LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Andrea Di Consoli http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IL RITORNO DI STILOS http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/01/18/il-ritorno-di-stilos/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/01/18/il-ritorno-di-stilos/#comments Mon, 18 Jan 2010 00:18:35 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1542 stilosSono particolarmente lieto di poter dedicare questo post a Stilos, noto magazine di libri e letteratura nato nel 1999 e diventato poi un quindicinale a diffusione nazionale. Dopo due anni di fermo, Stilos, ritorna in edicola. A dirigerlo sarà ancora il suo fondatore, Gianni Bonina, che ha trasformato il giornale in una rivista mensile di 148 pagine a colori e caratteristiche tecniche di alta qualità.
Mi piace sottolineare questa frase di Bonina: «in una stagione che ha segnato la chiusura di altre testate culturali e penalizza sempre più il mondo dei libri, Stilos vuole provare a dimostrare che, ovunque andrà, il mondo finirà sempre in un libro».
So che il ritorno in edicola di Stilos ha implicato (e implicherà) un grande sforzo economico. Ecco perché vi segnalo la possibilità di sottoscrivere un abbonamento al magazine (che peraltro comporta un risparmio sul prezzo di copertina).
Veniamo ai contenuti del magazine…
La compagine dei collaboratori è pressoché immutata (con i contributi fissi di Antonio Debenedetti, Andrea Di Consoli, Enzo Golino, Giuseppe Montesano…), ma l’interesse si è esteso anche, con rapide escursioni, a cinema, teatro, arti figurative e fumetti.
Ogni mese, inoltre, sarà scandito dall’appuntamento con le rubriche a tema libero di Benedetta Centovalli, Arnaldo Colasanti, Guido Conti, Andrea Cortellessa, Aurelio Grimaldi, Filippo La Porta, Giulio Mozzi, Sergio Pent, Silvio Perrella e Vanni Ronsisvalle.

Tra i vari collaboratori ci sarò anch’io. Nel primo numero troverete, infatti, una lunghissima e interessante intervista che mi ha rilasciato Melania G. Mazzucco sulla figura del pittore Tintoretto (in riferimento alla pubblicazione di questo suo romanzo e di questo suo saggio).
Tra le varie domande che ho posto a Melania, ci sono queste… che rivolgo anche a voi (con l’intento di avviare una discussione parallela a quella sulla rivista):

Esistono connessioni tra pittura e letteratura?

In cosa il pittore somiglia allo scrittore? E in cosa se ne differenzia nettamente?

A proposito, qualcuno di voi ha letto il romanzo “La lunga attesa dell’angelo” della Mazzucco (edito da Rizzoli)?

Una delle novità più rilevanti del ritorno in edicola di Stilos è la seguente: a ciascun numero sarà allegato un libro inedito in omaggio. Il primo sarà “Lo stivale di Garibaldi” di Andrea Camilleri, una gustosa parodia in dialetto siciliano di avvenimenti veri nella Sicilia postunitaria, illustrata da Piero Guccione.
Come in passato”, spiega una nota della società editrice, “Stilos intende privilegiare la letteratura e la nuova scena italiana, entro un impegno che auspichi il ritorno del libro al centro dell’interesse culturale e la sua riconsiderazione anche come strumento di impiego del tempo libero: contro le logiche del mercato, lo strapotere di televisione e telematica, le recrudescenze di tipo accademico, la riduzione dell’attività editoriale a fredda impresa speculativa”.
Credo che il ritorno in edicola di un magazine cartaceo di libri e letteratura meriti senz’altro di essere celebrato. Tanti in bocca al lupo a Stilos, dunque!

Massimo Maugeri

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AGGIORNAMENTO DEL 10 MARZO 2010: È USCITO IL N. 2 di STILOS

stilos-n-2Il numero di marzo di Stilos, il magazine culturale dedicato alla letteratura e alle arti, è in edicola con due omaggi: un testo inedito di Marcello Fois e una monografia su Leonardo Sciascia.

Stilos propone un testo teatrale di Fois per atto unico dal titolo Stanze. La pièce rappresenta il dramma di due sorelle che si ritrovano in una casa e fanno i conti con il loro passato. In un’intervista, inclusa nel libro, l’autore sardo ne spiega lo spirito surreale e intimistico.

Il supplemento di 32 pagine su Sciascia, il primo dei Quaderni di Stilos, raccoglie testi rari e dispersi nonché cinque lettere inedite a Gaspare Giudice (il biografo di Pirandello) più scritti dei maggiori studiosi di Sciascia, fra cui Claude Ambroise e Massimo Onofri.

La cover story del nuovo numero di Stilos è poi dedicata a tre esordienti under 30: Silvia Avallone con Acciaio (Rizzoli), Valentina Brunettin con I cani vanno avanti (Alet) e Paolo Piccirillo con Zoo col semaforo (Nutrimenti), che, da Nord a Sud, mettono sotto accusa il sistema sociale e la qualità della vita delle città in cui vivono. Completa il servizio sulla nuova scena un’intervista ad Alessandro D’Avenia, autore di Bianca come il latte, rossa come il sangue (Mondadori).

In anteprima anche un brano del prossimo romanzo di Dario Voltolini dal titolo Foravia, in uscita da Feltrinelli a maggio.

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AGGIORNAMENTO DEL 10 APRILE 2010: È USCITO IL N. 3 di STILOS

stilos-n-3Il numero di aprile di Stilos, il mensile dei libri, è in edicola con allegato un inedito di Giancarlo De Cataldo, il celebre autore di Romanzo criminale.

Non so che farmene degli angeli è il titolo del romanzo breve inedito dello scrittore-magistrato di origini tarantine e abbinato a Stilos. Si tratta di un testo scritto nel 2000 a quattro mani con la moglie Tiziana Pomes. «Ispirato da fatti veri, di persone vere», come afferma lo stesso autore in un’intervista al termine del volumetto, il romanzo è costituito da un diario incrociato di due bambini che osservano il mondo enigmatico degli adulti giudicandolo e intervenendo per cambiarlo.

Stilos dedica la cover story di aprile a Georges Minois, storico francese e uno dei massimi esperti in tema di religione. Minois è autore del saggio Il libro maledetto (Rizzoli, 2010) che ricostruisce la secolare vicenda del libro De tribus impostoribus (che tutti conoscono sin dal medioevo ma che nessuno ha mai letto) secondo il quale Mosè, Gesù e Maometto sarebbero stati degli impostori.

All’ambito religioso riportano le altre tre interviste: ad Armando Torno, editorialista del Corriere della Sera, autore de La scommessa; a Sandro Mayer, vicedirettore di Dipiù e direttore di Dipiù Tv e TvMia, autore de La grande storia di Gesù; a Vito Mancuso autore de La vita autentica.

Stilos dedica inoltre un dossier ai libri che sulla mafia sono apparsi in Italia tra il 2009 e il 2010. In un’intervista, Antonio Laudati, magistrato, coautore insieme a Elio Veltri del saggio Mafia pulita, sostiene che «la mafia ha cambiato volto. È quella dei colletti bianchi, del business e delle imprese. È diventata una regola dell’agire civile», afferma Laudati nell’intervista e conclude affermando che «può essere sconfitta solo col contributo di tutti». Vincenzo Ceruso, palermitano, nel suo saggio Il libro che la mafia non ti farebbe mai leggere racconta l’evolversi della nuova mafia.

Stilos è distribuito nelle librerie Feltrinelli e in edicola sempre al prezzo di 4 euro. È facilmente acquistabile sul sito www.stilos.it dove è anche possibile sottoscrivere un abbonamento.

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AGGIORNAMENTO DEL 10 MAGGIO 2010: È USCITO IL N. 4 di STILOS

Giorgio Bocca: “Italiani e cattolici fascisti inconsapevoli”
Su Stilos di maggio un’intervista al giornalista scrittore di Cuneo

stilos-n-4Roma,  maggio 2010. “Gli italiani sono dei fascisti inconsapevoli o fascisticamente tracotanti. Altro che popolo sovrano”. A dirlo è il celebre giornalista e scrittore Giorgio Bocca in un’intervista rilasciata al magazine culturale Stilos, in edicola e nelle librerie Feltrinelli da mercoledì 5 maggio.

Per Giorgio Bocca “il fascismo è nel Dna degli italiani, anche tra i cattolici”. È lo j’accuse che nel suo ultimo libro Annus horribilis (Feltrinelli) Bocca rivolge “non tanto a Berlusconi che ho conosciuto bene sin da quando lavoravo con lui, ma agli italiani”. Infatti secondo il giornalista “per noi italiani la politica, come la religione, come la giustizia, come tutto, significa sopravvivere usando furbizia e volubilità”.

Bocca nell’intervista ricorda poi il suo passato al Guf senza fare politica e la guerra partigiana che definisce “una grande illusione”.

E la cultura? “È terribile la debolezza intellettuale degli italiani. La voce della cultura in questi anni è stata flebile, a meno di considerare cultura la voce di Di Pietro che grida”.

Si segnala, altresì:

  • Un’intervista a Erri De Luca nel sessantesimo compleanno e nel momento di suo massimo successo in Italia
  • Interviste a Emanuele Trevi, Sebastiano Nata, Domenico Starnone, Giorgio Bocca, Gillo Dorfles, Paolo Nori Pieter Aspe, Dan Fante, Preeta Samarasan
  • Una ricerca sul Cenacolo di Leonardo dal quale risulta una nuova anagrafe del genio fiorentino
  • Uno speciale sui nuovi pamphlet
  • Un servizio sulle prime edizioni più ricercate e la classifica secondo le loro quotazioni
  • Le rubriche di Benedetta Centovalli, Arnaldo Colasanti, Andrea Cortellessa, Antonio Debenedetti, Cesare de Seta, Aurelio Grimaldi, Filippo La Porta, Giulio Mozzi, Sergio Pent, Silvio Perrella, Vanni Ronsisvalle

Stilos è distribuito nelle librerie Feltrinelli ed è disponibile in edicola dal 5 maggio al prezzo di 4 euro. È facilmente acquistabile sul sito www.stilos.it dove è anche possibile sottoscrivere un abbonamento.

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AGGIORNAMENTO DELL’8 GIUGNO 2010: È USCITO IL N. 5 di STILOS

cover-stilos-giugno-010Nel numero di giugno di Stilos:
Esclusivo: Roberto Saviano si racconta a Gianpaolo Mazza che è andato a trovarlo nella residenza segreta dove si trova.
«Per me la televisione è fondamentale perché mi ha protetto e mi protegge fisicamente» – e ancora – «il meccanismo di protezione militare lo devo alla mia esposizione mediatica altrimenti, in un paese come l’Italia, sarei ignorato» – dice Saviano – e poi aggiunge: «Non ho la spocchia degli intellettuali di considerare la televisione sterco del demonio».
Gli scrittori più amati, quelli che lo hanno formato, le letture preferite;  e poi gli hobby, la musica, il cinema, Lionel Messi, la personale visione del mondo: dal suo nascondiglio segreto, l’uomo più ricercato dalle mafie parla a un inviato di Stilos di se stesso, un giovane che sta diventando velocemente adulto e che, nelle ristrettezze delle sue condizioni, vive al massimo delle possibilità. Un uomo che ragiona sul suo stato, sulla sua “fortuna”, sugli invidiosi, gli amici e i nemici. E tra i primi figura senz’altro Vincenzo Consolo, che racconta per la prima volta come conobbe Saviano molto tempo prima di Gomorra, e di come finì per “adottarlo”.

In allegato alla rivista: un inedito di Enzo Siciliano.
A quattro anni esatti dalla morte dello scrittore, Stilos lo ricorda pubblicando un suo inedito dal titolo Tournée, gentilmente concesso dalla famiglia Siciliano: l’originale è andato perduto, tuttavia la famiglia ne conservava una fotocopia e Stilos ha provveduto a pubblicare il testo, rimanendo fedele all’autore e rispettando le correzioni indicate a penna sul dattiloscritto. Atto unico con due soli personaggi, una coppia di attori che lavorano poco recitando piccole parti e conducendo una vita di povertà e ristrette che esasperano la loro relazione, è stato scritto nel 1984 e mai pubblicato, ma nello stesso anno fu tuttavia portata in scena in occasione del “Festival del Partito repubblican” di Perugia.

Nella rivista segnaliamo inoltre:
Zanzotto: “La mia poesia” : a Pieve di Soligo, il paesino trevigiano dove vive,  Andrea Zanzotto il massimo poeta italiano vivente, ha ricevuto il nostro Fabio Pedone per parlargli del suo mondo, del suo ultimo libro Conglomerati e della sua poetica.
Francesco Alberoni: “L’amore al tempo dell’equivoco”: è perché immaginare le peripezia si una storia d’amore che alla fine si risolve in un epilogo felice per cui si possa dire che gli innamorati vissero “felici e contenti”? Perché non fare in modo che felici e contenti lo siano sin dal primo momento? Alberoni parla a Stilos delle strategie meno esplorate dei sentimenti
Mario Capanna: Rivoluzione ragionata : un libro per riflettere sul Sessantotto: da rifarsi, dice l’ideologo della contestazione, ma stavolta ragionando, senza più scendere in piazza o alzare barricate.

Stilos, il mensile dei libri, è distribuita in tutte le Librerie Feltrinelli, nelle Librerie della catena “La Nuova Editrice Librerie” in Abruzzo e ad Ascoli Piceno, nelle edicole del Gruppo Edicolè, nonché nelle principali edicole del centro di ogni capoluogo di provincia d’Italia.

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AGGIORNAMENTO DEL MESE DI LUGLIO 2010: È USCITO IL N. 6 di STILOS

stilos-cover-di-luglioIl numero di luglio di Stilos è in edicola e in libreria.

La cover story è dedicata a un’inchiesta sui centocinquanta anni dall’impresa dei mille: prendendo spunto dalla recente pubblicazione del libro “Terroni” del giornalista Pino Aprile, viene raccontato il lato oscuro dell’annessione del Meridione al Piemonte.

Nella rivista:
• una lunga intervista a Nicolai Lilin, che rivela a Stilos il suo punto di vista sulla guerra e sulla letteratura.
• Sebastiano Vasssalli e Giancarlo Carofiglio parlano dei loro ultimi libri.
• Giulio Ferroni critica il panorama culturale ed editoriale italiano e definisce la televisione oggi “cattiva letteratura”.
• Tzvetan Todorov e la lectio magistralis tenuta al Salone del libro di Torino.

Come ogni mese, il numero è arricchito da numerose recensioni e dalle rubriche di Benedetta Centovalli, Arnaldo Colasanti, Andrea Cortellessa, Antonio Debenedetti, Cesare de Vita, Aurelio Grimaldi, Filippo La Porta, Giulio Mozzi, Raffaele Nigro, Sergio Pent, Silvio Perrella, Vanni Ronsisvalle.
La sezione dedicata all’arte propone un’intervista di Andrea Caterini all’artista siciliano Piero Guccione; mentre le pagine dedicati ai fumetti e alla graphic novel curate da Sergio Rotino, presentano tra le altre cose, una recensione al romanzo grafico Groenlandia Manhattan (ispirato a una storia vera) della francese Chloé Cruchaudet.

Stilos è distribuita in tutte le Librerie Feltrinelli, nelle Librerie della catena “La Nuova Editrice Librerie” in Abruzzo e ad Ascoli Piceno, nelle edicole del Gruppo Edicolè, nonché nelle principali edicole del centro di ogni capoluogo di provincia d’Italia.
La rivista è ogni mese in edicola al costo di 4 € ma è possibile sottoscrivere l’abbonamento annuale per riceverla comodamente a casa, con tutti gli allegati e con notevole risparmio economico.

Si segnala anche il nuovo blog dedicato a Stilos.

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AGGIORNAMENTO DEL MESE DI AGOSTO 2010: È USCITO IL N. 7 di STILOS

stilos-6Dopo “Lo stivale di Garibaldi”, un secondo romanzo inedito di Andrea Camilleri, “Il palato assoluto”, metafora del primato della vita comune su quella di successo.
La storia di Caterino Zappalà, che diventa famoso e ricco grazie alla sua dote naturale di garantire la genuinità dei pasti, e dunque di decretare la fortuna o la rovina di un ristorante, e il sogno di avere una vita normale come vorrebbe la sua Annarosa. Un apologo in tono di fiaba e un paradosso sui valori che contano di più.
Ancora sul numero 7 di agosto due servizi di forte attualità: le reazioni in Italia alla morte di Saramago dopo l’attacco dell’Osservatore Romano, e le polemiche di ritorno sull’ultimo Premio Strega.
Sull’opera e la figura del Nobel portoghese, Stilos ha raccolto le opinioni di decine di scrittori e critici, verificando quanto anche in Italia i libri di Saramago dividano le coscienze.
Sul più importante trofeo letterario nazionale, oltre a una panoramica storica sul Premio e le sue particolarità, le interviste a due editori “interessati”: Stefano Mauri del Gruppo Mauri-Spagnol e Raffaello Avanzini di Newton & Compton. Accuse senza risparmio da entrambi: il primo parla di “squilibrio” nella scelte della giuria e il secondo di “giochi sporchi”.
Da segnalare ancora le interviste alla coppia che si cela sotto lo pseudonimo di Lars Kepler, l’ultimo fenomeno scandinavo, a Eugenio Scalfari, Pierluigi Battista, Antonio Calabrò, Stefano Bartezzaghi, Enrico Palandri, Marco Risi e Marco Baliani.
Stilos offre, in esclusiva, due racconti di altrettanti autori di successo: Federico Moccia e Loriano Macchiavelli. L’autore caro alle teen agers racconta di un suo viaggio a Tavolara per incontrare il re dell’isoletta sarda, mentre il pioniere della scuola bolognese del giallo testimonia la vicenda delle mondine del suo paese di cui narra l’epopea.
Inoltre, un appuntamento per gli amanti della letteratura classica: una ricognizione delle opere che negli ultimi tempi si sono occupate di Proust; e dunque un ritorno al genio europeo del primo novecento.
E ancora: recensioni, le rubriche dei maggiori critici e intellettuali italiani e le incursioni nel mondo dell’arte, del cinema, del fumetto e della musica.
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Fonte: comunicato stampa della redazione di Stilos

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È IN EDICOLA E IN LIBRERIA IL N. DI SETTEMBRE di STILOS

stilos-settembreIn questo numero:

Milano non è più la cap­i­tale ital­iana della cul­tura.

Lo dicono a Sti­los scrit­tori come Vin­cenzo Con­solo e Cor­rado Sta­jano, intel­let­tuali come Anto­nio Fran­chini, edi­tor quali Elis­a­betta Sgarbi e Valentina Fortichiari.
Ricorda Con­solo: “Quanti arrivai ebbi modo di fre­quentare Qua­si­modo, Mon­tale, Vit­torini. In quel peri­odo era davvero la cap­i­tale della cul­tura. Per questo decisi di trasferirmi”. Critico Sta­jano: “L’impressione è che gli edi­tori milanesi non abbiano più la pas­sione di un tempo e siano diven­tati dei con­tabili”. Fran­chini non vede molto romanzi ambi­en­tati a Milano: “ Roma, Napoli e il Nord-Est pos­sono vantare una mag­giore pre­senza di scrit­tori. Sono aree prob­lem­atiche. E le aree prob­lem­atiche pro­ducono più arte di quelle di rel­a­tivo benessere”.
Inter­ven­gono in questo spe­ciale ded­i­cato a Milano anche Daria Big­nardi e Piero Colaprico.

Alle­gato omag­gio al numero di set­tem­bre La vera sto­ria del papiro di Artemi­doro di Luciano Can­fora. Dopo mostre, libri, con­vegni e una svari­ata quan­tità di arti­coli di stampa, la decen­nale dis­puta filo­log­ica e arche­o­log­ica circa l’autenticità o meno del papiro si arric­chisce adesso di un nuovo capi­tolo, che nelle inten­zioni dell’autore è quello defin­i­tivo. Ricostru­endo l’intera vicenda, dal suo ritrova­mento in poi, Can­fora, suf­fra­gato anche dalle con­clu­sioni di una super­per­izia fotografica e dalla tes­ti­mo­ni­anza di un fun­zionario di polizia che ha svolto accu­rate indagini, e avval­en­dosi soprat­tutto delle ultime acqui­sizioni cui è per­venuto, apporta nuove argo­men­tazioni alla sua tesi, sec­ondo la quale si tratta di un falso: con­trari­a­mente all’opinione di insigni stu­diosi anche stranieri che ne sosten­gono l’autenticità.

La cover story di questo numero è ded­i­cata a un’inchiesta sugli e-book e al futuro dell’editoria con inter­viste a Bruce Ster­ling, Gino Roncaglia, Giuseppe Granieri ed Ettore Bian­cia­rdi, esperti e intel­let­tuali non tutti con­vinti che per il libro, come oggi lo con­cepi­amo, sia già stato into­nato il de pro­fundis. Il punto sulle ricerche, la situ­azione del mer­cato inter­nazionale e delle librerie, le prospet­tive dell’immediato futuro: la guerra tra e-book e libro è giunta all’ultima battaglia.

Il numero di set­tem­bre con­tiene inoltre inter­viste a Carlo Lucarelli, Gian­carlo De Cataldo, Gad Lerner, Marco Travaglio, Per Olov Enquist, Dmitry Glukhovsky e Luc Ferry.
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È IN EDICOLA E IN LIBRERIA IL NUMERO DI OTTOBRE di STILOS

cover_ottobre_stilosGli intellettuali italiani di fronte alla politica e alla società. Franco Ferrarotti e Mirella Serri discutono della loro condizione oggi. Per Ferrarrotti «ciò che distingue l’intellettuale italiano è la sua ambiguità che deriva dalla sua storia e dalla sua evoluzione». Per la Serri in Italia esiste sì il dissenso ma è frenato «da una forte tradizione di conformismo intellettuale determinato soprattutto dalla televisione lottizzata e dai giornali che non sono indipendenti».
Dopo il pronunciamento di Gheddafi a Roma, ci si chiede se gli autori islamici che pubblicano in Italia non facciano già da anni opera di indottrinamento. Rispondono Tahar Ben Jelloun e Khaled Fuad Allam. «Io ragiono, non voglio convertire nessuno» dice Allam.
Roma oggi. Bella e insipiente? Che ne è stato della dolce vita, del bar Rosati, del caffè Greco? Ne parlano Corrado Augias, Luca Canali, Ascanio Celestini, Roberto Cotroneo, Antonio Debenedetti, Giancarlo De Cataldo, Elido Fazi, Rosetta Loy e Valerio Magrelli.
Un saggio inedito in Italia di Lásló Földenyi, il filosofo ungherese che si interroga sullo stato della cultura oggi in Europa giungendo alla conclusione che è stata sostituita dall’informazione e dal mondo delle immagini.

Un dossier dedicato alla grande letteratura straniera sconosciuta in Italia o dimenticata: otto tra i migliori traduttori italiani parlano di autori e libri assolutamente da tradurre o ritradurre.

In anteprima su questo numero di Stilos: “Il bambino che sognava i cavalli” di Piano Nazio (ed. Sovera) dedicato a una storia che ha inorridito l’opinione pubblica: l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo per mano della mafia con la più terribile delle esecuzioni: lo “scioglimento” nell’acido.
Pino Nazio, giornalista, inviato del programma di Raitre “Chi l’ha visto?”, da cronista di razza, ha ricostruito la vicenda grazie alla testimonianza del padre del bimbo, Santino Di Matteo e conduce il lettore in un mondo, quello di “cosa nostra”, in cui la legge della violenza miete vittime anche tra gli innocenti. Una docu-fiction, quella scritta da Nazio, in cui la realtà non conosce omissioni.

Inoltre:

Viaggio nel mondo dei cantautori italiani. Discutono Giorgio Conte, Eugenio Finardi, Federico Sirianni, Piji Siciliani, Gianmaria Testa e Mirco Menna.

Carlo Lucarelli parla a Stilos del suo brigadiere Leonardi, il personaggio da fumetto che torna dopo quasi vent’anni.

Ida Di Benedetto discute con Aurelio Grimaldi di cinema e attori. “Il più grande di tutti i tempi è Gian Maria Volontè”.

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È IN EDICOLA E IN LIBRERIA IL NUMERO DI NOVEMBRE di STILOS

copertina-stilos_novembreQuanto vale la letteratura oggi? E cos’è la letterarietà? E’ vero che un libro tanto è più letterario e tanto più difficile è piazzarlo sul mercato? Sergio Pent riflette su questi temi giungendo a conclusioni sconfortanti: la letteratura è diventata merce da supermercato e vale nel segno di quanto si è visto nella cerimonia di consegna del Campiello: Bruno Vespa che guarda e ammira la scollatura della Avallone. Ne parlano anche Luperini, Canali, Tesio e Manica, quattro critici di diversissima estrazione.
Le cronache continuano a sciorinare rivelazioni sul cosiddetto “patto” tra mafia e stato. Pochi sanno però che ancor più di Massimo Ciancimino, un ruolo centrale lo ha avuto un mafioso, Luigi Ilardo, che nel 1995 stette per consegnare Provenzano alla giustizia, ma gli apparati più enigmatici dello stato lo fermarono. La sua vicenda è ora raccontata in un libro, Il patto, scritto da Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci che Stilos ha intervistato, che costituisce il più aggiornato libro sulla mafia dal Dopoguerra in poi.

Altri apparati, altri intrighi. Sono usciti in concomitanza due libri che riguardano il Vaticano: uno (di Perluigi Nuzzi), Vaticano S.p.A., di indagine interna, sostenuta dall’archivio segreto di un prelato che ha voluto rendere pubblici i retroscena dell’attività dello Ior; l’altro (di Corrado Augias), I segreti del Vaticano, di riscoperta esterna dei tanti fatti e misfatti che dentro il colonnato di San Pietro, sono diventati storia rovente. Stilos ha intervistato entrambi gli autori per fare nuova luce sulla Santa Sede.

Dopo Roma e Milano è la volta di Torino. La vecchia e nobile capitale italiana, oggi una città in formidabile crescita, viene passata a rassegna, nei suoi aspetti prevalentemente culturali, da nove torinesi Doc e di importazione, da Baricco a Barbero. Ne viene fuori l’immagine di una regina colta nel suo massimo fulgore ma incapace di osare e sognare.

Nel numero di novembre interviste a Pietro Citati sul suo Leopardi, a Scurati, Romagnoli, Rankin, Schlesak, Fuentes, Russo, Di Ruscio, Lattanzi, Bianchi, Cibrario, Zanetti.
E ancora le sezioni dedicate ai fumetti (con un’intervista a Joe Sacco), al cinema (con uno speciale su Valerio Zurlini), all’arte (con un’intervista ad Andrea Fogli , un articolo di Massimo Raffaeli su un quadro che ha amato e un altro di Giuseppe Montesano sulla fotografa scandalo Nan Goldin) e alla musica (con un articolo di Toi Bianca sulla presenza della musica nella narrativa di genere oggi).

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È IN EDICOLA E IN LIBRERIA IL NUMERO DI DICEMBRE di STILOS

stilos-dicembreNel numero di dicembre di Stilos Pupi Avati parla con Aurelio Grimaldi di cinema, ma anche di se stesso dicendo che da molti suoi insuccessi ha tratto ragion per film fortunati.
“Non ho mai chiesto fondi ministeriali – ha dichiarato – perché uno che ha fatto quaranta film non può chiedere l’aiuto dello stato ma deve farcela da solo. La libertà la perdo solo se il pubblico non mi segue. Il mio ultimo film, Una sconfinata giovinezza, è andato male. So bene che affrontava un tema doloroso, ma mi aspettavo molto di più, ed è stata per me una profonda sofferenza, una delusione. E ora, progettando il prossimo film, ho dovuto accantonare un progetto a me molto caro perché “troppo difficile”, e dopo questo insuccesso non me lo posso permettere. Nel cinema, come nella vita, la libertà te la devi conquistare da solo”.
Stilos propone anche interviste ad Andrea De Carlo, Alessandro Piperno, Eraldo Affinati, Gianrico Carofiglio, Raffaele Nigro, Sandro Veronesi, Diego De Silva, Bret Easton Ellis, John Burnside e Karl Ove Knausgard.
E inoltre servizi sui poeti italiani under 35, una tavola rotonda su Napoli, un reportage dal paese natale di Saramago, una conversazione tra Tracy Chevalier e Massimo Ortelio, il suo traduttore italiano.
E come sempre ampi servizi, articoli e recensioni di arte, cinema musica, teatro e fumetti.

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È IN EDICOLA E IN LIBRERIA IL NUMERO DI GENNAIO di STILOS

cover-stilos-gennaioNel numero di gennaio la cover story di Vincenzo Ruggiero Perrino è dedicata ai crolli di Pompei, e venti scrittori dicono la loro sullo vergogna della gestione dell’area archeologica.
Sette anni dopo essere stata eletta “capitale europea della cultura”, Mara Pardini chiede a illustri cittadini e estimatori di Genova cosa pensano della città e se quel riconoscimento sia stato davvero un’opportunità di crescita e sviluppo.
Il recente Nobel a Mario Llosa riporta l’attenzione sugli autori latinoamericani e li scopriamo molto cambiati.
Stilos propone anche interviste ad Giancarlo De Cataldo, Enrico Remmert, Amara Lakhous, Riccardo Iacona e Giampaolo Pansa, Brunonia Barry, Gerard Roero di Cortanze, Federico Rampini.
E come sempre ampi servizi, articoli e recensioni di arte, cinema musica, teatro e fumetti.

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MONTEVERDE di Gianfranco Franchi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/#comments Tue, 26 May 2009 19:33:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/ Di Gianfranco Franchi avevamo già avuto modo di parlarne qui, in merito ai volumi “L’inadempienza” e “Pagano“.
Torniamo a incontrare questo giovane intellettuale romano, nato a Trieste, classe 1978, creatore e gestore del popolare Lankelot, nonché scrittore e consulente editoriale di varie case editrici.
L’occasione ce la fornisce l’uscita del suo nuovo lavoro letterario: Monteverde, edito da Castelvecchi.

Trovo che la nota al libro sia molto intrigante. Ve la riporto di seguito: “Nella schiera degli antieroi che solo la migliore letteratura sa regalarci, ecco il protagonista di Monteverde, trentenne laureato e precario sempre in cerca di lavoro, e di volta in volta arbitro, giornalista-magazziniere, inseritore notturno, tirocinante, addetto allo sportello. Un nostalgico che seppellisce il suo vecchio palmare sotto la pianta di rosmarino, tifoso accanito della Magica, spirito rock, collezionista di mug. Un esule, un italiano, un letterato che rivendica orgogliosamente il suo ruolo. Uno a cui ogni tanto appare all’improvviso un cane, per strada, con un occhio più chiaro dell’altro. Ma chi è davvero Guido, che percorre avanti e indietro la sua isola, Monteverde, sulle tracce di Pasolini, e che fa strani incontri al cimitero, tra le tombe di Keats e Gramsci? Un duro o un romantico? Un asociale? Uno che si innamora? Ascoltalo: è tutto ciò che non ha patria e si ribella, e sembra non voler morire mai”.

Monteverde inizia con queste frasi:
Sono una foglia che pesa ottanta chili. Sogno refoli di vento.
Sono una batteria che si sta ricaricando. Voglio ricaricare in pace, senza sbalzi di corrente. Sono un navigatore senza programma, non so orientarmi con le stelle. Sono lo stipite stanco di una vecchia porta. Sono un contratto firmato in bianco, sono una lettera senza mittente. Sono una tela d’acqua su una cornice di carta, un telecomando che non spegne niente; se mi punto sul cielo m’accendo, funziono. Sono un orologio che batte secondi sulle tempie della sua cassa. Sono un pallone bucato.
Sono una sigaretta che non si spegne, fuma soltanto.
Sono queste mani che dovresti mutilare.

Guido Orsini è l’alter ego di Gianfranco Franchi. Un personaggio che ci fornisce alcune indicazioni sulla condizione di alcuni giovani intellettuali italiani.

Ho chiesto ad Andrea Di Consoli e a Barbara Gozzi di dire la loro su questo libro, e vorrei discuterne con voi insieme all’autore (che parteciperà al dibattito). E poi vorrei interrogarmi (e interrogarvi) sulla figura e sul ruolo dei giovani intellettuali oggi in Italia.

Così mi domando (e vi domando)…

Qual è la condizione dei giovani intellettuali oggi in Italia? Quale il ruolo?

Gli intellettuali trentenni di oggi, in cosa si differenziano da quelli di venti, trenta, quarant’anni fa? In cosa si assomigliano? I loro sogni sono uguali o sono cambiati?

Inoltre ho chiesto a Gianfranco di mettermi a disposizione uno dei bellissimi racconti di Monteverde. Ho scelto Catafalco (potete leggerlo in coda al post), per un motivo ben preciso. È un racconto che affronta il tema della morte dal punto di vista dei bambini. Un racconto che mi ha fatto tornare indietro nel tempo. Che mi ha fatto domandare: quand’è stata la prima volta che ho preso consapevolezza della morte?
Giro la stessa domanda a voi. E aggiungo quest’altra.
Secondo voi, è giusto parlare della morte ai bambini? E in che termini?

Ne approfitto per sottolineare che, oltre che con Monteverde, Gianfranco Franchi è in libreria con: “Radiohead. A Kid. Testi commentati” (Arcana).

Di seguito, le recensioni di Andrea Di Consoli e Barbara Gozzi.

Massimo Maugeri

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MONTEVERDE di Gianfranco Franchi
recensione di Andrea Di Consoli (nella foto)

Monteverde (Castelvecchi, 310 pagine, 16,00 euro), di Gianfranco Franchi, è un romanzo di formazione (Franchi è uno scrittore nato nel 1978, è romano, ma ha sangue triestino, mitteleuropeo). I romanzi di formazione sono, specialmente se costruiti sulla falsariga della propria esperienza personale, romanzi totali, generosi, magmatici – e l’unico rischio che corrono (un rischio tutto rivolto al futuro) è quello di “dire tutto”, di mettere tutte le carte sul tavolo, di bruciare in un unico fuoco legni accatastati nell’arco di due decenni. Mettiamola così: il rischio è tutto di Franchi (ripeto, per il suo futuro di scrittore), ché il lettore ha la possibilità di leggere “un mondo” e una vita con un solo libro. Questa generosità, voglio iniziare così, è il primo tratto “generazionale” di Franchi. Ne sono profondamente convinto: Monteverde è un romanzo generazionale. Ma non lo è nel senso del “target”, ma in un senso più profondo, perché riesce a dire la vitalità e il dolore e lo spaesamento tachicardico dei trentenni italiani (ripeto, senza volerlo) come nessuno lo aveva mai fatto prima. Franchi, cioè, delinea – e vi riesce, sia letterariamente che sociologicamente – la “linea d’ombra” che ha separato quelli nati negli anni ’70 da un “prima” e da un “dopo”, sia privato che collettivo, perché a questa strana generazione è capitato in sorte uno strano “passaggio” epocale, ovvero quello dal Novecento “rudimentale” e sostanzialmente romantico a un Duemila ipertecnologico, afasico, post-comunitario, globale e non più provinciale (ecc.); pure, a quelli nati negli anni ’70 è accaduto, come capita a tutte le generazioni del mondo, il “passaggio” dalla vita giovane a quella adulta. Ecco: come ebbe a dire Eduardo a Napoli, durante i bombardamenti, alla prima di Napoli milionaria al Teatro San Carlo (parafrasandolo): “Gianfranco Franchi ha detto il dolore di tutti noi”. Ripeto, ne sono profondamente convinto. E ora provo a spiegare una cosa che per me è fondamentale, ovviamente sperando di riuscirci. Mi è capitato di leggere recentemente romanzi anche interessanti come, per esempio, La futura classe dirigente di Peppe Fiore. Qual è la grande differenza che c’è, poniamo, tra Franchi e Fiore? La mia risposa è questa: che in Franchi grida e canta la tradizione e la storia sociale e letteraria italiana, perché nonostante Franchi racconti il “pop” o il cosiddetto moderno (la musica, il calcio, il precariato, gli amori spezzettati, ecc.) il collo di Franchi guarda avanti e guarda anche molto indietro (è un collo tormentato), cioè verso i padri, verso le cose perdute, verso una tradizione che continua a parlare, sia pure nell’ombra. Non è nostalgia, ma qualcosa di più profondo, ovvero, per citare Pound, “la contemporaneità di tutte le epoche”. C’è anche un’altra cosa che rende Franchi “generazionale” e sostanzialmente novecentesco, creatura divorata dalla tradizione ultima, figlia delle altre: lo stile non calcolato, non algido, non controllato, ma oscillante, con punte di incandescenza sentimentale e lirica davvero commoventi. Ecco, anche in questo Franchi rischia, rischiando, sempre, la fraternità. E’ un cuore messo a nudo, Monteverde. E vorrei dire un’altra cosa. Molti reportagisti si sono provati a raccontare Roma per mezzo della realtà (operazione utile, ricca di informazioni); ma l’anima di Roma, ecco, quella chi l’ha raccontata? L’anima di Roma l’ha raccontata Franchi. Non avevo mai visto così profondamente appalesarsi l’anima provinciale romana (Michele Plastino, i negozi di dischi, le strade d’estate, Giuseppe Giannini il giorno dell’addio, i concerti, ecc.), senza il compiacimento del provincialismo, della “trovata” sociologica. Ora so finalmente – ne ho il catalogo, le parole, lo stile – le cose che ho perduto in questi ultimi vent’anni di vita. Ora so che non sono solo – scusate la confessione – in questo disperato tentativo di fare il pieno della vita, di dare un senso a tutte le cose perdute, alle paure, al tempo, di entrare nella letteratura con tutti gli sbandamenti (dell’umore, dello stile, della cultura) che rendono certi nostri libri così poco calcolati. Ecco, finalmente, un “compagno di strada” che cercavo da tempo.

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‘Monteverde’ di Gianfranco Franchiappunti di lettura di Barbara Gozzi (nella foto)

barbara-gozzi-2009.jpgMonteverde, il quartiere romano dove vive il protagonista – Guido Orsini – è luogo di memorie, amarezze, di lucide e crude registrazioni che gli occhi dell’autore, Gianfranco Franchi, ‘prestano’ al protagonista (alter ego apparso per la prima volta in ‘Disorder’ pubblicato da le Edizioni Il Foglio nel 2006). Occhi acuti, dunque, ironici quanto precisi, capaci di annegare nel dolore, nel malessere di un vivere faticoso, incerto e perennemente in bilico, ma anche delicati, desiderosi di esplorare, tentare ancora, e ancora.
‘Monteverde’ conclude un percorso preciso, iniziato con il già accennato ‘Disorder’, passando per ‘Pagano’ ( Edizioni Il Foglio, 2007). Un percorso costruito su frammenti, tasselli uniti e slegati che poco alla volta si insinuano, delineano una strada tortuosa eppure nitida.
Guido Orsini è un laureato alla disperata ricerca di quella che, per le generazioni precedenti era un passaggio obbligato, ovvero un posto se non propriamente definibile ‘fisso’ quanto meno stabile, la possibilità dunque di dedicarsi all’unica vera e inviolabile passione-ossessione ovvero la Letteratura. Ma Guido è anche sensibile osservatore della società che lo circonda, di questo ‘Monteverde’ specchio del suo vivere tra limitazioni volute e imposte eppure immerso in tanti sottili interessi importanti. In perenne contorsione, tra ricerche fallimentari, amori sfocati, musica e calcio, orari e vizi.
La struttura stessa del romanzo fornisce una prima guida alla decodifica: sei macro oggetti letterari, un antefatto che è uno ‘spot’ di ciò che il lettore affronterà, e cinque interludi tra gli argomenti principali. Su questi ultimi, gli interludi, vorrei soffermarmi.
Nel primo c’è un cane, che muta nella razza, con gli occhi di due colori diversi e che lo fissa (‘lo’ riferito a Guido sebbene in queste pagine che staccano volutamente la struttura amalgamandola, mi è parso di sentire prepotente e trasparente, la volontà, la voce unica dell’autore). Il cane è un simbolo, un messaggero, ripreso con intelligenza nella copertina e che ritorna anche nel secondo interludio.

“… e mi spieghi se mi stanno venendo a prendere o se c’è qualcosa che sta per capitare oppure se devo smettere di cercare Letteratura e quindi incanto, magia, segno, assurdo e meraviglia in tutte le cose. Io vedo simboli e significati in tutto. Sono un giocattolo giocato da mani sempre nuove, e tutto è un mio giocattolo. Forse anche la morte.” (pag.55)

Attraverso questo simbolo, dunque, la voce inizia a denudarsi, a svuotarsi di contenuti, a riconoscersi in perenne lotta. Non è una guida dunque, il cane, è probabilmente la necessaria virata che attraversa gli oggetti tematici e ne affonda tra le carni.

“Forse il cane voleva avvertirmi che stava per tornare il male, che si avvicinava e che avrei dovuto soffrire ancora per un pezzo.” (pag.113)

Ma anche più avanti, nel terzo interludio, si insiste e si riprende l’antefatto, si incastrano, sovrappongono sensi e significati, l’eco è forte, urgente e necessario. Disperato.

“… e non trovo riposo e non conosco più gioia. Sono una sigaretta che non si spegne mai, e un calice che non s’esaurisce. Sono un caffè troppo amaro, così ti stomaco.
Il malessere fatico a tollerarlo. Ogni mattina peggiora, non so come arginarlo.
Il lavoro è un’ossessione, o un ricordo grottesco che ogni tanto fa male.
Voglio dormire. Fammi dormire.” (Pag. 177)

Il malessere è un leitmotiv pressante, sintomo evidente di un vivere che è trascinarsi tra precariato, esperienze lavorative fallimentari, deriva degli affetti, disagio economico e confusione. C’è molto dolore in questo romanzo, molta fatica da acido e sangue, molta tenace affermazione di quei ‘sogni’ schiacciati ma mai dimenticati, impossibili da accantonare del tutto, perfino nelle scene più grottesche e ironiche, che strappano sorrisi amari, consapevoli.

“… e maledetto il dio della sofferenza, che sia verità o menzogna poco cambia e poco importa: per tutto quel dolore che t’intorpidisce, per quel veleno che s’insinua, e che sordo scava, scava. Sordo, scava. Ma quanto a fondo può scavare, quanto avido ancora può essere, per ossa, e sangue infetto, e polvere e cenere, cenere. Scava. “ (pag.235)

Infinte, nell’ultimo interludio l’immagine del ponte. Che è più d’un simbolo. È chiave di decodifica. Ognuna delle sei tematiche-oggetto di cui accennavo sopra, ovvero: casa, lavoro, donne, musica, la Roma e Patrie letterarie; ognuna è ponte dell’altra, sottile collegamento capace di far traballare l’equilibrio instabile senza disperderlo del tutto, la caduta pare vicina ma mai definitiva.
C’è speranza in questo libro, nella lotta, nel cogliere i fallimenti, il dolore, il male feroce quanto l’insanabile conflitto dei sentimenti, senza imporre conclusioni. I brevi capitoli, ognuno a suo modo indipendenti, possono – sì – cadere ma subito dopo c’è una risalita, una ripartenza, un tentare e ri-tentare in una visione complessa, onesta dell’essere giovani oggi, tra titoli di studio che paiono carta straccia, mestieri inutili, illusori e legami faticosi.
Guido non è persona facile, solitario, poco incline alle mediazioni, mal disposto a cedere ai compromessi, che non accetta la rassegnazione che vede nella sua generazione, inutilità che non ha sapore né odore, senza ‘quel’ fuoco che invece è così prepotente dentro di lui: la Letteratura, amore inviolabile, passione violenta, ragione di vita probabilmente.

“Ho scelta come patria la Letteratura in lingua italiana con opportune commistioni dialettali e linguistiche perché io sono amalgamato così; ho scelto come patria la Letteratura perché è terra di menzogna e oasi di invenzioni e meraviglia, non ha pretese d’essere vera o realistica ad ogni costo, né d’essere Storia: è storia delle storie, è tante storie assieme.” (pag.306)

È un romanzo amaro, ‘Monteverde’, pieno zeppo di scene, dettagli, schegge taglienti mai pietose. Ma anche sottilmente colmo di amore e sentimenti forti quanto pieni, intensi.
Franchi è autore poliedrico, acuto e preciso. La sua lingua si plasma, è materia in evoluzione dove nulla è lasciato al caso o all’intuizione del momento. In questo romanzo, il progetto iniziato con ‘Disorder’ raggiunge una maturazione notevole, nell’intensità, gli intenti incastrati, numerosi. La lunghezza, elemento di stacco dalle precedenti opere, è pregio e difetto di un’opera che non può essere vissuta come mero romanzo. Richiede tempo e pazienza, analisi e recupero dei frammenti, delle ‘storie nelle storie’. La suddivisione in oggetti narrativi semplifica al lettore parte della comprensione, dà modo all’autore di spogliare quel Guido alter ego amato e odiato, all’interno di precise tematiche. È dunque possibile che il lettore perda la ‘strada’ nel corso della lettura, eviti di oltrepassare un certo ponte, ad esempio quello della ‘Roma’ se non ha precisi interessi per il calcio o ‘Musica’. Franchi sa essere tecnico, intinge la sua materia narrativa in elementi fortemente caratterizzati dalla stessa vita che conosce e cerca. E sono rischi calcolati, io credo, necessari per collocare Guido e il suo raccontare in un contesto preciso e inequivocabile.

Ultima annotazione personale: Franchi che scrive d’amore è secondo me perla rara. Già in Disorder alcuni capitoli sono delicati sfarfallii, inni ai sentimenti fondi, lirici senza scivolare nella dolcezza filante che stomaca.

“Una goccia di spirito cade nel silenzio d’un, e aspetto ogni giorno un pezzo di te. Se tu sapessi, che.
Amare (davvero) è pericoloso e brucia; e quando non, è la fine. “
(pag.49 – capitolo ‘Pelle’, ‘Disorder’)

In ‘Monteverde’ ho ritrovato pagine di una dolcezza meno celata, più spudorata, che si mostra fiduciosa e nulla chiede, nulla aggiunge a se stessa. C’è ‘un’ bianco che rimbomba con la forza che toglie il respiro, un bianco che può essere tutto e niente, non colore che facilmente, da un momento all’altro, rischia di finire fagocitato dalle altre tinte eppure brilla, irradia.

“Scende dal cuscino e si mette col muso contro il mio, naso contro naso, occhi negli occhi. Oddio amore mio che occhi che hai, dovresti guardarmi sempre, io questi tuoi occhi li sento dentro sempre, anche quando non ci sei.
[…]
Bianca quella notte che non voleva finire, bianco il telefono che la mattina suonava, bianca la carta delle pizze, bianca la vasca del mio bagno, bianco il pacchetto delle sigarette, bianche le mie scarpe che dovevi sporcare. Bianco il foglio che hai sporcato, bianca la luce del domani.
«Non sono mai stata così».
«Ti amo».
«Ti voglio ancora. Vieni qua».
(pag.131-133)

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CATAFALCO
da Monteverde (Castelvecchi), di Gianfranco Franchi

Un bambino non accetta un concetto in particolare. Che qualcuno o qualcosa possa morire, perché significherebbe che quel qualcuno non è più vero, non è più reale e quindi non è possibile, le cose cambiano ma non si dissolvono, niente si disintegra. Soltanto i soldatini quando li butti nel fuoco, ma qualcosa rimane e poi non sono vivi, sono veri, è diverso. Un essere umano è vivo e vero. La forma mentis del bambino si fonda su tutta una serie di implacabili sicurezze, date per acquisite e mai più smarrite. Una di queste è che le persone che lo stanno allevando saranno protagoniste per sempre della sua vita. Credo che cominciai a capire che potevano levarmi qualcuno pochi giorni prima che mio nonno morisse. Rimase chiuso in ascensore per un tempo che mi sembrò sconfinato, in realtà saranno stati quindici minuti, venti, non lo so. Avevo quasi otto anni, stavo aspettando che tornasse da lavoro, ero là sulla porta, come sempre. Magari mi aveva comprato un giocattolo. Oppure mi avrebbe raccontato un’altra storia. Un sabato pomeriggio, d’un tratto il rumore dell’ascensore s’interrompe. Sento una campana. Chiamo nonno, nonno, e nonno non risponde poi da lontano dice sono rimasto dentro e io mi spavento. Corro da nonna, lei s’è già precipitata a chiamare il portiere. I minuti passano e io non vedo chi doveva tornare. Allora m’accorgo che qualcosa può portarmi via nonno. Non so perché ma in quel momento ero convinto che non tornasse più. Nessuno era mai rimasto chiuso in ascensore, nella mia memoria, e quindi pensavo significasse qualcosa di terribile e di doloroso e di definitivo. Mi dispero, batto i pugni sul divano, piango. Non tornerà mai più, grido. Qualcosa di incomprensibile mi stava portando via nonno. Poi riescono a sbloccare l’ascensore, nonno torna, mi tranquillizza ma non serve a niente. Ho capito che c’è qualcosa che sfugge alla mia logica di bambino, qualcosa di triste e di doloroso e non è come quando un genitore se ne va per mesi interi, perché poi so che torna, questo è qualcosa di cattivo e di invincibile e imprevedibile. Qualcosa di meccanico. Tutto quel che è meccanico è sbagliato. È così. E qualche notte dopo, l’avvertimento diventa reale. Dormiamo nei letti vicini, io sto nel sonno profondo. Ricordo che qualcuno mi prende in braccio e mi porta a dormire altrove. Solo questo, mi sveglio un attimo ma mi confortano e mi ripetono dormi, dormi dai, dormi ciccio. La mattina c’è un parente in salone. Dico Marco come mai, è mattina presto. Una visita, risponde.

Mi mandano a scuola. Papà viene a prendermi prima della fine, parla con la maestra, la maestra fa un sorriso e mi dice puoi andare. Non capisco, c’è qualcosa che non va. In macchina papà tira su col naso ma non piange, mi dice che nonno se n’è andato in cielo e io immagino che ci sia una scaletta, qualcosa del genere, magari dei gradini a chiocciola come nei palazzi, che appaiono soltanto quando lo decidi tu, per cui ha preso e ha deciso di arrampicarsi sino in cima, quindi non dovrebbe esserci più fisicamente, non dovrebbe più essere visibile, immagino. Come se fosse a lavoro o in un’altra città. Mi sento triste ma ancora non capisco. Saliamo su in ascensore che stavolta non si rompe e la porta di casa è spalancata e ci sono delle corone di fiori. Un’amica di famiglia mi leva il grembiule nero della scuola Sant’Ivo, mi fa poggiare la borsa prima dell’uscio, la consegna a qualcuno e non vedo chi è. Nel grande salone c’è una sorta di baldacchino che non ho mai visto, è di legno e sembra un letto ma letto non è, papà mi dice si chiama catafalco, sul catafalco c’è nonno disteso, intorno tante persone e non tutte le conosco ma tutte mi guardano con aria mista di dispiacere e di malinconia e di attesa. Nonna da una parte con delle amiche attorno. Papà mi prende per mano e mi dice vieni a salutare nonno. Nonno è là con le mani giunte e mi sembra tanto bianco. Papà cos’è successo chiedo, dice nonno è stato male. Posso toccargli la fronte dico papà dice vai e mi fa un sorriso poco convinto. Ho paura perché è freddo e penso ora gli parlo e si sveglia come dopo che era rimasto chiuso in ascensore, torna. Non torna. Nonno ciao. Non dice niente.

Arriva una babysitter e mi portano altrove, a giocare vorrebbero, e qualcuno dice il bambino non capisce i bambini non capiscono fatelo stare lontano da qua ma io voglio stare con nonno, così si sveglia. Saliamo al piano di sopra, ma io so già che dal piano di sopra se apro la porta a vetri posso sbirciare in salone e nel salone c’è il catafalco e sul catafalco c’è nonno che se n’è andato in cielo ma invece è rimasto qua. Mia sorella rimane con la babysitter al piano di sopra, io sgattaiolo via come posso e vado a guardare il catafalco, guardo nonno e penso ora si muove, ora si alza, ora parla e tutti sorridono e invece niente, sale su la compagna di mio padre e mi dice cosa fai dico nonno è morto e voglio stare con nonno mi fa una carezza e sussurra andiamo di là da tua sorella e io voglio stare con nonno. Ci penso tutto il giorno mentre mi fanno giocare e sento il campanello suonare anche se la porta è aperta, penso che sia una forma di educazione o di rispetto che non conosco, ma trovo giusta e però non mi sembra giusto che tutti vanno da nonno e io no.

Il giorno dopo quando mi sveglio a casa non ci sono ospiti, c’è odore di caffè e la nonna sta in vestaglia e piange con la signora domestica e papà invece sta in salone vicino a nonno allora vado là, dico papà perché stai qua, risponde perché è l’ultima volta che vede suo padre, dico perché ha le labbra viola, dice è normale quando te ne sei andato, allora questa morte è meno astratta, sei freddo, hai le labbra viola, sei muto, non guardi e non rispondi a nessun segno, sei come spento, papà è come quando spengo qualcosa con la differenza che non so come si riaccende ma ci deve essere un modo. E il modo no, non c’è. Cos’è questo catafalco che non capisco, la parola ha un suono che non c’entra niente con la morte, in mente ho De Falco che gioca centravanti nella Triestina appena tornata in serie B e non capisco che c’entri il calciatore De Falco col catafalco, il catafalco è un antico uso borghese, dice, quando qualcuno importante muore in casa e non all’ospedale succede che si lascia esposto nel salone sul catafalco, è un segno di rispetto. Si muore quindi si va sul catafalco. E tutti vengono a salutare il morto.

E poi arrivano dei signori con la cravatta, con l’aria seria, e portano sulle spalle una bara. E nonna piange forte e non mi fanno guardare mentre nonno va dal catafalco sulla bara, quindi vedo loro con la bara sulle spalle e escono dalla porta nonna dice qualcosa sulla bara che esce dalla porta e credo di aver capito che questo è qualcosa di odioso e di insopportabile ma è nelle cose di quando qualcuno muore e non si può fare a meno, non c’è alternativa, finisce così, con quattro estranei che ti caricano sulle spalle chiuso in una scatola di legno. E il catafalco rimane vuoto e tu non ci sei più nemmeno per i saluti.

Non capivo tutte quelle persone, a dire cose che non capivo magari sottovoce a papà e nonna, e poi era rimasto il catafalco vuoto. Era caldo. Negli anni, a partire da allora, non credo di avere più visto nessun catafalco in nessuna casa, quando è successo che qualcuno s’è arrampicato sulla scala che porta sin lassù sino a non essere più visto; ho visto persone distese sul letto, con le mani giunte, con o senza crocifissi. Tutti bianchi, labbra viola e via dicendo ma nessuno disteso sul catafalco. Questo vuol dire che nonno era proprio importante e che quando è morto tutti dovevano andare a salutarlo, perché aveva fatto cose buone e giuste per tante persone. Questo vuol dire che ci sono tradizioni italiane che non si sono spente col passare dei secoli. Questo vuol dire che nella morte siamo una volta ancora tutti diversi, a dispetto della propaganda. L’uomo grande, forte e intelligente che ha cambiato la storia della mia famiglia per generazioni s’è disteso su un catafalco, e là ha consumato gli ultimi incontri con la luce preziosa e prepotente della nostra vita. Non sapevo che in casa avessimo un catafalco, e non ricordo che sia stato portato in salone da qualcuno: non l’ho mai visto entrare, non l’ho mai visto uscire. Non voglio nemmeno sapere se è stato nascosto da qualche parte. Credo di no ma non voglio andarlo a cercare. So che dal 1985 ci sono due metri, nel salone, in cui non cammino volentieri: là, tra i due divani di pelle, di fronte al camino, dove ho incontrato la morte di un uomo che mi amava più di ogni altra cosa al mondo, e che non aveva finito di prepararmi alle cose della vita. Avevo quasi otto anni e lui sessantaquattro, non aveva una gamba da dieci anni, doveva morire nove anni prima ma invece lavorava e mi insegnava tante cose, aveva un grande ufficio con quattordici dipendenti, tante amanti, tante case, tanti progetti e tanto orgoglio per il nipote primogenito, romanista e sveglio. Non ho capito come sia possibile che una persona così possa morire, so che quando muore la mettono in salone su un catafalco, e da quel momento il salone cambia per sempre.

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ITALIA DE PROFUNDIS, di Giuseppe Genna http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/05/italia-de-profundis-di-giuseppe-genna/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/05/italia-de-profundis-di-giuseppe-genna/#comments Tue, 05 May 2009 19:56:04 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/05/italia-de-profundis-di-giuseppe-genna/ È da tempo che meditavo di dedicare un post a questo nuovo libro di Giuseppe Genna: Italia De Profundis. Uno dei libri più recensiti degli ultimi anni: lodato dalla critica e amato dal pubblico dei lettori (è stato scelto come libro del mese dagli ascoltatori della trasmissione Fahrenheit).
Attraverso il racconto di vicende personali, trasfigurate nella narrazione, Genna canta il de profundis a un’Italia malata. Un’Italia cancerosa. Un paese affetto da un male simile a quello che divora i corpi. E il male tumorale che ha portato via il padre dell’autore, ora avvinghia la madre patria. Al punto che bisogna distaccarsene (forse) per non esserne trascinati a propria volta. Al punto che bisogna “disimparare ad amarla”, l’Italia.
Così come evidenzia la scheda del libro “si formano sotto i nostri occhi episodi di un’autobiografia impazzita, rivelazioni plausibilmente autentiche di quanto il personaggio «Giuseppe Genna» ha vissuto: il drammatico ritrovamento del cadavere del padre, in un’atmosfera lynchiana, una tardiva autoiniziazione all’eroina, l’esplosione dell’iracondia in una forma che guarda alla scrittura di Burroughs e l’intervento attivo e criminale nell’eutanasia di un caso simile a quello di Piergiorgio Welby. Fino all’avventura surreale in una estate solitaria presso un villaggio turistico in Sicilia, dove le tessere di questo racconto scomposto trovano una soluzione che è esilarante fino all’inabissamento finale.
Fiction reale o realtà finzionale, questo libro pretende e concede un atto d’amore assoluto, formulato come appello al lettore, affinché sia cancellato l’autore e si ascolti l’inquietante risata con cui Genna stesso e l’Italia vengono seppelliti
“.

Sul Riformista Andrea Di Consoli ha scritto: Italia De Profundis è un libro grandioso. E’ un’eruzione vulcanica, un’opera monstre, una potentissima deflagrazione dei saperi, dei generi letterari e della psiche. Non s’era mai letto un libro così potente, in Italia; un libro, cioè, dove ci fosse tutta la nostra contemporaneità: la depressione, l’ipocondria, l’ansia, la morte, l’amore, il sesso, il sadomaso, la disoccupazione, la letteratura, Milano, Palermo, le periferie, il lumpenproletariat milanese, l’eroina, l’autobiografia, la finzione, il villaggio turistico siciliano, la morte del padre, un’orgia transessuale, il sapere enciclopedico, il cinema, la Mostra di Venezia, David Lynch, Mantova, Berlino, Burroughs, Kafka, il narcisismo, l’autopunizione, l’agonia, l’eutanasia, il disprezzo, la pietà, gli ospedali, la psichiatria, il corpo, la difficoltà di amare e la sperdutezza”.

Subhaga Gaetano Failla, a cui ho chiesto di predisporre una recensione appositamente per Letteratitudine, mi scrive: “Dagli anni Ottanta in poi rari sono stati i libri di autori italiani per me così importanti.”

E poi c’è l’epigrafe prescelta da Giuseppe Genna. Sembra quasi una premessa al libro. È tratta da Petrolio di Pasolini. E dice così: “Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in effetti ho attuato qualcos’altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in me il senso o la funzione della realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà. (…)
Nello stesso tempo in cui progettavo e scrivevo il mio romanzo, cioè ricercavo il senso della realtà e ne prendevo possesso, proprio nell’atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo
anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire”.

Vorrei che discutessimo insieme di questo libro.

E poi, vi chiedo di fare il punto della situazione sui malanni d’Italia.

Secondo voi il nostro è davvero un paese-cadavere su cui recitare il de profundis?

Quali sono stati i “mali” che l’hanno ridotto in queste condizioni?

È possibile “risorgere”? Se sì, in che modo?

Di seguito le recensioni di Andrea Di Consoli e di Subhaga Gaetano Failla (che mi darà una mano a animare e moderare il dibattito).

Massimo Maugeri

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Il de profundis di Genna per un’Italia in metastasi
di Andrea Di Consoli
[dal quotidiano il Riformista]

Italia De Profundis (Minimum Fax, 348 pagine, 15,00 euro) di Giuseppe Genna (Milano, 1969) è un libro grandioso. E’ un’eruzione vulcanica, un’opera monstre, una potentissima deflagrazione dei saperi, dei generi letterari e della psiche. Non s’era mai letto un libro così potente, in Italia; un libro, cioè, dove ci fosse tutta la nostra contemporaneità: la depressione, l’ipocondria, l’ansia, la morte, l’amore, il sesso, il sadomaso, la disoccupazione, la letteratura, Milano, Palermo, le periferie, il lumpenproletariat milanese, l’eroina, l’autobiografia, la finzione, il villaggio turistico siciliano, la morte del padre, un’orgia transessuale, il sapere enciclopedico, il cinema, la Mostra di Venezia, David Lynch, Mantova, Berlino, Burroughs, Kafka, il narcisismo, l’autopunizione, l’agonia, l’eutanasia, il disprezzo, la pietà, gli ospedali, la psichiatria, il corpo, la difficoltà di amare e la sperdutezza. E’ un’opera-mondo, questa di Genna, sia pur costruita (felicemente) intorno a spedizioni punitive e conoscitive nei paraggi della propria vicenda personale. Il Genna che si sviscera e si scortica in pubblico, che pratica su di sé “installazioni”, e sperimenta sulla propria pelle pensieri e parole di inaudita intelligenza estremistica, è un Genna di intensità ed espressività ineguagliabile (che qui tocca il suo vertice). Questo libro è una totalità in cui l’autore milanese mette in scena se stesso, con pietà e con furore, in pagine di sconvolgente “indentramento”. Ogni parola, in questo libro, ha un costo altissimo (personale). Si parla, sia pure sotto l’effetto allucinogeno ed esaltante di una divina retorica, e di un mirabolante stile bellico e rabdomantico, di due cadaveri (l’autore, e l’Italia) che Genna scruta e “canta” con estrema freddezza autoptica. Genna fa autopsie poetiche. La superficie delle sue parole è calda di febbre, ma dentro, nel cuore di questo libro, c’è freddezza: la freddezza di chi percorre cunicoli e vene nascoste perché sente come scrittore il dovere di dire tutto, di sapere tutto, di non nascondere niente. Perché la verità, pare suggerirci Genna, bisogna guardarla negli occhi, anche quando si presenta sotto forma di orrore sociale, di malattia, di agonia: di cadavere. E non c’è mai moralismo, nel suo squallido attraversamento delle viscere della nostra Italia (lo dice lui stesso: Genna non è come D.F. Wallace, che si “nascondeva” nella letteratura). Genna espone ai miasmi della decomposizione la stessa letteratura, che ovviamente soffoca, e rischia di collassare. Italia De Profundis è un “canto” disperato e viscerale sull’Italia, e su un italiano preciso che si chiama Giuseppe Genna (protagonista del libro); un essere colmo di saperi ma privo di amore, un uomo che cerca la psiche e scopre (ripeto, a proprie spese) che la psiche è nel corpo “ferito a morte”; un essere che sa travestirsi, mistificare, depistare, esagerare, ricordare e dimenticare, cambiare, lamentarsi, commuoversi, ammalarsi e guarire, e che vive in un’accelerazione dei punti di vista che somiglia molto all’accelerazione impazzita delle cellule tumorali. Un libro, Italia De Profundis, sulla principale malattia dell’Italia contemporanea: il cancro. Su questo mostro che nasce dentro, e che si mangia il corpo vivo: un male spirituale, per Genna, un male dell’anima. Infatti il libro inizia con il racconto atroce della morte del padre (per cancro ai visceri); e racconta dell’agonia per cancro del padre della “fidanzata”. E’ come se Genna volesse dirci: l’Italia che ci è stata data è malata, e noi siamo figli di questa malattia. Ecco, Genna fa un lamento da “figlio”, sia pure incistandolo su un corpo da vecchio. La gioventù di Genna nasce già terminale e postuma; e fa rese dei conti senza aver vissuto a pieno quel che la vita sembrava promettere. C’è tutto, in questo libro: il disprezzo italiano per la poesia, la devastazione del paesaggio, la nevrosi somatoforme, la paura, l’odio, l’amore impossibile, l’autodistruzione commossa, una vita rapinosa vissuta al cardiopalmo. Tutte cose che imprimo alla scrittura di Genna “deformazioni” incredibili: ora più narrative e distese, ora più violente, fino agli esiti extreme dell’implosione totale (ci sono intere pagine quasi “illeggibili”). Qui non siamo più nella complessità moderna, ma nell’ultracomplessità caotica dei moventi, dei saperi, dei sentimenti, delle ragioni e dei torti. Un libro che fa male. Che punge come un siringa infetta. Che odora di quartieri periferici. Che odora di malattia: l’atroce malattia chiamata Italia, nel sintomo specifico chiamato Giuseppe Genna.

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Italia De Profundis di Giuseppe Genna
recensione di Subhaga Gaetano Failla

gaetano-failla.jpgItalia De Profundis di Giuseppe Genna è un libro molto bello, un libro importante.”

Così più o meno ho detto a molti amici. Nient’altro. Perché è difficile parlare d’un libro che ha un’anima. Temevo –  e temo – di dire qualcosa sull’indicibile. Perché d’un’anima non si può parlare. Proverò dunque a dire qualcosa di marginale, che rimane ai margini,  al limite d’un territorio indicibile.

Dono. Compassione. Autocontrollo.

Shantih shantih shantih

Con queste parole “mutuate dal finale del saggio di Wu Ming 1”, presente nel libro del collettivo Wu Ming intitolato New Italian Epic, si conclude Italia De Profundis

Datta. Dayadhvam. Damyata                                                  Shantih  shantih  shantih

Con queste parole si conclude The Waste Land di Eliot, a imitazione della chiusura rituale delle Upanishad.

Shantih. Dal sanscrito: Assoluta pace interiore e serena imperturbabilità. Mi lascia dubbioso il significato dato a Damyata: Autocontrollo. Un paradosso: la mente che controlla la mente. I mistici parlano di osservazione senza giudizio. Essere un puro testimone.
Poi si scorrono le pagine, fino alle ultime, fino ai ringraziamenti e all’indice, e perfino ai Titoli di coda, e troviamo, prima dell’indirizzo elettronico della minimum fax, queste estreme parole:
Non la finisco più di non iniziare.
Vi è forse in questo libro l’intuizione profonda d’una finzione: quella della definitiva conclusione. La finzione della morte. La finzione dell’inizio.
E la quarta di copertina riporta una frase estratta dalla prima pagina:
“Un luogo che ho disimparato ad amare.”
Molti anni fa avevo frequentato un corso di psicologia umanistica, che nelle intenzioni doveva essere costituito da sette incontri, guidati da una donna meravigliosa, Letizia Comba, psicologa e traduttrice di Gurdjieff, dal titolo I sette inizi. Ogni passo è il primo passo? E dunque qual è il primo passo? C’è un primo passo?
Nell’antica pratica buddhista, come ricorda anche Genna,  il discepolo, nella sua strada iniziatica, aveva il compito di contemplare le diverse fasi del disfacimento d’un cadavere.
Genna osserva il disfacimento d’un organismo chiamato Italia. Un luogo che ha disimparato ad amare. Con compassione. Nell’anelito del raggiungimento di shantih. L’io narrante Giuseppe Genna, come si legge nella prima parte del libro,  rimane per molto tempo accanto al cadavere del padre morto per infarto. Chiunque abbia assistito alla morte d’un genitore sa che quella morte è anche la sua personale morte. E Giuseppe Genna intuisce la finzione d’una estrema conclusione, della morte, perché intuisce la finzione di io.
“Io: chi sono?” chiede nel libro l’io Giuseppe Genna. Una domanda del tutto assurda. Una vertigine. Chi chiede a chi? Di questa vertigine è impregnato questo libro coraggioso.
Dagli anni Ottanta in poi rari sono stati i libri di autori italiani per me così importanti, un libro di cui dire dunque: mi importa.
La Diceria di Bufalino, l’eterea presenza di Pereira, Il vicolo blu di Bonaviri, la voce e il passo di Rigoni Stern nel suo Altipiano.
“… proprio nell’atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire.”
Così dice Pasolini nel suo Petrolio, così Genna, che utilizza in epigrafe queste parole, si avventura coraggiosamente verso “la buia notte dell’anima” di cui parlano i mistici. Quando l’oscurità sembra essere senza scampo, profondissima e infinita, e tutte le speranze d’una nuova alba ci abbandonano, allora, solo allora, giungerà il primo  (il primo?)  raggio ad illuminarci. La libertà più grande, la libertà da sé stessi.
Genna parla di io non disgiunto dall’io dell’Italia. Sa di essere sangue e carne dello stesso disfacimento. E non vi è disprezzo, ma compassione. C’è la contemplazione dell’organismo Italia in decomposizione.
“Non le sembra di avere un approccio un po’ pessimista, di legare la sua analisi a dei presupposti radicalmente negativi?” gli chiede Luca Vaglio in una recente intervista.
“Davvero restituisco questa impressione?” risponde Genna. “Non è una cosa in cui mi riconosco, certo rispetto allo stato di cose che ci circondano denuncio una negatività. Ma se non avessi dentro di me l’idea di una positività non parlerei in questo modo.”
Italia De Profundis è percorso da due ombre dense, due ombre letterarie che accompagnano il lettore nella discesa e nell’ascesa, mentre ciò che non è né io né Genna cerca né discesa né ascesa. Queste due ombre si chiamano Burroughs e il Fantozzi di Paolo Villaggio. L’incubo dei mondi e dei corpi che diventano vortici di terra e di carne in mutazione oscura, e il grottesco di minuscoli uomini di Gogol, così penosi, così orribili nell’odierna trasformazione in insetti kafkiani. Comprendo l’irruzione di personaggi fantozziani nelle pagine di Genna – Fantozzi, la  maschera che maggiormente rappresenta questi nostri anni italiani, una maschera ancora non del tutto riconosciuta nella sua grandiosa esemplarità. Ma Burroughs? Perché è tornato Burroughs nella nostra letteratura, e anche nelle pagine di Genna?
Burroughs ha saputo contemplare il suo stesso cadavere, e da esso ha riconosciuto la finzione della morte; dalla carne disfatta  – del suo corpo, del corpo dell’America – ha intravisto un bagliore.
“Hai mai letto Il paese dei ciechi di H.G.Wells?” chiede Burroughs in una lettera (raccolta nel libro Le lettere dello Yage) indirizzata al suo carissimo amico Allen Ginsberg. “È la storia di un uomo che rimane bloccato in un paese dove tutti gli abitanti sono ciechi da tante di quelle generazioni che hanno perduto il significato del concetto della vista. Perde le staffe. ‘Ma non capite che io posso vedere?’ ”.
Così Giuseppe Genna. Giuseppe Genna?

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BIRGITTA TROTZIG, GÜNTER GRASS E POETI LETTERATITUDINIANI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/13/birgitta-trotzig-gunter-grass-e-poeti-letteratitudiniani/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/13/birgitta-trotzig-gunter-grass-e-poeti-letteratitudiniani/#comments Tue, 13 Jan 2009 22:58:43 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/13/birgitta-trotzig-gunter-grass-e-poeti-letteratitudiniani/ poesia.jpgQuesto è un post dichiaratamente dedicato alla poesia…
Colgo l’occasione per presentare le nuove opere poetiche di due grandi autori: Birgitta Trotzig e Günter Grass. E contestualmente ne approfitto per presentare le silloge di alcuni poeti che – in un modo o nell’altro – hanno “incrociato” questo blog. Mi piace chiamarli poeti letteratitudiniani: Cristina Bove, Domenico Calcaterra, Carlo Carabba, Andrea Di Consoli, Elio Distefano, Gianfranco Franchi, Patrizia Garofalo, Marco GattoRenzo Montagnoli, Alfio Patti, Leandro Piantini, Franco Romanò, Maria Teresa Santalucia Scibona.
In fondo al post troverete le immagini delle copertine dei libri coinvolti. Cliccandoci sopra si apriranno pagine di approfondimento.
Mi piacerebbe che i poeti letteratitudiniani (ne approfitto per precisare che nessuno di loro è stato messo al corrente di questo post) ci presentassero la loro opera e ci offrissero una poesia da essa estratta (magari quella che ritengono particolarmente significativa). Poi li invito a interagire tra loro… e a rispondere alle eventuali domande degli altri frequentatori del blog.

Ai poeti letteratitudiniani chiedo: quando avete incontrato la poesia?

A tutti chiedo, rifacendomi a questo vecchio post (la poesia specialità dei perdenti?)
- ha ancora senso, oggi, scrivere e leggere poesie?
- perché scriverle? perché leggerle?

Veniamo a Birgitta Trotzig e a Günter Grass: le loro opere poetiche che ho il piacere di segnalarvi sono “Nel fiume di luce. Poesie 1954-2008” (Mondadori) di Birgitta Trotzig (tradotte e curate da Daniela Marcheschi) e “Dummer August” (Raffaelli) di Günter Grass (con prefazione di Claudio Groff).
I due suddetti volumi, e gli approfondimenti che leggerete di seguito, mi stimolano a formulare altre due domande:
- fino a che punto la parola può essere intesa come principio generativo, come legge per la creazione del mondo? (riferimento a Trotzig)
- se ogni “macchia vincola” fino a che punto la parola può, se non cancellarla, quantomeno… compensarla? (riferimento a Grass)
Di seguito la recensione di Bianca Garavelli (per il libro della Trotzig) e una scheda sulla silloge di Grass.

Massimo Maugeri

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“Nel fiume di luce. Poesie 1954-2008″ di Birgitta Trotzig – € 13,00 – 2008, XXV-251 p., Curatore Daniela Marcheschi  – Mondadori

di Bianca Garavelli- Avvenire del 27/12/2008

La parola come principio generativo, ‘legge’ per la creazione del mondo. È questa l’idea centrale che anima la poesia della svedese Birgitta Trotzig, intensa protagonista della letteratura del suo paese nel Novecento e oltre.
Un’autrice, nata a Goteborg nel 1929, fin da giovanissima dedita alla scrittura e fin da giovane convertita alla fede cattolica, in cui la forte dimensione religiosa ha segnato a tal punto la scrittura da creare una sorta di fusione fra i generi, attraverso uno stile visionario in cui la potenza generativa della parola si esprime creando immagini e metafore vertiginose, senza distinzioni asfittiche fra prosa e poesia.
Daniela Marcheschi ne ha adesso tradotto curato con affettuoso rigore un’edizione complessiva per Mondadori, che raccoglie, con ricche scelte antologiche, tutti i principali libri poetici di Birgitta Trotzig. E ha il valore aggiunto di un dialogo costante fra traduttrice e autrice. Il titolo, Nel fiume di luce, sintetizza bene la potenza visionaria di questa poesia che, per certi aspetti, somiglia a quella del Dante paradisiaco, quando descrive i più alti luoghi dei beati, dove le presenze individuali si fondono e trasformano in una continua mutazione di forme luminose.
Così, come nel contrapporsi che è anche un fondersi fra bene e male, la poesia e la prosa di Trotzig sembrano partecipare dell’energia che ha dato origine all’universo, ne sono la prova letteraria, per così dire. E se le sue poesie tendono ad assumere ritmi prosastici, con versi lunghi e immagini complesse che si dipanano in ampi spazi sulla pagina, anche nei suoi romanzi, per ora non tradotti in Italia, gli stessi temi e gli stessi ritmi della poesia trovano dimora. Come in Levande och doda (‘Vivi e morti’), dove luce e ombra, vita e morte coesistono mostrando come nella materia misteriosa che compone l’universo sia proprio la compresenza degli opposti la sostanza, e la scintilla che genera la vita.
Sono riflessioni che ricordano, in parte, l’idea visionaria di un racconto di Borges, La scrittura del dio, il cui protagonista ricorda un’antica tradizione, secondo cui una frase di origine divina, scritta alle origini della terra, avrebbe scongiurato i mali del mondo. Così nella scrittura di Trotzig la parola è essere vivente, perfettamente partecipe della natura dei viventi lettori, e al tempo stesso chiave per accedere al mistero. Lo si comprende dal modo in cui l’autrice lascia muovere le immagini, come se una volta posate sul foglio procedessero con movimento proprio (e Immagini è il titolo del suo libro del 1954), che parlano dei misteri della fede, come nella poesia Getsemani che con incredibile partecipazione emotiva racconta l’inizio della Passione.
O in quella dedicata al ‘Bambin Gesù’ di Praga, ‘travestito nell’abito d’oro scuro da imperatore’, dove la presenza oggettiva del mistero nella realtà quotidiana è filtrata attraverso il ricordo di un viaggio. Infatti l’altro aspetto importante della scrittura di Trotzig, coesistente con la visionarietà, è la sua densa corporeità, la capacità di entrare nella materia del mondo e riviverla, con la stessa intensità con cui penetra senza paura nella dimensione cosmica. Come di un viaggio nell’anima l’autrice può parlare della sua stessa vita, e dell’amore che prova per le terre in cui ha vissuto, tra cui l’Italia, superando i «Confini della parola» (titolo di un altro suo libro, del 1968) grazie al duttile strumento poetico che ha costruito.
Bianca Garavelli

da “Nel fiume di luce” di Birgitta Trotzig
Il viaggio fuori da un’asfissia, la nascita che riduce in pezzi sotto e sopra. Urlo, grido, sillabe. Più nessuna pretesa, nessuna esigenza sopravvissuta, non si dichiara niente su alcunché – si invoca, si rivolge la parola, si elemosina, si scongiura, fastidio, prima nell’invocazione “io”, prima nell’invocazione “vivo”.
Parola, riti, cattedrali, spezzati, infranti, esplosi, sudici. Nel buio, attraverso il buio, grido senza voce, parola rivolta senza labbra. Tutto il tempo “fa ruotare la terra con il suo peso di vivi e morti”.

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Dummer August – Günter Grass – € 12,00 – 2008, 110 p. – Raffaelli (collana Poesia contemporanea)

Questa raccolta nasce come reazione -risposta agli attacchi, spesso molto violenti, che in Germania – ma anche in Italia e un po’ in tutta Europa hanno accolto la confessione di Grass (contenuta nell’autobiografia “Sbucciando la cipolla”) di aver fatto parte per poche settimane negli ultimi mesi di guerra, a diciassette anni, di un’unità delle temute Waffen-SS, corpo elitario dell’esercito tedesco composto da fedelissimi di Hitler (ne abbiamo parlato anche qui). Un evento spiacevole che in qualche modo ha scalfito l’immagine di un uomo e di uno scrittore che fino a quel momento (agosto 2006) si era sempre trovato “dalla parte giusta” ed era considerato la coscienza critica della Germania. Con queste poesie, Grass si difende con le sue armi, quelle del grande scrittore che sa trascendere ampiamente dall’occasione fornita dall’episodio.
Con testo originale a fronte. I traduttori sono Claudio Groff, Claudia Crivellaro, Caterina Barboni, Elena Bollati, Velia Februari e Irene Montanelli.

LA MIA MACCHIA
Tardi, dicono, troppo tardi.
In ritardo di decenni.
Annuisco: sì, ce n’è voluto
prima che trovassi parole
per l’usurata parola vergogna.
Accanto a tutto ciò che mi rende riconoscibile
ora mi rimane appiccicata una macchia,
netta quanto basta
per gente
che indica con dito senza macchia.
Addobbo per gli anni che restano.
O forse si doveva provare il travestimento,
stendere il velo pietoso?
D’ora in poi mi circonderebbe la quiete
in mezzo a rane gracidanti.
Ma già dico sì, no e nonostante.
Non si può mascherare
il torto sanzionato.
Mai troppo tardi ciò che fu ed è
viene chiamato per nome.
La macchia vincola.

(da Dummer August di Günter Grass)

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I LIBRI DEI POETI LETTERATITUDINIANI

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AGGIORNAMENTO DEL 16 GENNAIO 2009

Nel latte della madre
di Filippo Tuena

Prediligo postazioni rialzate,
Battute dal vento, anche se pericolose
Per i colpi vaganti o l’ingordigia dei cecchini
Che prima della fine del turno
Vogliono ancora una volta far centro.

Ma in queste notti arabe
Sono i cumuli di macerie che m’aggradano di più
Perché a volte, sotto, li sento ancora lamentarsi,
Con voce sempre più sottile o insistente pervicacia.

Eppure moriranno entro pochi minuti
Ed è inutile affannarsi a sollevare le pietre,
Scalzare travi, rotolare macigni.

E’ la polvere che li condanna. S’incolla alla gola
O alle ferite sanguinanti e li sigilla come
Statue di gesso o sale. Immobili. Fermàti nel tempo
Come i calchi degli schiavi di Ercolano.

Per esperienza so che, passata l’orda,
Li ritroveranno quando spianeranno le macerie,
Solitamente avvinghiati alle madri.
Del resto il loro mondo era davvero poca cosa:
Un seno un poco avvizzito, un battito rassicurante del cuore.

Askenazita di Bolechov che hai pigiato il bottone,
Palestinese di Hebron che hai caricato il mortaio,
Texano di Dallas che hai il grilletto facile,
Talebano di Kabul che hai il coltello affilato:
Non cucinerai l’agnello nel latte della madre.

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RACCONTAMI LA NOTTE IN CUI SONO NATO di Paolo Di Paolo http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/17/raccontami-la-notte-in-cui-sono-nato-di-paolo-di-paolo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/17/raccontami-la-notte-in-cui-sono-nato-di-paolo-di-paolo/#comments Fri, 17 Oct 2008 20:38:09 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/17/raccontami-la-notte-in-cui-sono-nato-di-paolo-di-paolo/ Nel gennaio del 2007 Nicael Holt, ventiquattrenne australiano, mette all’asta la propria vita su eBay. È un fatto sensazionale, mai successo prima, i giornali ne parlano, il fatto fa molto discutere e le implicazioni di dibattito si estendono a diversi campi di interesse. Perché un ragazzo giovane, con molti amici, una fidanzata e una famiglia “normale” sceglie di rinunciare a tutto, di disfarsi di ciò che è stato e di ciò che ha vissuto? Nicael potrebbe iniziare un viaggio alla ricerca di sé e di orizzonti più liberi e avventurosi. Invece rimane nella sua camera, accende il monitor del portatile che gli sta di fronte e inizia a vendere pezzo a pezzo – in lotti numerati e distinti – i suoi giorni, la sua memoria, le sue emozioni, i luoghi dei suoi passaggi, tutto ciò che è stato.
È questo l’espediente di cronaca dal quale muove Raccontami la notte in cui sono nato il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo, giovanissimo scrittore (classe 1983), ma già autore di libri importanti [Un piccolo grande Novecento con Antonio Debenedetti (Manni 2005), Ho sognato una stazione con Dacia Maraini (Laterza 2005), Come un’isola Premio Mastronardi Autore Under 30 (Perrone 2006) Ogni viaggio è un romanzo (Laterza 2006)].
Di questo libro (qui le recensioni che finora ha ricevuto) ce ne parla più in dettaglio Andrea Di Consoli, il quale – peraltro – ne approfitta per avviare una polemica.

Direi di strutturare questo post in due parti. La prima, dedicata al libro, dove potremo discutere approfittando anche della presenza di Paolo Di Paolo, che parteciperà al dibattito; la seconda, dedicata alla polemica che lancia Andrea nell’articolo che leggerete di seguito.

Prima parte
Lucien, il personaggio di questo romanzo, ha ventiquattro anni e un lavoro come redattore in un giornale di provincia. Giorni divisi tra lezioni svogliate da studente modello di filologia romanza e amici che, più di lui, vivono la solitudine e la libertà di chi, diciottenne, se ne è andato di casa per studiare. Lucien, no. È solo leggermente fuori sede. Di sera torna alla sempre-casa prendendo il sempre-treno che da Roma lo porta al rifugio letargico e alla sicurezza paesana dei castelli poco fuori città.
Un giorno, mentre è alla ricerca di un libro illustrato nel grande mercato virtuale di eBay, inciampa nella vita di Filippo: inquieto fumettista universitario fuori sede all’Università di Padova. Iniziano a conoscersi e a scriversi regolarmente rivelandosi e scambiandosi pezzo a pezzo le proprie vite fino al giorno in cui Lucien propone all’amico di prendersi la propria.
Muovendosi tra Roma, Padova, Parigi, Lisbona e New York, accompagnati dalla presenza dolce e inquieta dei fantasmi di Magritte e Capote, Lucien e Filippo vengono travolti da un succedersi di vicende bizzarre e inaspettate, da spezzare il fiato.

Dal fatto di cronaca e dalla lettura del romanzo sorgono una serie di domande.
Qual è il prezzo dell’esistenza? È possibile rinunciare alla propria? È possibile dare un prezzo a ciò che siamo stati? E come fare? Qual è il momento esatto in cui una vita inizia? Dove abbiamo cominciato a essere chi davvero siamo?
Voi che ne dite?

Seconda parte
Andrea Di Consoli parla di questo libro in termini lusinghieri, ma – come anticipato – ne approfitta per avviare una polemica. A un certo punto Andrea scrive (e sembra quasi una sorta di disperata denuncia): “I lettori italiani sono ottusi, e lo dico ben sapendo di danneggiare anche me stesso“. E poi (sintetizzo): “Siamo nell’epoca dell’uguaglianza: un libro vale l’altro, tutti gli scrittori sono scriventi, nessuno è diverso dall’altro. Tutti uguali, tutti nello stesso brodo, tutti più o meno falliti. E se non hai l’approvazione della massa (non dal popolo, che è altra cosa, e che pure c’è, sia anche a livello di elite, ormai) vuol dire che non vali niente.”
Ora… che nessuno si senta personalmente offeso da queste dichiarazioni, che sono rivolte a un lettore generico. Ne ho parlato con Andrea: l’obiettivo – appunto – non è offendere, ma lanciare un dibattito.
Ma perché Andrea scrive queste frasi?
Leggete il pezzo. Poi, dite la vostra… con decisione, se credete; ma – mi raccomando – nei limiti del tono e dello stile che caratterizza questo blog.
(Grazie).
Massimo Maugeri

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Raccontami la notte in cui sono nato di Paolo Di Paolo
recensione di Andrea Di Consoli

andrea-di-consoli.JPGRaccontami la notte in cui sono nato (Giulio Perrone editore, 109 pagine, 10,00 euro) di Paolo Di Paolo, scrittore e critico romano classe 1983, è un libro sorprendente. Non è certamente un romanzo, anche se non si capisce bene perché il romanzo debba essere considerato, essendo assai logorato, il polo di riferimento di ogni narrazione (la forma centrale); da questo punto di vista, quindi, con la stessa esattezza, potremmo dire che non si tratta né di un saggio, né di un diario. Insisto col dire questo perché in Italia si è fatto scempio di tutto ciò che non è romanzesco (con l’emergere prepotente di tanti lettori-zombi frustrati dei cosiddetti romanzi di genere); nessuno più legge poesie, diari, brochure, riviste letterarie, poemetti in prosa, racconti, romanzi brevi, reportage narrativi, frammenti e così via. Tutti scrivono e tutti vogliono leggere romanzi, magari “corposi”, “avvincenti”, “che si leggono d’un fiato”, e che, ovviamente, “ti fanno sognare” (e che sono adatti a vincere premi letterari). I lettori italiani sono ottusi, e lo dico ben sapendo di danneggiare anche me stesso. Torneranno i tempi in cui un libro come Quasi una vita di Corrado Alvaro vinceva, con il suo diario spietato sul fascismo, il premio Strega? Pensavo a queste cose mentre leggevo il bellissimo libro di Paolo Di Paolo. Mi dicevo: com’è possibile che un ragazzo di appena venticinque anni riesca a scrivere queste cose? E com’è possibile che gli ottusi lettori italiani leggano solo romanzi di baby-scrittori in cui emerge una gioventù a prova di lacrime, televisiva, stereotipata, senza stile, senza profondità (e senza dolore: dolore vero)? Mi sono stancato, come scrittore e come uomo, di dire: quel che decide la massa, è giusto. E se dico queste cose non è per moralismo, ma per convinzione. Quasi rimpiango l’epoca delle ideologie imperanti, quando si era lettori onnivori, e si discuteva generosamente di tutto, finanche di un film bulgaro sottotitolato in tedesco. Siamo invece nell’epoca dell’uguaglianza: un libro vale l’altro, tutti gli scrittori sono scriventi, nessuno è diverso dall’altro. Sono francamente sfinito, da questa realtà, da questo comunismo capitalistico: tutti uguali, tutti nello stesso brodo, tutti più o meno falliti. E se non hai l’approvazione della massa (non dal popolo, che è altra cosa, e che pure c’è, sia anche a livello di elite, ormai) vuol dire che non vali niente. Il mercato editoriale è diventato talmente violento, che ogni discorso del genere viene tacciato di moralismo, stupidità, livore. Eppure conviene farlo, questo discorso, a costo di sembrare ridicoli. Ovviamente sarebbero tante le cose da dire; per esempio che la fiction imperante in letteratura non è altro che un’estensione parassitaria (una specie di ignoranza acculturata) del dominio televisivo; e che il livellamento verso il basso di tutti gli stili, di tutti i punti di vista e di tutti i sentimenti e le idee, è il sintomo di una malattia che potrei sintetizzare in questo modo: trionfo di un nichilismo consumistico, per cui “tanto dobbiamo tutti morire”, perciò tanto vale leggere cose che intrattengono, perché “la vita è già di suo così triste”. Invece la vita non è triste per niente; semmai è forte, intensa, insostenibile, misteriosa. Il mondo del libro ha aperto le braccia a tutti: alla Foschini, alla Bonaccorti, a Serena Grandi, a Lino Banfi, a Cucuzza, alla figlia di Giuliano Gemma, a Rita Rusic, a Valeria Marini, al figlio di Antonello Venditti, alla Clerici, e così via. Si aprono le porte del teatro, del cinema e della televisione per gli scrittori italiani? Il cinema e la televisione, si dice, hanno “uno specifico”, un altro linguaggio. Invece la Letteratura no: la Letteratura è una cloaca pubblica (“avanti, si accomodi!”). La Letteratura in televisione non funziona, si dice. E certo che non funziona, se a parlarne sono sempre e solo persone improvvisate e disinformate! Almeno Gigi Marzullo, che pure ha pubblicato libri, porta gli scrittori in televisione, e di questo bisogna dargliene atto. Allora, senza farla troppo lunga, si abbia di nuovo il coraggio di parlare di Letteratura; sì, di qualcosa di riconoscibile, di superiore (qualcosa che ha una millenaria tradizione alle spalle). Pure, non si sottovaluti il fatto che scrittori come Paolo Di Paolo sono in primis critici e studiosi, a differenza degli scriventi di massa, che di solito non leggono niente di niente, se non quelli che ritengono “competitor”. Non basta la vita, per scrivere; non basta guardare la televisione, per scrivere; e, soprattutto, è umiliante farsi riscrivere il libro da un editor. A questo problema, infine, se ne aggiunge un altro, ovvero il fatto che i lettori ottusi (e l’ottusa editoria) cercano ansiosamente scrittori sempre più giovani, “carne fresca” da maciullare. Mai i “ggiovani” erano stati così corteggiati (e sfruttati). Tutti corrono a leggere in massa il romanzo di un “pischelletto” o di una “pischelletta” in posa, mentre vengono abbandonati nell’ospizio della Letteratura italiana I Grandi Viventi “da tremila copie” (più o meno): Bonaviri, Consolo, Magris, Camon, Cordelli, Vasile, Vassalli, Doninelli, Guerra, Sanvitale, Arbasino, Pariani, Zanzotto, Rugarli, Giudici, Rea, Erba, Paris, Albinati, Montesano, Ceronetti, e così via. Prendiamo proprio il caso di Paolo Di Paolo, del suo libro Raccontami la notte in cui sono nato. E’ il libro di un giovane, di uno che, con intelligenza, con lirismo, con malinconia, sente che qualcosa non va, nella sua vita. Il protagonista del libro, Lucien, non si percepisce come giovane, ma come uomo; non fa parte, cioè, della casta privilegiata dei “ggiovani” (gli unici ad avere, secondo la comunicazione di massa, un nuovo punto di vista sulle cose). Lucien è un uomo (un uomo giovane), che vende la sua vita, e che, perdendola, la ritrova. Lo stile di Di Paolo non è “nuovo” (non c’è slang, non c’è trama a effetto, non c’è violenza pulp, ecc.). Il suo è uno stile antico (io ci ho sentito la voce di due scrittori novecenteschi: Cesare Pavese ed Enzo Siciliano: non il Presidente della Rai, ma lo scrittore, che nessuno mai legge). Il libro di Di Paolo è una raffinata passeggiata interiore, un attraversamento incantato e spietato in un’adolescenza che si fa maturità. Ed è un omaggio alla madre, colta poeticamente nel momento in cui si aggira per la città con lo scrittore in grembo. Ecco, Di Paolo sente la giovinezza come limite (certi malumori, certe ansie, certe timidezze che feriscono). Lui non dice: “Io sono giovane, e con me inizia il mondo”. Lui non è come tutti questi ottusi che hanno paura della maturità, e perciò cercano di cibarsi (vampirescamente) del sangue dei giovani. Lui non è come il Giovane Scrittore Analfabeta che è sempre in cerca di successo mediatico. Di Paolo realizza – con uno stile straordinario, con intelligenza e con maturità – quello che fu l’auspicio di Benedetto Croce (un altro vecchiaccio da buttare nel secchio): “I giovani hanno un solo dovere, quello di diventare subito vecchi”. Ed era proprio Pavese, citando Shakespeare, a dire: “Ripeness is all”, la maturità è tutto. Non è un caso che Di Paolo abbia sempre cercato padri letterari, ovvero la tradizione della letteratura, perché solo chi trova dei padri potrà diventare a sua volta padre, tenue faro nella notte.
Andrea Di Consoli

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LA CURVA DELLA NOTTE di Andrea Di Consoli http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/11/la-curva-della-notte-di-andrea-di-consoli/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/11/la-curva-della-notte-di-andrea-di-consoli/#comments Mon, 11 Aug 2008 15:20:32 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/11/la-curva-della-notte-di-andrea-di-consoli/ Il protagonista del nuovo romanzo di Andrea Di ConsoliLa curva della notte (Rizzoli) – si chiama Teseo. Un personaggio complesso e paradossale, affetto da una delle più tremende e classiche malattie che può colpire un essere umano: il “mal di vivere”.
Un romanzo che a mio avviso - per la tipologia dei temi trattati – può richiamare alla memoria classici della letteratura italiana del Novecento: quali “Il male oscuro” di Giuseppe Berto e “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda.

Di seguito leggerete le recensioni di Barbara Gozzi e di Francesco De Core (quest’ultima già pubblicata sul quotidiano Il Mattino) che vi porteranno dentro la storia.
In questa nota introduttiva aggiungo soltanto che il “male” di Teseo trae origine da un episodio del passato… quando scopre che sua madre e Rocco – suo grande amico, coetaneo – sono legati da una storia d’amore e sesso.
La curva della notte di Teseo comincia proprio lì. E diventa mortale nel momento in cui Rocco, anni dopo, divenuto nel frattempo un noto cantante, lo va a trovare al Byron (locale gestito dallo stesso Teseo).

Mi piacerebbe discutere del libro e delle tematiche da esso affrontate (come al solito, partendo da alcune domande).
Quale potrebbe essere il rimedio migliore per combattere il mal di vivere - chiamatelo angoscia o depressione, se volete - che continua a mietere vittime forse oggi più di ieri?
Provate a entrare nei panni del personaggio Teseo…
A vostro avviso, Teseo, sulla base di quanto sopra accennato, dovrebbe sentirsi più “tradito” dalla madre o dall’amico Rocco? O da nessuno dei due?
E ora, le già citate recensione di Barbara Gozzi e Francesco De Core.

Massimo Maugeri

LA CURVA DELLA NOTTE di Andrea Di Consoli, Rizzoli, 2008, euro 17, pagg. 202

di Barbara Gozzi

Teseo è un uomo tormentato, annoiato, attanagliato da un ‘male di vivere’ quasi inspiegabile nei suoi tessuti contraddittori, tra alti e bassi feroci e improvvisi.
Due mogli e una figlia alle spalle, un passato da ferroviere poi un locale, il Byron, diventato casa e supporto, passione e peso.
Finché qualcosa stravolge i fragili equilibri di cristallo: Rocco, vecchio amico dimenticato, torna, lo cerca. E prima di morire in un tragico quanto sfuocato incidente, riaprirà le porte di un passato che Teseo aveva chiuso forzatamente, nel disperato quanto inutile tentativo di dimenticare vecchi rancori, tradimenti e quel senso di disgusto e abbandono che, in realtà, ha continuato a perseguitarlo tra gambe aperte e giri di valzer. Perché Teseo non si nega nulla, specialmente i piaceri della carne che lo fanno sentire vivo, riescono a fargli provare ‘qualcosa’ di temporaneo quanto prezioso.
L’ultimo romanzo di Di Consoli mantiene le tinte forti e scure del precedente ‘Il padre degli animali’ ma sposta l’angolazione, la visuale vira e si concentra su un uomo e su un vivere inquieto, selvaggio quasi, tra rimozioni e riprese. E soprattutto dove i sentimenti esistono per riflesso, perché hanno un nome che ogni tanto è necessario pronunciare. Finché il passato torna e con lui i rimescolamenti dell’anima, di quell’anima che sembrava scacciata, sopita o addirittura annientata e invece resiste. C’è. Si svela proprio quando i granelli di sabbia scivolano quasi del tutto, sfuggiti a dita ormai scosse da tremori, invecchiate e incerte. Confuse.
Di Consoli gestisce una prosa potente, lucida, che risente a tratti dell’amore sviscerale per la poesia e ogni tanto ne ‘ruba’ atmosfere, ritmi e approcci.
Ci sono tre diversi livelli narrativi, individuati dai capitoli (comunque sempre brevi, fulminanti) e dai titoli. La stessa cronologia sarà comprensibile solo leggendo, strada facendo. C’è un passato che è remoto, mischiato quasi ai sogni, all’irrazionalità dei pensieri incompleti, dove il tempo ha iniziato a rosicchiarne pezzetti. Ma ci sono anche due strutture presenti che sembrano slegate, assestanti. Sembrano perché non lo sono. In questo romanzo si racconta una storia che non è ombelicale: l’analisi introspettiva di un uomo complesso e controverso. Si tirano fili precisi tra tessuti che sono anche analisi di una società – la nostra, quella che vive oggi seppure con riferimenti precisi al sud – ; e i personaggi sono protagonisti e simboli. Ci sono, dunque, passato remoto, prossimo e presente. Ma l’ordine non è scontato. Tutt’altro. Lo stesso titolo in realtà, mi sembra una traccia rilevante, da seguire per trovare il ritmo giusto, una prima decodifica. ‘Una’ notte si consuma un presente annunciato dalle prime righe, in una curva che si allunga, sale poi scende irrimediabilmente verso il basso, quando ormai ogni personaggio ha recitato la sua parte, incastrando tasselli e sfaldando certezze.
Di Consoli ha capacità espressive non comuni, usa un’aggettivazione mirata e ‘visiva’, ogni nuova scena viene tratteggiata in modo che il lettore ci si ritrovi immerso, tra odori, sapori, umori.

Non ce la facevo più a vivere […] la morte che più non si teme quando si è stanchi, sfiniti, alla fine del deserto; alla fine di una statale che porta nel regno dei vivi che sono già morti.
(pag.63)

Questo parallelismo tra vita e morte, anzi peggio, questo considerare taluni ‘vivi’ come fossero già morti è decisamente pressante, nel corso della narrazione. Teseo sa, sente. E queste sue percezioni incombono, irrompono tra avvenimenti presenti e passati.

Il passato è la nostra vergogna, la palude che ci fa impazzire di risentimento e di noia.
(pag.83)

Rancori dunque per accadimenti mai dimenticati, impossibili da cancellare e allo stesso tempo la noia, quel lento lasciarsi vivere tra il torpore di azioni che scivolano e la sottile depressione verso un futuro che appare piatto.
Solo il sesso, l’atto in sé, sembra scatenare nel protagonista reazioni cercate e mai noiose. Ed è una ricerca continua, un impulso irresistibile, unico a cui Teseo non si sottrae mai, neanche quando si sente avviluppare da trame oscure, a lui avverse. C’è senza dubbio una forte e presente componente sessuale in questo romanzo ma non la definirei erotica, non ci sono manifestazioni di un desiderio che cerca, annusa corpi; bensì tratteggi brevi e precisi di azioni solitarie. E’ un prendere, per Teseo, un dare per riflesso. I gesti sono ripetitivi, non si curano di forme o sostanze. E’ l’atto, come accenno sopra, l’unico vero obbiettivo. Il resto è un contorno spesso inutile, privo di sapore. E lo spiega in più d’un occasione lo stesso Teseo.

Non esiste, il piacere. Esiste solo il dolore di non amare più, o di amare male, come una ferita che non si chiude.
(pag.107)

Poi l’ ‘urlo della mente’ (pag.128) e l’ ‘amore nero’ (pag. 91). Parole chiave precise. Dominanti eppure sussurrate, che quasi si perdono tra racconti e virate.

La curva, dunque, si avvicina alla sua discesa finale e quaranta, cinquanta pagine dalla conclusione, il lettore la avverte, la caduta. Ci si sente dentro. I personaggi stringono, incalzano, i tasselli appaiono e lentamente si uniscono.
Di Consoli non è un autore facile, secondo me. Scrive avvalendosi di simboli, livelli diversi e strutture che sono il frutto di volontà precise. E rallenta forse proprio quando il lettore vorrebbe invece correre verso il finale. Ma è tutto necessario, sotto molto punti di vista. Decodificare non è un processo semplice tanto meno comodo.

In quel momento – senza capire niente – capii invece tutto. Mi andava bene, quello che stava succedendo. “Iole” dissi con la voce spezzata di chi è disposto a morire pur di amare ancora una volta.
(pag.197)

La parola ‘amore’ viene usata con parsimonia per circa centottanta pagine. Appena sussurrata. Poi d’improvviso, a poche pagine dalla fine, diventa un imperativo che si mischia al sesso, all’accettazione. Diventa un elemento dominante. Riempimento e rovina. Causa ed effetto. Mentre la morte, ovunque, resiste, perdura ma in queste ultime pagine pare addirittura meno graffiante, leggermente smussata.

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da Il Mattino del 18/04/2008

Teseo e l’ultima notte di quiete
di Francesco De Core

Se i nomi hanno un senso sulla faccia delle persone, allora Teseo – il protagonista del nuovo romanzo di Andrea Di Consoli, La curva della notte (Rizzoli, pagg. 216, euro 17) – alla fine dei suoi giorni accartocciati nel vuoto uccide il minotauro. Non fuori, ma dentro di sé. Un mostro spietato, sleale, mosso da «un freddo disprezzo, uno svuotamento doloroso». Ecco: «La geografia della mia anima era una malattia che non si poteva guarire». Questa la moneta che riserva al mondo, Teseo. Qualcosa che lo divora, lo inghiotte nel ventre aspro di un destino senza redenzione. E per Teseo – che abita un sud avido di buio, luci al neon, relitti da spiaggia – il destino è un’auto lungo un rettilineo che non finisce mai, è un cuore che scoppia a tradimento come una bomba, è la morte che lascia sul suo petto inerme i segni da scarpone chiodato dei soldati. Teseo perde la vita a brandelli, ispirato e cosciente. Gli ultimi morsi spesi nel furore della condanna, inattesa ma forse sperata. Gioca al rivoluzionario, da giovane, per diluire la fretta di vivere; poi lavora da ferroviere, nel resto di una terra che è meridione, dove «i treni scendono, lenti e rumorosi, nella punta di sabbia dove finisce la nazione, e dove il governo ha piantato una grande bandiera tricolore che il vento ha dilaniato con i suoi morsi»; infine diventa proprietario di un locale, il Byron, sempre più assente dalle azioni quotidiane e distante nei pensieri. È uomo che osserva il mare e gli uomini, Teseo, in un disordine che è di valigia chiusa in fretta. Ama oltre la rabbia e oltre il ricordo. Sembra non avere più nulla da chiedere, perché poi ha poco da offrire. Quando al Byron arriva Rocco, l’amico di gioventù, musicista affermato. E soprattutto l’uomo che amò sua madre di un amore ai suoi occhi innaturale. Blasfemo. Assurdamente tragico. Rocco cede alla colpa antica e all’odio mascherato nell’altrui sguardo, beve con foga, va dritto verso la morte nella carcassa di un’auto che si riduce a poltiglia. Il senso di colpa affonda unghie e denti nella carne molle di Teseo e si compie così la stagione del cupio dissolvi: entra in scena Iole, la conturbante moglie di Rocco, e con lei loschi figuri che squarciano le nebbie del protagonista. Il sesso si fa di tenebra, brucia, va oltre il disincanto di matrimoni finiti per consunzione: risponde a un’ossessione, a un’implosione dell’anima, è sempre più carne e sempre meno amore. Il sud è di pece, ridotto a osso, cartavetrata, rumore di fondo – il sud che Di Consoli sceglie come quinta delle sue storie, riportandoci a certi racconti di Lago negro – un meridione che per Teseo è colorato di «caffè bollente, camion colmi d’asfalto, gelaterie e chiese barocche». Teseo è come un cane sciolto nella terra di nessuno dell’esistenza, popola di incubi i suoi giorni straziati dal distacco e da una passione senza speranza, viene infine abbandonato dal corpo, stremato da un colpo a tradimento prima che la strada curva arrivi a gettare terra sull’ultimo respiro e luce sul viso contratto. Un viso pallido di morte e stupore e nervi slegati dal sangue ormai fermo. Nessuno ha diritto alla salvezza per come ha vissuto dando in pasto ad altri la propria vita, sembra dirci Di Consoli. Gli impulsi più foschi si incastrano nella cornice di una scrittura tesa come corda di violino, dura, secca eppure seduttiva, scandita da immagini piene e taglienti. Alla sua seconda prova con il romanzo, dopo Il padre degli animali, lo scrittore lucano sembra così confermarsi a suo agio nel maneggiare sentimenti terminali, bravo com’è a renderli di pietra con un ritmo intenso e una lingua mai retorica.

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INTERVISTA A DANIELA MARCHESCHI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/01/07/intervista-a-daniela-marcheschi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/01/07/intervista-a-daniela-marcheschi/#comments Mon, 07 Jan 2008 21:41:03 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/01/07/intervista-a-daniela-marcheschi/ Vi propongo questa intervista che Daniela Marcheschi, italianista ed esperta di letterature scandinave, ha rilasciato ad Andrea Di Consoli.

Intervista interessante che abbraccia varie tematiche: dalla critica letteraria alla storia della letteratura.

Credo che molte delle risposte fornite possano prestarsi per avviare dibattiti. Leggetele con attenzione e, se volete, esponete le vostre opinioni.

(Massimo Maugeri)

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Intervista a Daniela Marcheschi

di Andrea Di Consoli

Daniela Marcheschi, italianista, esperta di letterature scandinave (ne scrive su “Il Sole 24 Ore”) e traduttrice di Karin Boye, August Strindberg, Edith Sodergran, Brigitta Trotzig, curatrice dei Meridiani Mondadori di Giuseppe Pontiggia e Carlo Collodi, ha al suo attivo un’attività saggistica di livello internazionale. Ha pubblicato, tra le altre cose, Una luce del nord. Scritti scandinavi (1979-2000) per Le Lettere, e Sandro Penna per Avagliano.

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Lei ha parlato più volte di tradizioni letterarie in contrapposizione a tradizione. Cosa significa esattamente?

Puntare alle tradizioni vuol dire cogliere la pluralità delle esperienze letterarie e artistiche, delle estetiche, poetiche, filosofie, dei generi, degli stili, delle forme. Significa cogliere e avvicinarsi alla complessità stessa delle esperienze letterarie e artistiche; e anche verificare i modelli storiografici che tendiamo a confondere con la storia stessa della letteratura. Da questo deriva oggi una critica povera, perché vista come cronaca, rassegna dell’esistente non inserita nel quadro più problematico delle tensioni della storia. Sta prevalendo una critica scissa dalla storia, e una storiografia scissa dalla critica. Stiamo facendo critica e storia della letteratura ingabbiate su visioni storiografiche ereditate dalle generazioni precedenti.

Qual è la differenza tra la critica letteraria e la storia della letteratura?

Non ci può essere una storiografia nuova senza una visione critica delle tradizioni, e non si dà una critica nuova senza una visione storica delle tradizioni e delle loro interconnessioni. E, sopratutto, non si può fare letteratura, né come autori né come critici, se non ci si rende conto che i valori vengono sempre discussi e negoziati, e che bisogna essere consapevoli perché certe esperienze si sono affermate, o sono state sostituite. I valori vanno sempre continuamente ridiscussi.

Chi è il più grande critico letterario del ‘900?

Da questo punto di vista Carlo Dionisotti (1908-1998) non è solo il più grande storico della letteratura nel ‘900, ma è anche un grande critico: lo provano il travaglio profondo della “premessa e dedica” a Geografia e storia della letteratura italiana e di pagine mirabili dei Ricordi della scuola italiana. Tenga presente che Dionisotti ha potuto pubblicare Geografia e storia della letteratura italiana, libro fondamentale, solo a 59 anni, quando l’Accademia di Svezia già gli chiedeva pareri riservati su eventuali candidati al Nobel.

Cosa pensa del dibattito sulla critica letteraria iniziato sul “Corriere della sera” a partire dal Dizionario della critica militante (Bompiani) di Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli?

Considero questo dibattito fragile, poco consapevole della complessità dei problemi in campo. E’ un peccato, perché l’Italia si sta sempre più chiudendo in se stessa, incapace di esportare valori e proporre idee ed esperienze letterarie davvero persuasive.

Lei insiste spesso sull’isolamento dell’Italia, sul suo provincialismo. Come ci si apre al mondo, in che modo può avvenire quest’apertura?

Se siamo consapevoli che si conosce “per tradizioni” siamo poi anche in grado di leggere la trama delle varie tradizioni europee. Dobbiamo cominciare a individuare gli autori europei di lingua italiana, non gli scrittori italiani e basta. Come diceva Vincenzo Gioberti, travisato da certe letture fasciste, e come dice Amedeo Anelli (direttore della rivista “Kamen’”, n.d.r.), bisogna ragionare su quali siano gli scrittori europei di lingua italiana, perché gli scrittori italiani sono meno necessari.

Mi faccia alcuni esempi novecenteschi di scrittori europei, e provi a spiegare cosa significa essere uno scrittore europeo.

Uno scrittore europeo di lingua italiana, per il lavoro sui contenuti, sul romanzo, sullo stile, è stato Giuseppe Pontiggia. Basta leggere quello che la critica europea ha scritto sui suoi libri. Uno scrittore è europeo nel momento in cui è capace di porsi problemi che interessano le culture internazionali, quando è profondamente italiano ma sa lanciare problematiche di interesse non locale. Scrittori europei di lingua italiana, per esempio, sono stati Italo Svevo e Luigi Pirandello.

E Alberto Moravia?

Moravia è uno scrittore di grande mestiere, di grande abilità, ma è uno scrittore sempre dentro l’attualità, e in ciò è debitore del naturalismo. Moravia è il prototipo degli opinionisti di oggi, di questa cultura dominante della chiacchiera mediatica. Naturalmente aveva intelligenza da vendere. Moravia non è uno scrittore che ha allargato più di tanto le “barriere del naturalismo”, come invece diceva Renato Barilli in un saggio del 1964. La sua letteratura è fortemente radicata nella letteratura russa, come ormai tutti sanno. Anzi, è spesso più paragonabile alla “fattografia” del realismo socialista.

Che cos’era la “fattografia”?

Era una poetica che proponeva un romanzo radicato nella cronaca, per essere più aderenti agli indirizzi del regime comunista. Dostoevskij è stato molto amato da Moravia, che però non ne aveva lo spessore filosofico e religioso. Di fatto i modelli russi di Moravia sono principalmente altri.

A quali modelli si riferisce?

Glielo spiego partendo da Dino Terra (1903-1995), uno degli scrittori più importanti fra la fine degli ‘20 e la fine degli anni ‘40. Aveva fondato l’Immaginismo, un movimento letterario e artistico per unificare tutte le ricerche d’avanguardia, intesa questa come metodo, come arte sperimentale. Autore di vaste frequentazioni internazionali, Terra fece conoscere la psicoanalisi alla sua cerchia (Moravia, Bontempelli, i Bragaglia, Pirandello, Marinetti, Ungaretti, Chiaromonte, De Libero, Gallian). Tra quei giovani aveva fatto molto effetto il romanzo La famiglia Golovlioff di Michail Saltykov-Scedrin, pubblicato in Italia da Carabba in due volumi nell’aprile del 1918, con la prefazione di Federico Verdinois. In due interviste inedite allo storico Paolo Buchignani nel 1993, Dino Terra diceva che quel romanzo era stato decisivo per alcuni di loro.

Questo cosa significa?

Questa testimonianza non è un’inezia, ma mette lo storico e il critico della letteratura sulle tracce di un testo che ha a lungo influenzato l’opera di Moravia, all’epoca molto amico di Terra. Se noi prendiamo La famiglia Golovlioff, a parte la coincidenza del nome di Saltykov con quello di Michele de Gli Indifferenti, dobbiamo constatare che tutta quanta la costruzione del romanzo, dei personaggi e del loro carattere morale, le atmosfere, addirittura lo stile, hanno forti analogie, se non palesi “copiature”, con il romanzo d’esordio del giovane Moravia.

Quali sono gli elementi che supportano questo sospetto di “copiatura”?

Anche ne La famiglia Golovlioff i personaggi principali sono cinque. Una madre, Irene, che, per insensibilità e vuoto interiore, per i suoi modi grotteschi, somiglia alla madre di Carla e Michele. Sua nipote, Annin’ka, è il personaggio più lucido del romanzo di Saltykov e quello in cui si riscontrano analogie non casuali con Carla. Anche Annin’ka cerca letteralmente una “vita nuova, vera”, e pur di averla si dà a un riccone, ma capirà il vuoto e l’illusorietà di una simile aspirazione. Allo stesso modo Carla, ne Gli Indifferenti, nel desiderio di una “vita nuova”, si getta tra le braccia di Leo pur non amandolo, e di fatto gli si dà per avere un benessere, proprio come fa Annin’ka. Colpisce il fatto che Leo abbia in parte il carattere di Porfìrij, detto piccolo Giuda, che agisce solo per interesse e lussuria. Porfìrij, come Leo, è cinico, ipocrita, interessato, vive un erotismo puramente utilitaristico, senza profondi sentimenti, pronto a rovinare i suoi famigliari pur di accumulare ricchezze e impadronirsi di una villa. Poi ci sono gli atri due fratelli, Stepàn e Pavel, i quali vivono nell’indifferenza, nella finzione, nell’incapacità di qualsiasi applicazione, in una “nebbia di parole” che è la nebbia del vaniloquio e dell’impossibilità di sentire e volere.

Lei coincidenze sono solo di contenuto?

Colpiscono anche le coincidenze formali. Ad esempio ne La famiglia Golovlioff, proprio come nel romanzo di Moravia, ci sono il vaniloquio e un grande uso del discorso indiretto libero, che abbonda soprattutto nell’ultima parte. Michele ne Gli Indifferenti immagina l’ipotetico processo che seguirebbe l’uccisione di Leo, ma in realtà questo non avviene, perché Michele non uccide Leo. Tale processo, invece, nel romanzo russo c’è davvero. Ma le corrispondenze non finiscono qui, ve ne sono in grande quantità.

La letteratura nasce sempre dalla letteratura, di questo lei è consapevole. Quindi immagino che la sua riflessione vada più nella direzione della ricerca storica, che non nella direzione di una provocatoria polemica.

Che i libri nascano anche dai libri è cosa nota, ma è forse meno noto quanto questo romanzo russo abbia significato concretamente per quel gruppo di giovani scrittori romani. Per esempio, il carattere stesso de L’avaro di Moravia richiama ancora una volta un tratto molto caratteristico di Porfìrij, incapace di amare e assumersi qualsiasi responsabilità che non sia quella di accaparrarsi beni materiali. Ne L’amore coniugale il confluire di norme morali e convenzioni sociali è un tema che richiama un altro tema del ricco romanzo di Saltykov. Negli stessi Racconti romani il vizio della pignoleria, portato all’estremo grado, rimanda ancora a un motivo di Saltykov. La famiglia Golovlioff ha personaggi a tutto tondo che incarnano, nello svolgersi delle vicende, tutta una serie di vizi e carenze morali assai suggestive per l’opera di Moravia. Così si riconferma ancora una volta il radicamento di Moravia nel dibattito culturale degli anni ‘20 e ‘30, che dovrebbe essere studiato di più. Il libro di Saltykov aveva già influenzato Terra, basti pensare a un romanzo sperimentale come Ioni, del 1929, considerato l’anti-Indifferenti.

Dal suo discorso si profila addirittura uno “scontro” in sede di canone tra Moravia e Dino Terra. O forse è più esatto dire che lei auspica una maggiore attenzione sui cruciali anni ‘20.

Andrebbero studiati meglio l’ambiente delle riviste degli anni ‘20 (“La bilancia”, “La ruota dentata”, “Interplanetario”, “Occidente”, “Caratteri”, riviste in cui spesso si ritrovavano fascisti rivoluzionari, giovani comunisti, socialisti, anarchici, apolitici, tutti legati dalla volontà di costruire una nuova letteratura), la narrativa degli anni ‘20, il movimento dell’Immaginismo, la Roma di sostanza internazione ed europea di quegli anni. All’interno di questo quadro si gettano le basi per un realismo nuovo, in cui ha uno spazio il meraviglioso, basti pensare proprio a Riflessi di Dino Terra. Quindi siamo di fronte a una pluralità di tradizioni che la prevalenza di una storiografia ingessata e arretrata ha spesso cancellato, mentre ha lasciato tracce di vitalità nella narrativa italiana almeno fino agli ‘70 (si pensi agli autori di favole per adulti: Zavattini, Guareschi, Terra). Se noi paragoniamo Ioni a Gli Indifferenti, pubblicati entrambi da Alpes nel 1929, ci rendiamo conto della novità sperimentale di Ioni, costruito per micro e macro sequenze, per pluralità di voci, per molteplicità dei punti di vista. Moravia legge attentamente Saltykov e ne ricalca la tecnica romanzesca. Terra, invece, cerca di rinnovarla ulteriormente. A questo punto possiamo capire perché Dino Terra fosse considerato, in quel tempo, uno degli scrittori più importanti. Meno persuasivo, invece, è ritenere Moravia una delle punte di diamante della letteratura del ‘900.

Andrea Di Consoli

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FÌDEG di Paolo Colagrande (recensione di Andrea Di Consoli) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/05/fideg-di-paolo-colagrande-recensione-di-andrea-di-consoli/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/05/fideg-di-paolo-colagrande-recensione-di-andrea-di-consoli/#comments Wed, 05 Sep 2007 16:46:36 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/05/fideg-di-paolo-colagrande-recensione-di-andrea-di-consoli/ Fìdeg di Paolo Colagrande

Pur ironizzando senza risentimento su scrittori “affermati”, da Sandro Veronesi Veronesi a Umberto Eco, Paolo Colagrande (Piacenza, 1960) realizza, ironia della sorte, con Fìdeg, suo romanzo d’esordio, un’opera “aperta”, dove il registro comico si fonde sapientemente con un’attitudine metaletteraria mai intellettualistica, ma sempre contigua alla vita “bassa”, alla vita osservata rasoterra, dal “punto di vista del cane”. Come in alcuni scrittori dell’area emiliano-padana (da Ugo Cornia a Daniele Benati a Paolo Nori) anche in Colagrande “l’ideologia” dominante è un quotidiano burbero e vero, spazientito e diretto, sgomento e tragicomico: un quotidiano senza sovrastrutture piccolo-borghesi o “televisive”.

Colagrande usa un’oralità “semicolta”, che discende dagli “zii” Celati-Cavazzoni, eppure, a questo punto, sappiamo due cose: che la lingua dei semicolti è un artificio retorico (a volte di maniera) di certa letteratura “del Po”, e che Parma, tanto per dare un centro geografico a questo “gruppo molteplice” di scrittori, è in realtà una piccola e raffinata capitale culturale, una piccola Parigi – il “proustiano” Attilio Bertolucci, con la sua cinica grazia, è un riferimento obbligato, come ovviamente sono un riferimento obbligato Luigi Malerba, Cesare Zavattini e Alberto Bevilacqua, sempre meno “bestsellerista” nella considerazione dei critici.

Questi “nuovi” scrittori di area emiliano-padana usano il “basso”, verrebbe da dire, per mirare sempre più in alto. Eppure sappiamo quante difficoltà questi scrittori hanno nello sperimentare strade nuove di ricerca letteraria. In Colagrande, per esempio, il dato dominante è un umorismo intellettuale senza visceralità e senza facili ammiccamenti; un umorismo mai gratuito e risentito, ma sempre lucido, fortemente saldato a una precisa visione “teorica” del mondo – valgano da esempio le bellissime pagine sul campanilismo; su Cristoforo Colombo conteso dai genovesi, dai piacentini e dagli spagnoli. In Guido Conti, invece, e lo abbiamo visto nel suo ultimo romanzo La palla contro il muro, l’attenzione si è spostata efficacemente dai “folli” alle angosce piccolo-borghesi. Anche in Beppe Sebaste una narrazione fortemente orale si è ormai “allargata”, finanche nella forma, alla riflessione filosofica, linguistica e politica – valga per tutti l’esempio di Tolbiac. Lo stesso vale per Paolo Nori, che è passato da una comicità “stralunata” ed esilarante a un maggiore impegno civile – si pensi a Noi la farem vendetta. Forse solo Cornia, con il suo bellissimo Le pratiche del disgusto, sembra issato nella sua felice forma conchiusa: nel suo malinconico e masochistico affondo nella quotidianità.

Paolo Colagrande allarga e rafforza un gruppo di scrittori che ebbe nella rivista Il semplice il suo centro propulsore. Nel suo bellissimo Fìdeg, vincitore del premio Campiello opera prima, troviamo certamente l’oralità, il “basso”, il comico, l’inciampo “chapliniano”, la provincia, la marginalità, ma il tutto è irrobustito da una intelligente e continua riflessione sulla forma romanzo e sul fare letteratura. E’ come se questi scrittori emiliano-padani, partiti come semicolti, adesso risalissero il fiume della letteratura “alta” – ma, in fondo, non sono forse Celati, Cavazzoni, Sebaste, giusto per fare qualche nome, anzitutto dei raffinati studiosi?

Questo gruppo di scrittori, ovviamente, non è omogeneo; anzi, a volte è addirittura conflittuale. Eppure da questo gruppo di scrittori emerge l’unica visione davvero forte (mai mimetica, o moralistica, come invece accade in area veneta) della nostra provincia profonda, delle alterità linguistiche, di una quotidianità mai piccolo-borghese o sociologica. Anziché piangere sulle orride trasformazioni della via Emilia, questi scrittori continuano a cercare, come animali solitari, angoli bui dove trovare parole e immagini nuove, semplici e marginali. Come faceva il grande fotografo Luigi Ghirri. Come fece, fino a un anno fa, Giorgio Messori, che trovò a Tashkent, in Uzbekistan, un’altra via Emilia in cui non essere braccato.

Andrea Di Consoli

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Fìdeg

Paolo Colagrande

Alet

205 pagine 12,00 euro

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Ringrazio la Alet che ha messo a disposizione un estratto del testo di Fìdeg. Potete leggerlo di seguito. (Massimo Maugeri)

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Tra le disgrazie dell’umanità – diceva Neride Bisi – c’è che quando uno sente il bisogno irrefrenabile di dire una cosa intelligente, novantanove su cento poi la dice.

Da questa debolezza dipende la crisi del mondo moderno, diceva sempre Neride Bisi che per questo motivo aveva deciso di parlare solo quando era al bar o dal barbiere, che sono delle specie di aree protette, oasi ecologiche dove il parlare è indifferentemente un fatto di istinto o di divertimento o di abitudine, come fumare o giocare a carte o bere dei bianchi; tutte cose che lui faceva sempre volentieri, specialmente l’ultima.

Da questa premessa mio nonno Neride Bisi aveva tratto un’importante regola sociologica rivoluzionaria di cifra anarchica, cioè: che il parlare e il ragionare viaggiano su due strade diverse che non si incontrano, non c’è il collegamento, lo svincolo, il crocevia logico funzionale; di conseguenza, mancando il crocevia logico funzionale, le cose intelligenti vengono fuori solo per caso o addirittura per sbaglio, cioè tipo una volta su un milione. La teoria sociologica aveva poi anche un imprevisto risvolto macroeconomico, perché mio nonno Neride, con un passaggio un po’ ardito che non mi ha mai spiegato bene, diceva che a tacere tutti si migliorava il livello di benessere della società e si diventava ricchi, nel senso di fare i soldi. Lui, ricco, non lo è mai diventato.

L’ho presa lunga con mio nonno Neride non solo perché mi andava di baccagliare un po’, ma soprattutto per dire che quella cosa intelligente dei richiami semantici in tema di tubatura era meglio che me la tenevo per me: risparmiavo le parole e non passavo da locco.

Locco è una parola nordemiliana-sudlombarda assolutamente intraducibile: perché dire allocco, cioè una specie di uccello rapace notturno sinonimo non so perché di stupido, oppure babbeo, aggettivo manzoniano usato nei dialoghi di Tex, non dà quell’idea dispregiativa trasversale che solo la parola locco riesce a rendere. Quindi terrei locco, nella speranza che il concetto sia ben trasmesso.

Dimenticavo di dire, prima della digressione sull’epiteto locco nordemiliano vagamente sinonimo di stupido, che quando dei famosi scrittori con cui ero a cena ieri l’altro mi han detto che il nome della rivista era La tubatura, ho sentito il bisogno irrefrenabile di dire una cosa intelligente, e allora mi sono

lasciato scappare che nella tubatura c’erano molti richiami semantici.

Di qui il ricordo commosso di mio nonno Neride, bracciante agricolo con vocazione sociologica, morto a novantatré anni.

D’altra parte tutte le volte che incontro degli scrittori, cosa che non capita spesso, è più forte di me pensare che dentro la loro testa ci sia sempre un gran lavoro di richiami e controrichiami semantici in continua agitazione. E siccome ero a tavola con dei famosi scrittori che mangiavano del coniglio in umido e bevevano del rosso con la schiuma mentre buttavano giù il nome della rivista e altre cose tecniche come il palinsesto detto più propriamente menabò, ho pensato che in quel momento, all’interno dei loro cervelli, doveva esserci una tale esplosione di richiami e circuiti semantici che, a tenerci dietro a tutti, c’era veramente da farsi venire la febbre. E considerato che era già un po’ tardi e anch’io stavo mangiando il coniglio in umido – buonissimo, tra parentesi – con tre o quattro bicchieri di rosso con la schiuma, che non sono abituato, ed ero lontano centocinquanta chilometri da casa con strada collinare, ho pensato che era inutile mettersi a tirar giù uno a uno i richiami semantici esplosi nel cervello degli scrittori, e che era più pratico, intanto, far vedere intelligentemente che sapevi che c’erano, e poi a casa tirarli fuori con calma; magari non tutti, i principali. Mi era sembrata la cosa più pratica, da dire.

Invece era più pratico se stavo zitto. Adesso non voglio farla più tragica di quel che è, ma se c’era lì mio nonno Neride (cosa impossibile essendo morto quando avevo quattordici anni) diventava rosso in faccia dalla vergogna.

Perché i famosi scrittori che hanno inventato questo bellissimo nome per la rivista sono stati più che altro ispirati, come han cercato caritatevolmente di spiegarmi, dalla musicalità. La tubatura, a ripensarci, lasciando stare gli altri concetti che son secondari, è una parola con una musicalità da far venire la pelle d’oca, con un ritmo musicale, con delle bellissime note musicali

ripetute, che non ce le aveva neanche 1ostakovic; e poi con un gran bel labiale, che un labiale così non ce l’ha nessuna parola sul vocabolario, a parte Lolita, che non è sul vocabolario perché è un nome proprio e che comunque c’ha dietro tutto un suo ragionamento. Insomma a riflettere attentamente sulla straordinaria musicalità e sul labiale della tubatura ti si apre un orizzonte immaginifico da non credere, e mi sono sentito come in un grande prato verde pieno di scrittori contemporanei che si scambiavano ritmi musicalità e labiali e io gli correvo incontro, a quegli scrittori, a braccia aperte per ringraziarli e abbracciarli commosso. E lì per lì – lì per lì è un’espressione che non uso mai, ma io ho una creatività un po’ tutta mia che, con buona pace di mio nonno Neride, bisogna che ogni tanto si sfoghi – e lì per lì, dicevo, ho capito una cosa importantissima, che se la capivo prima evitavo di fare delle brutte figure.

E cioè: dire a dei famosi scrittori che dentro una parola, o nel nome di una rivista, ci sono molti richiami semantici è come dire a un famoso elettricista che negli impianti elettrici c’è molta elettricità. O come dire a un famoso cuoco cinese che dentro la cucina cinese ci sono molti aromi orientali. Cioè, lasciando stare gli elettricisti e i cuochi cinesi che erano solo delle similitudini, per i famosi scrittori – ma anche forse per i normali scrittori – i richiami semantici sono tipo delle cuciture fini e invisibili e impercettibili come quelle delle camicie eleganti.

Ma se tu vedi una camicia elegante che ti piace, non dici che belle cuciture invisibili impercettibili che ha questa camicia elegante.

Le cuciture sono cose che ci sono e basta, e se tu lo sai che ci sono è inutile che lo dici. Così, per i famosi scrittori il richiamo semantico è una cosa talmente naturale e istintiva e anche evanescente che loro, gli scrittori, non ci pensano neanche che c’è o se lo dimenticano, e se tu glielo dici è capace che s’irritano e magari, per tornare al caso che ci riguarda, non ti fanno più la rivista. Così sono fatti i famosi scrittori.

E durante il viaggio di ritorno in macchina con Fangio che guidava fortissimo l’escort giù per il percorso collinare verso la stazione di Modena dove avevo, o almeno credevo di avere, il treno, pensavo che dovevo essere stato proprio un asino a rovinare una cosa così bella e musicale e ritmica come la tubatura, sparando fuori l’idea dei richiami semantici che sono una specie di essenza intestinale della formidabile musicalità di quel nome.

E se di una cosa bella tu tiri fuori solo l’essenza intestinale, corri il rischio di rovinarla per sempre.

Ma poi, considerato che, dopo che Fangio mi ha lasciato giù in stazione ed è ripartito e io ho scoperto tragicamente che poco alla volta venivano soppressi tutti i treni, per via dello sciopero del personale ferroviario, e considerato che in quello stesso momento mi sono anche accorto che il telefonino era scarico e che tutte le cabine di Modena, come mi ha spiegato il tunisino clandestino Jamal, vanno solo con la scheda telefonica, che io non avevo e lui neanche, e che alle due di notte non c’è nessuno che ti vende delle schede telefoniche e che l’indomani mattina alle nove dovevo essere alla Malpensa a prendere mio fratello che veniva da Londra e io la Malpensa a momenti non so neanche dov’è. Considerato che si è messo anche a piovere e la sala d’aspetto era chiusa e che l’unica cosa che potevo fare era stare sotto una pensilina in piedi perché le panche erano già occupate tutte da extracomunitari clandestini coricati, fra cui appunto il tunisino Jamal. Considerate tutte queste cose, compreso il fatto che alle tre ho bussato alla porta a vetri di un albergo dove per poco non chiamano i carabinieri, sono arrivato alla conclusione che, in quello stato di sfiga totale e di degradazione inarrestabile in cui inspiegabilmente mi trovavo, se anche facevo tra me e me qualche richiamo semantico, magari non rumoroso, la situazione non sarebbe comunque peggiorata. Tanto più che non c’erano scrittori in giro e in teoria potevo fare tutti i richiami semantici che volevo. E allora, mi sono fatto una specie di confessione.

Se c’è una cosa che mi ha sempre lasciato a bocca aperta dalla meraviglia sono le planimetrie e i disegni tecnici. Io penso che a volte ci sono delle planimetrie e dei disegni tecnici che a guardarli sono più belli di certi quadri famosi di celebri pittori.

Da quel punto di vista sono abbastanza fortunato perché ho un amico che è un famoso geometra e sul suo tavolo c’è sempre una montagna di planimetrie da guardare. Io non ho vergogna a dire che lo invidio molto perché sa fare dei disegni tecnici così belli e precisi e raffinati che io non sarei buono neanche se andassi a scuola di disegno tecnico per cinquant’anni a fila. E così, quando guardo una bella planimetria, specialmente quelle delle case, mi vengono due tipi di sentimenti che qualcuno potrebbe dire che sono in contrasto, ma invece non lo sono per niente: uno è quello di mettermi lì a estasiarmi davanti al foglio per delle mezze giornate e seguire col sorriso sulle labbra tutte quelle belle righe e quei bei spazi vergini con dei piccoli simboli tecnici che sembrano dei fiori in un giardino, l’altro è di prendere dei pastelli e farci in mezzo qualche disegno postmoderno a mano libera o riempire gli spazi bianchi con un bel colore o cose di quel genere.

Le planimetrie che mi piacciono di più sono le sezioni con gli schemi idraulici perché entrano in una specie di intimità maliziosa con la casa: in pratica è come vedere la casa segata verticalmente con un taglio preciso, dal tetto alla cantina, lungo il tracciato dei tubi d’ingresso e di scarico. Quelli d’ingresso c’hanno segnata una freccia verso l’alto, in quelli di scarico la freccia punta verso il basso: le frecce sono disegnate allo sbocco del tubo, cioè dove il tubo, andando verso l’alto, entra nella casa e a un certo punto finisce con un tappo. Se la sezione è di un condominio, ci sono tanti sbocchi di tubo quanti sono gli appartamenti. Ecco, io quando vedo questi disegni tecnici di sezioni idrauliche sulla scrivania del mio amico geometra, quando vado a trovarlo, ho l’irresistibile tentazione di prendere una matita, una di quelle bellissime matite a mina che tutti i geometri lasciano distrattamente in giro nei loro studi, e completare la bocca dei tubi disegnando, appena sopra la freccia, dei piccoli wc con su degli omini seduti. Il risultato è che al mio amico famoso geometra, dopo che sono uscito, gli tocca perdere poi dei quarti d’ora a tirare delle madonne a cancellare tutti i vaterini e gli omini che ho disegnato sulle sue meravigliose mappe. È più forte di me. Tra l’altro devo dire che ormai c’ho preso su una mano che sia i vaterini sia gli omini caganti mi vengono proprio bene: anche se sono stilizzati hanno una loro dignità composta e serafica, come dovrebbe avere normalmente una persona in quei momenti.

Questa mia mania di disegnare vaterini e omini serafici caganti sulle mappe del mio amico famoso geometra rappresenta solo la prima parte della confessione.

La seconda, quella più importante, è che quando questi amici scrittori mi hanno detto che il nome della rivista era La tubatura mi si è magicamente disegnata nella testa la sezione planimetrica di un condominio con schemi idraulici; già completo di vaterini e omini in cima ai tubi. Non solo, ma ho anche visto idealmente per un attimo tutto l’impianto in funzione con gli omini serafici che si danno da fare con movimenti impercettibili dell’addome e gli scarichi che scorrono nei tubi che si uniscono e si incrociano con dei gomiti, delle T, delle V, delle Y, e convogliano, come si dice in lingua idraulica, nella rete fognaria e via discorrendo.

È così che mi è scappato fuori il richiamo semantico.

E, modestamente, tra i possibili richiami semantici collegati alla tubatura – pensavo più tardi sotto la pensilina della stazione di Modena mentre aspettavo inutilmente dei treni soppressi – quello che ho trovato io mi sembra proprio azzeccato.

Perché, a pensarci, la rivista che mi si è idealmente raffigurata in testa è proprio una tubatura che convoglia i prodotti letterari di ciascuno di questi scrittori famosi o di scrittori minori o di scrittori esordienti o di scrittori sedicenti.

E ripensando alla cena dove più o meno tutti avevamo mangiato il coniglio in umido, tranne Girolamo che era a dieta e Gèc che ha preso il castrato, nella mia testa un po’ annebbiata dalla depressione del momento contingente ho rivisto tutti noi intorno a questa tavola seduti su tanti bei wc.

E la tavola è diventata la sezione idraulica di un piccolo condominio dove ciascuno di noi produceva letteratura seduto sul suo legittimo vaterino e il prodotto convogliava in una tubatura comune che era appunto la rivista.

Non escludo che in questa visione abbia giocato un elemento onirico – se mi si passa ancora una volta l’espressione – dovuto al fatto che sotto quella pensilina ci sono rimasto a deprimermi fino alle cinque cioè fino a quando ha aperto il bar della stazione, e allora siamo entrati io, quattro neri compreso Jamal il tunisino e tre prostitute altissime con la voce strana, io a comprare una tessera telefonica, le prostitute a bere il cappuccino e tutti quanti a scaldarci.

Ma a parte l’elemento onirico (su cui non mi soffermo, per la nota teoria macroeconomica di mio nonno Neride), credo che la mia idea del richiamo semantico-planimetrico-idraulico, idea che sto onestamente confessando da un paio di pagine e ormai ho quasi finito, sia un’idea azzeccata anche dal punto di vista dell’anonimato che è una caratteristica esclusiva della rivista La tubatura.

Perché il prodotto letterario di ciascuno di quegli omini serafici seduti sui vaterini va a finire appunto nella tubatura, seguendoun suo iniziale percorso intimo per entrare in una zona idraulica collettiva e paritaria dove nessuno può più rivendicare il prodotto come suo.

Chiaro che un esperto, posizionandosi nella parte finale della tubatura, quella che convoglia gli scarichi nella rete fognaria che semanticamente rappresenta il mercato editoriale, potrebbe riconoscere frammenti di prodotto letterario attribuibili all’uno o all’altro omino serafico. È un po’ difficile, ma infatti stiamo parlando di un esperto.

Ad esempio, Girolamo dopo le tagliatelle agli ovoli ha mangiato solo un’insalata mista e ha bevuto poco, per via della dieta, e allora i suoi frammenti narrativi di quella sera è facile che si disperdano un po’ nel filone letterario corrente; mentre Fangio ha mangiato, oltre al coniglio, i tortellini al pasticcio, le cipolline borettane in agrodolce e ha coricato due bottiglie. Gèc ha bevuto la vodka come aperitivo, prima delle tagliatelle, ma poi mi pare che ha mandato giù della gran acqua. Sono tutti dati importantissimi per l’eventuale esperto che, per amore di ricerca scientifica, volesse cimentarsi nel selezionare, dentro il prodotto letterario della rivista, il contributo soggettivo di ogni singolo omino serafico.

Alla fine della mia confessione, vorrei metterci ancora tante idee, perché ormai vado a ruota libera e, a dirla tutta, mi scappano ancora tante di quelle variabili semantiche che non basterebbero altre cento pagine: ad esempio, l’ipotesi che la tubatura un bel giorno si ingorghi perché qualcuno ha buttato nel wc letterario del materiale anomalo e improprio, o che qualche omino infingardo resti seduto facendo solo finta di produrre e via discorrendo. Ma il discorso diventerebbe troppo lungo e devo dire che, a un certo punto di quella interminabile notte, mi è anche passata la depressione; che, come gli scrittori sanno, è un momento di grande rigoglio creativo.

Infatti, alle nove di mattina, grazie alla scheda telefonica comprata al bar, ho chiamato mio fratello sul cellulare. Come ho già detto, mio fratello mi aveva chiesto il grosso favore di andarlo a prendere alla Malpensa alle nove di mattina, e io, con la mia solita straripante generosa disponibilità, gli avevo risposto che non solo non c’erano assolutamente problemi ma che lo facevo con piacere qualunque fosse l’orario, anche alle sei di mattina. Lui mi aveva detto di non esagerare, che l’ora di arrivo comunque era le nove, ma io ho insistito e alla fine sono riuscito a convincerlo che era meglio che io arrivassi lì almeno alle otto; così lui, dopo che si è convinto, mi ha ringraziato perché gli toglievo davvero un pensiero. E io ero contento di far qualcosa di utile per mio fratello che è sempre in giro per il mondo a lavorare come un matto. Quando, dal telefono pubblico, alle nove di mattina, gli ho detto che ero in stazione a Modena da sette ore, e che il primo treno era alle due di pomeriggio, mi ha dato dell’asino.

Poi ha noleggiato una macchina alla hertz e mi è venuto a prendere a Modena; così alla mezza ero a casa a fare la doccia.

Mi ha detto, a livello di consiglio fraterno, che la prossima volta che mi chiede un favore di rispondergli semplicemente di no, che si evitano tanti problemi.

L’ultima riflessione l’ho fatta proprio mentre venivo scarrozzato sulla bellissima e profumatissima macchina noleggiata da mio fratello all’aeroporto della Malpensa: in fin dei conti, ho pensato, la teoria di mio nonno Neride con tutto il rispetto è molto opinabile. E mi sa che io sto già diventando come lui, che parlo sempre poco (a parte stavolta) e non c’ho mai una lira in tasca.

Ma se lui – mio nonno Neride – mi avesse visto quella notte di pioggia sotto la pensilina davanti alla stazione (chiusa) di Modena, in piedi, con tre prostitute e quattro clandestini, compreso Jamal il tunisino, ad aspettare per sei ore dei treni che venivano soppressi uno dopo l’altro, con il cellulare scarico e senza scheda telefonica, con ancora sullo stomaco un coniglio in umido mangiato molte ore prima insieme a famosi scrittori e a scrittori minori e a scrittori sedicenti; se, contemporaneamente, avesse visto mio fratello che, sbarbato e dopobarbato e in giacca e cravatta di ritorno da Londra, entrava alla hertz dell’aeroporto della Malpensa facendosi consegnare da una specie di miss mondo sorridente in divisa blu della hertz le chiavi di una bmw per venire a prendere me, fino alla stazione di Modena; se avesse visto tutto questo, compresa la faccia del custode

dell’albergo che, dalla paura che facevo, voleva chiamare i carabinieri, adesso probabilmente sarebbe abbastanza orgoglioso di suo nipote più vecchio (cioè io), anche se – pensando alla rivista denominata La tubatura e ricordando quel coniglio in umido – ogni tanto mi scappano ancora di quei richiami semantici così potenti che poi c’è da aprire delle finestre per delle mezz’ore.

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