soltanto gli è possibile replicare ossessivamente nella mente la storia assurda (che sarà il soggetto del dramma teatrale Il malinteso) di un figlio che in incognito affitta una camera nell’albergo gestito dalla madre e dalla sorella, dalle quali viene, non riconosciuto, nottetempo ucciso per essere derubato.
Il tema del non riconoscimento, dell’inidentificazione, connaturato in un Oreste e un Edipo del mito greco, ripreso in chiave moderna da Camus, è legato anch’esso a quello dell’assurdo. Camus ne dà un magistrale esempio nell’interrogatorio condotto dal giudice istruttore. Il quale si tiene in ombra per cui l’imputato non ne scorge i tratti e ha motivo di sentirsi ancor più succube accrescendo la propria ansia. Quando il giudice si mostra nella luce della lampada, Meursault prova un senso di sollievo, un alleggerimento della tensione, trovandolo pure simpatico al punto da pensare di stringergli la mano. L’assurdo è qui nel timore dell’ignoto che, senza ragioni, diventa oscuro e dunque pauroso, stato d’animo che può essere superato guadagnando la luce, la consapevolezza e la coscienza. Sono dinamiche che conosciamo. Ma in Lo straniero l’andamento è inverso perché procede dalla luce al buio: la luce iniziale di un funerale sotto il sole sempre più infuocato fino ad arrivare al buio di una cella anch’essa arroventata. Da una morte a un’altra, con in mezzo quella violenta dell’arabo che segna, con i quattro colpi di pistola esplosi, il momento in cui l’assurdo si compie e Meursault può concludere: «Ed è stato come se bussassi quattro volte alla porta dell’infelicità».
È dunque nel mondo dell’infelicità che Meursault vuole entrare e sembra chiedere permesso. Uccide allora per questo, non trovandosi un movente che non sia assurdo? La parte che precede immediatamente il delitto offre un’interpretazione epifanica laddove, senza un perché, Meursault attraversa sotto il sole a picco la spiaggia con la pistola in tasca e si trova infine davanti all’arabo: «Era lo stesso sole del giorno in cui avevo seppellito mamma» ricorda, rimarcando una scaturigine che è simulacro di morte e suo presentimento. Meursault non può sottrarsi all’insolazione e quel che scrive sembra il rapporto circa gli effetti di un fenomeno atmosferico: «Il sudore ammassato sulle sopracciglia è fluito di colpo sulle palpebre e le ha ricoperte di un velo tiepido e denso. I miei occhi erano ciechi dietro quella cortina di lacrime e sale. Ormai sentivo solo il fragore del sole sulla fronte e, indistintamente, la spada abbacinante scaturita dal coltello che avevo ancora davanti. Quella lama incandescente mi mordeva le ciglia e rovistava nei miei occhi doloranti. È stato allora che tutto ha vacillato». Meursault cede e spara nell’evanescenza di un’aria irrespirabile che gli intorpidisce la mente. Avrebbe dovuto precisare ai giudici che ha colpito l’arabo mirando in realtà al caldo infernale, al sole asfissiante, ma non arriva che a indicare il sole come causa e non come bersaglio. Si aspetta che i giudici valutino la temperatura ma è sul temperamento che si concentreno. Sarebbe troppo ipostatizzare il sole e vederlo come la personificazione di un nemico nella sua natura di mondo, ma è quello che l’assassino ha vissuto: un’esperienza di alienazione.
Ma da dove nasce un romanzo così terribile, disforico e straniante, sospeso com’è tra vero e verosimile, natura e cultura, terra e cielo? Nasce da una distonia morale, da un senso di inappartenenza e di alterità, dalla mancanza di un ubi consistam, di una posizione nel mondo. Scritto dai 25 ai 27 anni, Lo straniero rivela un autore che, già colpito dalla tubercolosi, interroga il mondo e il mondo non gli risponde. Anziché cercare le risposte che non ha, smette di fare domande, si rinchiude in uno stato di inedia e di imperturbabile disinteresse che è l’ambulacro della dissociazione: straniero in Algeria perché francese e straniero in Francia perché algerino, comunista ma non bolscevico e perciò malvisto dai comunisti, a cominciare da Sartre, uomo del Sud e perciò disamato al Nord, Camus è lo straniero che col tempo costringerà il mondo a porre a lui domande sull’uomo. Ancora oggi è così, in principal modo per l’esistenzialistico messaggio che il suo vangelo laico continua a offrirci.

© Gianni Bonina

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