LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » castelvecchi http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 STRAWINSKI di Alfredo Casella http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/07/14/strawinski-di-alfredo-casella/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/07/14/strawinski-di-alfredo-casella/#comments Thu, 14 Jul 2016 18:02:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7217 letteratura-e-musicaNell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Strawinski”, di Alfredo Casella (Castelvecchi).

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Recensione di Claudio Morandini

coperitna di StrawinskiStiamo assistendo a una sorta di renaissance di Casella: prima riscoperto come compositore, attraverso registrazioni di opere anche poco note e l’inserimento in cartellone (l’ultimo caso è “La donna serpente” riproposta dal Teatro Regio di Torino nella stagione 2015-16); poi, più recentemente, come infaticabile animatore culturale e scrittore di carattere. Abbiamo parlato qualche settimana fa della sua autobiografia “I segreti della giara” riproposta da Il Saggiatore; oggi ci dedicheremo a una ristampa altrettanto recente, lo “Strawinski” (sic) a cura di Benedetta Saglietti e Giangiorgio Satragni, con prefazione di Quirino Principe.
Che tra Igor Stravinskij e Casella fosse nata un’amicizia, sia pure non nutrita dalla frequentazione, è chiaro a chiunque legga “I segreti”; basterebbe ripercorrere il calendario delle esecuzioni con cui Casella ha ostinatamente e amorevolmente fatto conoscere al pubblico italiano sin dagli anni venti le opere del compositore russo (in particolare, ma non solo, il “Sacre” e “Les noces”, di ardua direzione per quei tempi) per rendersi conto della forte sintonia che l’italiano sentiva per le opere e il percorso stilistico e anche umano del compositore russo. Questa sintonia viene enfatizzata, anche a rischio di qualche forzatura, nel saggio su Stravinskij: questi è presentato come campione più autorevole di una modernità che parte dalle scuole nazionali, anzi in un certo modo le influenza, ma sa svincolarsene presto, e si emancipa da ogni debito nei confronti del passato ripercorrendolo liberamente alla ricerca di puri valori musicali; soprattutto, lo “Strawinski” secondo Casella è colui che sa coniugare la ricerca senza abbandonare la tonalità (a differenza di Schönberg, che da Casella è sempre stato studiato con grande interesse ma mai amato).
Per indicare la complessità di questo indirizzo, Casella non esita a usare, accanto al termine “rivoluzionario” (impiegato in particolare per definire la natura delle opere del periodo “russo”), il termine “reazionario”, in un’accezione positiva, nel senso di “reazione” alle mode e alle convenienze del tempo, insomma di “classico”. “Il fondo del suo pensiero è rimasto fondamentalmente quello di un creatore obbiettivo e sopratutto quello di un costruttore”, si legge nella conclusione. Casella, lo si capisce quasi subito, nel leggere (e analizzare con un misto piacevolissimo di competenza tecnica e affabilità divulgativa) il percorso artistico di Stravinskij vi trova riflesso il proprio, e si sente pienamente rappresentato dalla poetica che ha animato le scelte estetiche del russo. E quando nel precisare il termine “classico” utilizzato per Stravinskij parla di “senso di festosità sempre associata però ad una composta severità” sentiamo che è sì alla ricerca di una definizione che vada bene per tutto ciò che da Vivaldi e Bach ha portato all’amico Igor, ma soprattutto per se stesso.
Certo, qualche differenza tra i due si avverte, quando Casella si sofferma su opere di cui si ammira il magistero ma non condivide fino in fondo i risultati. E qui ci si imbatte in qualche giudizio sorprendente. Per esempio, Casella preferisce “Le baiser de la fée”, che combina e orchestra musiche di Čajkovskij in un amalgama – a detta quasi unanime della critica – privo di veri sussulti, al precedente esperimento di “Pulcinella”, in cui, a suo dire, le musiche di Pergolesi e di certi suoi contemporanei sono troppo strapazzate dalla prepotente personalità di Stravinskij, e il risultato finale suona come un match, privo di reale fusione, di spirito costruttivo. Per avere un’idea di quello che intende Casella basterebbe ascoltare la sua “Scarlattiana” op. 44 del 1926, traslitterazione davvero rispettosa, in cui il compositore del Novecento è tutto inchini (altro che i knock-out imputati a Stravinskij!) nei confronti dell’illustre collega del Settecento. Analoghe riserve di brillante arbitrarietà sono rivolte a opere per le quali Casella non rinviene una necessità, come ”Apollon Musagète” (a causa soprattutto della strumentazione) o il “Concerto per pianoforte e fiati”. Da ogni accusa di eclettismo si salva, curiosamente, l’”Oedipus Rex”, in virtù della solennità dell’opera, e da ogni accusa di tiepidezza la “Perséphone”, opere che vengono poste da Casella accanto al vertice indiscusso del periodo di mezzo stravinskiano, la “Sinfonia dei Salmi”.
La prima stesura del libro di Casella risale al 1926, ed è stato il primo saggio dedicato a Stravinskij in Italia; è stata robustamente rielaborata e integrata nel 1946, quando l’autore era gravemente ammalato, l’anno successivo alla scrittura dello “Stravinskij” di un sodale e amico di Casella, Gian Francesco Malipiero (ripubblicato da Studio Tesi alla fine degli anni novanta, non più in commercio da un pezzo, ahimè) e ben prima dello “Strawinsky” di un suo brillante allievo, Roman Vlad; uscì all’indomani della morte del compositore italiano, che non fece perciò in tempo a conoscere le svolte successive del russo, gli estremi capolavori del neo-classicismo (termine che Casella detestava, ma pazienza, qui ci torna utile) e soprattutto quelli degli ultimi decenni, caratterizzati dalla svolta seriale e dall’acquisizione via via più estesa della dodecafonia. Chissà che cosa ne avrebbe detto, Casella, che guardava allo sperimentalismo atonale e alla dodecafonia un po’ come a malattie infantili del Novecento, alla stregua dell’impressionismo à la Debussy.

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A cura di Benedetta Saglietti e Giangiorgio Satragni

Prefazione di Quirino Principe

Lo Strawinski di Alfredo Casella, che scriveva così il nome dell’ammirato collega, fu il primo libro in assoluto sul compositore russo: uscì in forma sintetica nel 1926, fu poi interamente rielaborato, ampliato e finito nel 1946. Edito nel 1947 dopo la scomparsa di Casella, ma con Igor’ Stravinskij ancora in attività, il testo passa in rassegna con mirabile sintesi ognuno dei lavori che Stravinskij aveva fino ad allora composto, attraverso la penna di un Casella scaltro nell’evidenziarne con limpidezza i caratteri basilari. In queste pagine appassionate è rappresentata la visione di un musicista attraverso gli occhi di un altro musicista: Casella conobbe personalmente Stravinskij, ma ciò non impedì un’indipendenza di giudizio che gli fece riscontrare anche nei lavori più avanzati tracce di strutture classiche, secondo un’estetica tipicamente caselliana.

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Alfredo Casella (1883-1947). Compositore, pianista e direttore tra i più celebri della sua epoca, figura chiave nella musica classica e contemporanea italiana e internazionale. Fu autore di lavori orchestrali, da camera, pianistici nonché per il balletto e il teatro in musica. Vi affiancò un’intensa attività di saggista e recensore.

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ALBERTO SPADOLINI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/10/05/alberto-spadolini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/10/05/alberto-spadolini/#comments Mon, 05 Oct 2015 14:22:47 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6908 In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Alberto Spadolinidi Ignazio Gori (Castelvecchi, 2015), con un’intervista all’autore a cura di Claudio Morandini.

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“Alberto Spadolini” di Ignazio Gori – Castelvecchi, 2015

Conversazione con l’autore a cura di Claudio Morandini

Chi era Alberto Spadolini e perché ci siamo dimenticati di lui? Ignazio Gori, nel ritratto del “Danzatore, pittore, agente segreto” Alberto Spadolini (Castelvecchi, 2015), risponde a queste domande scegliendo la via del resoconto amabile e scrupoloso – in cui però, sottilmente, la reinvenzione letteraria ha una parte preponderante.
Sin da adolescente Alberto Spadolini (nato nel 1907) ha ammaliato pittori, scultori, artisti, ai quali è apparso come un’epitome di bellezza maschile; il suo mondo, tra l’Italia e la Francia con diramazioni negli Stati Uniti e altrove, era frequentato da nomi come Bragaglia, D’Annunzio, de Chirico, Bontempelli, Cocteau, Joséphine Baker, Picasso, Marlene Dietrich, Maurice Chevalier e molti altri. Nessuno di loro si è mostrato indifferente al fascino (artistico e umano) di questo personaggio: eppure, nonostante la vastità dei suoi interessi e l’impressione che suscitò ai suoi tempi, Spadolini è stato rimosso dalla memoria collettiva e ridotto a culto di una ridotta nicchia.
Gori evidenzia bene il vorace amore di Spadolini per la vita, l’entusiasmo mai disgiunto dalla ricerca della perfezione. Ne fa un personaggio complesso e sfuggente nella sua complessità, non contraddittorio ma articolato, mai caricaturale, nemmeno nei momenti in cui l’eccesso o l’improvvisazione sembrano togliergli spessore trasformandolo in un semplice corpo perfetto.
Che l’interesse per questa figura eclettica ed eccentrica sia frutto di passione autentica è chiaro sin dalla Premessa, in cui Ignazio Gori confida la scoperta della «bellezza» e dell’«eleganza» di Spadolini attraverso la visione di un’antica foto di Dora Maar, Uomo nudo con sfera in mano. Questa confidenza mi ha ricordato quell’altro romanzo biografico, anch’esso sottile gioco di invenzione e documentazione, che è il Riefenstahl di Lilian Auzas, in Italia pubblicato nel 2013 da Elliot.
Talvolta, nella ricostruzione d’epoca, Gori si concede qualche pennellata stilistica d’antan: ed ecco che la partenza del giovane Spadolini viene descritta con queste parole: «si sente libero di sciogliersi i calzari materni, di riempirsi il petto di giovane sparviero e d’involarsi lontano dalla sua dolce Ancona». In altri punti, l’ispirazione dell’autore, nella descrizione di pose e movenze di personaggi, sembra essere certo cinema muto dei primi decenni, ancora teatrale: così è nelle scene delle visite da D’Annunzio, o (e qui il riferimento al cinema muto è esplicitato) nella partenza alla stazione dopo la chiusura degli Indipendenti di Bragaglia, o nelle numerose altre scene di interni – quelle in cui Spadolini, con la sua bellezza e prestanza, seduce qualcuno magari senza volerlo.
Insomma, c’è materia sufficiente per una conversazione con l’autore Ignazio Gori.

- Spadolini attrae, turba, seduce. Nei campi non solo artistici in cui si muove (nella pittura, nella danza, nella canzone, nel documentarismo, in ogni attività creativa a cui si dedica, persino nelle parentesi spionistiche, esoteriste e mistiche) provoca reazioni mai tiepide, eccessi di generosità e di trasporto oppure scossoni, gelosie, rivalità, pettegolezzi feroci. Certo, i suoi dipinti possono apparire di fattura modesta, e gli elogi di amici artisti ci suonano francamente esagerati, condizionati più dal fascino dell’autore che dal valore delle opere. Quanto alla danza, per lui è passione, poesia, insomma non essenzialmente tecnica; per questo, Bragaglia lo ha definito “danzatore barbaro”. I rarissimi frammenti che ci mostrano Spadolini su un palco confermano questo giudizio.
Mi pare, insomma, che l’aspetto più determinante della sua vita sia stato un prodigioso dilettantismo. Sei d’accordo con questo giudizio?
Decisamente sì. Nel caso di Spadolini però il “dilettantismo” ha un valore intrinseco alla sua dirompente espressione poliedrica; si tratta quasi di uno showman a tutto tondo, ma di natura raffinata. Probabilmente Spadolini aveva un contenzioso aperto fra istinto e professionalità, avendo tra l’altro intrapreso lavori diversi, come la scenografia e la danza. Ma forse non è questo il punto. In Spadolini quello che affascina e sorprende è un istinto – barbaro e charmant allo stesso tempo – che lo ha portato a una carriera scintillante, decisamente ben oltre valori critici universalmente riconosciuti, anche se non vanno trascurate delle caratteristiche uniche, che rendono esclusivi alcuni suoi exploit, parlo della sua personalissima interpretazione danzante del “Bolero” di Ravel, e anche di tutta la serie di dipinti sulla danza, definiti veri e propri scrigni allegorici, di tipo esoterico. La forza di Spadolini sta dunque proprio nella sua istintività artistica, in un opportunismo camaleontico e in un gusto per il bello sopraffino.

- Fenomeno di massa, cresciuto al di là dei meriti artistici, Spadolini è stato tra i primi personaggi vittime del gossip. Eppure, paradossalmente, oggi è ricordato da pochi. Perché, secondo te, è stato oggetto di questa sorta di damnatio memoriae?
L’Italia purtroppo è il “Paese senza memoria” per eccellenza, ma il caso-Spadolini è particolare. Ha lasciato il paese molto giovane, dopo il declino, provocato dal regime fascista, del Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, dove Spadolini lavorava come scenografo, per approdare a Parigi, allora la capitale mondiale dell’arte, delle opportunità. Molti italiani hanno deciso di trasferirsi a Parigi, su tutti il pittore e poeta Filippo de Pisis. Il vuoto temporale è stato enorme, perché ritroviamo Spadolini in Italia quasi solo un ventennio dopo e infine nell’ultimo periodo della sua vita, quando decise di tornare nelle sue Marche. Nel frattempo il regime non permetteva a personaggi “scandalistici”, come lo era in parte Spadolini, di catturare l’attenzione popolare, tutta accentrata sui valori della famiglia e sull’arte razionale e razionalista. Gli stessi Cocteau, Josephine Baker, Picasso (osteggiato perché “comunista”), Jean Marais, e altri, non divennero popolari in Italia se non alla fine degli anni ’40.

- Spadolini entra nelle vite già avviate dei personaggi con cui ha a che fare «con una dolce insolenza», come tu dici del suo incontro con la contessa Yvette de Marguerie. Questa «dolce insolenza», così ricorrente, assieme alla passione sincera e anche ingenua disseminata generosamente in ogni cosa, può essere considerata una delle ragioni del suo fascino?
C’è una bellissima poesia di Brecht intitolata “Consigli di una puttana vecchia a una puttana giovane” dove l’autore in sostanza fa dire alla vegliarda il suo consiglio più prezioso: Non bisogna innamorarsi mai. Secondo me Spadolini, consapevole del suo fascino, nella sua vita non si è mai innamorato veramente, cavalcando l’attrazione che esercitava su straordinari personaggi, ma rimanendone distaccato, quasi intoccabile. Ha attraversato la sua epoca – il fulcro artistico del Novecento – sollevato mezzo metro da terra, leggero come una piuma. La presunzione di Spadolini era probabilmente supportata da un ego smisurato, da una padronanza dei propri limiti con pochi eguali. Paul Colin gli diede la chance di diventare aiuto scenografo quasi sulla parola; Josephine Baker rimase folgorata la prima volta che lo vide danzare; e così tanti altri. Non può essere stato sempre un caso.

- Tu parli di uno Spadolini teso sempre tra due poli, da una parte la carnalità passionale (e, legata a questa, la danza e le altre attività artistiche connesse a questa), e, dall’altra, una spiritualità che oscilla tra l’esoterismo e la riscoperta del cattolicesimo delle sue origini. Nel tracciare le contraddittorietà della sua vita, lo mostri sempre comunque come una figura credibile, sincera, qualunque fosse l’interesse del momento.
Perché era così. Alberto Spadolini è il prototipo dell’italiano, avendo mostrato un lato profondamente e sinceramente cattolico, intriso di arte barocca, e un lato passionale, carnale, quasi irrefrenabile. Si può essere, come è stato detto, cristiano e libertino? Forse sì, anche se “libertino” non è il termine adatto per definire Spadolini, perché parafrasando D’Annunzio – uno dei sostenitori di Spadò – ogni bel fiore è destinato a sbocciare, anche in sgarbo a Dio. L’arte sacra rappresenta una grossa fetta della storia dell’arte e anche se col tempo Spadolini ha cambiato genere, non ha potuto sottrarsi dall’esprimere una tenera spiritualità, riflessiva e autoriflessiva; non bisogna nemmeno dimenticare che il primo maestro di pittura di Spadolini è stato Gianbattista Conti, pittore in forza al Vaticano. Il caso più emblematico dove Spadolini sembra coniugare narcisismo intimità e fervore religioso è il San Francesco, una sorta di autoritratto alienato. Non a caso era il dipinto che più lo rendeva orgoglioso. Ma la spiritualità del marchigiano va ben oltre, fino ad abbracciare l’esoterismo, con il quale Spadolini dimostra di non voler fuggire da niente, tantomeno dalla sua innegabile contraddittorietà.

- Ammetti, nelle prime pagine, di lavorare alla vita del tuo personaggio come a una fiaba: edificando cioè, accanto alla congerie di dati reali e testimonianze storiche, parti morbide di invenzione, animate da «licenze poetiche», in cui «il sogno fa da collante agli eventi». Così, quando mancano le testimonianze dell’epoca, immagini come avrebbero potuto parlare di Spadolini i suoi contemporanei.
Come sei riuscito a conciliare la ricostruzione storica con l’invenzione letteraria?
Innanzi tutto devo dire di essere rimasto folgorato dalla bellissima biografia che Pietro Citati ha fatto di Katherine Mansfield, e poi anche di quella su Manouche scritta da Roger Peyrefitte. Anche per Spadolini ho dovuto attuare una scelta non facile, perché a differenza della Mansfield e di Manouche (altro personaggio conosciuto di persona da Spadolini) il nostro vantava una vita non priva di enormi vuoti, periodi con date ed eventi contrastanti, se non ambigui e confutabili; era in definitiva una esistenza semileggendaria, tutta da ricucire. Così ho optato per una ricostruzione frammentaria, dal tono magico, permeata di una leggerezza complice. Certo, si poteva anche scegliere diversamente, ma in questo caso, non essendo il personaggio di natura rigorosa o scientifica, una scelta di tono favolistico mi è sembrata la più adatta. È stato un lavoro difficile, soprattutto il coniugare il giornalistico con il poetico, il cronachistico con il gossip da rivista.

- Più volte, leggendo il tuo libro, mi sono tornate in mente le rivisitazioni biografiche oscillanti tra esaltazione e degradazione alla Ken Russell. Russell avrebbe adorato un personaggio come Spadolini, «uomo sorretto dai segreti» (secondo Bragaglia) teso tra «eleganza e mistero, modestia e sfrenatezza, fede religiosa e lussuria» (secondo te), pronto insomma per diventare un mito contemporaneo, o almeno un abbozzo di mito. Ma mi pare che tu abbia scelto strade diverse, che tu ti sia tenuto lontano dagli eccessi e dal rischio del kitsch. C’è un modello di biografia romanzesca a cui ti sei ispirato per tracciare la vita del tuo protagonista?
Spiegando meglio la risposta precedente, devo ammettere che mi sono concesso delle “licenze poetiche” ma solo in via deduttiva e verosimigliante. Prima ho citato le biografie scritte da Peyrefitte e da Citati, le quali rispetto alla mia sono senz’altro opere di carattere prosaico, quasi dei romanzi. La mia invece ha il carattere frammentario, perché descrivendo la vita di Alberto Spadolini passo dopo passo, ho utilizzato dei quadri sospesi, dove il protagonista entra ed esce di scena, come i personaggi dei sogni, eterni e integri, senza contaminare nulla né prima né avanti a sé; il passato e il futuro nelle favole non hanno rilevanza, solo la forza, la magia del presente ne ha. L’evitare il kitsch, che pur avrebbe avuto un grosso spazio nella vicenda spadoliniana, è stata una mia scelta precisa, come il non calcare troppo sugli eventuali eccessi che un artista del genere si concede. Come dire: il fatto che Cocteau fumasse oppio non sminuisce affatto la sua opera letteraria, anzi, la integra e la spiega, così in altri termini avrei potuto dire di Spadolini, ma non l’ho fatto perché non mi interessava. Riguardo a Ken Russell, ricordo il capolavoro L’altra faccia dell’amore e non nego di averci pensato più volte durante la stesura di questo libro. La vita del grande compositore russo Čajkovskij presenta caratteri simili a quella di Spadolini, con aspetti intimi contrastanti ed eccitanti. Ken Russell ci è riuscito in pieno, spero di esserci riuscito anch’io.

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RECENSIONI INCROCIATE n. 10: Alessandro Cascio, Sergio Sozi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/23/recensioni-incrociate-n-10-alessandro-cascio-sergio-sozi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/23/recensioni-incrociate-n-10-alessandro-cascio-sergio-sozi/#comments Wed, 23 Dec 2009 06:22:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1492 recensioni-incrociate.jpgQuesta nuova puntata de Le recensioni incrociate di Letteratitudine, trae origine da quest’altra che vedeva come protagonisti dell’incrocio Enrico Gregori e Francesco (Didò) Di Domenico. In quell’occasione promisi a Sergio Sozi e ad Alessandro Cascio un incrocio letterario (che avrà modo di svilupparsi – appunto - in questo post).
Devo dire che sono particolarmente lieto di questa combinazione, perché credo che Sergio Sozi e Alessandro Cascio siano molto diversi come approccio alla scrittura e come modo di scrivere. Ma quando le differenze diventano occasione di sano confronto – così come sarà nell’ambito di questa discussione -non possono che contribuire a una crescita comune.
I libri oggetto dell’incrocio sono “Menu” di Sergio Sozi (edito da Castelvecchi) e “Touch and splat” di Alessandro Cascio (edito da Historica).
Nemmeno a farlo apposta sembra che un libro faccia “il verso” all’altro (e viceversa). Se dal libro di Sozi emerge una sorta di condanna contro l’imbastardimento anglofono della lingua italiana (“parliamo una neolingua conosciuta come angloitalo“), il libro di Cascio risponde con un titolo in inglese (“Touch and splat“).
Colgo subito l’occasione, dunque, per introdurre i temi di discussione che vi propongo parallelamente a quello sui due libri.
Ecco le domande del post…

La lingua italiana rischia davvero di essere imbastardita dall’inserimento di termini provenienti da altre lingue?

Fino a che punto questa sorta di commistione può essere considerata contaminazione in senso negativo?

Qual è il discrimine e – soprattutto – chi (e come) dovrebbe decidere il limite entro cui tale commistione è arricchimento e normale evoluzione (superato il quale diventa, invece, svilimento della lingua)?

Certo, vedere la propria lingua perdere identità potrebbe generare anche rabbia…

E a proposito di rabbia (riferendomi al libro di Cascio) passiamo all’altro tema del post. E domando…

La società in cui viviamo è particolarmente rabbiosa? Più rabbiosa di quelle del passato?

Quale potrebbe essere un “giusto” antidoto contro la rabbia dilagante?

Seguono le recensioni incrociate di Alessandro e Sergio… più ulteriori recensioni dei due libri firmate da Salvo Zappulla (sul libro di Sozi) e Sacha Naspini (sul libro di Cascio).
Massimo Maugeri


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Il Menu” (Castelvecchi) di Sergio Sozi

recensione di Alessandro Cascio

Nel 2002, il visionario e geniale Kurt Wimmer, grande sceneggiatore ma regista di nicchia, scrisse e diresse Equilibrium, che narra le sorti di un’umanità priva di pensiero ed emozione, d’arte e cultura, confinata nella nazione della Libria. Il film in Italia non ebbe molto successo, ma solo perché la massa è balorda: se così non fosse ci sarebbe più gente ai musei che a teatro e forse, dopo tempo, i cross di Del Piero si ammirerebbero come fossero “arabesque et battement” di danza classica e sulle tribune del Petruzzelli nascerebbero schiere di Ultras che patteggiano per protagonisti e antagonisti con tanto di striscioni che inneggiano Romeo a lasciare quella calamità di Giulietta per la bella Rosalina. Io con i balordi ci sto bene, vivo in Sicilia, uno dei paesi più mafiosi del pianeta, ma a giudicare dal suo Il Menu, edito da Castelvecchi, lo scrittore Sergio Sozi non si limita soltanto a odiarli, ma ne delinea ironicamente ogni tratto, immaginandone la decaduta, tramutandoli in deficienti con comportamenti da primati, privi di alcuna attività mentale creativa. Per chi come me ama più il cinema che la letteratura, il paragone con Kurt Wimmer sarà un onorevole riconoscimento, perché credo che Il Menu sia un Equilibrium nostrano, in cui il primo segno del decadimento è la scomparsa della Pizza, che cede il passo agli Hamburger nel lento processo di americanizzazione che accompagnerà la nostra Italia fino alla formazione della nazione del Buruguay, con capitale Washington, in cui la vecchia Roma prende il nome di New Miami, Torino prende il nome di Bulltown e Milano di Mayland. Nel Buruguay del 2050 è proibito lo studio della Storia di cui tra l’altro non si sa molto perché gli ultimi testi tramandati dall’antica civiltà italiana, sono diventati del tutto incomprensibili. Per farvi capire il cammino dell’incomprensibilità che Sozi vuole mostrarci, pensate al fatto che un tempo, l’amore ci veniva spiegato da Shakespeare e la sua prosa e adesso, invece da Moccia. Se avete abbastanza cultura antica e moderna da poter fare un confronto, potrete notare che il saggio-commedia Il Menu, non ha nulla di così catastrofista, ma si limita ad anticipare i tempi, palesemente: che è come prevedere che un uomo in volo, gettatosi dal decimo piano, prima o poi arriverà al marciapiede.
Proprio in quella futuristica nazione, l’io narrante Lukin Philippucci scopre il diario del poeta scomparso Cesare Menicucci, che con le sue strofe, narra le gesta di quel popolo estinto dopo la chiusura dell’ultima biblioteca nel 2003. Ho letto che qualcuno ha definito “Il Menu” fantascienza. Credo che Asimov si sia rivoltato nella tomba, a meno che non l’abbiano cremato (allora si sarà scombinato nell’ampolla). Le basi del romanzo fantascientifico hanno come regola principale non scritta “evitare l’ironia, il futuro è una cosa seria”. Una cosa seria non è assolutamente il romanzo di Sozi, che sì, affronta temi seri come il cammino dell’esistenza e della cultura, ma lo fa da commediografo napoletano, anche se è nato a Roma, è cresciuto in Umbria e vive in Slovenia. Basta sfogliare il romanzo e imbattersi nel linguaggio usato nel 2050, per capire di cosa sto parlando

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Touch and splat” (Historica) di Alessandro Cascio

E l’Anticristo verrà dagli Stati Uniti?

recensione di Sergio Sozi

Allora. A prender il toro per le corna, dirò subito che ”Touch and splat” è un romanzo breve col quale il sottoscritto ha poco da condividere: stilistica e ambientazione umana e territoriale (ossia gli americani e gli U.S.A.), senso di fondo e scelte lessicali e sintattiche non appartengono in alcun modo, infatti, ai miei gusti, sia attuali che precedenti. Per i motivi che tutti sapranno se appena informati delle mie pubblicazioni – poche ma ”chiare e tonde”.
Tuttavia un critico è un professionista, non un qualsiasi cittadino che legge e giustamente scarta o apprezza senza dover render conto ad altri che non siano lui stesso delle proprie selezioni. Il critico ha il dovere di capire, paragonare e soprattutto affrontare: affrontare il toro-libro per le corna, scegliendo, fra le diverse tattiche di presa a sua disposizione, quella che egli reputi la piú confacente alla bisogna, al caso in sé, ma anche la tattica che gli consenta di restare moralmente ineccepibile. Il critico secondo me, appunto, deve avere una sua morale, ma non deve permettere che essa lo soffochi e ne pregiudichi il lavorio di analisi e comprensione di un testo. Cosí anche onestà, competenza ed intelligenza, nonché amore per la cultura e per l’uomo che ne sta dietro, sono il paradigma fondante di ogni uomo vero da sempre e per sempre – all’epoca di Platone come in quella di Petronio e di Moravia. A maggior ragione questa sia allora la ”bibbia” di un critichetto qualsiasi come il sottoscritto: che un libro sia sempre guardato oggettivamente, pur senza lesinare osservazioni anche d’ordine etico-morale o d’altra natura. Libertà di opinione all’interno dell’obbligo al rispetto per l’opera umana.
Dunque, dopo questa indispensabile premessa, direi che questo libro di Alessandro Cascio sia ben inquadrabile nello specchio della litote che ne cadenza una buona parte del filmico scorrere, questa: ”Quella rabbia non vi porterà nulla di buono”.
La litote è una figura retorica che afferma qualcosa negando il suo contrario. Dire che una cosa non ti fa bene equivale a esprimere in forma attenuata l’avviso che esplicitamente direbbe invece: ”la rabbia ti fa male”.
E appunto sulla rabbia dell’uomo (moderno e americano) e sullo psicotico evolversi di questo stato emozionale alterato in furia omicida è incentrato il romanzo breve di Alessandro Cascio, il quale pone un gruppo di giovani (o forse di quarantenni?) statunitensi nella scenografia, ormai dismessa, di una locazione nella quale vennero anni prima girate grandi pellicole western – ai tempi d’oro di produzione statunitense e poi, nella decadenza, con capitali e registi italiani o spagnoli: insomma Spaghetti Western, come da denominazione ormai stranota. In tale stralunato, obliquo e mortifero panorama di cartapesta, dunque, questi giovinastri mezzo suonati si affrontano nel gioco del ”touch and splat” (letteralmente: ”Tocca e spappola”). Si tratta di una finzione-divertimento piuttosto idiota, anzi direi demenziale e sottosviluppata culturalmente: questa gente – un branco di cosiddetti conoscenti – affitta l’area dal suo proprietario e si munisce di fucili a salve per liberarsi dagli istinti omicidi repressi nel corso della vita quotidiana sparandosi addosso scariche di proiettili di gomma colorati (che addolorano ma non ammazzano).
La cronaca dell’incontro conviviale di quei grezzotti (che dovrebbe avvenire, mi sembra di capire, in tempi attuali), ovviamente contempla una ricostruzione degli antefatti – ossia i rapporti esistiti precedentemente fra i protagonisti – e include la presentazione di un progetto sperimentale di ”riabilitazione carceraria” che lo psicologo Rupert Kensington compí nei primi anni Sessanta negli U.S.A.: l’EIR (acronimo italianizzato di Experiment of Hydrophoby and Rage-regression; appunto Esperimento di Idrofobia e Regressione della rabbia).
Cos’era?
Era l’attuazione nelle carceri statunitensi della teoria che l’uomo moderno (soprattutto quello in stato di detenzione, ma anche, si lascia intendere, quello sottoposto agli obblighi della normale vita sociale) non può prescindere da un connaturato impulso all’omicidio e all’aggressione fisica, insomma da una rabbia repressa che, se non sfogata in qualche modo, può solo esplodere in reali assassini (ossia al ritorno a delinquere per gli ex galeotti).
Perciò l’EIR venne applicato – dice il romanzo nelle sue precise digressioni – offrendo ai carcerati americani l’unico sfogo di un incredibile gioco di ruolo: delle giornate nelle quali i galeotti piú miti prendevano i panni delle vittime e i galeotti piú feroci li potevano angariare senza troppi danni reali:

”L’esperimento (…), consisteva nel munire un gruppo di carcerati (soggetti attivi) di fucili in plastica a pallettoni colorati e di creare un’atmosfera del tutto simile a quella della società esterna. Per far questo si travestivano i galeotti considerati più pacati (soggetti passivi) in cassieri di supermarket, mogli, datori di lavoro, padri violenti e ogni sorta di personalità tipo che potesse scatenare impulsi idrofobi.
Attraverso una riproduzione dettagliata di ambienti e situazioni, si creava quindi la circostanza che aveva portato il soggetto attivo al compimento dell’azione criminale e gli si permetteva di tramutare la “rabbia statica” in “rabbia dinamica” (Dynamic Rage) e di far venire fuori, attraverso l’uso delle armi finte, i propri fantasmi interiori per poi liberarsene definitivamente.”
(”Touch and splat”, pp. 49 e 50).

Però il giochetto non funzionò e negli anni Settanta venne fermato dalle Autorità perché i detenuti-vittima, una volta scontata la pena, presero ad inseguire ed uccidere per le strade i delinquenti che si rendevano colpevoli di omicidi e violenze sessuali. Si erano immedesimati nella parte della vittima cosí tanto da assumere il ruolo di giustizieri.
Come, dunque, commentare nel 2009 questa colossale americanata psicotico-sperimentale? Cosí: credo che il risultato fosse ovvio (Cascio mi darà ragione, penso), poiché l’assunto del signor Kensington era del tutto erroneo, per non dir folle tout court: se si permette ai piú cattivi di esprimere la propria brutalità sui piú deboli, i deboli incattiviscono odiando i loro persecutori mentre i cattivi restano tali. La rabbia del violento, infatti, mica è come l’aria negli pneumatici, che se la lasci uscire affloscia il tubo di gomma: la violenza genera violenza. Chi semina vento raccoglie tempesta. E l’assunto di Kensington era del tutto erroneo.
Ma…
…ma questo lo consideriamo ovvio, poiché tutto ciò è stato inventato di sana pianta dal bravo Alessandro Cascio, effettivamente geniale nel creare l’intero alfabeto del suo racconto, oltre che nel tessere una storia che ha sicuramente il merito di metterci al riparo da chi voglia considerare l’uomo come uno pneumatico. Un libro, allora, ”Touch and splat”, che vorrei possedesse le valenze che meno gli si potrebbero addossare: quelle consistenti nell’avvisarci di certe teorie bislacche e postmoderneggianti. Un libro in fondo violentemente nonviolento. E mi si perdoni l’ossimoraccio.

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IL MENU di Sergio Sozi (Castelvecchi)
recensione di Salvo Zappulla

Sergio Sozi è letterato autentico, i classici sono la sua passione (Dante, Petrarca, Boccaccio i maestri a cui si ispira), l’integrità morale la sua ossessione. Integrità che a volte sconfina nella rigidità ma non vi è dubbio che il personaggio sia un puro, la stessa purezza che trasmette nelle sue opere di narrativa. E non è poco riuscire a mantenere un simile candore in un mondo in cui il successo è spesso frutto di compromessi. Questo romanzo pubblicato da Castelvecchi (Il menù, pagg. 106, €. 13,00) ci dà la conferma della sua vena istrionica, la facilità di scrittura, la fantasia scoppiettante che sconfina nel divertissement irriverente e beffardo. Sergio guarda con nostalgia al passato, pretende rispetto per la lingua italiana. Fustigherebbe volentieri quanti scrivono senza possedere gli strumenti del mestiere. I congiuntivi bisogna azzeccarli. Tutti. Le tradizioni e la storia vanno salvaguardate, nella loro interezza. Quasi un’operazione pedagogico-patriottica la sua, una chiamata alle armi in pieno spirito risorgimentale. In questo romanzo, utilizzando la brillante idea di un diario appartenente al vecchio poeta Cesare Menicucci, ci offre lo spaccato di un’Italia smarrita, senza identità, diventata satellite degli Stati Uniti, vittima di un lento ma inevitabile processo di americanizzazione. La pizza cede il passo agli hamburger. Gli eleganti abiti da sera si inchinano dinanzi a un paio di sdruciti, rozzi e scoloriti paio di jeans. La nostra amata lingua rischia di essere sostituita da quella inglese. Il progresso ha prodotto imbarbarimento. Dio ci liberi dagli avanguardisti, sperimentalisti occasionali, confusionisti e manipolatori arbitrari della nostra grammatica. Alcune riflessioni filosofiche di Sergio sono degne del miglior De Crescenzo. “Il menù” che ci offre è gustosissimo, ci invita a sorridere ma anche a riflettere con malinconia, appartiene al filone delle opere fantasatiriche e Sergio Sozi è un personaggio tutto da scoprire, per conoscerlo, amarlo o, se è il caso… evitarlo.
da ‘’La Sicilia’’ il 15 ottobre 2009

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TOUCH AND SPLAT di Alessandro Cascio (Historica)
recensione di Sacha Naspini

Solo un avvertimento: “Rilassatevi: quella rabbia non vi porterà nulla di buono.” È così che Touch and Splat di Alessandro Cascio vi attacca. Di petto, come uno spintone che ti rimette a sedere sulla poltrona, dove pensavi di andare? Quel che succede da lì in poi, non è che te lo scordi così in fretta. Touch and Splat è un western moderno? È una beffa al genere? È un’evoluzione? È un tributo a certo cinema? È… Difficile dirlo. Forse tutto questo, forse no. Forse è altro ancora. Quel che è vero, è che Alessandro Cascio mangia cinema e lo rigetta sulla pagina formulando una storia che ti fa sbalzare di qua e di là come su una strada a sterro affrontata col pedale a palla. Salti temporali e pagine come fucilate che ti fanno fare capriole da ottovolante, arrivi alla fine del giro e ti ritrovi di fronte di nuovo a quel cartello di avvertimento: “Rilassatevi: quella rabbia non vi porterà nulla di buono”. Il fatto è che se prima ce l’avevi sepolta, adesso la rabbia ti abbaia dentro come un animale. Touch and Splat è il nuovo lavoro di Alessandro Cascio. Quello che dovete fare è solo aprire questo volume, e ci lasciate le penne. Vi porta via, dalla prima pagina. Ve lo sparate in un paio d’ore e quando tornerete, per qualche minuto, non sarete più quelli di prima. Quello che vorrete, sarà ricevere una busta. Un invito che vi avverte che domenica, al vecchio West Golden Paradise, ci sarà un Touch and Splat. Unico suggerimento: “Non ammazzate nessuno, fino a quel giorno”.

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/23/recensioni-incrociate-n-10-alessandro-cascio-sergio-sozi/feed/ 390
MONTEVERDE di Gianfranco Franchi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/#comments Tue, 26 May 2009 19:33:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/ Di Gianfranco Franchi avevamo già avuto modo di parlarne qui, in merito ai volumi “L’inadempienza” e “Pagano“.
Torniamo a incontrare questo giovane intellettuale romano, nato a Trieste, classe 1978, creatore e gestore del popolare Lankelot, nonché scrittore e consulente editoriale di varie case editrici.
L’occasione ce la fornisce l’uscita del suo nuovo lavoro letterario: Monteverde, edito da Castelvecchi.

Trovo che la nota al libro sia molto intrigante. Ve la riporto di seguito: “Nella schiera degli antieroi che solo la migliore letteratura sa regalarci, ecco il protagonista di Monteverde, trentenne laureato e precario sempre in cerca di lavoro, e di volta in volta arbitro, giornalista-magazziniere, inseritore notturno, tirocinante, addetto allo sportello. Un nostalgico che seppellisce il suo vecchio palmare sotto la pianta di rosmarino, tifoso accanito della Magica, spirito rock, collezionista di mug. Un esule, un italiano, un letterato che rivendica orgogliosamente il suo ruolo. Uno a cui ogni tanto appare all’improvviso un cane, per strada, con un occhio più chiaro dell’altro. Ma chi è davvero Guido, che percorre avanti e indietro la sua isola, Monteverde, sulle tracce di Pasolini, e che fa strani incontri al cimitero, tra le tombe di Keats e Gramsci? Un duro o un romantico? Un asociale? Uno che si innamora? Ascoltalo: è tutto ciò che non ha patria e si ribella, e sembra non voler morire mai”.

Monteverde inizia con queste frasi:
Sono una foglia che pesa ottanta chili. Sogno refoli di vento.
Sono una batteria che si sta ricaricando. Voglio ricaricare in pace, senza sbalzi di corrente. Sono un navigatore senza programma, non so orientarmi con le stelle. Sono lo stipite stanco di una vecchia porta. Sono un contratto firmato in bianco, sono una lettera senza mittente. Sono una tela d’acqua su una cornice di carta, un telecomando che non spegne niente; se mi punto sul cielo m’accendo, funziono. Sono un orologio che batte secondi sulle tempie della sua cassa. Sono un pallone bucato.
Sono una sigaretta che non si spegne, fuma soltanto.
Sono queste mani che dovresti mutilare.

Guido Orsini è l’alter ego di Gianfranco Franchi. Un personaggio che ci fornisce alcune indicazioni sulla condizione di alcuni giovani intellettuali italiani.

Ho chiesto ad Andrea Di Consoli e a Barbara Gozzi di dire la loro su questo libro, e vorrei discuterne con voi insieme all’autore (che parteciperà al dibattito). E poi vorrei interrogarmi (e interrogarvi) sulla figura e sul ruolo dei giovani intellettuali oggi in Italia.

Così mi domando (e vi domando)…

Qual è la condizione dei giovani intellettuali oggi in Italia? Quale il ruolo?

Gli intellettuali trentenni di oggi, in cosa si differenziano da quelli di venti, trenta, quarant’anni fa? In cosa si assomigliano? I loro sogni sono uguali o sono cambiati?

Inoltre ho chiesto a Gianfranco di mettermi a disposizione uno dei bellissimi racconti di Monteverde. Ho scelto Catafalco (potete leggerlo in coda al post), per un motivo ben preciso. È un racconto che affronta il tema della morte dal punto di vista dei bambini. Un racconto che mi ha fatto tornare indietro nel tempo. Che mi ha fatto domandare: quand’è stata la prima volta che ho preso consapevolezza della morte?
Giro la stessa domanda a voi. E aggiungo quest’altra.
Secondo voi, è giusto parlare della morte ai bambini? E in che termini?

Ne approfitto per sottolineare che, oltre che con Monteverde, Gianfranco Franchi è in libreria con: “Radiohead. A Kid. Testi commentati” (Arcana).

Di seguito, le recensioni di Andrea Di Consoli e Barbara Gozzi.

Massimo Maugeri

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MONTEVERDE di Gianfranco Franchi
recensione di Andrea Di Consoli (nella foto)

Monteverde (Castelvecchi, 310 pagine, 16,00 euro), di Gianfranco Franchi, è un romanzo di formazione (Franchi è uno scrittore nato nel 1978, è romano, ma ha sangue triestino, mitteleuropeo). I romanzi di formazione sono, specialmente se costruiti sulla falsariga della propria esperienza personale, romanzi totali, generosi, magmatici – e l’unico rischio che corrono (un rischio tutto rivolto al futuro) è quello di “dire tutto”, di mettere tutte le carte sul tavolo, di bruciare in un unico fuoco legni accatastati nell’arco di due decenni. Mettiamola così: il rischio è tutto di Franchi (ripeto, per il suo futuro di scrittore), ché il lettore ha la possibilità di leggere “un mondo” e una vita con un solo libro. Questa generosità, voglio iniziare così, è il primo tratto “generazionale” di Franchi. Ne sono profondamente convinto: Monteverde è un romanzo generazionale. Ma non lo è nel senso del “target”, ma in un senso più profondo, perché riesce a dire la vitalità e il dolore e lo spaesamento tachicardico dei trentenni italiani (ripeto, senza volerlo) come nessuno lo aveva mai fatto prima. Franchi, cioè, delinea – e vi riesce, sia letterariamente che sociologicamente – la “linea d’ombra” che ha separato quelli nati negli anni ’70 da un “prima” e da un “dopo”, sia privato che collettivo, perché a questa strana generazione è capitato in sorte uno strano “passaggio” epocale, ovvero quello dal Novecento “rudimentale” e sostanzialmente romantico a un Duemila ipertecnologico, afasico, post-comunitario, globale e non più provinciale (ecc.); pure, a quelli nati negli anni ’70 è accaduto, come capita a tutte le generazioni del mondo, il “passaggio” dalla vita giovane a quella adulta. Ecco: come ebbe a dire Eduardo a Napoli, durante i bombardamenti, alla prima di Napoli milionaria al Teatro San Carlo (parafrasandolo): “Gianfranco Franchi ha detto il dolore di tutti noi”. Ripeto, ne sono profondamente convinto. E ora provo a spiegare una cosa che per me è fondamentale, ovviamente sperando di riuscirci. Mi è capitato di leggere recentemente romanzi anche interessanti come, per esempio, La futura classe dirigente di Peppe Fiore. Qual è la grande differenza che c’è, poniamo, tra Franchi e Fiore? La mia risposa è questa: che in Franchi grida e canta la tradizione e la storia sociale e letteraria italiana, perché nonostante Franchi racconti il “pop” o il cosiddetto moderno (la musica, il calcio, il precariato, gli amori spezzettati, ecc.) il collo di Franchi guarda avanti e guarda anche molto indietro (è un collo tormentato), cioè verso i padri, verso le cose perdute, verso una tradizione che continua a parlare, sia pure nell’ombra. Non è nostalgia, ma qualcosa di più profondo, ovvero, per citare Pound, “la contemporaneità di tutte le epoche”. C’è anche un’altra cosa che rende Franchi “generazionale” e sostanzialmente novecentesco, creatura divorata dalla tradizione ultima, figlia delle altre: lo stile non calcolato, non algido, non controllato, ma oscillante, con punte di incandescenza sentimentale e lirica davvero commoventi. Ecco, anche in questo Franchi rischia, rischiando, sempre, la fraternità. E’ un cuore messo a nudo, Monteverde. E vorrei dire un’altra cosa. Molti reportagisti si sono provati a raccontare Roma per mezzo della realtà (operazione utile, ricca di informazioni); ma l’anima di Roma, ecco, quella chi l’ha raccontata? L’anima di Roma l’ha raccontata Franchi. Non avevo mai visto così profondamente appalesarsi l’anima provinciale romana (Michele Plastino, i negozi di dischi, le strade d’estate, Giuseppe Giannini il giorno dell’addio, i concerti, ecc.), senza il compiacimento del provincialismo, della “trovata” sociologica. Ora so finalmente – ne ho il catalogo, le parole, lo stile – le cose che ho perduto in questi ultimi vent’anni di vita. Ora so che non sono solo – scusate la confessione – in questo disperato tentativo di fare il pieno della vita, di dare un senso a tutte le cose perdute, alle paure, al tempo, di entrare nella letteratura con tutti gli sbandamenti (dell’umore, dello stile, della cultura) che rendono certi nostri libri così poco calcolati. Ecco, finalmente, un “compagno di strada” che cercavo da tempo.

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‘Monteverde’ di Gianfranco Franchiappunti di lettura di Barbara Gozzi (nella foto)

barbara-gozzi-2009.jpgMonteverde, il quartiere romano dove vive il protagonista – Guido Orsini – è luogo di memorie, amarezze, di lucide e crude registrazioni che gli occhi dell’autore, Gianfranco Franchi, ‘prestano’ al protagonista (alter ego apparso per la prima volta in ‘Disorder’ pubblicato da le Edizioni Il Foglio nel 2006). Occhi acuti, dunque, ironici quanto precisi, capaci di annegare nel dolore, nel malessere di un vivere faticoso, incerto e perennemente in bilico, ma anche delicati, desiderosi di esplorare, tentare ancora, e ancora.
‘Monteverde’ conclude un percorso preciso, iniziato con il già accennato ‘Disorder’, passando per ‘Pagano’ ( Edizioni Il Foglio, 2007). Un percorso costruito su frammenti, tasselli uniti e slegati che poco alla volta si insinuano, delineano una strada tortuosa eppure nitida.
Guido Orsini è un laureato alla disperata ricerca di quella che, per le generazioni precedenti era un passaggio obbligato, ovvero un posto se non propriamente definibile ‘fisso’ quanto meno stabile, la possibilità dunque di dedicarsi all’unica vera e inviolabile passione-ossessione ovvero la Letteratura. Ma Guido è anche sensibile osservatore della società che lo circonda, di questo ‘Monteverde’ specchio del suo vivere tra limitazioni volute e imposte eppure immerso in tanti sottili interessi importanti. In perenne contorsione, tra ricerche fallimentari, amori sfocati, musica e calcio, orari e vizi.
La struttura stessa del romanzo fornisce una prima guida alla decodifica: sei macro oggetti letterari, un antefatto che è uno ‘spot’ di ciò che il lettore affronterà, e cinque interludi tra gli argomenti principali. Su questi ultimi, gli interludi, vorrei soffermarmi.
Nel primo c’è un cane, che muta nella razza, con gli occhi di due colori diversi e che lo fissa (‘lo’ riferito a Guido sebbene in queste pagine che staccano volutamente la struttura amalgamandola, mi è parso di sentire prepotente e trasparente, la volontà, la voce unica dell’autore). Il cane è un simbolo, un messaggero, ripreso con intelligenza nella copertina e che ritorna anche nel secondo interludio.

“… e mi spieghi se mi stanno venendo a prendere o se c’è qualcosa che sta per capitare oppure se devo smettere di cercare Letteratura e quindi incanto, magia, segno, assurdo e meraviglia in tutte le cose. Io vedo simboli e significati in tutto. Sono un giocattolo giocato da mani sempre nuove, e tutto è un mio giocattolo. Forse anche la morte.” (pag.55)

Attraverso questo simbolo, dunque, la voce inizia a denudarsi, a svuotarsi di contenuti, a riconoscersi in perenne lotta. Non è una guida dunque, il cane, è probabilmente la necessaria virata che attraversa gli oggetti tematici e ne affonda tra le carni.

“Forse il cane voleva avvertirmi che stava per tornare il male, che si avvicinava e che avrei dovuto soffrire ancora per un pezzo.” (pag.113)

Ma anche più avanti, nel terzo interludio, si insiste e si riprende l’antefatto, si incastrano, sovrappongono sensi e significati, l’eco è forte, urgente e necessario. Disperato.

“… e non trovo riposo e non conosco più gioia. Sono una sigaretta che non si spegne mai, e un calice che non s’esaurisce. Sono un caffè troppo amaro, così ti stomaco.
Il malessere fatico a tollerarlo. Ogni mattina peggiora, non so come arginarlo.
Il lavoro è un’ossessione, o un ricordo grottesco che ogni tanto fa male.
Voglio dormire. Fammi dormire.” (Pag. 177)

Il malessere è un leitmotiv pressante, sintomo evidente di un vivere che è trascinarsi tra precariato, esperienze lavorative fallimentari, deriva degli affetti, disagio economico e confusione. C’è molto dolore in questo romanzo, molta fatica da acido e sangue, molta tenace affermazione di quei ‘sogni’ schiacciati ma mai dimenticati, impossibili da accantonare del tutto, perfino nelle scene più grottesche e ironiche, che strappano sorrisi amari, consapevoli.

“… e maledetto il dio della sofferenza, che sia verità o menzogna poco cambia e poco importa: per tutto quel dolore che t’intorpidisce, per quel veleno che s’insinua, e che sordo scava, scava. Sordo, scava. Ma quanto a fondo può scavare, quanto avido ancora può essere, per ossa, e sangue infetto, e polvere e cenere, cenere. Scava. “ (pag.235)

Infinte, nell’ultimo interludio l’immagine del ponte. Che è più d’un simbolo. È chiave di decodifica. Ognuna delle sei tematiche-oggetto di cui accennavo sopra, ovvero: casa, lavoro, donne, musica, la Roma e Patrie letterarie; ognuna è ponte dell’altra, sottile collegamento capace di far traballare l’equilibrio instabile senza disperderlo del tutto, la caduta pare vicina ma mai definitiva.
C’è speranza in questo libro, nella lotta, nel cogliere i fallimenti, il dolore, il male feroce quanto l’insanabile conflitto dei sentimenti, senza imporre conclusioni. I brevi capitoli, ognuno a suo modo indipendenti, possono – sì – cadere ma subito dopo c’è una risalita, una ripartenza, un tentare e ri-tentare in una visione complessa, onesta dell’essere giovani oggi, tra titoli di studio che paiono carta straccia, mestieri inutili, illusori e legami faticosi.
Guido non è persona facile, solitario, poco incline alle mediazioni, mal disposto a cedere ai compromessi, che non accetta la rassegnazione che vede nella sua generazione, inutilità che non ha sapore né odore, senza ‘quel’ fuoco che invece è così prepotente dentro di lui: la Letteratura, amore inviolabile, passione violenta, ragione di vita probabilmente.

“Ho scelta come patria la Letteratura in lingua italiana con opportune commistioni dialettali e linguistiche perché io sono amalgamato così; ho scelto come patria la Letteratura perché è terra di menzogna e oasi di invenzioni e meraviglia, non ha pretese d’essere vera o realistica ad ogni costo, né d’essere Storia: è storia delle storie, è tante storie assieme.” (pag.306)

È un romanzo amaro, ‘Monteverde’, pieno zeppo di scene, dettagli, schegge taglienti mai pietose. Ma anche sottilmente colmo di amore e sentimenti forti quanto pieni, intensi.
Franchi è autore poliedrico, acuto e preciso. La sua lingua si plasma, è materia in evoluzione dove nulla è lasciato al caso o all’intuizione del momento. In questo romanzo, il progetto iniziato con ‘Disorder’ raggiunge una maturazione notevole, nell’intensità, gli intenti incastrati, numerosi. La lunghezza, elemento di stacco dalle precedenti opere, è pregio e difetto di un’opera che non può essere vissuta come mero romanzo. Richiede tempo e pazienza, analisi e recupero dei frammenti, delle ‘storie nelle storie’. La suddivisione in oggetti narrativi semplifica al lettore parte della comprensione, dà modo all’autore di spogliare quel Guido alter ego amato e odiato, all’interno di precise tematiche. È dunque possibile che il lettore perda la ‘strada’ nel corso della lettura, eviti di oltrepassare un certo ponte, ad esempio quello della ‘Roma’ se non ha precisi interessi per il calcio o ‘Musica’. Franchi sa essere tecnico, intinge la sua materia narrativa in elementi fortemente caratterizzati dalla stessa vita che conosce e cerca. E sono rischi calcolati, io credo, necessari per collocare Guido e il suo raccontare in un contesto preciso e inequivocabile.

Ultima annotazione personale: Franchi che scrive d’amore è secondo me perla rara. Già in Disorder alcuni capitoli sono delicati sfarfallii, inni ai sentimenti fondi, lirici senza scivolare nella dolcezza filante che stomaca.

“Una goccia di spirito cade nel silenzio d’un, e aspetto ogni giorno un pezzo di te. Se tu sapessi, che.
Amare (davvero) è pericoloso e brucia; e quando non, è la fine. “
(pag.49 – capitolo ‘Pelle’, ‘Disorder’)

In ‘Monteverde’ ho ritrovato pagine di una dolcezza meno celata, più spudorata, che si mostra fiduciosa e nulla chiede, nulla aggiunge a se stessa. C’è ‘un’ bianco che rimbomba con la forza che toglie il respiro, un bianco che può essere tutto e niente, non colore che facilmente, da un momento all’altro, rischia di finire fagocitato dalle altre tinte eppure brilla, irradia.

“Scende dal cuscino e si mette col muso contro il mio, naso contro naso, occhi negli occhi. Oddio amore mio che occhi che hai, dovresti guardarmi sempre, io questi tuoi occhi li sento dentro sempre, anche quando non ci sei.
[…]
Bianca quella notte che non voleva finire, bianco il telefono che la mattina suonava, bianca la carta delle pizze, bianca la vasca del mio bagno, bianco il pacchetto delle sigarette, bianche le mie scarpe che dovevi sporcare. Bianco il foglio che hai sporcato, bianca la luce del domani.
«Non sono mai stata così».
«Ti amo».
«Ti voglio ancora. Vieni qua».
(pag.131-133)

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CATAFALCO
da Monteverde (Castelvecchi), di Gianfranco Franchi

Un bambino non accetta un concetto in particolare. Che qualcuno o qualcosa possa morire, perché significherebbe che quel qualcuno non è più vero, non è più reale e quindi non è possibile, le cose cambiano ma non si dissolvono, niente si disintegra. Soltanto i soldatini quando li butti nel fuoco, ma qualcosa rimane e poi non sono vivi, sono veri, è diverso. Un essere umano è vivo e vero. La forma mentis del bambino si fonda su tutta una serie di implacabili sicurezze, date per acquisite e mai più smarrite. Una di queste è che le persone che lo stanno allevando saranno protagoniste per sempre della sua vita. Credo che cominciai a capire che potevano levarmi qualcuno pochi giorni prima che mio nonno morisse. Rimase chiuso in ascensore per un tempo che mi sembrò sconfinato, in realtà saranno stati quindici minuti, venti, non lo so. Avevo quasi otto anni, stavo aspettando che tornasse da lavoro, ero là sulla porta, come sempre. Magari mi aveva comprato un giocattolo. Oppure mi avrebbe raccontato un’altra storia. Un sabato pomeriggio, d’un tratto il rumore dell’ascensore s’interrompe. Sento una campana. Chiamo nonno, nonno, e nonno non risponde poi da lontano dice sono rimasto dentro e io mi spavento. Corro da nonna, lei s’è già precipitata a chiamare il portiere. I minuti passano e io non vedo chi doveva tornare. Allora m’accorgo che qualcosa può portarmi via nonno. Non so perché ma in quel momento ero convinto che non tornasse più. Nessuno era mai rimasto chiuso in ascensore, nella mia memoria, e quindi pensavo significasse qualcosa di terribile e di doloroso e di definitivo. Mi dispero, batto i pugni sul divano, piango. Non tornerà mai più, grido. Qualcosa di incomprensibile mi stava portando via nonno. Poi riescono a sbloccare l’ascensore, nonno torna, mi tranquillizza ma non serve a niente. Ho capito che c’è qualcosa che sfugge alla mia logica di bambino, qualcosa di triste e di doloroso e non è come quando un genitore se ne va per mesi interi, perché poi so che torna, questo è qualcosa di cattivo e di invincibile e imprevedibile. Qualcosa di meccanico. Tutto quel che è meccanico è sbagliato. È così. E qualche notte dopo, l’avvertimento diventa reale. Dormiamo nei letti vicini, io sto nel sonno profondo. Ricordo che qualcuno mi prende in braccio e mi porta a dormire altrove. Solo questo, mi sveglio un attimo ma mi confortano e mi ripetono dormi, dormi dai, dormi ciccio. La mattina c’è un parente in salone. Dico Marco come mai, è mattina presto. Una visita, risponde.

Mi mandano a scuola. Papà viene a prendermi prima della fine, parla con la maestra, la maestra fa un sorriso e mi dice puoi andare. Non capisco, c’è qualcosa che non va. In macchina papà tira su col naso ma non piange, mi dice che nonno se n’è andato in cielo e io immagino che ci sia una scaletta, qualcosa del genere, magari dei gradini a chiocciola come nei palazzi, che appaiono soltanto quando lo decidi tu, per cui ha preso e ha deciso di arrampicarsi sino in cima, quindi non dovrebbe esserci più fisicamente, non dovrebbe più essere visibile, immagino. Come se fosse a lavoro o in un’altra città. Mi sento triste ma ancora non capisco. Saliamo su in ascensore che stavolta non si rompe e la porta di casa è spalancata e ci sono delle corone di fiori. Un’amica di famiglia mi leva il grembiule nero della scuola Sant’Ivo, mi fa poggiare la borsa prima dell’uscio, la consegna a qualcuno e non vedo chi è. Nel grande salone c’è una sorta di baldacchino che non ho mai visto, è di legno e sembra un letto ma letto non è, papà mi dice si chiama catafalco, sul catafalco c’è nonno disteso, intorno tante persone e non tutte le conosco ma tutte mi guardano con aria mista di dispiacere e di malinconia e di attesa. Nonna da una parte con delle amiche attorno. Papà mi prende per mano e mi dice vieni a salutare nonno. Nonno è là con le mani giunte e mi sembra tanto bianco. Papà cos’è successo chiedo, dice nonno è stato male. Posso toccargli la fronte dico papà dice vai e mi fa un sorriso poco convinto. Ho paura perché è freddo e penso ora gli parlo e si sveglia come dopo che era rimasto chiuso in ascensore, torna. Non torna. Nonno ciao. Non dice niente.

Arriva una babysitter e mi portano altrove, a giocare vorrebbero, e qualcuno dice il bambino non capisce i bambini non capiscono fatelo stare lontano da qua ma io voglio stare con nonno, così si sveglia. Saliamo al piano di sopra, ma io so già che dal piano di sopra se apro la porta a vetri posso sbirciare in salone e nel salone c’è il catafalco e sul catafalco c’è nonno che se n’è andato in cielo ma invece è rimasto qua. Mia sorella rimane con la babysitter al piano di sopra, io sgattaiolo via come posso e vado a guardare il catafalco, guardo nonno e penso ora si muove, ora si alza, ora parla e tutti sorridono e invece niente, sale su la compagna di mio padre e mi dice cosa fai dico nonno è morto e voglio stare con nonno mi fa una carezza e sussurra andiamo di là da tua sorella e io voglio stare con nonno. Ci penso tutto il giorno mentre mi fanno giocare e sento il campanello suonare anche se la porta è aperta, penso che sia una forma di educazione o di rispetto che non conosco, ma trovo giusta e però non mi sembra giusto che tutti vanno da nonno e io no.

Il giorno dopo quando mi sveglio a casa non ci sono ospiti, c’è odore di caffè e la nonna sta in vestaglia e piange con la signora domestica e papà invece sta in salone vicino a nonno allora vado là, dico papà perché stai qua, risponde perché è l’ultima volta che vede suo padre, dico perché ha le labbra viola, dice è normale quando te ne sei andato, allora questa morte è meno astratta, sei freddo, hai le labbra viola, sei muto, non guardi e non rispondi a nessun segno, sei come spento, papà è come quando spengo qualcosa con la differenza che non so come si riaccende ma ci deve essere un modo. E il modo no, non c’è. Cos’è questo catafalco che non capisco, la parola ha un suono che non c’entra niente con la morte, in mente ho De Falco che gioca centravanti nella Triestina appena tornata in serie B e non capisco che c’entri il calciatore De Falco col catafalco, il catafalco è un antico uso borghese, dice, quando qualcuno importante muore in casa e non all’ospedale succede che si lascia esposto nel salone sul catafalco, è un segno di rispetto. Si muore quindi si va sul catafalco. E tutti vengono a salutare il morto.

E poi arrivano dei signori con la cravatta, con l’aria seria, e portano sulle spalle una bara. E nonna piange forte e non mi fanno guardare mentre nonno va dal catafalco sulla bara, quindi vedo loro con la bara sulle spalle e escono dalla porta nonna dice qualcosa sulla bara che esce dalla porta e credo di aver capito che questo è qualcosa di odioso e di insopportabile ma è nelle cose di quando qualcuno muore e non si può fare a meno, non c’è alternativa, finisce così, con quattro estranei che ti caricano sulle spalle chiuso in una scatola di legno. E il catafalco rimane vuoto e tu non ci sei più nemmeno per i saluti.

Non capivo tutte quelle persone, a dire cose che non capivo magari sottovoce a papà e nonna, e poi era rimasto il catafalco vuoto. Era caldo. Negli anni, a partire da allora, non credo di avere più visto nessun catafalco in nessuna casa, quando è successo che qualcuno s’è arrampicato sulla scala che porta sin lassù sino a non essere più visto; ho visto persone distese sul letto, con le mani giunte, con o senza crocifissi. Tutti bianchi, labbra viola e via dicendo ma nessuno disteso sul catafalco. Questo vuol dire che nonno era proprio importante e che quando è morto tutti dovevano andare a salutarlo, perché aveva fatto cose buone e giuste per tante persone. Questo vuol dire che ci sono tradizioni italiane che non si sono spente col passare dei secoli. Questo vuol dire che nella morte siamo una volta ancora tutti diversi, a dispetto della propaganda. L’uomo grande, forte e intelligente che ha cambiato la storia della mia famiglia per generazioni s’è disteso su un catafalco, e là ha consumato gli ultimi incontri con la luce preziosa e prepotente della nostra vita. Non sapevo che in casa avessimo un catafalco, e non ricordo che sia stato portato in salone da qualcuno: non l’ho mai visto entrare, non l’ho mai visto uscire. Non voglio nemmeno sapere se è stato nascosto da qualche parte. Credo di no ma non voglio andarlo a cercare. So che dal 1985 ci sono due metri, nel salone, in cui non cammino volentieri: là, tra i due divani di pelle, di fronte al camino, dove ho incontrato la morte di un uomo che mi amava più di ogni altra cosa al mondo, e che non aveva finito di prepararmi alle cose della vita. Avevo quasi otto anni e lui sessantaquattro, non aveva una gamba da dieci anni, doveva morire nove anni prima ma invece lavorava e mi insegnava tante cose, aveva un grande ufficio con quattordici dipendenti, tante amanti, tante case, tanti progetti e tanto orgoglio per il nipote primogenito, romanista e sveglio. Non ho capito come sia possibile che una persona così possa morire, so che quando muore la mettono in salone su un catafalco, e da quel momento il salone cambia per sempre.

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