LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » barbara gozzi http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IL VIAGGIO (CREATIVO) di Catherine Dunne e di altri artisti irlandesi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/04/26/il-viaggio-creativo-di-catherine-dunne/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/04/26/il-viaggio-creativo-di-catherine-dunne/#comments Wed, 25 Apr 2012 22:11:22 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4052 babelit2Sono molto felice di aprire una nuova pagina dedicata a BABELIT”, lo spazio di Letteratitudine destinato all’incontro con autori non italiani e a dibattiti plurilingue. Nella fattispecie avremo modo di cimentarci in una discussione in lingua italiana e in lingua inglese con il coinvolgimento di scrittori e artisti irlandesi: prima fra tutti, la scrittrice Catherine Dunne (in Italia pubblicata da Guanda).
Ciò sarà possibile soprattutto grazie alla preziosa collaborazione di Barbara Gozzi, e Federica Sgaggio (le ho elencate per ordine di nome)… anime della seconda edizione del festival letterario italo-irlandese assieme a Luigi Grimaldi, tra i soci fondatori dell’associazione ònoma, Teresa Arcelloni, Paola Francia, Fabio Bussotti e Massimo Giuliani (citati in ordine sparso: maggiori informazioni su ciascuno dei citati, sono disponibili qui).
E grazie anche alla collaborazione di Valeria Lo Forte per la traduzione di alcuni interventi di seguito proposti e per la partecipazione all’organizzazione del festival con il Circolo dei Lettori di Verona e scuolAleph.
Peraltro ho già avuto modo di incontrare Barbara e Federica nell’ambito della puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” del 13 aprile 2012, dove abbiamo avuto modo di discutere del festival (a tal proposito – per ulteriori informazioni – ci tengo a segnalare questo articolo, dal blog di Niamh Mac Alister, una delle partecipanti irlandesi).

Il tema di questo post è incentrato sul concetto di “viaggio”, inteso soprattutto come “percorso creativo” (ma non solo).
Catherine Dunne, in particolare, ci propone una stimolante riflessione sul “viaggio creativo”… ovvero quel percorso bellissimo e irto, al tempo stesso, che deve intraprendere uno scrittore nel momento in cui si cimenta con la scrittura della propria storia. Catherine prende come esempio il suo nono romanzo (da poco terminato e ancora inedito) intitolato «The things we know now» («Le cose che sappiamo adesso»).
Alla discussione parteciperanno anche: Lia Mills (intervento tradotto da Federica Sgaggio), Niamh MacAlister (traduzione di Barbara Gozzi e Federica Sgaggio), Celia de Frèine (traduzione di Valeria Lo Forte), Anthony Glavin (traduzione di Valeria Lo Forte).
Per leggere i contributi inviatici dai nostri amici irlandesi, incentrati sul tema del viaggio (inteso come “percorso creativo”, ma anche come “viaggio nella memoria”) basta cliccare sui loro nomi (in tal mondo si apriranno le pagine con i relativi interventi).

Ne approfitto per porgervi alcune domande, ispirate dal pezzo di Catherine Dunne, volte a favorire il dibattito:

1. Qual è il problema principale che sorge all’inizio di un “viaggio creativo”?

2. Quali, tra questi elementi, possono contribuire di più ad avviare il processo creativo di una storia? Una visione, un incipit, il ricordo evanescente di un sogno? O cos’altro?

3. Quali altre domande, oltre al «what if?» («cosa accadrebbe se?») potrebbe accompagnare lo scrittore nella prosecuzione del suo viaggio creativo?

4. Quali sono i principali ostacoli che deve affrontare uno scrittore nella prosecuzione del suo itinerario creativo?

Di seguito vi propongo il contributo di Catherine Dunne in lingua originale (rilasciato appositamente per Letteratitudine) e la traduzione dell’ottima Federica Sgaggio (che, insieme a Barbara Gozzi, darà una mano nello svolgimento di un servizio di traduzione simultanea online dall’italiano all’inglese e viceversa).
Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno la possibilità di partecipare alla discussione.

Massimo Maugeri

* * *

The Creative Journey by Catherine Dunne

I read somewhere recently that ‘every creative journey begins with a problem’. It seemed such a statement of the obvious that at first, I was puzzled by its impact. The sentence fairly leapt off the page. Seven such seemingly innocent words: how come they were such a revelation?
Received wisdom has it that each creative journey begins with a moment of inspiration: that single, singular moment when a vision, or an opening sentence, or the gauzy remnants of a dream appear and settle into a silent, internal space. A space which is already prepared, waiting to germinate the seeds of a new story.
But the ‘problem’, and the ‘moment of inspiration’ are, I am beginning to believe, inseparable: two halves of the same whole. The writer’s constant companion, the ‘What if?’ that accompanies each new creative journey, is an expression of that duality.
What is she talking about, I hear you say. Let me explain.
I have recently finished my ninth novel, entitled ‘the things we know now’. This novel began its life – my creative journey – with a picture. A sudden, mental snapshot of a young boy, a fourteen-year-old, cycling towards home, fuelled with a sense of deadly purpose. I didn’t know then what his purpose was: I just knew it was both brutal and inevitable. That moment was, for want of a better term, my ‘inspiration’: everything I wrote subsequently was the result – however loosely-linked, tangential or oblique a result – of that one, singular moment of absolute clarity. The boy on his bike; the tangible sense of purpose.
But then the ‘problem’ arose. Who is he? Why is he cycling home in such a frenzy? (And it was always towards home: that was never in doubt.) What is the purpose that fuels him? I began to frame all of those questions with the novelist’s ‘What if?’ Grappling with one of those ‘what ifs’ can occupy whole months at a stretch – and each one of them did. Eventually, I knew that I needed to settle on just one, central question: What if this boy is about to change – in one moment – his own life and the lives of his parents and his family forever?
Now I had my starting point. I began my journey back in time with this young boy, Daniel, and we learned together about the forces that had driven him to despair.
It has to get easier, someone said to me recently. Surely, after all those books, you know the process by now? Well, yes and no. I know the process, but it is a process that shifts and changes with each new story. And it doesn’t get any easier. It gets harder. As a writer, you want to do more, to do better, to do something different from before. You want to raise the bar, to rise to the challenge, to push the boundaries of language and voice and character in ways that you haven’t dared until now.
And it is also a process which is not entirely within the writer’s control. That is both the exhilaration, the joy, and the sheer terror of embarking on each new journey. With ‘the things we know now’, once I had begun to get to know Daniel, I needed to know his parents. I felt that I already knew his mother: I identified with her concerns, her hopes and dreams, her devotion to her son. Her motherness. She became the next companion on my journey: and we got on well enough. I think we liked each other, we had similar views of the world, we were easy in each other’s company.
That was the problem.
The mother was too familiar, too cosy, too easy for me to read – and to write. There was no spark of conflict between us. We took a significant part of the journey together – but then we parted company. Sadly.
I had to redraw the map.
Then the father exploded onto the scene. There is no other way to describe it. Patrick’s arrival was stormy, tumultuous: he threw all the pieces of my story into the air and laughed as they landed, scattering shards of language everywhere. This is my story, he kept insisting. Don’t even think of writing it without me.
So I didn’t: I couldn’t, by then, think of writing it without him. Patrick became my companion for the new creative journey, and together, we planned a different route, neither of us knowing where we were going, neither of us sure of our destination. We stepped into the unknown together.
And that is how each creative journey is: similar only in its differences. The initial leap off the cliff; the territory of the unknown; the answer, eventually, to the ‘What if?’ that started the whole thing off.
The joy of language. The elation of story. The making of narrative out of chaos. That’s the creative journey.

* * *

Il viaggio creativo di Catherine Dunne
(Traduzione di Federica Sgaggio)

Ho letto da qualche parte, di recente, che «ogni viaggio creativo comincia con un “problema”». Mi è sembrata la formalizzazione di una tale ovvietà che in un primo momento la sua forza mi ha lasciato disorientata. Per poco la frase non ha fatto un balzo giù dalla pagina. Sette parole così apparentemente inoffensive: come potevano essere una tale rivelazione?
Il tradizionale buon senso vuole che qualunque viaggio creativo abbia inizio con un istante di ispirazione: quel momento singolo e unico in cui una visione, o un incipit, o il ricordo evanescente di un sogno si manifesta e si sistema in un silenzioso spazio interiore. Uno spazio già arato, che attende di far germogliare i semi di una nuova storia.
Io, però, comincio a credere che il «problema» e l’«istante di ispirazione» siano inseparabili: le due metà della mela. Il compagno fedele dello scrittore, quel «cosa accadrebbe se?» che accompagna ogni nuovo viaggio creativo, è un’espressione di quella duplicità.
«Cosa intende dire?», vi potreste domandare. Ci arrivo.
Ho da poco concluso il mio nono romanzo, intitolato «The things we know now», «Le cose che sappiamo adesso». Questo romanzo ha cominciato la sua vita – e io il mio viaggio creativo – con un’immagine. Un’istantanea che, all’improvviso, ha materializzato davanti ai miei occhi un quattordicenne che pedalava verso casa, mosso dal propellente di un proposito che aveva a che fare con la morte. Non sapevo, in quel momento, che tipo di proposito fosse: sapevo soltanto che era allo stesso tempo violento e inevitabile. Quel momento è stato, in mancanza di un termine migliore, la mia «ispirazione»: qualunque cosa io abbia scritto dopo è il risultato – non importa quanto indiretto, tangenziale oppure obliquo – di quel momento singolo e unico di assoluta chiarezza. Il ragazzino in bicicletta; la percezione quasi «materiale» del suo proposito.
Ma in quel momento è sorto «il problema». Chi è? Perché pedala verso casa con tutta quella furia? (E non c’era nessun dubbio che era certamente verso casa che lui stava pedalando). Qual è il proposito che gli fa da propellente? Ho cominciato a inquadrare tutte queste domande nel «cosa accadrebbe se?» dello scrittore. Vedersela con uno di quei «cosa accadrebbe se?» può impegnare lunghi mesi di fila; e per ciascuno di quei «what if?» c’è voluto un sacco di tempo. Alla fine, ho capito che avevo solo bisogno di dare un assestamento a una questione centrale: «Cosa accadrebbe se questo ragazzino fosse sul punto di cambiare per sempre – in un istante – la propria vita, la vita dei suoi genitori e quella di tutta la famiglia?».
In quel momento avevo un punto di partenza. Ho cominciato il mio viaggio all’indietro nel tempo insieme a questo ragazzino, Daniel, e insieme abbiamo scoperto quali fossero state le forze che l’avevano condotto alla disperazione.
«Dovrebbe diventare più facile», mi ha detto qualcuno poco tempo fa. «Dopo tutti quei libri di sicuro padroneggi il processo».
Eh. Sì e no. Ho la padronanza del processo – sì – ma è un processo che slitta e si modifica con ciascuna nuova storia. E non diventa affatto più facile: diventa più difficile, invece. Come scrittore, vuoi fare di più, meglio e in modo diverso. Vuoi alzare la posta, essere all’altezza della nuova sfida, spingere un po’ più in là la frontiera della lingua, e della voce, e del personaggio, in un modo che fino ad allora non avevi mai osato affrontare.
E il processo, per giunta, non è interamente sotto il controllo dello scrittore: cosa che è tanto motivo di euforia e gioia quanto di puro terrore.
Con «Le cose che sappiamo ora», una volta entrata in confidenza con Daniel, ho avvertito il bisogno di conoscere i suoi genitori. La madre mi sembrava di conoscerla già: mi identificavo con le sue preoccupazioni, le sue speranze e i suoi sogni; con la sua adorazione per il figlio. Con la sua «madrità».
È diventata per me il secondo compagno di viaggio: e andavamo abbastanza d’accordo. Penso che ognuna di noi due piacesse all’altra; avevamo visioni del mondo simili, e stavamo a nostro agio l’una in compagnia dell’altra.
Questo era il problema.
Per me, la madre era troppo familiare, troppo comoda e facile da leggere. E da scrivere, anche. Fra di noi mancava la scintilla del conflitto. Abbiamo percorso insieme una parte importante del viaggio, ma poi abbiamo spezzato l’alleanza. Con tristezza.
E ho dovuto ri-tracciare la mappa.
A quel punto sulla scena è esploso il padre. Non c’è altro modo di descrivere la situazione. L’arrivo di Patrick è stato turbolento e tumultuoso: ha buttato all’aria tutti i pezzi della mia storia, e si è messo a ridere mentre ricadevano a terra come frammenti di linguaggio dispersi per ogni dove. «Questa è la mia storia», continuava a ripetere. «Non provare nemmeno, a scrivere senza di me».
Non l’ho fatto: da quel momento, non ho più potuto concepire l’idea di scrivere senza di lui. Patrick è diventato il mio compagno per il nuovo viaggio creativo, e insieme abbiamo progettato un itinerario differente. Nessuno dei due aveva idea del luogo verso il quale stavamo andando né era sicuro di quale fosse il punto d’arrivo. Ci siamo messi a camminare insieme nell’ignoto.
Tutti i viaggi creativi funzionano in questo modo: simili solo nelle loro differenze. Il balzo iniziale giù dalla scogliera; il territorio dell’ignoto; la risposta, alla fine, al «cosa accadrebbe se?» che ha dato l’avvio a tutto quanto.
La gioia per la lingua: l’esaltazione per la storia; la costruzione e l’estrazione dal caos di un filo narrativo coerente: il viaggio creativo è questa cosa qua.

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QUANDO LA LETTERATURA PRENDE CORPO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/11/20/quando-la-letteratura-prende-corpo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/11/20/quando-la-letteratura-prende-corpo/#comments Thu, 19 Nov 2009 23:01:04 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1357 corpi-e-letteraturaChe rapporto c’è tra “corpo” e letteratura?

Pensando alla letteratura del passato (italiana e internazionale)… in quali opere il corpo, la “fisicità”, diventano elementi caratterizzanti delle opere medesime?

E nell’ambito della letteratura contemporanea?

Quale romanzo scegliereste come testo rappresentativo del rapporto “corpo/letteratura”? E perché?

Pongo queste domande prendendo spunto da un testo inviatomi dalla scrittrice Barbara Gozzi: i corpi nella letteratura italiana contemporanea. Un testo che sintetizza un progetto (maggiori dettagli qui e qui).
Avremo modo di parlarne con Barbara, che ci spiegherà meglio come è nato il progetto e quali sono gli obiettivi.
Intanto, vi invito – se ne avete voglia – a provare a rispondere alle domande di apertura del post.
Di seguito, il testo di Barbara Gozzi.
Massimo Maugeri

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Progetto “i corpi nella letteratura italiana contemporanea“: ragioni, obbiettivi, contenuti, appartenenze.
di Barbara Gozzi

barbara-gozzi-2009.jpgLeggo, studio, scrivo, analizzo, confronto, ascolto, sostanzialmente seguo e lavoro entro letteratura, editoria e storie ormai da diversi anni entro tempistiche differenti, parallele ma parzialmente sfasate da crescita, opportunità e ritmi.
A inizio 2009 ho avvertito una sorta di ’smarrimento’. Da alcuni anni concentro il lavoro verso libri e scritture recenti, di autori italiani contemporanei. Eppure qualcosa mi sfuggiva.
In seguito ho avuto la netta impressione che ci fossero leitmotiv, ci ho sentito nelle diversità, pulsioni verso elementi comuni ovvero ‘i corpi‘. Mi sembrava, insomma, che i corpi nei libri degli scrittori contemporanei che andavo leggendo e analizzando, iniziassero a prendere forme precise, usi consapevoli, fossero più ‘fondamenta’ di quanto lo erano stati nei decenni precedenti. Dunque i corpi come elementi narrativi che parlano, che si impongono nei tessuti quanto nei simbolismi, nel modo di narrare, esprimere, sentire, nel tentativo di trasferire al lettore una carnalità che buca la bidimensionalità delle parole scritte e si tende ad ‘altro’.

Riprendendo letture e studi della letteratura del secolo scorso (attività tutt’ora in corso), osservando ciò che è stato ‘dei corpi’ nel novecento e incrociandolo con quanto ho fin ora percepito dai corpi scritti dai contemporanei (evidentemente in divenire), ho come ‘inchiodato’ di fronte a uno sbarramento improvviso: l’identità.

Nell’ultimo anno, inoltre, altre persone, entro scambi, discussioni, incontri, hanno rilevato, manifestato e condiviso da angolazioni differenti, somiglianze nei pensieri, nei dubbi verso identità e corpi.

Sono dunque arrivata a un’impressione ovvero che la letteratura italiana contemporanea si sta muovendo. Piano. Lentamente. A scatti forse. Entro ristagni, silenzi, prove anche solitarie. Eppure nelle scritture, entro maglie di voci e storie, io credo sia in corso un certo ‘dissidentismo’.
Dissidentismo rispetto a ciò è diventata la letteratura in Italia, scivolando in appiattimenti, discussioni e tendenze alla moda.
Dissidentismo rispetto all’identità individuale di chi scrive, di chi impasta storie che si tendono a lasciare ‘qualcosa’ oltre le mere emozioni usa e getta, specchio del nostro tempo, di una società in corsa ma incapace di trattenere e scavare.

I corpi sono un nodo, è ciò su cui sto riflettendo.

Anche la mia identità, mia come persona che legge, studia, lavora e scrive entro la letteratura (in senso ampio) è soggetta a tutte queste oscillazioni.
Posso sapere consapevolmente chi sono, ciò che sono senza tentare di capire ciò che sono e dove stanno andando gli altri attorno a me? Gli altri che, come me, affondano le braccia nella letteratura?

Il progetto ‘I corpi nella letteratura italiana contemporanea‘ è l’unica risposta che sono riuscita a darmi.

Sono necessarie, però, delle precisazioni semplici.
Parlare e scrivere di letteratura sono attività frequentemente assorbite come ’individuazione di ciò che ci sopravvive’. Di una dimensione da ’residuo duraturo’. Un qualcosa destinato a essere insegnato, magari tra i banchi, o comunque ricordato entro allocazioni preziose, luccicanti. Entro un tramandare per non dimenticare. Per non lasciar morire.
Ma ciò che tra venti, quaranta, sessanta e più anni sarà considerato ’il peso di una scrittura necessaria, rappresentativa di questa società’; questo peso muterà forme, sostanze, opinioni, analisi per altri venti, quaranta, sessanta e più anni.
Rapportarsi lucidamente, passionalmente e visceralmente con gli autori italiani contemporanei, le scritture, le storie e le voci; tutto questo non sottintende – nelle mie intenzioni – un altro rispetto ai significati delle parole stesse: lettura, studio, ascolto, riflessione, confronto.
I libri, gli autori, le storie che le future generazioni sceglieranno di leggere, ascoltare, considerare non possono emergere oggi nell’oggi.

Questo progetto parte proprio da qui, dalla non-ricerca di ’vincitori’. Gli scritti oggetto di scavi, interrogazioni, riflessioni, connessioni vengono ripresi per essere ascoltati. Per offrirsi a comprensioni, collegamenti.

Questo è l’approccio, questo è il corpo del progetto.
Partire da parole, dalla carne nelle parole.
Allungarsi, ove possibile, alle voci, gli autori, gli intenti.
Digerire sensi, percezioni.
Tenderli verso comprensioni, verso eventuali fili che passando uniscono. La letteratura di oggi nell’oggi. Le identità che attraverso le parole sono forme forse riconoscibili. Gli strumenti che dalla lingua, saltano pagine e supporti bidimensionali, per conficcarsi. Da qualche parte.
E questi sforzi riunirli in uno scritto (una forma aggregativa di contenuti, riflessioni, spunti, analisi, stralci) e diffonderli attraverso contatti. Contatti aperti a tutti entro eventi, iniziative ’concrete’, piccole e grande, lunghe o corte, vicine e lontane, tutto quello che si potrà a partire dal 2010.

Infine, precisazione non ultima per importanza: l’appartenenza.
Non si tratta di chiudersi ma di aprirsi. Non è ricerca del nuovo ‘fenomeno mediatico’ da lanciare con l’intento di colpire e veicolare attenzioni. Non si discute di ‘forme’ ma di sostanze, polpe di lingue, voci, storie, dove c’è – evidentemente – spazio necessario alle forme delle scritture, ma non alle apparenze che attorno ai libri ruotano (e che comunque sempre ci saranno).
Il progetto non sarebbe tale, insomma, senza collaborazioni, confronti, consulenze. Non soltanto di chi ha scritto (o lo sta facendo), interpretato, espresso, questo sentire entro-per-sui-attorno ai corpi nella letteratura italiana recente, ma anche grazie all’aiuto prezioso di chi tali sentire li ascolta e si impegna a divulgarli.

Progetto ambizioso, me ne rendo conto. Ma che non ha scadenze, obblighi men che meno pretese da ‘raggiungimento di mete prefissate’.
Forse si arriverà a constatare che ciò che ho avvertito era errato. Che non c’è nessun collegamento, che non c’è movimento nella letteratura italiana contemporanea.
O forse chissà.
Non sento importante definire un punto di arrivo preciso, entro il corpo del progetto, piuttosto una modalità che permetta di seguire le necessità di comprensioni, divulgazioni, ascolti, recuperi anche dell’operazione più comune ovvero la lettura.

Barbara Gozzi
novembre 2009

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MONTEVERDE di Gianfranco Franchi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/#comments Tue, 26 May 2009 19:33:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/ Di Gianfranco Franchi avevamo già avuto modo di parlarne qui, in merito ai volumi “L’inadempienza” e “Pagano“.
Torniamo a incontrare questo giovane intellettuale romano, nato a Trieste, classe 1978, creatore e gestore del popolare Lankelot, nonché scrittore e consulente editoriale di varie case editrici.
L’occasione ce la fornisce l’uscita del suo nuovo lavoro letterario: Monteverde, edito da Castelvecchi.

Trovo che la nota al libro sia molto intrigante. Ve la riporto di seguito: “Nella schiera degli antieroi che solo la migliore letteratura sa regalarci, ecco il protagonista di Monteverde, trentenne laureato e precario sempre in cerca di lavoro, e di volta in volta arbitro, giornalista-magazziniere, inseritore notturno, tirocinante, addetto allo sportello. Un nostalgico che seppellisce il suo vecchio palmare sotto la pianta di rosmarino, tifoso accanito della Magica, spirito rock, collezionista di mug. Un esule, un italiano, un letterato che rivendica orgogliosamente il suo ruolo. Uno a cui ogni tanto appare all’improvviso un cane, per strada, con un occhio più chiaro dell’altro. Ma chi è davvero Guido, che percorre avanti e indietro la sua isola, Monteverde, sulle tracce di Pasolini, e che fa strani incontri al cimitero, tra le tombe di Keats e Gramsci? Un duro o un romantico? Un asociale? Uno che si innamora? Ascoltalo: è tutto ciò che non ha patria e si ribella, e sembra non voler morire mai”.

Monteverde inizia con queste frasi:
Sono una foglia che pesa ottanta chili. Sogno refoli di vento.
Sono una batteria che si sta ricaricando. Voglio ricaricare in pace, senza sbalzi di corrente. Sono un navigatore senza programma, non so orientarmi con le stelle. Sono lo stipite stanco di una vecchia porta. Sono un contratto firmato in bianco, sono una lettera senza mittente. Sono una tela d’acqua su una cornice di carta, un telecomando che non spegne niente; se mi punto sul cielo m’accendo, funziono. Sono un orologio che batte secondi sulle tempie della sua cassa. Sono un pallone bucato.
Sono una sigaretta che non si spegne, fuma soltanto.
Sono queste mani che dovresti mutilare.

Guido Orsini è l’alter ego di Gianfranco Franchi. Un personaggio che ci fornisce alcune indicazioni sulla condizione di alcuni giovani intellettuali italiani.

Ho chiesto ad Andrea Di Consoli e a Barbara Gozzi di dire la loro su questo libro, e vorrei discuterne con voi insieme all’autore (che parteciperà al dibattito). E poi vorrei interrogarmi (e interrogarvi) sulla figura e sul ruolo dei giovani intellettuali oggi in Italia.

Così mi domando (e vi domando)…

Qual è la condizione dei giovani intellettuali oggi in Italia? Quale il ruolo?

Gli intellettuali trentenni di oggi, in cosa si differenziano da quelli di venti, trenta, quarant’anni fa? In cosa si assomigliano? I loro sogni sono uguali o sono cambiati?

Inoltre ho chiesto a Gianfranco di mettermi a disposizione uno dei bellissimi racconti di Monteverde. Ho scelto Catafalco (potete leggerlo in coda al post), per un motivo ben preciso. È un racconto che affronta il tema della morte dal punto di vista dei bambini. Un racconto che mi ha fatto tornare indietro nel tempo. Che mi ha fatto domandare: quand’è stata la prima volta che ho preso consapevolezza della morte?
Giro la stessa domanda a voi. E aggiungo quest’altra.
Secondo voi, è giusto parlare della morte ai bambini? E in che termini?

Ne approfitto per sottolineare che, oltre che con Monteverde, Gianfranco Franchi è in libreria con: “Radiohead. A Kid. Testi commentati” (Arcana).

Di seguito, le recensioni di Andrea Di Consoli e Barbara Gozzi.

Massimo Maugeri

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MONTEVERDE di Gianfranco Franchi
recensione di Andrea Di Consoli (nella foto)

Monteverde (Castelvecchi, 310 pagine, 16,00 euro), di Gianfranco Franchi, è un romanzo di formazione (Franchi è uno scrittore nato nel 1978, è romano, ma ha sangue triestino, mitteleuropeo). I romanzi di formazione sono, specialmente se costruiti sulla falsariga della propria esperienza personale, romanzi totali, generosi, magmatici – e l’unico rischio che corrono (un rischio tutto rivolto al futuro) è quello di “dire tutto”, di mettere tutte le carte sul tavolo, di bruciare in un unico fuoco legni accatastati nell’arco di due decenni. Mettiamola così: il rischio è tutto di Franchi (ripeto, per il suo futuro di scrittore), ché il lettore ha la possibilità di leggere “un mondo” e una vita con un solo libro. Questa generosità, voglio iniziare così, è il primo tratto “generazionale” di Franchi. Ne sono profondamente convinto: Monteverde è un romanzo generazionale. Ma non lo è nel senso del “target”, ma in un senso più profondo, perché riesce a dire la vitalità e il dolore e lo spaesamento tachicardico dei trentenni italiani (ripeto, senza volerlo) come nessuno lo aveva mai fatto prima. Franchi, cioè, delinea – e vi riesce, sia letterariamente che sociologicamente – la “linea d’ombra” che ha separato quelli nati negli anni ’70 da un “prima” e da un “dopo”, sia privato che collettivo, perché a questa strana generazione è capitato in sorte uno strano “passaggio” epocale, ovvero quello dal Novecento “rudimentale” e sostanzialmente romantico a un Duemila ipertecnologico, afasico, post-comunitario, globale e non più provinciale (ecc.); pure, a quelli nati negli anni ’70 è accaduto, come capita a tutte le generazioni del mondo, il “passaggio” dalla vita giovane a quella adulta. Ecco: come ebbe a dire Eduardo a Napoli, durante i bombardamenti, alla prima di Napoli milionaria al Teatro San Carlo (parafrasandolo): “Gianfranco Franchi ha detto il dolore di tutti noi”. Ripeto, ne sono profondamente convinto. E ora provo a spiegare una cosa che per me è fondamentale, ovviamente sperando di riuscirci. Mi è capitato di leggere recentemente romanzi anche interessanti come, per esempio, La futura classe dirigente di Peppe Fiore. Qual è la grande differenza che c’è, poniamo, tra Franchi e Fiore? La mia risposa è questa: che in Franchi grida e canta la tradizione e la storia sociale e letteraria italiana, perché nonostante Franchi racconti il “pop” o il cosiddetto moderno (la musica, il calcio, il precariato, gli amori spezzettati, ecc.) il collo di Franchi guarda avanti e guarda anche molto indietro (è un collo tormentato), cioè verso i padri, verso le cose perdute, verso una tradizione che continua a parlare, sia pure nell’ombra. Non è nostalgia, ma qualcosa di più profondo, ovvero, per citare Pound, “la contemporaneità di tutte le epoche”. C’è anche un’altra cosa che rende Franchi “generazionale” e sostanzialmente novecentesco, creatura divorata dalla tradizione ultima, figlia delle altre: lo stile non calcolato, non algido, non controllato, ma oscillante, con punte di incandescenza sentimentale e lirica davvero commoventi. Ecco, anche in questo Franchi rischia, rischiando, sempre, la fraternità. E’ un cuore messo a nudo, Monteverde. E vorrei dire un’altra cosa. Molti reportagisti si sono provati a raccontare Roma per mezzo della realtà (operazione utile, ricca di informazioni); ma l’anima di Roma, ecco, quella chi l’ha raccontata? L’anima di Roma l’ha raccontata Franchi. Non avevo mai visto così profondamente appalesarsi l’anima provinciale romana (Michele Plastino, i negozi di dischi, le strade d’estate, Giuseppe Giannini il giorno dell’addio, i concerti, ecc.), senza il compiacimento del provincialismo, della “trovata” sociologica. Ora so finalmente – ne ho il catalogo, le parole, lo stile – le cose che ho perduto in questi ultimi vent’anni di vita. Ora so che non sono solo – scusate la confessione – in questo disperato tentativo di fare il pieno della vita, di dare un senso a tutte le cose perdute, alle paure, al tempo, di entrare nella letteratura con tutti gli sbandamenti (dell’umore, dello stile, della cultura) che rendono certi nostri libri così poco calcolati. Ecco, finalmente, un “compagno di strada” che cercavo da tempo.

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‘Monteverde’ di Gianfranco Franchiappunti di lettura di Barbara Gozzi (nella foto)

barbara-gozzi-2009.jpgMonteverde, il quartiere romano dove vive il protagonista – Guido Orsini – è luogo di memorie, amarezze, di lucide e crude registrazioni che gli occhi dell’autore, Gianfranco Franchi, ‘prestano’ al protagonista (alter ego apparso per la prima volta in ‘Disorder’ pubblicato da le Edizioni Il Foglio nel 2006). Occhi acuti, dunque, ironici quanto precisi, capaci di annegare nel dolore, nel malessere di un vivere faticoso, incerto e perennemente in bilico, ma anche delicati, desiderosi di esplorare, tentare ancora, e ancora.
‘Monteverde’ conclude un percorso preciso, iniziato con il già accennato ‘Disorder’, passando per ‘Pagano’ ( Edizioni Il Foglio, 2007). Un percorso costruito su frammenti, tasselli uniti e slegati che poco alla volta si insinuano, delineano una strada tortuosa eppure nitida.
Guido Orsini è un laureato alla disperata ricerca di quella che, per le generazioni precedenti era un passaggio obbligato, ovvero un posto se non propriamente definibile ‘fisso’ quanto meno stabile, la possibilità dunque di dedicarsi all’unica vera e inviolabile passione-ossessione ovvero la Letteratura. Ma Guido è anche sensibile osservatore della società che lo circonda, di questo ‘Monteverde’ specchio del suo vivere tra limitazioni volute e imposte eppure immerso in tanti sottili interessi importanti. In perenne contorsione, tra ricerche fallimentari, amori sfocati, musica e calcio, orari e vizi.
La struttura stessa del romanzo fornisce una prima guida alla decodifica: sei macro oggetti letterari, un antefatto che è uno ‘spot’ di ciò che il lettore affronterà, e cinque interludi tra gli argomenti principali. Su questi ultimi, gli interludi, vorrei soffermarmi.
Nel primo c’è un cane, che muta nella razza, con gli occhi di due colori diversi e che lo fissa (‘lo’ riferito a Guido sebbene in queste pagine che staccano volutamente la struttura amalgamandola, mi è parso di sentire prepotente e trasparente, la volontà, la voce unica dell’autore). Il cane è un simbolo, un messaggero, ripreso con intelligenza nella copertina e che ritorna anche nel secondo interludio.

“… e mi spieghi se mi stanno venendo a prendere o se c’è qualcosa che sta per capitare oppure se devo smettere di cercare Letteratura e quindi incanto, magia, segno, assurdo e meraviglia in tutte le cose. Io vedo simboli e significati in tutto. Sono un giocattolo giocato da mani sempre nuove, e tutto è un mio giocattolo. Forse anche la morte.” (pag.55)

Attraverso questo simbolo, dunque, la voce inizia a denudarsi, a svuotarsi di contenuti, a riconoscersi in perenne lotta. Non è una guida dunque, il cane, è probabilmente la necessaria virata che attraversa gli oggetti tematici e ne affonda tra le carni.

“Forse il cane voleva avvertirmi che stava per tornare il male, che si avvicinava e che avrei dovuto soffrire ancora per un pezzo.” (pag.113)

Ma anche più avanti, nel terzo interludio, si insiste e si riprende l’antefatto, si incastrano, sovrappongono sensi e significati, l’eco è forte, urgente e necessario. Disperato.

“… e non trovo riposo e non conosco più gioia. Sono una sigaretta che non si spegne mai, e un calice che non s’esaurisce. Sono un caffè troppo amaro, così ti stomaco.
Il malessere fatico a tollerarlo. Ogni mattina peggiora, non so come arginarlo.
Il lavoro è un’ossessione, o un ricordo grottesco che ogni tanto fa male.
Voglio dormire. Fammi dormire.” (Pag. 177)

Il malessere è un leitmotiv pressante, sintomo evidente di un vivere che è trascinarsi tra precariato, esperienze lavorative fallimentari, deriva degli affetti, disagio economico e confusione. C’è molto dolore in questo romanzo, molta fatica da acido e sangue, molta tenace affermazione di quei ‘sogni’ schiacciati ma mai dimenticati, impossibili da accantonare del tutto, perfino nelle scene più grottesche e ironiche, che strappano sorrisi amari, consapevoli.

“… e maledetto il dio della sofferenza, che sia verità o menzogna poco cambia e poco importa: per tutto quel dolore che t’intorpidisce, per quel veleno che s’insinua, e che sordo scava, scava. Sordo, scava. Ma quanto a fondo può scavare, quanto avido ancora può essere, per ossa, e sangue infetto, e polvere e cenere, cenere. Scava. “ (pag.235)

Infinte, nell’ultimo interludio l’immagine del ponte. Che è più d’un simbolo. È chiave di decodifica. Ognuna delle sei tematiche-oggetto di cui accennavo sopra, ovvero: casa, lavoro, donne, musica, la Roma e Patrie letterarie; ognuna è ponte dell’altra, sottile collegamento capace di far traballare l’equilibrio instabile senza disperderlo del tutto, la caduta pare vicina ma mai definitiva.
C’è speranza in questo libro, nella lotta, nel cogliere i fallimenti, il dolore, il male feroce quanto l’insanabile conflitto dei sentimenti, senza imporre conclusioni. I brevi capitoli, ognuno a suo modo indipendenti, possono – sì – cadere ma subito dopo c’è una risalita, una ripartenza, un tentare e ri-tentare in una visione complessa, onesta dell’essere giovani oggi, tra titoli di studio che paiono carta straccia, mestieri inutili, illusori e legami faticosi.
Guido non è persona facile, solitario, poco incline alle mediazioni, mal disposto a cedere ai compromessi, che non accetta la rassegnazione che vede nella sua generazione, inutilità che non ha sapore né odore, senza ‘quel’ fuoco che invece è così prepotente dentro di lui: la Letteratura, amore inviolabile, passione violenta, ragione di vita probabilmente.

“Ho scelta come patria la Letteratura in lingua italiana con opportune commistioni dialettali e linguistiche perché io sono amalgamato così; ho scelto come patria la Letteratura perché è terra di menzogna e oasi di invenzioni e meraviglia, non ha pretese d’essere vera o realistica ad ogni costo, né d’essere Storia: è storia delle storie, è tante storie assieme.” (pag.306)

È un romanzo amaro, ‘Monteverde’, pieno zeppo di scene, dettagli, schegge taglienti mai pietose. Ma anche sottilmente colmo di amore e sentimenti forti quanto pieni, intensi.
Franchi è autore poliedrico, acuto e preciso. La sua lingua si plasma, è materia in evoluzione dove nulla è lasciato al caso o all’intuizione del momento. In questo romanzo, il progetto iniziato con ‘Disorder’ raggiunge una maturazione notevole, nell’intensità, gli intenti incastrati, numerosi. La lunghezza, elemento di stacco dalle precedenti opere, è pregio e difetto di un’opera che non può essere vissuta come mero romanzo. Richiede tempo e pazienza, analisi e recupero dei frammenti, delle ‘storie nelle storie’. La suddivisione in oggetti narrativi semplifica al lettore parte della comprensione, dà modo all’autore di spogliare quel Guido alter ego amato e odiato, all’interno di precise tematiche. È dunque possibile che il lettore perda la ‘strada’ nel corso della lettura, eviti di oltrepassare un certo ponte, ad esempio quello della ‘Roma’ se non ha precisi interessi per il calcio o ‘Musica’. Franchi sa essere tecnico, intinge la sua materia narrativa in elementi fortemente caratterizzati dalla stessa vita che conosce e cerca. E sono rischi calcolati, io credo, necessari per collocare Guido e il suo raccontare in un contesto preciso e inequivocabile.

Ultima annotazione personale: Franchi che scrive d’amore è secondo me perla rara. Già in Disorder alcuni capitoli sono delicati sfarfallii, inni ai sentimenti fondi, lirici senza scivolare nella dolcezza filante che stomaca.

“Una goccia di spirito cade nel silenzio d’un, e aspetto ogni giorno un pezzo di te. Se tu sapessi, che.
Amare (davvero) è pericoloso e brucia; e quando non, è la fine. “
(pag.49 – capitolo ‘Pelle’, ‘Disorder’)

In ‘Monteverde’ ho ritrovato pagine di una dolcezza meno celata, più spudorata, che si mostra fiduciosa e nulla chiede, nulla aggiunge a se stessa. C’è ‘un’ bianco che rimbomba con la forza che toglie il respiro, un bianco che può essere tutto e niente, non colore che facilmente, da un momento all’altro, rischia di finire fagocitato dalle altre tinte eppure brilla, irradia.

“Scende dal cuscino e si mette col muso contro il mio, naso contro naso, occhi negli occhi. Oddio amore mio che occhi che hai, dovresti guardarmi sempre, io questi tuoi occhi li sento dentro sempre, anche quando non ci sei.
[…]
Bianca quella notte che non voleva finire, bianco il telefono che la mattina suonava, bianca la carta delle pizze, bianca la vasca del mio bagno, bianco il pacchetto delle sigarette, bianche le mie scarpe che dovevi sporcare. Bianco il foglio che hai sporcato, bianca la luce del domani.
«Non sono mai stata così».
«Ti amo».
«Ti voglio ancora. Vieni qua».
(pag.131-133)

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CATAFALCO
da Monteverde (Castelvecchi), di Gianfranco Franchi

Un bambino non accetta un concetto in particolare. Che qualcuno o qualcosa possa morire, perché significherebbe che quel qualcuno non è più vero, non è più reale e quindi non è possibile, le cose cambiano ma non si dissolvono, niente si disintegra. Soltanto i soldatini quando li butti nel fuoco, ma qualcosa rimane e poi non sono vivi, sono veri, è diverso. Un essere umano è vivo e vero. La forma mentis del bambino si fonda su tutta una serie di implacabili sicurezze, date per acquisite e mai più smarrite. Una di queste è che le persone che lo stanno allevando saranno protagoniste per sempre della sua vita. Credo che cominciai a capire che potevano levarmi qualcuno pochi giorni prima che mio nonno morisse. Rimase chiuso in ascensore per un tempo che mi sembrò sconfinato, in realtà saranno stati quindici minuti, venti, non lo so. Avevo quasi otto anni, stavo aspettando che tornasse da lavoro, ero là sulla porta, come sempre. Magari mi aveva comprato un giocattolo. Oppure mi avrebbe raccontato un’altra storia. Un sabato pomeriggio, d’un tratto il rumore dell’ascensore s’interrompe. Sento una campana. Chiamo nonno, nonno, e nonno non risponde poi da lontano dice sono rimasto dentro e io mi spavento. Corro da nonna, lei s’è già precipitata a chiamare il portiere. I minuti passano e io non vedo chi doveva tornare. Allora m’accorgo che qualcosa può portarmi via nonno. Non so perché ma in quel momento ero convinto che non tornasse più. Nessuno era mai rimasto chiuso in ascensore, nella mia memoria, e quindi pensavo significasse qualcosa di terribile e di doloroso e di definitivo. Mi dispero, batto i pugni sul divano, piango. Non tornerà mai più, grido. Qualcosa di incomprensibile mi stava portando via nonno. Poi riescono a sbloccare l’ascensore, nonno torna, mi tranquillizza ma non serve a niente. Ho capito che c’è qualcosa che sfugge alla mia logica di bambino, qualcosa di triste e di doloroso e non è come quando un genitore se ne va per mesi interi, perché poi so che torna, questo è qualcosa di cattivo e di invincibile e imprevedibile. Qualcosa di meccanico. Tutto quel che è meccanico è sbagliato. È così. E qualche notte dopo, l’avvertimento diventa reale. Dormiamo nei letti vicini, io sto nel sonno profondo. Ricordo che qualcuno mi prende in braccio e mi porta a dormire altrove. Solo questo, mi sveglio un attimo ma mi confortano e mi ripetono dormi, dormi dai, dormi ciccio. La mattina c’è un parente in salone. Dico Marco come mai, è mattina presto. Una visita, risponde.

Mi mandano a scuola. Papà viene a prendermi prima della fine, parla con la maestra, la maestra fa un sorriso e mi dice puoi andare. Non capisco, c’è qualcosa che non va. In macchina papà tira su col naso ma non piange, mi dice che nonno se n’è andato in cielo e io immagino che ci sia una scaletta, qualcosa del genere, magari dei gradini a chiocciola come nei palazzi, che appaiono soltanto quando lo decidi tu, per cui ha preso e ha deciso di arrampicarsi sino in cima, quindi non dovrebbe esserci più fisicamente, non dovrebbe più essere visibile, immagino. Come se fosse a lavoro o in un’altra città. Mi sento triste ma ancora non capisco. Saliamo su in ascensore che stavolta non si rompe e la porta di casa è spalancata e ci sono delle corone di fiori. Un’amica di famiglia mi leva il grembiule nero della scuola Sant’Ivo, mi fa poggiare la borsa prima dell’uscio, la consegna a qualcuno e non vedo chi è. Nel grande salone c’è una sorta di baldacchino che non ho mai visto, è di legno e sembra un letto ma letto non è, papà mi dice si chiama catafalco, sul catafalco c’è nonno disteso, intorno tante persone e non tutte le conosco ma tutte mi guardano con aria mista di dispiacere e di malinconia e di attesa. Nonna da una parte con delle amiche attorno. Papà mi prende per mano e mi dice vieni a salutare nonno. Nonno è là con le mani giunte e mi sembra tanto bianco. Papà cos’è successo chiedo, dice nonno è stato male. Posso toccargli la fronte dico papà dice vai e mi fa un sorriso poco convinto. Ho paura perché è freddo e penso ora gli parlo e si sveglia come dopo che era rimasto chiuso in ascensore, torna. Non torna. Nonno ciao. Non dice niente.

Arriva una babysitter e mi portano altrove, a giocare vorrebbero, e qualcuno dice il bambino non capisce i bambini non capiscono fatelo stare lontano da qua ma io voglio stare con nonno, così si sveglia. Saliamo al piano di sopra, ma io so già che dal piano di sopra se apro la porta a vetri posso sbirciare in salone e nel salone c’è il catafalco e sul catafalco c’è nonno che se n’è andato in cielo ma invece è rimasto qua. Mia sorella rimane con la babysitter al piano di sopra, io sgattaiolo via come posso e vado a guardare il catafalco, guardo nonno e penso ora si muove, ora si alza, ora parla e tutti sorridono e invece niente, sale su la compagna di mio padre e mi dice cosa fai dico nonno è morto e voglio stare con nonno mi fa una carezza e sussurra andiamo di là da tua sorella e io voglio stare con nonno. Ci penso tutto il giorno mentre mi fanno giocare e sento il campanello suonare anche se la porta è aperta, penso che sia una forma di educazione o di rispetto che non conosco, ma trovo giusta e però non mi sembra giusto che tutti vanno da nonno e io no.

Il giorno dopo quando mi sveglio a casa non ci sono ospiti, c’è odore di caffè e la nonna sta in vestaglia e piange con la signora domestica e papà invece sta in salone vicino a nonno allora vado là, dico papà perché stai qua, risponde perché è l’ultima volta che vede suo padre, dico perché ha le labbra viola, dice è normale quando te ne sei andato, allora questa morte è meno astratta, sei freddo, hai le labbra viola, sei muto, non guardi e non rispondi a nessun segno, sei come spento, papà è come quando spengo qualcosa con la differenza che non so come si riaccende ma ci deve essere un modo. E il modo no, non c’è. Cos’è questo catafalco che non capisco, la parola ha un suono che non c’entra niente con la morte, in mente ho De Falco che gioca centravanti nella Triestina appena tornata in serie B e non capisco che c’entri il calciatore De Falco col catafalco, il catafalco è un antico uso borghese, dice, quando qualcuno importante muore in casa e non all’ospedale succede che si lascia esposto nel salone sul catafalco, è un segno di rispetto. Si muore quindi si va sul catafalco. E tutti vengono a salutare il morto.

E poi arrivano dei signori con la cravatta, con l’aria seria, e portano sulle spalle una bara. E nonna piange forte e non mi fanno guardare mentre nonno va dal catafalco sulla bara, quindi vedo loro con la bara sulle spalle e escono dalla porta nonna dice qualcosa sulla bara che esce dalla porta e credo di aver capito che questo è qualcosa di odioso e di insopportabile ma è nelle cose di quando qualcuno muore e non si può fare a meno, non c’è alternativa, finisce così, con quattro estranei che ti caricano sulle spalle chiuso in una scatola di legno. E il catafalco rimane vuoto e tu non ci sei più nemmeno per i saluti.

Non capivo tutte quelle persone, a dire cose che non capivo magari sottovoce a papà e nonna, e poi era rimasto il catafalco vuoto. Era caldo. Negli anni, a partire da allora, non credo di avere più visto nessun catafalco in nessuna casa, quando è successo che qualcuno s’è arrampicato sulla scala che porta sin lassù sino a non essere più visto; ho visto persone distese sul letto, con le mani giunte, con o senza crocifissi. Tutti bianchi, labbra viola e via dicendo ma nessuno disteso sul catafalco. Questo vuol dire che nonno era proprio importante e che quando è morto tutti dovevano andare a salutarlo, perché aveva fatto cose buone e giuste per tante persone. Questo vuol dire che ci sono tradizioni italiane che non si sono spente col passare dei secoli. Questo vuol dire che nella morte siamo una volta ancora tutti diversi, a dispetto della propaganda. L’uomo grande, forte e intelligente che ha cambiato la storia della mia famiglia per generazioni s’è disteso su un catafalco, e là ha consumato gli ultimi incontri con la luce preziosa e prepotente della nostra vita. Non sapevo che in casa avessimo un catafalco, e non ricordo che sia stato portato in salone da qualcuno: non l’ho mai visto entrare, non l’ho mai visto uscire. Non voglio nemmeno sapere se è stato nascosto da qualche parte. Credo di no ma non voglio andarlo a cercare. So che dal 1985 ci sono due metri, nel salone, in cui non cammino volentieri: là, tra i due divani di pelle, di fronte al camino, dove ho incontrato la morte di un uomo che mi amava più di ogni altra cosa al mondo, e che non aveva finito di prepararmi alle cose della vita. Avevo quasi otto anni e lui sessantaquattro, non aveva una gamba da dieci anni, doveva morire nove anni prima ma invece lavorava e mi insegnava tante cose, aveva un grande ufficio con quattordici dipendenti, tante amanti, tante case, tanti progetti e tanto orgoglio per il nipote primogenito, romanista e sveglio. Non ho capito come sia possibile che una persona così possa morire, so che quando muore la mettono in salone su un catafalco, e da quel momento il salone cambia per sempre.

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LA CURVA DELLA NOTTE di Andrea Di Consoli http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/11/la-curva-della-notte-di-andrea-di-consoli/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/11/la-curva-della-notte-di-andrea-di-consoli/#comments Mon, 11 Aug 2008 15:20:32 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/11/la-curva-della-notte-di-andrea-di-consoli/ Il protagonista del nuovo romanzo di Andrea Di ConsoliLa curva della notte (Rizzoli) – si chiama Teseo. Un personaggio complesso e paradossale, affetto da una delle più tremende e classiche malattie che può colpire un essere umano: il “mal di vivere”.
Un romanzo che a mio avviso - per la tipologia dei temi trattati – può richiamare alla memoria classici della letteratura italiana del Novecento: quali “Il male oscuro” di Giuseppe Berto e “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda.

Di seguito leggerete le recensioni di Barbara Gozzi e di Francesco De Core (quest’ultima già pubblicata sul quotidiano Il Mattino) che vi porteranno dentro la storia.
In questa nota introduttiva aggiungo soltanto che il “male” di Teseo trae origine da un episodio del passato… quando scopre che sua madre e Rocco – suo grande amico, coetaneo – sono legati da una storia d’amore e sesso.
La curva della notte di Teseo comincia proprio lì. E diventa mortale nel momento in cui Rocco, anni dopo, divenuto nel frattempo un noto cantante, lo va a trovare al Byron (locale gestito dallo stesso Teseo).

Mi piacerebbe discutere del libro e delle tematiche da esso affrontate (come al solito, partendo da alcune domande).
Quale potrebbe essere il rimedio migliore per combattere il mal di vivere - chiamatelo angoscia o depressione, se volete - che continua a mietere vittime forse oggi più di ieri?
Provate a entrare nei panni del personaggio Teseo…
A vostro avviso, Teseo, sulla base di quanto sopra accennato, dovrebbe sentirsi più “tradito” dalla madre o dall’amico Rocco? O da nessuno dei due?
E ora, le già citate recensione di Barbara Gozzi e Francesco De Core.

Massimo Maugeri

LA CURVA DELLA NOTTE di Andrea Di Consoli, Rizzoli, 2008, euro 17, pagg. 202

di Barbara Gozzi

Teseo è un uomo tormentato, annoiato, attanagliato da un ‘male di vivere’ quasi inspiegabile nei suoi tessuti contraddittori, tra alti e bassi feroci e improvvisi.
Due mogli e una figlia alle spalle, un passato da ferroviere poi un locale, il Byron, diventato casa e supporto, passione e peso.
Finché qualcosa stravolge i fragili equilibri di cristallo: Rocco, vecchio amico dimenticato, torna, lo cerca. E prima di morire in un tragico quanto sfuocato incidente, riaprirà le porte di un passato che Teseo aveva chiuso forzatamente, nel disperato quanto inutile tentativo di dimenticare vecchi rancori, tradimenti e quel senso di disgusto e abbandono che, in realtà, ha continuato a perseguitarlo tra gambe aperte e giri di valzer. Perché Teseo non si nega nulla, specialmente i piaceri della carne che lo fanno sentire vivo, riescono a fargli provare ‘qualcosa’ di temporaneo quanto prezioso.
L’ultimo romanzo di Di Consoli mantiene le tinte forti e scure del precedente ‘Il padre degli animali’ ma sposta l’angolazione, la visuale vira e si concentra su un uomo e su un vivere inquieto, selvaggio quasi, tra rimozioni e riprese. E soprattutto dove i sentimenti esistono per riflesso, perché hanno un nome che ogni tanto è necessario pronunciare. Finché il passato torna e con lui i rimescolamenti dell’anima, di quell’anima che sembrava scacciata, sopita o addirittura annientata e invece resiste. C’è. Si svela proprio quando i granelli di sabbia scivolano quasi del tutto, sfuggiti a dita ormai scosse da tremori, invecchiate e incerte. Confuse.
Di Consoli gestisce una prosa potente, lucida, che risente a tratti dell’amore sviscerale per la poesia e ogni tanto ne ‘ruba’ atmosfere, ritmi e approcci.
Ci sono tre diversi livelli narrativi, individuati dai capitoli (comunque sempre brevi, fulminanti) e dai titoli. La stessa cronologia sarà comprensibile solo leggendo, strada facendo. C’è un passato che è remoto, mischiato quasi ai sogni, all’irrazionalità dei pensieri incompleti, dove il tempo ha iniziato a rosicchiarne pezzetti. Ma ci sono anche due strutture presenti che sembrano slegate, assestanti. Sembrano perché non lo sono. In questo romanzo si racconta una storia che non è ombelicale: l’analisi introspettiva di un uomo complesso e controverso. Si tirano fili precisi tra tessuti che sono anche analisi di una società – la nostra, quella che vive oggi seppure con riferimenti precisi al sud – ; e i personaggi sono protagonisti e simboli. Ci sono, dunque, passato remoto, prossimo e presente. Ma l’ordine non è scontato. Tutt’altro. Lo stesso titolo in realtà, mi sembra una traccia rilevante, da seguire per trovare il ritmo giusto, una prima decodifica. ‘Una’ notte si consuma un presente annunciato dalle prime righe, in una curva che si allunga, sale poi scende irrimediabilmente verso il basso, quando ormai ogni personaggio ha recitato la sua parte, incastrando tasselli e sfaldando certezze.
Di Consoli ha capacità espressive non comuni, usa un’aggettivazione mirata e ‘visiva’, ogni nuova scena viene tratteggiata in modo che il lettore ci si ritrovi immerso, tra odori, sapori, umori.

Non ce la facevo più a vivere […] la morte che più non si teme quando si è stanchi, sfiniti, alla fine del deserto; alla fine di una statale che porta nel regno dei vivi che sono già morti.
(pag.63)

Questo parallelismo tra vita e morte, anzi peggio, questo considerare taluni ‘vivi’ come fossero già morti è decisamente pressante, nel corso della narrazione. Teseo sa, sente. E queste sue percezioni incombono, irrompono tra avvenimenti presenti e passati.

Il passato è la nostra vergogna, la palude che ci fa impazzire di risentimento e di noia.
(pag.83)

Rancori dunque per accadimenti mai dimenticati, impossibili da cancellare e allo stesso tempo la noia, quel lento lasciarsi vivere tra il torpore di azioni che scivolano e la sottile depressione verso un futuro che appare piatto.
Solo il sesso, l’atto in sé, sembra scatenare nel protagonista reazioni cercate e mai noiose. Ed è una ricerca continua, un impulso irresistibile, unico a cui Teseo non si sottrae mai, neanche quando si sente avviluppare da trame oscure, a lui avverse. C’è senza dubbio una forte e presente componente sessuale in questo romanzo ma non la definirei erotica, non ci sono manifestazioni di un desiderio che cerca, annusa corpi; bensì tratteggi brevi e precisi di azioni solitarie. E’ un prendere, per Teseo, un dare per riflesso. I gesti sono ripetitivi, non si curano di forme o sostanze. E’ l’atto, come accenno sopra, l’unico vero obbiettivo. Il resto è un contorno spesso inutile, privo di sapore. E lo spiega in più d’un occasione lo stesso Teseo.

Non esiste, il piacere. Esiste solo il dolore di non amare più, o di amare male, come una ferita che non si chiude.
(pag.107)

Poi l’ ‘urlo della mente’ (pag.128) e l’ ‘amore nero’ (pag. 91). Parole chiave precise. Dominanti eppure sussurrate, che quasi si perdono tra racconti e virate.

La curva, dunque, si avvicina alla sua discesa finale e quaranta, cinquanta pagine dalla conclusione, il lettore la avverte, la caduta. Ci si sente dentro. I personaggi stringono, incalzano, i tasselli appaiono e lentamente si uniscono.
Di Consoli non è un autore facile, secondo me. Scrive avvalendosi di simboli, livelli diversi e strutture che sono il frutto di volontà precise. E rallenta forse proprio quando il lettore vorrebbe invece correre verso il finale. Ma è tutto necessario, sotto molto punti di vista. Decodificare non è un processo semplice tanto meno comodo.

In quel momento – senza capire niente – capii invece tutto. Mi andava bene, quello che stava succedendo. “Iole” dissi con la voce spezzata di chi è disposto a morire pur di amare ancora una volta.
(pag.197)

La parola ‘amore’ viene usata con parsimonia per circa centottanta pagine. Appena sussurrata. Poi d’improvviso, a poche pagine dalla fine, diventa un imperativo che si mischia al sesso, all’accettazione. Diventa un elemento dominante. Riempimento e rovina. Causa ed effetto. Mentre la morte, ovunque, resiste, perdura ma in queste ultime pagine pare addirittura meno graffiante, leggermente smussata.

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da Il Mattino del 18/04/2008

Teseo e l’ultima notte di quiete
di Francesco De Core

Se i nomi hanno un senso sulla faccia delle persone, allora Teseo – il protagonista del nuovo romanzo di Andrea Di Consoli, La curva della notte (Rizzoli, pagg. 216, euro 17) – alla fine dei suoi giorni accartocciati nel vuoto uccide il minotauro. Non fuori, ma dentro di sé. Un mostro spietato, sleale, mosso da «un freddo disprezzo, uno svuotamento doloroso». Ecco: «La geografia della mia anima era una malattia che non si poteva guarire». Questa la moneta che riserva al mondo, Teseo. Qualcosa che lo divora, lo inghiotte nel ventre aspro di un destino senza redenzione. E per Teseo – che abita un sud avido di buio, luci al neon, relitti da spiaggia – il destino è un’auto lungo un rettilineo che non finisce mai, è un cuore che scoppia a tradimento come una bomba, è la morte che lascia sul suo petto inerme i segni da scarpone chiodato dei soldati. Teseo perde la vita a brandelli, ispirato e cosciente. Gli ultimi morsi spesi nel furore della condanna, inattesa ma forse sperata. Gioca al rivoluzionario, da giovane, per diluire la fretta di vivere; poi lavora da ferroviere, nel resto di una terra che è meridione, dove «i treni scendono, lenti e rumorosi, nella punta di sabbia dove finisce la nazione, e dove il governo ha piantato una grande bandiera tricolore che il vento ha dilaniato con i suoi morsi»; infine diventa proprietario di un locale, il Byron, sempre più assente dalle azioni quotidiane e distante nei pensieri. È uomo che osserva il mare e gli uomini, Teseo, in un disordine che è di valigia chiusa in fretta. Ama oltre la rabbia e oltre il ricordo. Sembra non avere più nulla da chiedere, perché poi ha poco da offrire. Quando al Byron arriva Rocco, l’amico di gioventù, musicista affermato. E soprattutto l’uomo che amò sua madre di un amore ai suoi occhi innaturale. Blasfemo. Assurdamente tragico. Rocco cede alla colpa antica e all’odio mascherato nell’altrui sguardo, beve con foga, va dritto verso la morte nella carcassa di un’auto che si riduce a poltiglia. Il senso di colpa affonda unghie e denti nella carne molle di Teseo e si compie così la stagione del cupio dissolvi: entra in scena Iole, la conturbante moglie di Rocco, e con lei loschi figuri che squarciano le nebbie del protagonista. Il sesso si fa di tenebra, brucia, va oltre il disincanto di matrimoni finiti per consunzione: risponde a un’ossessione, a un’implosione dell’anima, è sempre più carne e sempre meno amore. Il sud è di pece, ridotto a osso, cartavetrata, rumore di fondo – il sud che Di Consoli sceglie come quinta delle sue storie, riportandoci a certi racconti di Lago negro – un meridione che per Teseo è colorato di «caffè bollente, camion colmi d’asfalto, gelaterie e chiese barocche». Teseo è come un cane sciolto nella terra di nessuno dell’esistenza, popola di incubi i suoi giorni straziati dal distacco e da una passione senza speranza, viene infine abbandonato dal corpo, stremato da un colpo a tradimento prima che la strada curva arrivi a gettare terra sull’ultimo respiro e luce sul viso contratto. Un viso pallido di morte e stupore e nervi slegati dal sangue ormai fermo. Nessuno ha diritto alla salvezza per come ha vissuto dando in pasto ad altri la propria vita, sembra dirci Di Consoli. Gli impulsi più foschi si incastrano nella cornice di una scrittura tesa come corda di violino, dura, secca eppure seduttiva, scandita da immagini piene e taglienti. Alla sua seconda prova con il romanzo, dopo Il padre degli animali, lo scrittore lucano sembra così confermarsi a suo agio nel maneggiare sentimenti terminali, bravo com’è a renderli di pietra con un ritmo intenso e una lingua mai retorica.

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