LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » annalisa stancanelli http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 DIBATTITO SUL ROMANZO STORICO (seconda parte) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/02/25/dibattito-sul-romanzo-storico-2/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/02/25/dibattito-sul-romanzo-storico-2/#comments Fri, 25 Feb 2011 15:16:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3051 dibattito-sul-romanzo-storicoImmagine 30 StoriaQuesto post nasce come “costola” del Dibattito sul romanzo storico avviato tempo fa  con il coinvolgimento di vari autori.

Qui avremo modo di discutere dei nuovi libri di Valter BinaghiRita Charbonnier, Alfredo Colitto, Patrizia Debicke van der Noot, Alessandro Defilippi, Andrea Frediani, Marco Salvador, Annalisa Stancanelli.

Avremo anche la possibilità di interagire con gli autori per conoscere meglio i rispettivi romanzi, ma non solo…

Alle domande proposte nel post originario (a cui rimando chi volesse cimentarsi con nuove risposte), aggiungo le seguenti (rivolte sia agli autori, sia ai lettori).

1. Scrivere romanzi storici, può trasformarsi in una sorta di “gabbia” per lo scrittore (a seguito di possibili etichettature e/o per via delle aspettative dei lettori)?

2. Inserire all’interno di un romanzo storico personaggi realmente esistiti, comporta rischi? Se sì, quali?

3. Esistono pregiudizi sul romanzo storico?

4. A proposito di generi letterari… Esiste un mainstream contrapposto al genere? O tutta la narrativa è di genere? O ancora: mainstream e genere sono sullo stesso piano, e il punto è unicamente l’originalità e la sincerita delle storie (anche nel rispetto della Storia) e la qualità della scrittura?
(domande poste dallo scrittore Alessandro Defilippi nel corso della discussione e inserite in aggiornamento del post)

Nel corso della discussione potranno emergere nuove domande.
Di seguito, le recensioni ai libri… e altro ancora.

Massimo Maugeri

LA SORELLA DI MOZART (Piemme) di Rita Charbonnier

recensione di Salvo Zappulla

Mi è capitato di imbattermi un paio di anni addietro in un libro di Rita Charbonnier: “La strana giornata di Alexandre Dumas”. Mi sono reso subito conto, già dalla lettura dei primi capitoli, che si trattava di un incontro fortunato, così come lo sono tutti gli incontri che in qualche maniera arricchiscono la nostra esistenza. Uno scrittore in particolare, se illuminato dalla grazia, può veicolare valori, trasmettere conoscenze, strappare all’oblio situazioni e persone condannate ingiustamente dalla storia, sempre ingrata nei confronti dei più deboli. Quel romanzo conteneva qualcosa di felicemente impalpabile destinato a lasciare il segno nella mia mente e nella mia immaginazione. Come una dolce melodia che fluttua nell’aria e cerchi di afferrarla con mano. Un intrigo di emozioni, di situazioni coinvolgenti, di meditate pause, accelerazioni, cambi di scena. Un corteggiamento raffinato al lettore, un concedersi per subito ritrarsi, prolungando l’attesa, il desiderio di sapere come va a finire. Maria Stella, la protagonista del romanzo, brillava di luce vivida, eroina e portavoce di tutte le ingiustizie subite dalle donne nel corso dei secoli. E non è poco, in questo periodo di bunga bunga, di scorciatoie facili per arrivare alla notorietà, di tette che valgono più di un cervello, che una scrittrice riesca a trasmettere con efficacia un messaggio di tali contenuti. Una scrittura così matura, così curata in tutte le sue sfaccettature non è mai figlia della casualità. Occorre studio, profondità di pensiero, spessore intellettuale e uno smisurato talento. Mi piace immaginare la signora Charbonnier con gli occhiali da miope, i capelli arruffati, ingobbita, avvolta in una nuvola di fumo, chiusa nella sua stanza, a dannarsi per un aggettivo che non la soddisfa, un vocabolo che non rende, una soluzione che tarda ad arrivare; sacramentare per una virgola impigliatasi fuori posto, afferrare il gatto (di peluche) per la coda e scaraventarlo dal balcone per una telefonata che arriva nel momento meno propizio. Ciò che fa la differenza tra uno scrittore professionista e uno che scrive per semplice diletto.
A distanza di un paio d’anni ho letto “La sorella di Mozart” ristampato da Piemme in edizione best-seller. E qui il mio compito si fa particolarmente ingrato. Mi chiedo cosa posso aggiungere di nuovo, io, improvvisato critico di periferia, ad un romanzo che ha fatto il giro di mezza Europa, ha varcato l’Oceano e di cui si sono già occupati eminenti letterati. Penso che classificare questo libro nel genere dei romanzi storici mi sembra estremamente riduttivo, c’è molto di più: la magia della musica, l’amore fraterno, le complicità, le aspirazioni adolescenziali, il sogno; il sogno che s’infrange contro una barriera di gretto materialismo. Cosa c’è di più crudele che togliere a una creatura la possibilità di seguire le proprie aspirazioni? Privarla della sua linfa vitale. Condannarla a un’esistenza piatta. La Charbonnier scava nei sentimenti delle persone, indaga, intreccia passioni, vulnerabilità, prepotenze e malcostumi. E come sempre i dialoghi sono ammalianti come canti di sirene. Anna Maria Mozart si eleva con la forza di un titano, una figura estremamente poetica, quasi commovente. Un talento, forse pari al fratello, costretto a rimanere soffocato dal padre maschilista. Anche qui, come nell’altro romanzo, una grande donna destinata a subire ingiustizie. Anche qui la grande determinazione della scrittrice a tirarla fuori dalle tenebre. Una sfida quella di Rita, come a volersi fare beffe delle soverchierie; come a voler dimostrare che la letteratura è in grado di regalare l’immortalità, rivoluzionare menti e preconcetti. E ci ha messo molto della sua fantasia in quanto di Nannerl Mozart ci sono pochissime documentazioni che rivelino il suo carattere. Penso che se questo romanzo è diventato un best- seller, lo è diventato legittimamente, per la sua forza dirompente, per la sua capacità espressiva. Niente trucchi e niente inganni. Niente trovate pruriginose ed espedienti commerciali che fanno cassetta. Semplicemente un romanzo, un grande romanzo.

IL LIBRO DELL’ANGELO (Piemme) di Alfredo Colitto

recensione di Paolo “carrfinder” Umbriano (da Corpi Freddi)

Mondino non era tranquillo. Era davvero un peccato che Gerardo da Castelbretone non potesse andare con lui a Venezia. […] Quando era andato a cercarlo, appena presa la decisione di partire, Gerardo lo aveva accolto vestito come un damerino, e aveva rifiutato di accompagnarlo con un pretesto che suonava falso lontano un miglio.
Mondino si era offeso e il giovane allora gli aveva detto la verità: era impegnato in una missione di cui non poteva parlargli. Aveva persino menzionato delle spie francesi che lo tenevano sotto sorveglianza
.”
Bologna, 1313. Mondino de’ Liuzzi, che sta ultimando gli ultimi preparativi per il matrimonio con Mina de’ Gandoni, decide improvvisamente di partire per Venezia per rispondere ad una richiesta di aiuto proveniente da una persona a cui è molto legato: l’alchimista araba Adia Bintaba.
L’ebreo Eleazar da Worms è accusato di aver ucciso in modo crudele tre bambini cristiani, i cui corpi sono stati trovati vicino a San Marco.
Mondino, accompagnato dal figlio dell’accusato, Davide, arriva a Venezia per indagare sul triplice omicidio non sapendo che si troverà coinvolto nella ricerca del mitico Sefer-ha-Razim, il Libro dei Misteri, dettato dall’arcangelo Raziel a Noè e da questi trascritto su una tavoletta di zaffiro.
Eleazar infatti lascia un messaggio scritto col sangue sul muro della cella: una frase di difficile interpretazione per Mondino e Adia, ma che è una preciso indizio per ritrovare il libro dell’angelo.
Nel frattempo Gerardo da Castelbretone, che ha rifiutato di accompagnare Mondino a Venezia, è impegnato in una delicata missione con Pietro da Bologna, l’avvocato dei templari, che, inseguito dalle spie del re di Francia, deve a tutti i costi proteggere un documento di importanza vitale.
La conclusione delle vicende (tra cui l’arresto di Mondino) in cui sono coinvolti tutti i personaggi avverrà mentre si celebra la grande cerimonia dello Sposalizio del Mare.
“Più si andava avanti in quella faccenda, più il mistero si infittiva. E i rischi aumentavano.”
Un thriller? No, a mio parere questo libro offre molto di più al lettore.
Non è il semplice romanzo ricco di colpi di scena: la trama viene usata per rendere avvincente la lettura ma, al tempo stesso, l’autore si serve del romanzo per descrivere la Venezia del 1313 e la sua organizzazione politica.
Avventura, segreti, azione: con questi ingredienti Alfredo Colitto narra gli avvenimenti dei suoi personaggi, in una cornice storica che accompagna, senza mai prevalere, tutta la narrazione.
Il lettore si appassiona ai misteri che caratterizzano la storia e la scorrevolezza dello stile di scrittura non fa mai venir meno il desiderio di arrivare alla soluzione degli enigmi.
Poi c’è la raffigurazione dei diversi personaggi su cui spiccano le due figure femminili, Ania e Mina: due donne differenti per nascita e rango, ma entrambe di forte carattere e dotate di spiccata personalità, determinate a difendere i loro cari e a non arrendersi di fronte alle difficoltà che devono affrontare.
Chi legge non può fare a meno di parteggiare per Mondino e per la squadra che si forma, quasi per caso, nelle “nuova” città dove si svolge l’azione: una Venezia con i numerosi canali, la fitta nebbia, le lente imbarcazioni, ma anche una città descritta attraverso il modo di vivere della popolazione povera, dei nobili e delle persone di potere che hanno il controllo su tutto quello che accade nella città lagunare.
Un libro che si può leggere anche senza aver conosciuto i precedenti due romanzi dedicati al medico anatomista di Bologna; con questo romanzo infatti si chiude la trilogia dedicata da Alfredo Colitto a Mondino de’ Liuzzi i cui capitoli precedenti sono stati “Cuore di ferro” (2009) e “I discepoli del fuoco” (2010): il prossimo libro si svolgerà intorno al Seicento nel continente americano.
Se pensate che in Italia non ci siano scrittori in grado di scrivere con abilità e personalità di avventura e di storia, questo romanzo smentirà le vostre errate convinzioni.

DANUBIO ROSSO. L’ALBA DEI BARBARI (Mondadori) di Alessandro Defilippi

recensione di Carlo Grande – da Tuttolibri de “La Stampa” del 19.2.2011

danubio-rossoNon è famosa come Stalingrado o Waterloo, ma la battaglia di Adrianopoli, combattuta nel 378 d. C. in Tracia (l’attuale Turchia europea), fu un trauma per l’Impero romano e vide la storia girare maestosamente sui propri cardini: quell’interminabile pomeriggio d’estate nei Balcani segnò per alcuni la fine dell’Antichità e l’inizio del Medioevo, perché mise in moto una serie di eventi che avrebbero portato,un secolo dopo, alla caduta dell’Impero romano d’Occidente. Intorno a questo spartiacque, anzi, nei due anni che lo precedettero, è ambientato il romanzo di Alessandro Defilippi “Danubio rosso. L’alba dei barbari” (Mondadori, pp. 374,e 19,50), che con stile marcatamente epico e personaggi scolpiti a tutto tondo racconta l’arrivo dei Goti sulle rive del Danubio: spinti dagli Unni, «i figli delle streghe e degli spiriti del male», ormai dilagati dalle steppe dell’Asia centrale. È il 376 d.C.: i Goti premono sui confini dell’Impero Romano, vogliono attraversare il fiume, cercano nuove terre per sfamarsi. L’imperatore Valente manda a trattare, ma il destino del vecchio mondo è segnato. Lo psicoanalista torinese, già autore di “Manca sempre una piccola cosa” (Einaudi) e collaboratore del regista Faenza nella sceneggiatura di “Prendimi l’anima”, si affida a un intreccio ricco di snodi (molti) e personaggi ora autentici ora fittizi: è esistito l’imperatore Valente, certo, è fittizio il magister Batraz, della guardia imperiale, che accompagna un fidato consigliere dell’Imperatore alle trattative. «Salgari ci insegna – scrive Defilippi – che talora la veridicità è più limpida e affascinante della realtà storica». Attraverso agguati, duelli, complotti e tradimenti il romanzo procede verso il «giorno del sangue», la catastrofe di Adrianopoli. I Goti, preziosi alleati un tempo accolti come profughi per rivitalizzare l’economia dell’Impero, si ribellano alla corruzione dei funzionari governativi e scatenano una guerra disastrosa, che porterà alla morte dell’imperatore e alla fine all’egemonia romana sull’Europa occidentale. Una vicenda che suona familiare: la storia, si sa, è grande maestra ma ha allievi scadenti.

DICTATOR – IL TRIONFO DI CESARE (Newton Compton) di Andrea Frediani

recensione di Giuseppe Di Stefano – (da Il Corriere della Sera del 27.7.2011)

Il Potere è in molti casi figlio della corruzione e della spregiudicatezza. Segue vie strette e impervie, lastricate di compromessi e inganni che vengono poi confusi con l’ intelligenza politica. Roma antica insegna. Cesare, che amava il suo popolo, non esitò a sfruttarlo; trasse dalla sua parte gli oppositori offrendo in cambio denaro. Corruppe, blandì, minacciò. E raggiunse i suoi obiettivi. Ma fu anche un condottiero amato dal suo esercito, temuto dai nemici, capace di grandi atti di generosità. Alla figura di Giulio Cesare Andrea Frediani dedica ora una trilogia che si apre con «Dictator. L’ ombra di Cesare» (Newton Compton). Proconsole in Gallia, Cesare può contare sulla fedeltà assoluta di un amico d’ infanzia, Tito Labieno. L’ uno ha salvato la vita dell’ altro, nell’ 88 a.C., mentre Silla invadeva militarmente Roma. Insieme si ritrovano a fronteggiare, molti anni dopo, i popoli che rifiutano di sottomettersi o di venire a patti con Roma. Nel «De bello gallico» Cesare cita abbondantemente l’ amico generale, ma Labieno resta sempre figura di secondo piano, nonostante i successi militari di cui si rende protagonista combattendo contro popolazioni agguerrite come i Tigurini, i Treveri e i Belgi. Cesare gli darà nel 50 a.C. il governo della Gallia Cisalpina, ma questo non basterà a distoglierlo dalla fedeltà alla Repubblica e lo spingerà, alleato di Pompeo, contro lo stesso Cesare. «Dictator» è la storia di un’ amicizia che resterà tale nonostante tutto. Nonostante il tradimento di Labieno, che Cesare mostrerà fino alla fine di saper perdonare. Il libro ripercorre tutta la campagna militare in Gallia, e Frediani è abile nell’immergere il lettore dentro le battaglie, nell’ accendere emozioni, nel ricostruire fin nei minimi particolari paesaggi e ambienti, nel portare i lettori in prima linea, fra scintillii di spade e atroci spargimenti di sangue. La mattanza dei cadurci dopo la caduta di Uxelludunum è tra le pagine più terribili, con i prigionieri cui vengono mozzate la mani, l’ urlo delle madri, lo strazio dei bambini. Ma quel che più preme all’ autore è il recupero della figura di Labieno, personaggio di primo piano, non abbastanza valorizzato dalla Storia. Il generale è al fianco di Cesare come principale comandante subalterno. Insieme elaborano strategie e compiono gesta straordinarie, agiscono in piena sintonia e sono, di fatto, invincibili. Ma a Roma intanto cresce la fazione che si oppone a Cesare e, temendo il suo crescente potere, vuole metterlo sotto processo. Gli anticesariani riusciranno a portare dalla loro parte persino Labieno, desideroso di vedere riconosciuto il proprio valore militare messo in ombra dalla forte personalità di Cesare. «Dictator» è un romanzo storico e come tale si regge anche sul racconto parallelo di un amore, quello di Quinto, figlio di Labieno, per Veleda, una principessa della Gallia finita prigioniera dei romani.

L’EREDE DEGLI DEI (Piemme) di Marco Salvador

recensione di Renzo Montagnoli

LIl sole non si vedeva da giorni. Da una tenebra all’altra era un ininterrotto crepuscolo, più o meno cupo a seconda del gravare delle nubi. Poi il vento del nord era sceso dai monti. Sibilando appena, al principio aveva filato con le sue gelide dita il fumo dei focolari avvoltolandolo ai rami nudi degli alberi.”

“L’Erede degli Dei” è la genesi di un cavaliere, Corrado da Romano, pronipote di Ezzelino, dagli inizi ancora fanciullo alla sua investitura, alle battaglie, alle sue disgrazie, fino al raggiungimento, dopo tante tribolazioni, di una vera pace interiore.
Premetto subito che è un romanzo bellissimo, scritto in modo magistrale, in quel modo che solo lui sa, da Marco Salvador che non ho esitato a definire il Walter Scott italiano.
Ricerca minuziosa delle fonti, capacità di scegliere, fra tante notizie, quella più attendibile, elaborazione di questi elementi fino a sviluppare una trama, capacità di affondare la lama quando serve e di addolcire ove è necessario, personaggi caratterizzati nella loro essenza, senza inutili appesantimenti, descrizione di battaglie talmente viva che sembra di prendervi parte, una nota malinconica di fondo sul destino degli uomini, sempre presente, anche se non esplicita, tutte caratteristiche queste ben radicate nel narratore di San Lorenzo di Pordenone e che connotano infatti tutti i suoi romanzi, dal ciclo longobardo a quello dei Da Romano, di cui il primo, immediatamente antecedente a questo, vale a dire “La palude degli eroi”, è di una tale bellezza e perfezione da poterlo definire, senza timore, un autentico capolavoro.
E “L’Erede degli Dei” non gli è da meno, una serie di quadri ininterrotti, di luce soffusa, ma vivi e che colpiscono il lettore per i toni, per gli equilibri, per un alternarsi di pochi adagi e di molti andanti, una sinfonia della vita in cui si disegnano figure memorabili, dipinte con la stessa cura, dagli umili ai potenti, dai pavidi agli audaci, una moltitudine di esseri umani, con i loro pregi e i loro difetti, tesi a sopravvivere o a vivere nella gloria.
Comunque bisogna leggere questo romanzo e i precedenti per capire cosa voglia dire saper scrivere bene, in un italiano corretto e con un ricorso puntuale a un’analisi logica ferrea, in un fiume di parole che sanno essere tumultuose, oppure quiete, tanti piccoli ceselli a formare un mosaico che stupisce e affascina.
Il tutto in un tessuto di originalità, certamente non frequente, e che fa rivivere un’epoca passata come in una pellicola cinematografica, un succedersi di vicende interpretate da uomini e donne, di varia umanità, che sembrano muoversi autonomamente, non guidate dal regista. Eppure non c’è una nota storta, non c’è un attacco o uno stacco al di fuori del tempo giusto, in un equilibrio armonico che regge, stabile, perfetto, senza la minima sbavatura, dall’inizio alla fine.
E non è solo la trama ad avvincere, ma anche le riflessioni dell’autore poste in bocca a questo o a quel personaggio, perché in fondo gli uomini, chi più chi meno, è giusto che debbano farsi un’idea sui perché della loro esistenza.
Le pagine scorrono veloci, la mente di chi legge s’invola, si sarebbe tentati di proseguire a oltranza, fino all’ultima pagina, ma non è giusto, occorre procedere adagio, per non lasciarsi sfuggire nulla, per il timore di non poter godere di ogni parola di questo splendido romanzo, un altro capolavoro di Marco Salvador.

ARCHIMEDE E IL MISTERO DEL PLANETARIO (Melino Nerella edizioni) di Annalisa Stancanelli

recensione di Gaetano Guzzardo – (da Il Giornale di Siracusa)

Un romanzo, o meglio ancora un giallo – storico, una fitta rete di misteri che nel terzo secolo a. c. coinvolgono un siracusano doc, osannato dal mondo scientifico ma dimenticato dalla sua città e dai suoi concittadini. Un viaggio in quella che fu la culla della civiltà e della cultura tra la grande Siracusa e la straordinaria Alessandria, depositaria della conoscenza del mondo sino ad allora conosciuto, con protagonista lui, il matematico e inventore Archimede, che seppur impegnato nella difesa di Siracusa con le sue “strane” macchine, non trascura l’impegno di custode e difensore del segreto della Camera di Thot, questo sconosciuto “scrigno” sigillato e nascosto all’interno della Sfinge in Egitto.
Un segreto che qualcuno vuole “violare” e che Archimede e la sua ristretta cerchia di amici e collaboratori sono chiamati a preservare e salvaguardare. A riportaci indietro nel tempo, facendoci rivivere un periodo storico di grande splendore per la cultura e la scienza, mostrando una sorprendente conoscenza non solo del periodo in questione il 214 a.c. ma anche la vita, la storia, le scoperte e, potremmo dire, “le abitudini” di un Archimede “fuori dal comune”, è la scrittrice e giornalista siracusana, Annalisa Stancanelli, 38 anni, docente di materie letterarie al Liceo Quintiliano di Siracusa, con il suo  “Archimede e il mistero del Planetario” (Melino Nerella edizioni, pag. 154 € 12,00).
Una fitta rete di misteri ed un viaggio tra Siracusa, Roma e Alessandria, nella quale la penna di Annalisa Stancanelli, con scorrevolezza ed eccezionale semplicità di linguaggio, ma nel contempo con una rara e sorprendente padronanza storica, arricchita dall’introduzione, veramente innovativa, di flash giornalistici, agenzie, articoli su immaginari quotidiani (… che lasciano emergere lo spirito di cronista dell’autrice), conduce il lettore senza mai stancarlo, anzi, quasi siglando con esso un patto di collaborazione, per non privarlo dell’elemento “fantasioso” e “costruttivo” che possiede questo “giallo siracusano”, come lo definisce nella prefazione al libro il professore Mario Geymonat, il filologo e docente di letteratura latina all’Università Ca’ Foscari di Venezia, che conosce ed ha scritto su Archimede (“Il grande Archimede” – Sandro Teti Editore).
Geymonat, scrive, tra l’altro, presentando il lavoro della Stancanelli. “ … Annalisa Stancanelli conosce i numerosi testi di e su Archimede che ci sono stati tramandati ma mostra pure una controllata e fascinosa fantasia quando sviluppa con vera originalità l’azione del suo breve romanzo fra Alessandria d’Egitto, Siracusa e Roma (manca solo Cartagine!): le capitali militari, politiche e culturali del III secolo a.C.. Il suo racconto è corredato, peraltro, da una serie di flash forward, quali aperture, brecce nel racconto che si concretizzano in articoli veri e immaginari di giornali locali e internazionali stando a sottolineare l’interesse verso questo incredibile personaggio nel nostro e nei tempi futuri”.
Un interesse che affascina il lettore che in “Archimede e il mistero del Planetario” è chiamato dunque dalla Stancanelli a “vivere” il viaggio e la storia, ma nello stesso tempo a “trepidare” per la coltre di mistero che la circonda e a “completare”, con la fantasia, ciò che l’autrice volutamente non approfondisce e non ci svela.
Naturalmente, come ogni giallo che si rispetti, non tutto è scontato e non tutto viene alla luce… tra Siracusa, Roma ed Alessandria d’Egitto, millenni di storia nascondono ancora misteri che vale la pena “scoprire e conoscere”.
Poco prima di Natale “Archimede e il mistero del Planetario” è stato presentato a Siracusa dal professor Sebastiano Amato, Direttore dell’Istituto Superiore di Studi Umanistici di Siracusa, e dalla scrittrice-magistrato Simona Lo Iacono, Premio Vittorini Opera Prima 2009, nella grande Sala docenti dell’Istituto Tecnico “Alessandro Rizza”.
Una scelta che non arriva a caso, visto che proprio il Rizza pensò alla fine dell’Ottocento ad un’Accademia per lo studio della Storia Patria dedicata ad Archimede. Un libro dei giorni nostri, da non perdere, che nasconde dietro, come ama raccontare la sua autrice, “… mesi di ricerche e parentesi narrative alla base di un romanzo pensato anche per i giovani che devono conoscere la storia di un siracusano che tutto il mondo ci invidia, anche se è una storia fra leggenda e mito”.

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AGGIORNAMENTO DEL 26 febbraio 2011
Aggiorno il post, inserendo la recensione del bel romanzo di Valter Binaghi, “I segreti del talismano” (ed. Sottovoce), firmata da di Paolo Pegoraro.
Anche Valter parteciperà alla discussione.
Massimo Maugeri

I CUSTODI DEL TALISMANO (Ed. Sottovoce) di Valter Binaghi

recensione di Paolo Pegoraro (da Bombacarta)

Pare interminabile il piagnisteo circa l’incapacità del romanzo italiano di raccontare grandi storie, lasciandosi alle spalle la stagione dei referti sociologici, della risata funerea che tutto caricaturizza, dei giochi combinatori e delle dietrologie cosmiche. Curiosamente però, quando un romanzo osa per davvero il colpo d’ala, l’appoggio di un grande editore non lo si trova neppure a cercarlo con il lanternino. Neppure quando – come in questo caso – a sostenerlo ci sono firme come Tullio Avoledo, Giuseppe Genna, Alessandro Zaccuri o Giulio Mozzi. E così I custodi del Talismano di Valter Binaghi (ed. Sottovoce, pp. 237, € 13,50), dopo aver pellegrinato di redazione in redazione, esce come primo titolo di una nuova casa editrice, il marchio Sottovoce.
E dire che Binaghi non è certo scrittore di primo pelo: di romanzi ne ha già pubblicati otto, portandosi a casa anche belle soddisfazioni di lettori e di critica. Definire “stimolante” il suo percorso sarebbe riduttivo. Redattore della rivista di controcultura Re Nudo negli anni Settanta, aveva accantonato la scrittura per insegnare storia e filosofia nei licei. Per trent’anni. Senza però mai trascurare la passione per il blues: e ancora oggi – 53 anni, moglie e due figli – continua a imperversare con la sua band nella provincia di Milano. Nel frattempo ha ripreso in mano la penna. Anima un blog ipertrofico, zeppo di stimoli  valterbinaghi.wordpress.com). E tra le altre cose ha scritto, insieme al figlio Francesco, la prima biografia italiana del mitico Johnny Cash, riletta attraverso i testi delle sue canzoni (Johnny Cash. The man in black – Testi commentati, Arcana, pp. 267, € 18,50).
I custodi del Talismano è un romanzo difficile da costringere in una definizione. Possiede tutta la ponderata precisione di un romanzo storico e al tempo stesso un respiro molto più ampio. Nulla è lasciato al caso, ogni particolare ricostruito sullo studio delle fonti, eppure si osano nominare anche le parole tabù dell’antistoria: «destino», «necessità» e «disegno divino». Qualcosa d’indefinibile pare tracimare oltre l’orizzonte degli eventi.

Diviso in tre parti – la Gallia conquistata dai Romani, la Provenza invasa dagli Alemanni e l’Europa soggiogata dalla peste – affronta tre epoche e tre storie, le storie di tre custodi. Un druido alla ricerca di un segno divino in mondo senza più dèi; un condottiero romano che insegue il sogno dell’Impero mentre dilaga la corruzione cortigiana; un tormentato medico dei corpi alla ricerca della pace dell’anima. Due ferventi pagani e un cristiano rinnegato. Ognuno di loro ha ricevuto in sorte un oggetto enigmatico, un misterioso calice di metallo sigillato da un coperchio, un Talismano che dovrà essere aperto solo nel momento dell’estremo pericolo, quando le forze del male scateneranno l’ultimo assalto contro l’umanità. Se immaginate che il calice sia il Santo Graal, rifate meglio i vostri calcoli: quando lo vediamo comparire per la prima volta nelle mani del druido, infatti, siamo nell’anno 196 a.C. E se pensate che il romanzo sia il solito rompicapo esoterico, tutto leggende e cacce al tesoro, diciamo pure che del Talismano non scopriremo proprio un bel nulla. Appare improvvisamente, come l’emersione di un bianco cetaceo, e altrettanto improvvisamente scompare. Sapere cosa sia, forse non è neppure importante. A questo punto, tanto vale infliggervi pure l’ultima delusione: nessuno dei tre custodi aprirà il calice. Effetti speciali? Zero. Niente apocalittiche manifestazioni della collera divina stile Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta. È pure legittimo chiedersi se quel rozzo manufatto contiene effettivamente qualcosa…

Ma allora perché non limitarsi a confezionare un meglio commerciabile romanzo storico? Binaghi scrive con formidabile senso drammatico, prosa asciutta, ritmo lanciato al galoppo, introspezione sanguinante, e le avventure dei tre protagonisti si leggono tutte d’un fiato: che bisogno c’era di tirare in ballo un oggetto inspiegato e inspiegabile come il Talismano? Perché non raccontare semplicemente la storia di suoi tre personaggi?
Forse perché – come viene detto in un brano del romanzo – i talismani sono più efficaci «finché restano chiusi e indecifrati, perché preservano un resto di verità futura a chi dispera nel presente». Disperare nel presente: ecco cosa accomuna le vicende dei tre custodi. Vivono tutti in un’epoca di decadenza e ognuna appare più grave di quella dell’epoca precedente. Assistiamo impotenti alla fine dell’èra degli dèi, al tramonto dell’epoca degli eroi, al tempo degli uomini messi alla prova. Quasi che fosse in atto un depotenziamento inarrestabile, un rimpicciolimento spirituale che lambisce persino le figure più emblematiche di ogni eone: il sacerdote, il soldato e il medico. Tutti i custodi dovranno confrontarsi con una minaccia imminente e decidere se la fine del loro mondo rappresenta la fine del mondo intero, se salvare se stessi è più importante che non opporre una speranza ignota contro il buio che monta all’orizzonte. Tutti saranno costretti a domandarsi se esiste – e che cos’è – ciò che a ogni costo va salvato, preservato e trasmesso all’epoca successiva. Ecco chi sono i custodi: coloro che si sono misurati con la fine dei propri sogni – siano essi l’ordine cosmico, l’ordine mondiale o l’ordine familiare – e tuttavia persistono nell’avere a cuore la sorte dell’uomo, per quanto abissalmente corrotto, per quanto essi stessi toccati dalla corruzione.

E il Talismano? Sappiamo solo che continuerà ad essere passato di mano in mano, da una generazione a quella successiva. È il mistero che viene custodito e trasmesso. Anzi, forse è l’atto stesso del trasmettere: è la bussola dell’essenza umana, la sollecita preoccupazione di coloro che ci hanno accolti nel mondo e che noi stessi siamo chiamati ad avere per quanti verranno dopo di noi. È ciò che abbiamo ricevuto e che siamo tenuti a salvaguardare per tramandarlo. Forse è quel tesoro, ermeticamente sigillato eppure inesauribile, che da sempre chiamiamo “tradizione”.

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Aggiornamento del 9 marzo 2011
Aggiorno il post per evidenziare la partecipazione dal dibattito di un’altra autrice di romanzo storici: la scrittrice Patrizia Debicke van der Noot, che ha appena pubblicato per Corbaccio il romanzo “L’uomo dagli occhi glauchi
Massimo Maugeri

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L’UOMO DAGLI OCCHI GLAUCHI di Patrizia Debicke van der Noot
Corbaccio – pagg. 304 – € 18.60

L’uomo dagli occhi glauchi o Ritratto di giovane inglese è una splendida tela di Tiziano, dipinta intorno alla metà del Cinquecento. Ritrae un giovane biondo, bello, sicuro di sé, senz’altro aristocratico. Ma chi sia veramente, nessuno lo sa. Patrizia Debicke, abituale frequentatrice del nostro Rinascimento, ha costruito una storia appassionante attorno a questa figura misteriosa, che sembra identificare nel giovane Lord Templeton, figlioccio del potente duca di Norfolk. Inviato in Italia per conto di quest’ultimo, Templeton rimane folgorato dal pittore veneziano al punto di chiedere di fargli un ritratto. Ma il ritratto è anche un pretesto per coprire il vero scopo del suo viaggio, che è quello di proteggere un’eminente personalità inglese, protagonista di spicco del Concilio di Trento, la cui vita è messa in pericolo da una macchinazione ordita alla corte dell’anziano Enrico VIII nel momento di massima tensione fra cattolici e protestanti.
Fra duelli e veleni, in una Venezia insidiosa e mascherata e in una Roma corrotta e devastata dalla piena del Tevere, il giovane inglese cercherà di portare a termine la sua missione, senza tuttavia rinunciare ai piaceri dell’amore e dell’amicizia…

Patrizia Debicke van der Noot è nata a Firenze. Praticamente bilingue, ha terminato i suoi studi in Francia. Ha sempre viaggiato molto e vive tra l’Italia e il Lussemburgo col secondo marito Rodolfo Debicke van der Noot. Ha una figlia, Alessandra Ruspoli, nata dal primo matrimonio. Prima di approdare alla scrittura ha avuto esperienze lavorative in ambiti diversi. Appassionata di storia, ha al suo attivo romanzi storici e thriller: “Una foto dal passato”, “Ritratti di matrimonio”, “Il dipinto incompiuto”, “La tigre di Giada”, “Una seconda vita”, “Il gioco dei Menù”.

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LETTERATURA E FUMETTI, LETTERATURA A FUMETTI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/10/19/letteratura-e-fumetti-letteratura-a-fumetti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/10/19/letteratura-e-fumetti-letteratura-a-fumetti/#comments Mon, 19 Oct 2009 14:34:27 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1228 inferno_topolinoTempo fa avevamo già avuto modo di trattare il tema Letteratura e fumetti nell’ambito di questo post. Adesso mi piacerebbe approfondire ulteriormente l’argomento e creare, contestualmente, una sorta di  spazio permanente sulla suddetta tematica. L’occasione ce la forniscono una interessante pubblicazione di Annalisa StancanelliVittorini e i balloons (Bonanno) - e una rivista che ha a cuore sia i fumetti che la letteratura: Mono.
In fondo al post avrete modo di leggere un saggio firmato dalla Stancanelli (sul rapporto tra Elio Vittorini e i fumetti) e un articolo di Angelo Orlando Meloni su Mono (che privilegia il numero della rivista dedicato alla letteratura).
Uno spazio sempre aperto, dicevo, sul tema (e sul rapporto) letteratura/fumetti dove – periodicamente – inviterò alcuni ospiti a partecipare alla discussione. Annalisa Stancanelli e Angelo Orlando Meloni mi aiuteranno a moderare e animare questo post e a rendere lo “spazio permanente” sempre vivo.
Vi invito, dunque, a discutere sia su “Vittorini e i fumetti” e sulla rivista “Mono”, sia – più in generale – sull’argomento Letteratura e fumetti, letteratura a fumetti.
E ora… alcune domande, formulate nella speranza di favorire la discussione (vi invito a rispondere… se ne avete voglia, s’intende).

- L’arte del fumetto è inferiore, uguale o superiore a quella della letteratura?

- “I fumetti sono più per i ragazzi, la letteratura è più per gli adulti”. Questa frase è un luogo comune o nasconde un fondo di verità?

- Che rapporto avete con le “grapich novel” (romanzi a fumetti)?

- Cos’è che un romanzo a fumetti non potrà mai eguagliare in un classico romanzo? E, viceversa, cos’è che un romanzo tradizionale non potrà mai eguagliare in un romanzo a fumetti?

- Qual è il personaggio dei fumetti che preferite?

- In generale, lo “spessore” dei più grandi personaggi dei fumetti può essere paragonato a quello dei più grandi personaggi dei romanzi tradizionali?

Di seguito: il saggio di Annalisa Stancanelli e l’articolo di Angelo Orlando Meloni.

Massimo Maugeri

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Vittorini l’anticipatore; aprì per primo ai fumetti le porte della “letteratura alta”

di Annalisa Stancanelli

Vittorini, diceva Oreste Del Buono, “era l’uomo che forse ha fatto di più per strappare la cultura italiana all’accademia e alla retorica”.
Era un coraggioso sperimentatore e un intellettuale avido di novità, curioso di tutto e di tutti.
I fumetti per lo scrittore erano a tutti gli effetti una forma di narrazione, la riscrittura di un mondo poetico; quelli che venivano considerati comics di qualità per l’intellettuale siciliano costituivano una forma di scrittura con la S maiuscola pertanto dovevano essere conosciuti e diffusi.
Per il suo interesse nei confronti dei fumetti, già noto negli anni Sessanta, Eco lo intervistò insieme a Oreste Del Buono, compagno d’avventura nel “Politecnico”, e poi per molti anni direttore della rivista “Linus”, nel primo numero di questa nuova pubblicazione che sdoganò i fumetti e li inserì nel circuito della letteratura cosiddetta alta ( “Linus”, numero 1, aprile 1965).
Come ha scritto Umberto Eco, su “Linus” n. 12, marzo 1966:
“Vittorini leggeva i fumetti, si divertiva con freschezza, ne ragionava con rigore critico, cercava di capirli, di farli capire, di giudicarli, nel bene come nel male, senza false compiacenze, senza snobismi. Non li “accettava”, li affrontava perché esistevano, e dunque dovevano significare qualcosa, e lui non poteva sottrarsi, doveva gettarsi anche in questa mischia, per chiarire, per capire, per far capire.
(Per Vittorini ) Non (…) pareva che esistesse distinzione di dignità tra una storia tutta scritta e una storia tutta disegnata: gli premeva solo che un libro desse qualcosa, stimolasse la fantasia, documentasse una situazione, un modo di pensare; sapeva che si può riflettere sull’uomo sia in endecasillabi che in strisce”.
Vittorini era un assiduo frequentatore della libreria Milanolibri ed un giorno per caso, scoprì Charlie Brown e i Peanuts; lo raccontò lui stesso nel corso della Tavola Rotonda del 1965 che battezzò appunto “Linus”, la rivista di Gandini.
“Charlie Brown è venuto per un accidenti. Io mi facevo mandare dall’America, da amici che ho lì, i supplementi domenicali dove ci sono i fumetti, però questo non l’avevo notato perché quelle persone non mi mandavano mai la pagina giusta. Finalmente una volta ho visto in mano a una ragazza della Mondadori, nel ‘58-59, un album ancora di quelli formato “forze di liberazione”. Incuriosito, me lo sono fatto dare e ricordo che passai il resto del pomeriggio mondadoriano a guardarmeli. Da allora li ho cercati sempre…”.
Insieme ai Peanuts, come Vittorini ricordò nel corso di un’intervista del 1964, i suoi fumetti preferiti erano i preistorici “B.C.” di Hart, “Krazy Kat” di Herriman e Bernard Mergendeiler di Jules Feiffer.

Il fumetto interessava Vittorini da sempre, il Corriere dei Piccoli era letto in famiglia e lo dimostra un ricordo di Jole Vittorini contenuto nel suo bel libro “Mio fratello Elio” (Ombre editrici, volume I ) che meriterebbe una ripubblicazione; in quel libretto Jole bambina descrive un ferroviere come un personaggio dei fumetti del Corrierino, “Capitan Cocoricò”.
L’interesse di Vittorini verso la letteratura disegnata, il mondo dei comics e dei cartoons esploderà però solo dopo la Guerra nell’autunno del 1945 sulle pagine del “ Politecnico”.
Raffaella Rodondi nella seconda parte dell’immane lavoro di raccolta dei Saggi e interventi di Vittorini dal 1938 al 1965 (Letteratura-arte-società, Einaudi, vol. II) nell’introduzione segnala che per quanto riguarda Il Politecnico:
“Ingente e disseminato è l’apporto di Vittorini che abbraccia indifferentemente pezzi anonimi e articoli firmati, editoriali, didascalie, schede informative, note di presentazione – postille – a sezioni e singoli contributi”.
Inoltre, Vittorini nella fase finale del “Politecnico” settimanale era già rimasto con pochissimi collaboratori e nel mensile, dal numero 29 in poi, raccoglieva con fatica contributi e materiali come documentano molte lettere; così scrisse in una lettera a Rosario Villari il primo ottobre 1946 : “io ormai sono solo a lavorarci”.
Alla fine dell’avventura Politecnico rimase solo con una segretaria e Giuseppe Trevisani fungeva da grafico.
La citazione della nota della Rodondi è d’obbligo perché molti degli interventi redazionali, delle schede e delle note introduttive sui comics non sono firmati ma sono attribuibili a Vittorini.
Nel numero 4 del “Politecnico” si trova una vignetta con Supertopolino, nella quarta pagina, con una didascalia veramente illuminante e interessante che rivela l’impronta vittoriniana:
“gli uomini hanno inventato il superuomo. E Walt Disney ha inventato dopo Topolino, il Super-topolino. E Super-topolino è nemico di Topolino come il superuomo è nemico dell’uomo. Quello nella favola del cartone animato, come questo nella vita”.
Sempre a Vittorini, poi, si ascrive il commento all’immagine della Mula Checca contenuto nella pagina 4 del Politecnico numero 28, l’ultimo del formato settimanale della rivista: “Un’immagine ci sorge spontanea nella memoria tutte le volte che pensiamo alla “democrazia cristiana” . Ci viene da quando leggevamo nella nostra infanzia Il Corriere dei piccoli. Ed è l’immagine della Checca, la terribile mula che tanti “scherzi da prete” faceva al rattoppato e umile lavoratore Fortunello. Perché lei? Solo perché vigorosa nei calci al sedere dei denutriti e nella testardaggine? Perché simbolica d’oscurantismo? O non perché aveva dietro a dirigerla il pasciuto gran proprietario padron Ciccio?”

Infine nel Politecnico mensile, del luglio-agosto del 1946 , in lingua originale e con i balloons, ecco spuntar fuori ben sette strisce delle avventure di Popeye, il burbero marinaio di Seagar, con una nota introduttiva che rivela la penna del Direttore del Politecnico in ogni sua sfumatura: Popeye viene scelto perché personaggio poetico che…“libero da intenzioni e riferimenti, arriva forse unico ad essere personaggio… che ha vissuto di realtà propria giungendo ad avere una sua moralità… per questo possiamo pensare Popeye a fianco di personaggi del racconto di tutti i tempi : è come un personaggio di Dickens: non come un personaggio di De Amicis”.

Vittorini proprio nel formato mensile darà “sfogo” a tutta la sua creatività e voglia di innovazione comunicativa. Ricordiamo che nel numero 35 del “Politecnico” Vittorini dà vita una vera e propria enciclopedia dell’arte e della letteratura, coniugando tutti i suoi interessi con nuove modalità espressive; nel mensile si ritrovano inediti disegni di Kafka, illustrazioni di Grosz per l’Inferno di Dante, disegni con balloons del pittore Topolskij, un saggio di Oreste Del Buono sul romanzo nero con un tentativo – il primo – di graphic novel sul romanzo “The Italians” di Ann Radcliffe, e delle strisce dello stesso Del Buono che compie una parodia dei temi ricorrenti dei racconti di Horace Walpole .

Vittorini aveva detto di essersi interessato di fumetti fin da ragazzo e, come è noto, di letteratura illustrata.
Ma quali le caratteristiche di un buon fumetto per Vittorini?
Lo spiega lui stesso nel 1965 rispondendo a una domanda di Eco, (Linus 1, 1965)
“Il fumetto (…) Va giudicato a partire da un certo punto: cioè da un punto in cui ci accorgiamo che è esplosa, per cosi dire, una globalità; un punto in cui è avvenuto una specie di ‘scatto di totalità’. Ma vorrei cercare di spiegarmi meglio. L’unità espressiva, l’abbiamo detto, è la strip, la sequenza. Prima della strip non abbiamo che la vignetta, una vecchissima conoscenza giornalistica, costituita da una figura e una battuta che si completano a vicenda e che esauriscono in un corpo solo quello che hanno da dire. Con la strip abbiamo non solo una moltiplicazione della figura e della battuta, una serie di quattro cinque figure e di altrettante battute, ma abbiamo anche un elemento del tutto nuovo, l’elemento della successione temporale, il quale si manifesta in due ordini sovrapposti, uno analogico per le figure e uno logico per le parole, benché poi le parole abbiano la prevalenza e investano della loro logicità letteraria tutto l’insieme riducendo le figure a non avere che dei compiti stereotipi, di descrizione, di caratterizzazione, ecc. ecc. come dei semplici segni pittografici. È questo terzo elemento che fa della strip un’unità espressiva, perché rende puramente paradigmatico il valore di ogni vignetta a sé, e assume in proprio (all’interno del proprio decorso) l’elaborazione del significato. Ma la strip non esprime che un frammento di mondo, un aspetto di personaggio, un momento di rapporto e anche se in se stessa può riuscire pregevole lo riuscirà solo a livello di massima, di illuminazione, di appunto, di episodio, di aneddoto. La qualità ch’essa rivela non va oltre i limiti della sua durata, è minima, è precaria, può essere banalissima o comunque non più che divertente, e occorre che i personaggi, i rapporti, gli oggetti in essa trattati ritornino in altre strips un certo numero di volte, sei volte, sette volte, nove volte, anche quindici, sedici volte, accumulando momento su momento e aspetto su aspetto, perché noi si possa entrare nel merito qualitativo del fumetto. A furia di quantità è avvenuto quello che ho chiamato “scatto di totalità”, cioè si è formato un significato secondo, che subito si riflette su ogni singola strip, anteriore o successiva, e la carica di importanza, la fa essere parte di un sistema, dandoci il senso di avere a che fare con tutto un mondo. Quando è Charlie Brown o B.C.; quando è un buon fumetto, si capisce…”.
Costruzione di un mondo a sé, temi e motivi ripetuti e libertà da condizionamenti, questi i caratteri fondamentali di un BUON FUMETTO, così come evidente dalle scelte effettuate per la pubblicazione di comics sul Politecnico che comprese Braccio di Ferro e Barnaby e lasciò fuori i comics di avventura e d’azione che furono facilmente strumentalizzati dagli USA durante la seconda guerra mondiale. Topolino e la banda Disney, addirittura, fu protagonista di un’intera pagina; nel numero 20 di “Politecnico” è inserito addirittura un lunghissimo racconto dello stesso Walt Disney sulla “costruzione dei cartoni animati”; segno dell’interesse forte verso questa nuova forma culturale. Accanto al testo inviato dall’America, che fa riferimento a un famoso cartone animato disney, Clock cleaners, Vittorini inserisce delle didascalie che fanno respirare ancora il dolore della guerra e delle ostilità fra gli uomini e che associano la penna vittoriniana alle favole di Fedro ed Esopo.
L’interesse di Vittorini verso Topolino, tuttavia, tende a diminuire quando nel dopoguerra anche le vicende del celebre topo si conformano alle ideologie socio-politiche dominanti; lo confesserà lo scrittore siracusano in un’intervista del 1964, in cui rileverà il cambiamento subito da Topolino, “prima eroe liberatore tipico della leggenda USA, ed ora un conformista, un aiuto poliziotto”.
E’ a un bambino, Barnaby (numeri 37,38,39 del “Politecnico”), che idealmente Vittorini affida la conclusione della vicenda Politecnico, pubblicando numerose strip della sua strampalata amicizia con un mago protettore pasticcione, con le ali rosa e il sigaro in bocca, in cura da uno psicanalista, Mister O’ Malley.

Ed il mondo dei bambini con i Peanuts è protagonista, come anticipato, delle sue ultime letture poiché Vittorini era affascinato dal mondo di Charlie Brown e Snoopy.
Tuttavia la letteratura disegnata e i fumetti lo seguirono anche durante il suo incarico come consulente Mondadori; fece pubblicare “L’antichissimo mondo di B.C.” di Hart e “I polli non hanno sedie” di Copi nella Collana Nuovi Scrittori Stranieri .
Com’è evidente Vittorini con la sperimentazione di comics e del racconto per immagini sul “Politecnico” anticipò nettamente l’interesse verso i fumetti della “cultura alta” e, ancora, mostrò il suo coraggio di libero sperimentatore di cultura, in tutte le sue forme, guadagnandosi le critiche del Partito Comunista e di Togliatti che, in seguito, alla fine del 1951 e l’inizio del 1952 con Nilde Jotti e Rodari fu protagonista sulle colonne di “Rinascita” della “questione dei fumetti”: ma questo è tema per un altro articolo o, forse, per un altro libro.

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La rivista “Mono”, Tunué editori.

di Angelo Orlando Meloni

cop_mono6“Mono” è la rivista antologica semestrale monotematica fatta di monotavole e monoracconti pubblicata da Tunué, una casa editrice che si è dedicata alla pubblicazione di graphic novel e saggi sul fumetto, nonché su fenomeni di costume e cultura contemporanea, dal cosplaying (è il caso di dirlo: costume in senso… letterale) all’invasione dei nuovi telefilm.

Ideata da Marco Rizzo e Sergio Algozzino, “Mono” è poi passata sotto la guida di Sergio Badino e Daniele Bonomo.
Chi scrive si occupa di coordinare la sezione dedicata alla letteratura, ma i collaboratori di “Mono” sono innumerevoli, se pensiamo alle copertine di Vittorio Giardino, Milo Manara, Fabio Celoni, Ivo Milazzo, Davide Toffolo, Roberto Baldazzini, e alle tavole interne realizzate sia da Big del fumetto sia da esordienti assoluti, come i vincitori del nostro contest.

A ogni numero “Mono” cambia rimanendo fedele a se stessa.
Questi sono i temi (e i sottotitoli) che si sono avvicendati: Americana, Musica, Acqua, Cibo, Passione, I classici della letteratura.

“Stiamo preparando il numero 7 di Mono”, dice Daniele Bonomo. “Uscirà in occasione del salone del fumetto di Lucca. Il tema guida è `crisi´. Ci sono periodi in cui alcuni termini vengono usati più di altri e se ci fosse un premio per la parola più usata e/o abusata, quest’anno `crisi´ l’avrebbe vinto a mani basse. Con Mono 7 vorremmo affrontare le varie sfaccettature di questa parola, che per ognuno di noi rappresenta qualcosa di diverso. Crisi di coppia, crisi di valori, crisi culturale, crisi economica, crisi cardiaca, crisi politica, crisi adolescenziale, crisi di mezza età, crisi d’identità, crisi di panico, donne in crisi, uomini in crisi, crisi ideologica…
Quando abbiamo scelto questo tema avevamo ben chiara in mente una cosa. Vedevamo gli oltre quaranta autori che avrebbero condiviso con noi l’avventura di questo numero seduti davanti al foglio bianco con lo sguardo nel nulla a cercare l’ispirazione: un’altra faccia della parola `crisi´”.

“Con il numero in preparazione”, aggiunge il condirettore Sergio Badino, “Mono entra del tutto nella nuova fase rappresentata dalla recente linea editoriale voluta e intrapresa dalla nostra direzione. Affronteremo d’ora in avanti temi socialmente sentiti, “impegnati”, che provino a sviscerare il vissuto quotidiano. Questo perché riteniamo il fumetto uno dei grandi mezzi di comunicazione dei nostri tempi, non un fratello minore – magari un po’ tardo – di cinema e letteratura, come troppo spesso è considerato in Italia. Soprattutto vogliamo provare a dare il nostro contributo nel far sì che il fumetto esca dalla nicchia in cui vive nel nostro Paese e che sia visto, come già accade in altre nazioni, al pari di altre forme espressive. Crediamo che il modo per riuscirvi sia appunto quello di affrontare problematiche con cui già si misurano molti romanzi e film di successo.
Va detto che il progetto editoriale di Mono è stato, fin dal primo numero, anche un progetto di vita: Tunué, di comune accordo con i curatori della rivista e in segno di gratitudine verso tutti gli autori coinvolti, ha adottato un bambino attraverso l’associazione Intervita Onlus. Concluso il percorso con il peruviano Walter Jesus, è iniziato un nuovo triennio con un ragazzo del Mali, Mahamadou Moussa Sylla. L’impegno con lui proseguirà nel tempo, al di là di Mono: dal numero 6 è presente sulla rivista una pagina dedicata a illustrare l’iniziativa e le finalità dell’associazione. Sempre dal sesto numero abbiamo voluto caratterizzare maggiormente alcune rubriche, gemellandoci con riviste leader in Italia nei diversi settori: “35mm” per il mondo del cinema e “Il Mucchio” per quello della musica. Per le recensioni fumettistiche dal prossimo numero ci affiancheremo a una delle principali riviste italiane nel campo”.

Nella sezione dedicata alla letteratura ci siamo proposti di andare a comporre pian piano una rassegna del meglio della letteratura italiana contemporanea (ma in futuro, perché no, anche straniera). Una rassegna di quanto di più frizzante, vivo, esuberante, si possa trovare in libreria, con un occhio rivolto anche a debuttanti di gran classe e belle speranze.
Abbiamo già “ospitato” – e fatto illustrare – racconti di Paola Barbato, Violetta Bellocchio, Emanuele Bevilacqua, Fabio Genovesi, Ivano Bariani, Gianluca Colloca, Nino G. D’Attis, Eva Clesis, Angelo Orlando (l’attore-regista-sceneggiatore), Giuseppe Carlotti e tanti altri ancora, un elenco che sarebbe davvero troppo lungo.
In un momento in cui le riviste letterarie soffrono sempre più e sono spesso costrette a emigrare su internet, Mono, con modestia ma con costanza e passione, vuole contribuire a creare nuovi spazi creativi, nuove occasioni per sperimentare l’eccitante strumento narrativo del racconto breve (brevissimo), fulminante e illuminante.
E offrire ai lettori un oggetto da collezione, bello a vedersi e saporito per il palato.
Letteratura e nuvole disegnate di nuovo uniti, quindi, nonostante le vecchie, stantie diatribe che vedevano la letteratura come via prediletta per la contemplazione delle più alte idealità e i comics relegati all’inferno, a titillare il ventre e le sue oscene pulsioni.

Colgo perciò l’occasione per invitare gli amici di Letteratitudine a una riflessione sul binomio letteratura-fumetto, che è stato al centro di un numero di “Mono” dedicato ai classici della letteratura.

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AGGIORNAMENTO DEL 22 APRILE 2010
Aggiorno questo post inserendo il gradito intervento di Gianfranco Manfredi. Lo reputo particolarmente interessante, dato che Manfredi ha grande competenza sia dal punto di vista letterario (è uno scrittore prolifico che ha pubblicato con diversi editori: da Feltrinelli a Gargoyle), sia dal punto di vista fumettistico (è il creatore della serie Bonelli, “Magico Vento”).
Massimo Maugeri

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I FUMETTI NON SI LEGGONO PIÙ DAL BARBIERE
di Gianfranco Manfredi

gianfranco-manfrediCi sono personaggi dei fumetti capaci di entrare nell’immaginario collettivo come i grandi personaggi della Letteratura?
Dico, ma scherziamo? È sotto gli occhi di tutti che la letteratura contemporanea è avarissima di grandi personaggi in grado di ripopolare l’immaginario collettivo. Questi grandi personaggi risalgono quasi tutti all’epoca in cui il romanzo era al suo massimo rigoglio e nel quale la differenza tra letteratura colta e letteratura popolare si assottigliava.
Oggi la produzione di questi personaggi emblema è quasi per intero frutto della produzione fumettistica.
La letteratura contemporanea, più che in sé, ha imposto Personaggi Emblema attraverso il passaggio cinematografico (da Maigret a James Bond).
Il fumetto li ha imposti da solo.
Prendiamo uno dei più celebri personaggi letterari del mondo: Dracula. Se si fa un’inchiesta volante per la strada, qualsiasi persona interpellata saprebbe dire chi è. Già qui, però, il letterario comincia a fondersi con il cinematografico. Da questo punto di vista Dracula è un antecedente di James Bond. Di altri grandi personaggi letterari non si può dire altrettanto: Madame Bovary ha avuto le sue trasposizioni cinematografiche e televisive, ma non deve nulla della sua popolarità a queste trasposizioni. Ora: quale personaggio letterario contemporaneo può vantare altrettanta trasparenza con l’immaginario popolare?
Se si continua il sondaggio stradale chiedendo ai passanti: chi è il Giovane Holden, quanti saprebbero rispondere? Uno su dieci? Uno su cento? Uno su mille?
Prendiamo invece un personaggio dei fumetti: l’Uomo ragno, Diabolik, Tex, Valentina, Topolino, Charlie Brown… chi più ne ha più ne metta, e nella nostra intervista stradale quasi tutti gli interpellati saprebbero di chi si parla.
La “narrativa per immagini” (definizione che preferisco a quella di “letteratura disegnata”) ha come suo specifico compito e risultato quello di creare Personaggi, ospiti elettivi dell’immaginario popolare. Questo risultato è ottenibile in virtù non solo della composizione del fumetto, ma della sua natura di medium. Un fumetto ci accompagna serialmente dall’infanzia alla maturità. E’ parte della nostra formazione costante.

Ma chi è oggi il lettore di fumetti? Lo si può ancora considerare un pre-lettore, un lettore debuttante che comincia ad uscire dall’analfabetismo attraverso il supporto delle immagini alla narrazione? No. Oggi la divisione passa tra lettori (di tutto) e non-lettori. I lettori di fumetti (com’è testimoniato dalle rubriche della posta che molti fumetti ospitano) non sono lettori esclusivamente di fumetti, sono anche lettori di romanzi e di saggistica. Al contrario i lettori di romanzi e di saggistica, spesso leggono solo marginalmente i fumetti; nei loro giudizi sui fumetti sono legati al vissuto personale, non certo a una conoscenza della Storia del Fumetto, né della sua Attualità. Un fumetto troppo ingenuo, rozzo nel linguaggio letterario e nella strutturazione delle storie, come in quello grafico/visivo, oggi non avrebbe alcuna possibilità di successo. Il lettore di fumetti è molto più raffinato di quanto non si pensi. A un lettore di fumetti il Moccismo ripugna. Citatemi un solo fumetto che abbia espresso personaggi alla Moccia! Non ne esistono. Eppure la base di massa del fumetto è ben radicata nell’adolescenziale.
Ma si tratta di adolescenti molto raffinati. Le strutture di racconto di certi Manga trasposti o nati da cartoni animati (Lupin III, Occhi di gatto, Lady Oscar) sono estremamente complesse e ben più ricche delle trame semplificate e ripetitive dei normali telefilm non animati. Si comincia ad alimentarsi di queste strutture fin da piccolissimi. Spesso quando si comincia a leggere romanzi, si resta delusi nel non rintracciare altrettanta complessità e capacità di seduzione nella Letteratura consueta , quella cioè destinata alla popolarità effimera del Bestseller.
Il fumetto di massa è oggi superiore non tanto e non solo per livello estetico, ma per capacità di incidere nella nostra formazione, rispetto alla narrativa di massa che tende a ripetere stereotipi, a parte eccezioni notevoli (come Harry Potter, per dirne una). Banana Yoshimoto ha dichiarato: “non avrei mai potuto scrivere romanzi, se non fossi stata da bambina una fan di lady Oscar”. Il fumetto oggi evoca scrittura. Se non si capisce questo, non si capisce il ruolo “letterario” del fumetto.

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Hernán Henriquez e Gugulandia
Il disegno animato cubano e il fumetto satirico

di Gordiano Lupi

Hernán Henriquez è uno dei maggiori esponenti del disegno animato e del fumetto cubano negli anni successivi alla rivoluzione. Il suo tratto grafico, le battute salaci e irriverenti rivestono un’importanza unica nella storia del fumetto centramericano. Hernán Henriquez è stato uno dei fondatori di questa peculiare forma d’arte, un vero e proprio pioniere, che ha disegnato e pubblicato strisce in patria per vent’anni (1960 – 1980), ottenendo riconoscimenti e successo, ma a un certo punto della sua vita si è visto costretto a espatriare negli Stati Uniti.
Hernán Henriquez cominciò a lavorare ai disegni animati sotto l’influenza artistica dei prodotti statunitensi e nel 1958 si iscrisse a un corso per corrispondenza in California. Apprese le basi del mestiere di cartoonist ma al tempo stesso cominciò a lavorare in un’agenzia di pubblicità. Tutti dicevano che a Cuba non si poteva campare facendo disegni animati e scrivendo fumetti comici, perché era un mestiere che non esisteva, ma Hernan aveva deciso quale sarebbe stato il suo futuro.
Fidel Castro prese il potere nel 1959 e con il passare degli anni trasformò Cuba in un rergime comunista. Tre mesi dopo creò l’Istituto Cubano dell’Arte e Industria Cinematografica (ICAIC), con lo scopo di fondare una vera e propria industria cinematografica cubana. Il cinema divenne un mezzo di comunicazione importante, un veicolo fondamentale per manipolare le masse dal punto di vista intellettuale… (continua su Terzapagina)

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