LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » berardinelli http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 LA POESIA: SPECIALITA’ DEI PERDENTI? http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/26/la-poesia-specialita-dei-perdenti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/26/la-poesia-specialita-dei-perdenti/#comments Thu, 26 Mar 2009 21:45:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/06/11/la-poesia-specialita-dei-perdenti/ La poesia è una specialità dei perdenti?
Ripropongo con questa domanda secca uno dei miei post permanenti dedicati alla poesia. Questo post treva origine da un articolo del 2007 pubblicato da Berardinelli sul Domenicale de Il Sole24Ore. Credo che sia ancora attualissimo.
In coda potrete leggere un’intervista in tema che mi ha rilasciato Renzo Montagnoli.
Dunque… la poesia è una specialità dei perdenti?
A voi.
Massimo Maugeri

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Post dell’11 giugno 2007

La poesia annoia? La poesia è ghettizzata? La poesia è in crisi? Sono in crisi i lettori di poesia?

Qualche giorno fa, per l’esattezza il 27 maggio, Alfonso Berardinelli ha pubblicato un articolo sul Domenicale de Il Sole24Ore. Un articolo che ha fatto molto discutere. Il titolo è emblematico: “Togliamo la poesia dal ghetto”.

Ancora una volta, partendo dallo spunto offerto da Berardinelli, potremmo tornare a domandarci cosa si intende per poesia e chi è poeta. La discussione, per la verità, ha toccato altri punti. Per esempio: Chi legge poesia? E, soprattutto, chi è davvero in grado di valutare un testo di poesia?

Scrive Berardinelli: “Chi si accorge che un libro di poesia è brutto o inesistente sono sì e no cento persone. Di queste cento, quelle che lo dicono sono una ventina. Quelle che lo scrivono sono meno di cinque.”

Ma prima ancora di giungere a questa conclusione si domanda: “chi conosce a memoria un paio di testi scritti dalle ultime generazioni di poeti?”

È pessimismo o realismo, quello di Berardinelli?

Vi riporto quest’altro stralcio dell’articolo, che coincide con una ulteriore serie di domande:

“Chi potrebbe credere oggi che fino a vent’anni fa “testo poetico” era sinonimo di testo letterario e che tutta la teoria della letteratura, da Jakobson in poi, ruotava intorno alla nozione di “funzione poetica del linguaggio”? Ora i teorici, quando ci sono, si occupano di romanzi. La poesia sembra  diventata la specialità dei “perdenti” e i critici che se ne occupano dimostrano un’inspiegabile vocazione al martirio. Chi li inviterà mai a un convegno? Quale giornale recensirà i loro libri?”

Spunti, domande e considerazioni che giro a voi, amici di Letteratitudine.

Cosa ne pensate?

Ha ragione Berardinelli?

C’è qualcuno, tra voi, che ritiene di rientrare nel ristretto gruppo di cento persone in grado di accorgersi che un libro di poesia è brutto o inesistente?

La parola è vostra.


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INTERVISTA A RENZO MONTAGNOLI

Renzo Montagnoli nasce a Mantova l’8 maggio 1947. Laureato in economia e commercio, dopo aver lavorato per lungo tempo presso un’azienda di credito ora è in pensione e vive con la moglie Svetlana a Virgilio (MN).
Ha vinto con la poesia Senza tempo il premio Alois Braga edizione 2006 e con il racconto I silenzi sospesi il Concorso Les Nouvelles edizione 2006.
Sue poesie e racconti sono pubblicati sulle riviste Carmina, Isola Nera, Prospektiva e Writers Magazine Italia, oltre a essere presenti in antologie collettive e in e-book.
Ha pubblicato le sillogi poetiche Canti celtici (Il Foglio, 2007) e Il cerchio infinito (Il Foglio, 2008).
E’ il dominus del sito culturale Arteinsieme e del blog Armonia delle parole.

Quando hai scritto la tua prima poesia?
Tralasciando qualche cosina da fanciullo, di cui peraltro non ho più memoria, la prima poesia è abbastanza recente e risale ai primi del 2003. Prima leggevo, oltre alla narrativa, anche poesie, soprattutto queste, in parte per una comodità legata ai tempi ristretti a causa dell’attività lavorativa.

Sei laureato in economia e commercio e per molti anni hai lavorato in banca. Come è possibile conciliare la creatività poetica con un lavoro che, di norma, è considerato “freddo” e “asettico”?
Quando lavoravo in banca non scrivevo poesie e nemmeno racconti; mi dedicavo tutto all’attività e non potevo, anche per una questione psicologica, nemmeno ipotizzare di stilare una poesia. C’è da dire che, però, potevo usufruire di una certa creatività, perché il ruolo che ricoprivo (responsabile dell’ufficio legale) non era asettico, con tutte le cause legali che avviavo o che vedevano come convenuto il mio istituto. Questo mi ha consentito di non spossessarmi di quanto avevo appreso, ovviamente a scuola, in campo letterario, anzi vi attingevo per predisporre le comparse di risposta, o per integrare le conoscenze legali nel redigere le citazioni. Penso che questo lavoro sia il meno bancario che possa esistere e infatti non nascondo che mi piaceva molto.

Conosci il romanzo “La morte in banca” di Pontiggia? Cosa ne pensi?
Ne ho sentito parlare, ma non l’ho mai letto. Penso che sia una descrizione del lavoro del bancario, impiegato spesso malvisto dagli esterni perché freddo, addirittura glaciale, e inoltre rappresenta ai più il tentacolo di un moloch pachidermico e insensibile quale è nell’opinione comune qualsiasi azienda di credito. Ci sono impiegati così, con una spanna di pelo sul cuore, e che per la carriera sono disposti a tutto, ma ci sono anche quelli che lavorano a testa bassa e che riescono perfino a risultare simpatici ai clienti.

C’è un poeta del passato che consideri come tuo “Maestro”?
Tutti. Da ognuno che ho letto ho imparato qualche cosa e dire quale è stato più prodigo di conoscenza nei miei confronti mi è difficile. Tuttavia, visto che c’è da fornire una risposta, mi permetto di fare tre nomi:
Publio Virgilio Marone, per la ricerca quasi ossessiva della purezza nello stile, ma soprattutto perché non tanto con l’Eneide, ma con Le bucoliche e Le georgiche ha saputo creare opere di straordinaria attualità.
Giovanni Pascoli, sfortunato, chiuso nell’alveo familiare, ha saputo fondere metrica classica e profondità di pensiero.
Giuseppe Ungaretti, un uomo nato troppo tardi e morto troppo presto. Mi spiego meglio: è indubbio che lui è il capostipite della corrente ermetica, che si è esaurita troppo velocemente, anzi direi che se n’è andata con lui. Ungaretti mi ha sempre colpito per quei versi così immediati che dicono tanto con poco.
Comprendo che ho citato tre maestri d’eccezione e che come allievo assomiglio un po’ a Pierino, però sono autori che ho studiato e ristudiato, che mi sono entrati dentro e dai quali forse, a volte, riesco ad attingere qualche cosa.

Che differenza c’è, a tuo avviso, tra poesia e componimento poetico?
La poesia ricorre al significato semantico delle parole, componendole in suoni e adottando un ritmo, così che ne scaturisce una musicalità. In pratica il poeta compone, ricorrendo anziché alle note, alle parole e in questo contesto esistono diverse tipologie di componimenti poetici, che hanno caratteristiche peculiari di costruzione e di ritmo, come, tanto per citarne alcuni, il poema o la ballata. Così come esiste il componimento musicale esiste anche quello poetico.

Poeti si nasce o si diventa?
Il talento è innato, ma per svilupparlo occorrono studio e applicazione. Quindi, sarebbe meglio dire che poeti si nasce, ma che scrittori di poesie si diventa.

La poesia è una specialità dei perdenti?
Occorre preliminarmente vedere che cosa si intende per perdente. In una società come la nostra, in cui il valore di un individuo si misura con i suoi profitti, è senza dubbio vero; è fuori discussione che anche il più famoso dei poeti ritrae dalla sua arte assai meno di un mediocre narratore. Del resto, quando di parla con qualcuno e quello ti chiede che cosa scrivi, se rispondi che sono poesie ti guarda con un’aria di commiserazione. Non credo che i poeti siano dei narratori falliti o comunque dei perdenti, penso invece che, come qualsiasi individuo, si sentano realizzati in ciò che riescono a esprimere. La capacità di trasmettere emozioni agli altri sondando dentro se stessi è solo una piccola parte della soddisfazione che un poeta può provare; il sapere interagire con il mondo e con il proprio “io” finisce con il far scoprire nuovi orizzonti prima del tutto impensabili e questa continua ricerca è al tempo stesso punto di arrivo della conoscenza e stimolo per nuovi traguardi. Non vedo pertanto né perdenti, né vincenti, ma solo dei realizzati.

Cosa consiglieresti a un poeta esordiente che ha velleità di pubblicazione?
Che è una tragedia! E’ strano, perché ci sono tanti che scrivono poesie e assai meno che le leggono. Ne consegue che il ritorno economico di un libro di poesia non è frequente ed ecco allora che molti editori (non tutti a onor del vero) chiedono all’aspirante poeta di contribuire alle spese di pubblicazione. E’ deprimente, ma mi ricordo che un certo Pincherle, più noto come Moravia, pubblicò il primo romanzo esclusivamente a sue spese.
Egoisticamente gli consiglierei di farsi conoscere attraverso Internet, magari ricorrendo ad Arteinsieme, che non pubblica tutto e tutti, ma fa una certa cernita in modo da avere un livello qualitativo medio più che soddisfacente.

Hai nuove pubblicazioni in cantiere?
Pubblicazione è un nome grosso. Vedi in genere scrivo sillogi tematiche e attualmente una c’è, molto lontana dal completamento, ma esiste.
Non so dirti nemmeno l’epoca presumibile in cui sarà terminata, perché l’importante è che scriva qualche cosa che mi soddisfi. Poi, se avrò la fortuna che venga pubblicata, bene, ma in caso contrario la metto su Arteinsieme.

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È PICCOLA LA LETTERATURA DELLA GRANDE RETE? LA LETTERATURA DOPO LA RIVOLUZIONE DIGITALE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/02/e-piccola-la-letteratura-della-grande-rete-la-letteratura-dopo-la-rivoluzione-digitale/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/02/e-piccola-la-letteratura-della-grande-rete-la-letteratura-dopo-la-rivoluzione-digitale/#comments Wed, 02 Apr 2008 05:44:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/02/e-piccola-la-letteratura-della-grande-rete-la-letteratura-dopo-la-rivoluzione-digitale/ Nelle scorse settimane è sorto un grande dibattito intorno al saggio di Arturo MazzarellaLa grande rete della scrittura. La letteratura dopo la rivoluzione digitale” (Bollati Boringhieri, 2008, pagg. 128, € 15). Mazzarella insegna Letterature comparate nell’Università Roma Tre e si è a lungo occupato di vari temi riguardanti la letteratura e l’estetica otto-novecentesca. Tra le sue pubblicazioni più recenti va ricordata La potenza del falso. Illusione, favola e sogno nella modernità letteraria (Donzelli, Roma 2004).

Di cosa si occupa il saggio di Mazzarella?Mi affido a un estratto della scheda del libro, giusto per fornirvi un’idea.

Secondo Mazzarella “la contrapposizione sempre più marcata tra vecchi e nuovi media è un luogo comune che, dopo la definitiva affermazione della rivoluzione digitale, appartiene ormai al patrimonio delle certezze collettive. L’espansione della virtualità prodotta dai nuovi media sembra relegare tra le reliquie del passato quelle pratiche comunicative, come la letteratura, attraverso le quali la civiltà occidentale ha scandito il suo progresso. Ma è un’impressione di superficie. Considerata fuori dalla retorica che ancora l’avvolge in numerose sedi istituzionali, sgombrata da ipoteche etico-pedagogiche o estetiche, proprio la scrittura letteraria rivela oggi una insospettabile contiguità con l’universo dei media elettronici, mostrando il suo originario, costitutivo, carattere virtuale. È quanto esibiscono senza falsi pudori alcune tra le esperienze letterarie più vitali e innovative dell’ultimo ventennio: da Calvino, Celati e Tondelli a Kundera, Ballard, DeLillo, Ellis, Marias, Amis e Houellebecq. Grazie a loro gli incroci che si vengono a stabilire tra la letteratura e la videoarte, o il cinema digitale, i videogame e i videoclip diventano tutt’altro che uno scenario avveniristico”.

Credo che la tesi di Mazzarella si evinca già piuttosto chiaramente dalla breve scheda che vi ho proposto.

Vi accennavo al dibattito. Sì, perché questo libro ha già fatto parlare di sé sulle pagine dei più illustri quotidiani: dal Corriere della Sera a La Stampa.

Partiamo da La Stampa che ha pubblicato in contemporanea (il 17 gennaio) due articoli correlati firmati da Marco Belpoliti e Mario Baudino.

Baudino sostiene che “Tutto cominciò negli Ottanta, quando Pier Vittorio Tondelli, giovane maestro per almeno due generazioni di scrittori italiani, ripeteva di sentirsi più debitore verso la musica rock che verso i libri. O forse prima, secondo Filippo La Porta. Il critico che ha appena licenziato, fra grandi discussioni, il suo Dizionario della critica militante scritto per Bompiani con Giuseppe Leonelli, ricorda una battuta di Wim Wenders, regista da lui molto amato: «Devo tutto al rock». Vennero poi i Cannibali, e si disse che i loro territori di partenza erano le giungle della cultura pop, dei fumetti, del cinema d’azione, anche se poi avevano un retroterra letterario. Pare che la mamma di Niccolò Ammaniti, ad esempio, gli facesse leggere Cechov in dosi massicce. E ora? Ora un narratore come Pietro Grossi confessa a Ttl, di dovere ai «librogame» la sua passione per la letteratura, perché leggere è sempre stata una fatica, «lo scotto da pagare per tentare di riuscire a scrivere qualcosa di decente». Alfonso Berardinelli, in Casi critici (Quodlibet) celebra la fine del postmoderno e annuncia, riprendendo un saggio del ‘97, l’Età della Mutazione, quella in cui, «dopo aver diffidato per circa un secolo della comunicazione», la letteratura vorrebbe oggi «essere comunicazione di cose già comunicate». È lo scenario in cui stanno Grossi e i suoi coetanei? Coloro che addobbarono i predecessori con ossa umane, e cioè il duo Severino Cesari-Paolo Repetti, inventori di Einaudi-Stile Libero, non sono d’accordo. «All’inizio degli anni Novanta cominciammo a leggere testi – dicono – dove le merci e la cultura popolare costituivano l’enciclopedia di riferimento». Con una differenza, però: «La lezione dei classici, in autori come Ammaniti, Nove, Scarpa o Simona Vinci, era ben presente. Forse era sparita la gerarchi dei valori. Ma l’idea del giovane scrittore che arriva dai fumetti è spesso caricaturale». (…) Il romanzo, aggiunge Berardinelli, non è mai stato, del resto, «un genere intellettuale. Il suo terreno è il senso comune di un’epoca. Se quello attuale è fondato sulla cultura di massa e sulle subculture giovanili, si parte di lì». Non è una novità, non è neanche una «mutazione». «Esistono due tipi di senso comune: quello sentimentale dei più adulti, e quello dei monellacci sado-maso. Due nomi: Sandro Veronesi per la prima categoria, Tiziano Scarpa per la seconda, o almeno lo Scarpa degli esordi. Lo scopo è analogo: acchiappare una fetta di lettori “nuovi” in contatto con la realtà attuale». Questo, aggiunge, se ragioniamo in generale. Se invece guardiamo al risultato, cominciano i guai.
«Nella mescolanza tra alto e basso, credo che conti il clima morale del Paese. E allora penso che gli autori Usa siano messi meglio perché lì le cose avvengono sul serio; i nostri meno, perché qui tutto è di riporto». Eccola, la mutazione. «Prima c’era un super-io culturale, la società letteraria. Ora non c’è più, tant’è vero che la critica non conta nulla ed è pure detestata».”

Belpoliti cita McLuhan, il quale nel 1964 scrisse “che uno dei fenomeni più significativi dell’età elettrica consiste nel creare una rete globale che somiglia al nostro stesso sistema nervoso, «il quale non è soltanto una rete elettrica ma un campo unificato di esperienza». La profezia non tarda ad avverarsi. Ben prima della comparsa del computer, prima di Internet e dei nuovi media, a indicare come la rete dei possibili e l’esperienza possano coniugarsi positivamente provvede la letteratura. Nel ‘67 esce Cibernetica e fantasmi di Italo Calvino, vero e proprio manifesto della nuova letteratura; tuttavia ad accorgersene sono in pochi. Su questa strada, che coniuga comunicazione e letteratura, moltiplicazione del punto di vista e virtualità, si sono già mossi Beckett e Borges, seppur con esiti diversi e persino opposti. E, prima di loro, Henry James ha messo a punto alcune delle svolte decisive del Novecento. Sono passati quarant’anni, ma gran parte di coloro che si occupano professionalmente di letteratura in Italia, sulle pagine dei quotidiani, nelle case editrici, nelle università e altre istituzioni culturali, non sembrano essersene accorti. A suonare di nuovo il campanello, ad avvisare della trasformazione provvede Arturo Mazzarella, studioso di letterature comparate, in un piccolo e appuntito libro: La grande rete della scrittura. La letteratura dopo la rivoluzione digitale (Bollati Boringhieri, pagg. 128, €15). Secondo l’autore, per orgoglio di casta personaggi come Franco Fortini e Pietro Citati hanno continuato a riconfermare il paradigma incontrastato del sapere umanistico, anche quando appariva ormai privo di rilevanza. Sostenitori della letteratura come unico viatico di conoscenza piena e assoluta appaiono, a detta di Mazzarella, Asor Rosa, Giulio Ferroni, Claudio Magris, George Steiner, Marc Fumaroli, vestali di un’idea di «Belle lettere» tramontata da un pezzo. Mentre scrittori come Kundera e DeLillo, dopo Calvino e Borges, e poi Martin Amis, Houellebecq – ma anche Manganelli, Landolfi, Volponi e Gianni Celati – hanno dimostrato la fine dell’unico punto di vista, la dissoluzione della visione cartesiana, evidenziando nel contempo la porosità del reale e l’idea del caos non come disordine, bensì velocità di scorrimento del reale stesso, le istituzioni letterarie continuano a perpetuare un’idea conservatrice, se non proprio reazionaria. Usando Deleuze e Pierre Levy, sostenitori di una visione progressiva del virtuale («la virtualizzazione non è una derealizzazione, ma un cambiamento di identità»), Mazzarella scrive che la letteratura che non indaga tanto la realtà, quanto l’esistenza. Già Barthes nel 1970 parlava del testo come rete, luogo dalle molteplici entrate, senza gerarchie prefissate, in cui i codici si profilano «a perdita d’occhio». Il punto essenziale del libro consiste nel coniugare insieme letteratura e mondo visivo. Non necessariamente l’arte d’avanguardia – ormai annessa nel tempio della cultura, a cent’anni dal debutto – quanto piuttosto il «visivo» reputato di serie B: videogiochi, videoclip, l’arte mediale in Internet e nel web. La letteratura, fondata sulla lettura, sull’occhio, ha predisposto i tracciati su cui si è sviluppata l’idea contemporanea di visione, al di là degli stessi confini del libro. La proposta di Mazzarella è di riconfigurare l’interrelazione tra vecchi e nuovi media, come ci ha proposto Bolter in un volume cui nessun quotidiano, o pagina culturale italiana, sembra aver dato il peso che merita al momento della sua pubblicazione: Remeditation.
Per nostra fortuna, questa ibridazione di visivo e scritto, di letteratura e nuovi media, è entrata nelle pratiche di alcuni dei saggisti e critici più giovani. Non tutto è perso”.

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Cosa succede dopo?

Succede che Giorgio De Rienzo, legittimamente, sulle pagine de Il Corriere della Sera di sabato 19 gennaio 2008 interviene manifestando perplessità sul libro di Mazzarella e sul sostegno ricevuto da La Stampa attraverso gli articoli di Belpoliti e Baudino.-Vi riporto l’articolo di De Rienzo:

“Fa discutere il saggio di Arturo Mazzarella sulla letteratura dopo la rivoluzione digitale secondo il quale una serie di scrittori – Fortini e Magris tra gli altri – continuano a coltivare un’idea della scrittura letteraria, germinata dalla lettura di altri libri, come un viatico della conoscenza. Mentre altri indicano una via diversa in cui letteratura e comunicazione si toccano nella descrizione del caos non come disordine, ma come velocità di scorrimento del reale. Discorso complicato, la cui sostanza è questa: è in atto un mutamento che non si può arrestare, perché il trasformarsi della comunicazione emarginerà la letteratura che preferisce restare chiusa in sé.La Stampa, con servizi di Belpoliti e Baudino, in una rassegna svelta ricorda che Tondelli (maestro di almeno due generazioni di scrittori) dichiarò di “sentirsi più debitore verso la musica rock che verso i libri”. Poi mette in campo la provocazione forte di Pietro Grossi, che confessa di dovere al “libro-game la propria passione per la letteratura, perché leggere libri è stata sempre una fatica”. A spremerne il sugo, nei nuovi scrittori c’è una tendenza in cui la cultura popolare, fatta di canzoni pop e blog, diventa una sorta di enciclopedia di riferimento. Stando ai fatti ci capita oggi di leggere scritti rumorosi di giovani emergenti, che eliminano il silenzio e la lentezza della vecchia letteratura. Confesso: mi sento irrimediabilmente passatista e reazionario. Credo che silenzio e lentezza con cui si scrivono (e leggono) i libri siano beni da salvare, per una sorta di ecologia dell’anima: perché nell’allontanamento dal rumore e dalla velocità ci è rimasta l’unica possibilità di crescere e pensare».

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Il contrappunto di De Rienzo non passa inosservato e, pochi giorni dopo, viene ripreso da Nico Orengo sulla rubrica Fulmini di Tuttolibri del 26 gennaio.

Scrive Orengo: “Melanconico De Rienzo sul «Corriere», incupito dalle tesi di Arturo Mazzarella nel saggio «La grande rete della scrittura». Letteratura addio, non si fa nuova narrazione con la scrittura degli scrittori ma con quella pop, di rete, di blog, di libri-game e canzoni. Ma no, son sempre i vecchi, immutabili sentimenti a guidare la scrittura, che può e anzi deve essere meticciata con talento. Il «canone» non è rigido, altrimenti la letteratura sarebbe morta da tempo. Ogni tanto invece si ripresenta il gioco degli Apocalittici e integrati.”

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Bene vi ho riportato i termini della “questio”.

Vi invito a rifletterci un po’ su e a intervenire provando a rispondere a questa domanda un po’ provocatoria: è piccola la letteratura della Grande Rete?

scrittura-rete.jpg

E poi, per favorire la discussione, ecco altre domande:

- Ha ragione Mazzarella nel sostenere che la contrapposizione sempre più marcata tra vecchi e nuovi media è un luogo comune che, dopo la definitiva affermazione della rivoluzione digitale, appartiene ormai al patrimonio delle certezze collettive?

- Ha ragione Berardinelli quando sostiene che “prima c’era un super-io culturale, la società letteraria. Ora non c’è più”?

- Siete d’accordo con Belpoliti quando considera che per fortuna, questa ibridazione di visivo e scritto, di letteratura e nuovi media, è entrata nelle pratiche di alcuni dei saggisti e critici più giovani?

- Oppure ha ragione De Rienzo nel sostenere che silenzio e lentezza con cui si scrivono (e leggono) i libri siano beni da salvare, per una sorta di ecologia dell’anima: perché nell’allontanamento dal rumore e dalla velocità ci è rimasta l’unica possibilità di crescere e pensare?

- E cosa pensate della tesi di Orengo, in base alla quale son sempre i vecchi, immutabili sentimenti a guidare la scrittura, che può e anzi deve essere meticciata con talento? (Ovvero: il «canone» non è rigido, altrimenti la letteratura sarebbe morta da tempo)?

A voi.

Massimo Maugeri

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