LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » centenario http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI ANNA MARIA ORTESE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/06/11/il-centenario-della-nascita-di-anna-maria-ortese/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/06/11/il-centenario-della-nascita-di-anna-maria-ortese/#comments Wed, 11 Jun 2014 21:15:56 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6193 anna-maria-orteseIl 13 giugno 1914 nasceva, a Roma, Anna Maria Ortese (morì, a Rapallo, il 9 marzo 1998).
A cento anni dalla nascita, nella tradizione di Letteratitudine, vorrei ricordarla con il vostro aiuto.

Dedico, dunque, questo “spazio” alla memoria di Anna Maria Ortese con l’intento di celebrarla, ma anche con l’obiettivo (e la speranza) di contribuire a far conoscere questa nostra grande  scrittrice a chi non ha ancora avuto modo di accostarsi alle sue opere, tra cui vanno citate senz’altro (giusto per ricordarne qualcuna): Il mare non bagna Napoli (1953, premio Viareggio), L’iguana (1965), Poveri e semplici (1967, Premio Strega), Il porto di Toledo (1975), Il cardillo addolorato (1993) e Alonso e i visionari (1996)…

Su LetteratitudineNews ospiterò alcuni contributi “speciali” (che saranno online già da domani mattina), ma chiedo a tutti di partecipare all’iniziativa lasciando un ricordo, un’impressione, una citazione, informazioni biografiche… ma anche link ad altri siti e quant’altro possa servire a ricordare Anna Maria Ortese e la sua produzione letteraria.

Pongo, di seguito, alcune domande volte a favorire la discussione…

1. Che rapporti avete con le opere di Anna Maria Ortese?

2. Qual è quella che avete amato di più?

3. E l’opera della Ortese che ritenete più rappresentativa (a prescindere dalle vostre preferenze)?

4. Tra i suoi racconti, qual è quello che preferite?

5. Tra le varie “citazione” della Ortese di cui avete memoria… qual è quella con cui vi sentite più in sintonia?

6. A cento anni dalla nascita, qual è l’eredità che Anna Maria Ortese ha lasciato nella letteratura italiana?

Come ho precisato sopra, qualunque tipo di contributo sulla vita e sulle opere di Anna Maria Ortese (citazioni, stralci di brani, considerazioni, recensioni, link a video e quant’altro) è gradito.
Siete tutti invitati a intervenire, dunque.

Vi ringrazio anticipatamente per la partecipazione.

Di seguito, vi propongo alcuni video relativi a un servizio della RAI dedicato alla Ortese.

Massimo Maugeri

© Letteratitudine

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IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI CESARE PAVESE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/08/il-centenario-della-nascita-di-cesare-pavese/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/08/il-centenario-della-nascita-di-cesare-pavese/#comments Mon, 08 Sep 2008 14:38:02 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/08/il-centenario-della-nascita-di-cesare-pavese/ Il 9 settembre decorre il centenario della nascita di Cesare Pavese. Mi piace ricordarlo qui, sulle pagine di questo blog, proponendovi gli interventi di Raffaele Manica e Raffaele La Capria – pubblicati sulla pagina cultura del quotidiano Il Mattino del 7 settembre – e quello di Raffaele Liucci – pubblicato sul Domenicale de Il Sole 24Ore del 31 agosto.
(Questo post potrebbe anche intitolarsi: “un triplo Raffaele per Pavese”).
Vi invito a leggere i suddetti interventi e a dire la vostra per ricordare la figura di questo grande intellettuale: scrittore, poeta, traduttore, editore (per Einaudi).
E a proposito del rapporto di collaborazione di Pavese con la Einaudi, vi segnalo l’uscita di un’antologia delle sue «lettere editoriali» fra il 1940 e il 1950 (Officina Einaudi, a cura di Silvia Savioli, con introduzione di Franco Contorbia, pp. 433, euro 22). Il libro è stato presentato domenica a Santo Stefano Belbo in un convegno organizzato dal premio Grinzane Cavour. Su Tuttolibri di sabato, per gentile concessione di Einaudi e degli eredi, sono stati anticipati alcuni brani tratti dalle lettere.
Riporto qui questo stralcio di lettera (“Meno imprese sceme”) che Pavese scrisse a Giulio Einaudi, da Roma, il 28 febbraio 1946

Caro Giulio,
sono costretto a ricordarti che la repubblica sociale di Mussolini cominciò a perdere veramente il credito e a essere condannata da tutti i benpensanti il giorno che i suoi impiegati non ricevettero più regolarmente gli stipendi, e un po’ alla volta li si ridusse a contentarsi di acconti. Per una volta passi, ma quando di mese in mese lo stesso fatto tornò a ripetersi, allora fu finita. Devo dirti che dal mese di ottobre u.s. io non ho più ricevuto regolarmente tutto in una volta lo stipendio; e passi. Ora mi accorgo che la stessa cosa si minaccia agli altri impiegati, specialmente quelli d’ordine, e allora dico basta, per me e per tutti. (…)
Se i soldi non ci sono, si facciano meno imprese sceme – si spediscano meno lampi; si aboliscano sedi – ma insomma si provveda. E soprattutto smettetela coi giornali che in altri tempi servivano a mandarci in prigione, e adesso tutt’al più a mandarci in fallimento. Ho pazientato tutto l’inverno perché la situazione era tale che nessuno pareva averci colpa; ora le cose cambiano. Se come primo risultato della tua politica di risanamento e ripresa, gli impiegati romani – compreso io – devono rimandare a domani il pranzo e la cena, allora ti consiglio di cambiare mestiere e lasciare il campo a gente dalla testa sul collo.(…)
Pavese

E ora, vi invito a dire la vostra.
Massimo Maugeri

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da IL MATTINO del 7 settembre 2008
di Raffaele Manica

Scrittore dai molti volti, sorretti da uno stile unificante con poche eccezioni, Cesare Pavese sembra occupare un posto sicuro nella percezione che si ha del Novecento italiano. Legato a un solo editore, Einaudi, è sempre stato in catalogo, segno di un pubblico anch’esso sicuro, come dice anche il prestito agli Oscar mondadoriani: ha avuto un paio di edizioni complete (la prima, degli anni Settanta, in volumetti dalle copertine grigie; l’ultima, nella Pléiade, in due volumi) e ora una silloge intitolata I capolavori ( Tascabili Einaudi, a cura di Mariarosa Masoero e Giuseppe Zaccaria, pagg. 687, euro 17,80), aperta da Paesi tuoi, scritto nel 1939, e chiusa da La luna e i falò, scritto nel 1949, pubblicato nel 1950 e premiato a luglio allo Strega, qualche mese prima del suicidio: dieci anni nei quali l’attività in prosa si consumò tutta, con quel ritmo scandito come computando i ciottoli delle sue colline, che aveva trovato forma nei versi con Lavorare stanca, nel 1936. Era nato il 9 settembre 1908, e dunque tutta la sua opera si chiude nel decennio che va dai suoi 30 ai suoi 40 anni. Eccezioni a quel ritmo che era la sua sigla, i Dialoghi con Leucò e i versi postumi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (postuma apparve anche la raccolta di saggi sulla letteratura americana). Eppure, nonostante si tratti di uno scrittore morto giovane, nulla in Pavese ha l’aria della gioventù, e tutto sembra invece visto attraverso una maturità precoce – acquisita anche grazie al magistero culturale e morale, di Augusto Monti – ma mai sicura di sé, e perciò spesso scivolante all’indietro, verso le età senza tempo dell’adolescenza e dell’infanzia, momenti di fioritura del mito e di tutti i miti individuali. Di ciò, Il mestiere di vivere, il suo diario, dà tracce costanti; e lo shakespeariano «la maturità è tutto» fu l’esergo posto alla Luna e i falò come si trattasse di un desiderio; come se la sua, dai passi così incerti, non gli sembrasse maturità vera. I vari volti. A cominciare da quello politico, praticato controvoglia, assecondando le esigenze del tempo. Sotto, il volto vero: dell’etnografo, dell’antropologo della civiltà contadina e piccolo borghese delle Langhe, che agiva con gli strumenti del letterato (al quale non fu ininfluente l’ampia ricerca sul Mondo magico di Ernesto De Martino): benché in mezzo ai fatti, preferiva piuttosto leggerli e interpretarli che viverli. Sotto ancora, il terzo volto: di un lirico che reprimeva di se stesso gli esiti di visionarietà più sospetta, costringendo la propria poesia, pur così impigliata in zone buie, a farsi capire. Se si manteneva in penombra, ebbene, che la poesia parlasse di quell’essere in penombra, ma senza compiacersi della penombra. Intere generazioni di lettori si sono abituate a Pavese fin dagli anni scolastici. Ciò, nella fortuna di uno scrittore, non è mai dato trascurabile, perché aiuta ad andare in memoria: ogni figura di scuola è per sempre acquisita, anche quando ad essa ci si rivolti: una presenza che le antologie furono pronte ad accogliere, anche se ciò non basta a spiegare il motivo di una perduranza di giudizio con poche incrinature e sempre rispettosa. È che il percorso di una letteratura tutta svolta tra mito ed esistenza ha una sua presa ineludibile negli anni delle domande grandi, che per tutti sono gli anni dell’adolescenza, e dunque delle prime letture adulte. Non solo Pavese sembra sempre tramutare un dato favolistico in un mondo senza favole e già di dura realtà, ma l’effetto del suo scrivere è una specie di luogo dove Omero ed Hemingway si trovano a praticare lo stesso linguaggio: si incontrano e si parlano, con l’ausilio di quel sottofondo morale e anche schiettamente moralistico che in Pavese il mito sempre presuppone. Quanto poi a dire che si capiscano, è un altro discorso. E in quest’altro discorso sta non la difficoltà letteraria incontrata da Pavese, ma la sua difficoltà esistenziale. Una specie di blocco tra due mondi separati da un vetro, che disperatamente vorrebbero toccarsi e non ce la fanno. Di qua il vivere e il suo mestiere, di là il mondo dei morti e dei miti. Il vetro dà, di lontano, l’illusione che siano, quei due mondi, sullo stesso piano, come se il tempo non contasse. Ma, avvicinandosi, e non potendo frantumare il vetro la vita stessa si blocca, e non sa più dove andare. Così se ne dilegua il portato. Deve essere questo il motivo dell’apparenza stranita che Pavese ha sempre nelle foto che lo ritraggono. Su quei tratti che è indecidibile se siano di giovane o vecchio, si vede scontare un disagio, un essere e un voler essere sempre da un’altra parte, dove si intuisce salvezza. Solo una fede potrebbe intervenire. Ma Pavese, del mondo mitico, benché solo lì riponesse attesa, fu esploratore distaccato. Benché laboratorio del suo pensiero, il mondo dei miti non poteva essere materialmente raggiunto né poteva diventare una categoria o un esercizio per il mestiere di vivere, tra gli inciampi che la realtà procura ed esige. «Non fate pettegolezzi», lasciò scritto prima di togliersi dal mondo. Si riferiva ai suoi amori, e alle delusioni maturate fino ai suoi quarantadue anni. Ma «non fate pettegolezzi», forse, voleva dire anche di queste altre ragioni: un invito a guardare oltre l’accidente del momento. Lasciò da parte la ventina di libri da lui scritti, si mise di fronte alla nuda vita, e il disincanto su sé si trasformò nella fretta di consegnarsi pure lui al passato, diventando così, per tanti, un piccolo e intenso mito novecentesco da incontrare nell’età difficile.

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da IL MATTINO del 7 settembre 2008
di Raffaele La Capria

Riaprire i libri di Cesare Pavese in occasione del Premio Grinzane Cavour a lui intitolato e del seminario che si terrà domani al Teatro Gobetti di Torino, è stato per me una grande emozione, perché ho ritrovato intatto quel rapporto di pensieri e di sentimenti che a suo tempo la sua presenza aveva suscitato in me e in quelli della mia generazione, che vissero la loro gioventù negli ultimi anni del fascismo. E perciò quando parlo di lui non posso accostarmi a lui con lo sguardo distaccato del critico ma sempre interviene l’autobiografia, i ricordi, lo stato d’animo di quando per la prima volta mi arrivarono nelle mani i libri americani da lui tradotti, quelli attraverso i quali lui conduceva la sua battaglia culturale per rinnovare i contenuti e le forme della letteratura italiana aprendola a nuova orizzonti. Leggere allora Moby Dick di Melville o Winesburg Ohio di Sherwood Anderson non era come leggerli oggi, era un’avventura spirituale, era come scoprire il mondo mitico della libertà in un momento in cui la libertà da noi non era di casa. Oggi, in occasione del Premio Grinzane, riaprendo Il mestiere di vivere ho ritrovato quel «fratello maggiore», che pur così diverso per origini e cultura – lui del nord io del sud – ho sentito così vicino quando mi ha fatto intravedere la sua dolorosa e tragica intimità, la sua natura ipercritica ed autodistruttiva, la sua tensione spirituale e la sua speranza nella funzione salvifica della poesia e della letteratura. E poi un’altra considerazione, col senno di poi: se metto in rapporto la segreta profondità e l’austero senso morale di queste pagine e di questo modo di dialogare con sé stesso, con il rumore e l’enfasi di quegli anni (siamo all’inizio del ’35, fascismo trionfante, e Pavese al confine per aver tentato di proteggere una donna iscritta al partito comunista, ma in realtà perché l’ambiente torinese da lui frequentato era inviso al regime), se faccio questo confronto mi accorgo meglio oggi che accanto all’Italia fracassona e altisonante ce n’era un’altra, minoritaria e ancora nascosta, forte e tenace, ma negata all’azione violenta, che è appunto quella di Pavese. Lui, Pavese, non è mai tenero con sé stesso, e quando dice di contentarsi «dell’umiltà con cui mi sottopongo al mio destino» poi aggiunge dubbioso; «se non è pigrizia o vigliaccheria». Un dubbio che in un super-cosciente come lui affiora sempre e in un certo senso lo perseguitò anche negli anni che seguirono, quando suo malgrado fu costretto ad impegnarsi dall’incalzare degli avvenimenti che portarono alla Resistenza. Rileggere oggi Il mestiere di vivere è stato diverso che la prima volta, quando uscì postumo nel ’50. Adesso ho potuto meglio addentrarmi nella dolorosa vicenda umana e letteraria ivi narrata con scrupolosa e a volte perfino imbarazzante sincerità, c’è proprio il suo cuore e la sua anima messa a nudo in queste pagine, sono un libro ma anche un documento, uno zibaldone, con osservazioni che rimangono impresse e che in un certo senso hanno anche influito sul mio modo di scrivere. Per esempio quando Pavese dice che «lo stile non deve influire nella formazione della storia: ad essa preesiste un nucleo di realtà che sono accadute. Letteratura è quando lo stile preesiste al nucleo fantastico»: ecco, qui a «letteratura» si dà un senso limitativo che ha la sua importanza polemica in un periodo in cui la bella pagina e i fautori dello stile prevalevano. O quando insiste sull’importanza nella propria opera del legame col Piemonte, con Torino, con la propria terra e con la propria origine: «Il parallelo tra me e il Piemonte – lo scriveva già nel ’35 – nella mia poesia futura questo elemento non dovrà più mancare» e comunque «saprei bene come assorbirlo in un’immagine e dargli un significato». Un legame che diventa mitico ed entra anche nella scrittura narrativa utilizzando la lingua locale e le sue forme per inventarsi una lingua nazionale. Tutto questo era già presente nel lavoro che Pavese andava facendo sugli americani negli anni Trenta e Quaranta, quando spiegava quali erano gli interessi italiani che lo guidavano nelle sue ricerche: Twain, Lewis, Anderson erano partiti dall’autenticità della provincia americana e avevano fatto diventare America ognuna delle province da cui erano partiti. Essi avevano insomma creato il «volgare americano», cioè un linguaggio nazionale parlato, diverso dallo slang e dal dialetto, ma altrettanto efficace ed espressivo, e soprattutto adatto a scrivere romanzi che rispecchiavano una realtà oggettiva, dove fatti e personaggi parlavano da sé, senza la continua mediazione di un autore. E non era questa l’aspirazione di quanti in quegli anni, in modi diversi, desideravano uscire dalla perfezione della prosa d’arte per colmare il distacco tra letteratura e vita nazionale? E per liberarsi dalla tutela di quei letterati che «troppo francamente avevano confessato il loro rispetto per i carabinieri a cavallo?». Un’ultima considerazione, molto personale, visto che ricevo oggi il Premio Grinzane per il mio libro L’Amorosa inchiesta, un libro sull’immaturità, sull’infantile inadeguatezza che permane anche nell’età adulta e rende la vita una somma di errori, facendocene sognare un’altra possibile. Questa immaturità, questa inadeguatezza che non è intellettuale (anzi il contrario), ma esistenziale, appartiene a parer mio all’eterno problematico adolescente che fu Pavese, al Pavese che scrive: «Nove anni sono passati e io rispondo ancora tanto infantilmente alla vita? E quella virilità che pareva cosa mia duramente conquistata negli anni di lavoro, era tanto inconsistente?». Ecco, anche per questo ho sentito Pavese come un «fratello maggiore» oltre che come un maestro.

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Da “Domenica” de IL SOLE24ORE del 31 agosto 2008

La tentazione della «casa in collina». Cesare Pavese di fronte alla Storia

di Raffaele Liucci

«Brutta cosa esser nelle grinfie della storia», scrisse Cesare Pavese a un amico nel dicembre ’44, quando s’era imboscato nel Monferrato. Partigiani e fascisti si contendevano il territorio, i bombardieri alleati non davano tregua, ma lui aveva preferito scegliere di non scegliere. Come dirà l’io narrante della Casa in collina (1948): «Si direbbe che la guerra io l’attendessi da tempo e ci contassi, una guerra così insolita e vasta che, con poca fatica, si poteva accucciarsi e lasciarla infuriare, sul cielo delle città, rincasando in collina». L’apatia e il disimpegno, del resto, erano sempre stati radicati in lui, a ogni latitudine. Qualche anno prima, il 3 luglio ’40, probabilmente turbato dalla propaganda bellica fascista, Pavese aveva bersagliato nel proprio diario l’imperante «saturazione di storicismo», cui si doveva «tutto questo parlare di rivoluzioni, questa smania di vedere accadere avvenimenti storici, questi atteggiamenti monumentali», dai quali discendeva la pretesa «di udire in ogni raglio d’asino lo squillo dell’avvenire».
Il Pavese «antistoricista» è stato a lungo rimosso. S’è preferito coltivare l’immagine d’un uomo fragile e schivo, certo, ma comunque allineato all’aura progressista di Casa Einaudi. Una vulgata zuccherosa che Norberto Bobbio, con il senno di poi, definirà «del tutto aberrante». In fondo, nel ’35 Pavese era stato condannato al confino soprattutto a causa del suo maldestro amore per Tina Pizzardo, la «donna dalla voce rauca» già compagna di Altiero Spinelli (Cesare s’era offerto di far da tramite nella corrispondenza clandestina fra lei e l’antifascista Bruno Maffi). Mentre il romanzo Il Compagno (1947) e gl’impacciati articoli scritti per «l’Unità» nel dopoguerra avevano rappresentato soltanto un imbarazzante pedaggio pagato al clima culturale dominante. Più rivelatrice invece era stata, il 23 marzo ’38, una sua annotazione diaristica: «non c’innamoreremo mai di una di quelle idee per cui si accetta di morire». Quasi una filosofia perenne.
Qualcuno obietterà: e lo sconcertante «taccuino segreto» 1942-43, reso pubblico soltanto nell’estate del ’90, nutrito di lodi alla Germania di Hitler, aperto alle ragioni della RSI e così astioso verso gli antifascisti? Carlo Dionisotti intravide in quelle carte la silhouette «minuscola e grottesca di un Céline italiano». Ma Lorenzo Mondo, che svelò per primo il taccuino sulla «Stampa», ha poi giudicato quei pensieri delle «schegge impazzite, di breve durata e nessuna esposizione pubblica». Zampilli umorali che, fra l’altro, non tradiscono una particolare consuetudine col linguaggio della politica. Forse influì la vicinanza a Giaime Pintor, all’epoca ancora ammaliato dalla cultura tedesca più «tenebrosa». E forse giocò anche l’insofferenza di Pavese per un certo antifascismo borioso e inconcludente. Una critica del resto condivisa pure dagli esuli della prima ora. Scriverà per esempio Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi nel ’49: «Ti confesso che è il disgusto, non per i fascisti, ma per molti antifascisti, che mi rende sempre più restìo a tornare in Italia».
Oggi Pavese ci appare come la voce più cristallina della «zona grigia», di quel mondo per lo più contadino che subì le guerre, il fascismo, l’antifascismo, senza mai aderirvi. Dopo l’8 settembre ’43, quest’area s’allarga e si dilata oltre misura, plasmando l’identità d’un paese ormai sfibrato, disamorato del duce e tuttavia diffidente verso i partigiani e desideroso soltanto che la guerra finisca al più presto: per ricominciare a vivere, ma senza quel «lavacro morale» che sognavano i più intransigenti nemici di Mussolini.
I personaggi di Pavese tendono sempre a sfuggire ogni complicazione ideologica, a difendere il loro modesto benessere, al riparo dal rullo compressore della Storia. Lo scrittore piemontese sembra trovarsi a proprio agio soltanto nelle alture rarefatte del mito, dove «non esiste il prima e il dopo perché non esiste il tempo» e «l’attimo equivale all’eterno, all’assoluto». Quando viceversa la Storia irrompe brutale nella vita degli uomini comuni, scatta immediata la ricerca d’un rifugio, in attesa che passi la tempesta e il cielo torni a schiarirsi. La collina, scrive ancora Pavese, «non è un luogo fra gli altri, ma un modo di vivere». Perché soltanto se restiamo in disparte possiamo osservare le cose lontane come se fossero vicine, percepirne l’essenza metafisica. In questo quadro, i «repubblichini» smarriscono ogni sfumatura moralistica, per essere elevati a paradigma della guerra, di ogni guerra, dove nessuno potrà mai dirsi innocente: «anche vinto il nemico è qualcuno, dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante».
Il suo ultimo romanzo, La luna e i falò (1950), è un groppo di nodi tuttora irrisolti. Ad esempio, nel cap. XXIX, le poche righe dedicate a un aborto clandestino finito in tragedia valgono più d’un trattato sulla condizione della donna prima della legge 194. Ma questo volume, soprattutto, anticipa l’odierno dibattito sul «sangue dei vinti». Il protagonista è anch’egli un fuggiasco. Trovatello cresciuto sulle Langhe, poi antifascista in un gruppo clandestino di Genova, è infine emigrato in California per sottrarsi a un ordine d’arresto. Quando però nel dopoguerra fa ritorno al suo paese natale ha ormai rimosso la trascorsa militanza. Il vento della Storia, del resto, ha smesso di soffiare, lasciando ovunque case bruciate, atroci vendette e cadaveri frettolosamente seppelliti che la terra restituisce alla luce. Commenta acido un mezzadro: «se tutti quegli uomini se ne fossero invece tornati a casa – i tedeschi a casa loro, i partigiani sui beni –, sarebbe stato un guadagno. Che facce, che gente – tanta gente forestiera non s’era mai vista». L’elegia della Casa in collina è dunque rimasta lettera morta. Il sangue delle vittime non è stato placato. L’odio e il rancore, anzi, persistono anche dopo la fine della guerra, che ancor di più appare come un evento insensato, incapace di riscattare quel sangue chiesto in sacrificio.
Uno dei primi, entusiasti lettori della Luna e i falò sarà Piero Calamandrei. Figura di spicco dell’Italia antifascista, il giurista fiorentino aveva nondimeno scansato la Resistenza, restando nascosto a Colcello Umbro, in un «larvato esilio», ove riempirà il suo diario di meditazioni sconsolate sulle illusioni della Storia. Forse proprio per questo, scrivendo a Pavese, Calamandrei potrà cogliere il carattere impolitico eppure universale della sua ultima opera: «Di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è filtrato attraverso la serena contemplazione del ricordo, le polemiche sui fini dell’arte e sulle relazioni tra arte e politica non hanno più senso. Gli artisti veri, senza proporselo, toccano sempre le ferite della loro società» (14 agosto 1950).

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IL CENTENARIO DELLA NASCITA DI ELIO VITTORINI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/04/il-centenario-della-nascita-di-elio-vittorini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/04/il-centenario-della-nascita-di-elio-vittorini/#comments Mon, 04 Aug 2008 13:32:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/04/il-centenario-della-nascita-di-elio-vittorini/ elio-vittorini-ritratto.JPGCent’anni fa – per esattezza il 23 luglio 1908 – nasceva Elio Vittorini.
Dedichiamo uno spazio (e un dibattito) a questo grande intellettuale e scrittore siracusano.
Di seguito avrete la possibilità di leggere quattro interventi.
Il primo è firmato da Ernesto Ferrero ed è stato pubblicato su Tuttolibri del 26 luglio.
Gli altri sono stati realizzati, dietro mia richiesta, dagli amici scrittori siracusani che frequentano questo blog: Maria Lucia Riccioli, Salvo Zappulla, Simona Lo Iacono (Maria Lucia, Salvo e Simona mi daranno una mano per moderare e animare il post).

Vi pongo alcune domande, estrapolate dagli articoli che leggerete di seguito.
Le prime sono di Ferrero (pensate con riferimento a Vittorini):
Chi è, cosa deve fare uno scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società? Cosa può fare per la collettività?
E poi (pescando dal pezzo della Riccioli)…
Cosa rimane di Elio Vittorini?
Quali sono stati i frutti della sua opera? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?

Insomma… Vittorini.
Un’occasione per ricordarlo. E per parlarne.
Massimo Maugeri

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Il centenario della nascita di Elio Vittorini
di Ernesto Ferrero (da Tuttolibri del 26 luglio 2008)

Non c’era davvero miglior modo di ricordare il centenario della nascita di Elio Vittorini (23 luglio 1908) che evitare la melassa buonista di simili occasioni e stare ai testi: come questo secondo e ultimo tomo che raccoglie i suoi articoli e interventi 1938-1965 (il primo copriva gli anni 1926-37, in cui ebbe tanta parte il soggiorno a Firenze e la furiosa attività traduttoria).
Sono oltre mille pagine, curate come meglio non si potrebbe da Raffaella Rodondi, degna allieva di Dante Isella. Dico subito che le sue note sono così approfondite ed esaustive che chi vuole occuparsi della cultura italiana del periodo dovrà passare di lì. Vi troverà una miniera di notizie e documenti.
Lo si frequenta poco, Vittorini, a parte Conversazione in Sicilia, che tiene ancora benissimo.
Da tempo è sparita dal nostro orizzonte la sua fervida progettualità utopistica a 360 gradi. Non parliamo poi della sua pretesa di concorrere attraverso la letteratura a una rigenerazione collettiva, addirittura alla nascita di un uomo nuovo. La tensione appassionata e sciamanica con
cui il Gran Siracusano insegue il moderno, inventandoselo anche quando non se ne vedono tracce, ripercorsa adesso risulta commovente.
Uscito da un arcaico mondo contadino, lo conosce troppo bene per abbandonarsi a idilli e nostalgie, che anzi non si stanca di deprecare. Gli interessa l’incontro-scontro con le metropoli, con l’industria, il nuovo mondo che dovrebbe nascere da una sorta di palingenesi collettiva. Ha la bulimia del futuro prossimo. Se le domande sono sempre le stesse (chi è, cosa deve fare uno
scrittore? In che modo deve mettersi in relazione con la società, cosa può fare per la collettività?), ricorrenti sono anche le risposte, pur nel variare di quell’«irta vegetazione di metafore» di cui parla Italo Calvino (ma forse più avvolgente che irta): scoprire qualcosa che ancora non si conosce, aggiungere qualcosa di nuovo all’umana coscienza, fuori dai lacci delle ideologie e dei concetti astratti. Certo non «suonare il piffero per la rivoluzione», come scrisse a Togliatti nel corso della famosa polemica su «Politecnico». Vittorini sognava una letteratura che sapesse interagire al livello più alto con tutte le attività umane, che ne fosse il lievito, lo stimolo permanente.
Era (dice ancora Calvino) totalmente immune dalla negatività esistenziale, dalle voluttà del nichilismo, dalle scissioni dell’Io che connotano il Novecento degli sconfitti contenti di esserlo. Anteponeva l’urgenza di un rinnovamento vero alla sua stessa creatività personale, esempio unico di disinteresse.
Nel volume c’è di tutto: saggi, articoli di varia occasione, recensioni, i risvolti per i «Gettoni» einaudiani (sempre imprevedibili, spesso a contropelo), schede di lettura, interviste autobiografiche (tenerissime), risposte a inchieste e dibattiti, elzeviri, corsivi, scritti sull’arte (Dosso Dossi ma anche Cassinari e Guttuso), dibatti sul fumetto (con Eco), abbozzi di storie letterarie, lucidi ripensamenti dei propri libri, ma si possono comunque identificare alcuni nuclei forti. Il gran lavoro sugli americani, anche in vista dell’antologia poi pubblicata da Bompiani (Saroyan, James Cain, Caldwell, Faulkner, Steinbeck, Wright, John Fante); gli interventi febbrili su Politecnico (1945-47), poi sul Menabò (1959-65), principalmente centrati sul solito dolente nodo dei rapporti tra cultura e politica e sull’impegno.
Non c’è campo in cui l’autodidatta non scateni le sue curiosità, creando collegamenti fulminei,
sorprendendo il lettore laddove meno se lo aspetta.
Parla schietto, trasferendo nello scritto la vivacità orale. Gran comunicatore, incantatore nato,
immune da rigidezze accademiche e specialistiche, mercuriale sempre. Così pronto ad ammettere i propri errori che anche un nemico non può che rassegnarsi ad amarlo. Dichiara
odi e amori con il candore degli innocenti. Dice (negli Anni 30) di detestare Voltaire e Balzac,
Kipling, Rilke e Kafka, D’Annunzio e Dostoevskij e idolatra Hemingway al di là del ragionevole,
ma è capace di mandare a Montale, dalle colonne di un periodico giovanile, un saluto di ringraziamento per le Occasioni appena uscite («il fatto più importante, oltreché il più felice, dei nostri ultimi mesi di storia umana»).
Perché nel cuore di Vittorini, felice perché sempre in movimento, lanciato verso il prossimo
ostacolo, non c’è la letteratura, c’è l’uomo. La letteratura è uno strumento da usare bene, come tanti altri. Per questo si sdegna perché nel primo governo repubblicano non è stata chiamata una sola donna, nemmeno come sottosegretario.
Ripete che il più umile dei problemi di una città ha un significato per la cultura in assoluto. Richiesto di autodefinirsi, si iscrive nella categoria dei «poeti civili», lui che non ha scritto un verso. E nel 1964 arriva a dire che la letteratura è ormai destituita d’importanza, si è fatta semplice mediatrice di cose scoperte da altri.
Che la nostra fantasia è vecchia, governata da una concezione del mondo che risale a Tolomeo. Negli ultimi anni, per coerenza, si butta a leggere di scienza, matematica, biologia,
astrofisica. Dice che bisogna continuare a scrivere senza la presunzione di credere che sia importante.
Come sarebbe bello che il calore delle indomite passioni di questo «indiano delle riserve» (come si definiva autoironicamente, ma senza indietreggiare di un pollice) arrivasse fino a noi, al nostro deserto di cenere governato dal marketing.

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Cosa rimane di Vittorini?
di Maria Lucia Riccioli

maria_lucia-riccioli.JPG23 luglio 1908 – 23 luglio 2008.
Vittorini cent’anni dopo la sua nascita.
Cosa rimane di uno scrittore? Ce lo chiediamo spesso, in particolare quando si verificano ricorrenze come quelle dei cinquantenari o in questo caso dei centenari.
La figura e l’opera di Vittorini sono state fondamentali per la cultura italiana tra le due guerre e oltre. Ma quali ne sono stati i frutti? Riusciamo a scorgerli ancora oggi? Vittorini è ancora un autore fecondo e vitale, a parte il suo ruolo di “editor” e organizzatore di cultura?
Siracusa dedica da anni un premio letterario ad Elio Vittorini e quest’anno è stata curata la pubblicazione di un volumetto che raccoglie estratti dalle sue opere più note, dei disegni realizzati da Guttuso per un’edizione di “Conversazione in Sicilia” che però vide la luce solo nel 1986. Speriamo che si realizzi il sogno di Siracusa di fare di più – magari una casa museo, una biblioteca – per onorarlo degnamente.
La Sicilia è stata sempre mater poco materna con i suoi figli più illustri e con Vittorini non ha fatto eccezione. Il figlio del ferroviere, cognato di Salvatore Quasimodo, che vide la luce nell’isola di Ortigia, alla Mastrarua, poi Via Vittorio Veneto, dopo i primi studi, il formarsi di una precoce coscienza politica e le febbrili entusiastiche letture, ha fatto la sua fortuna “in continente”.
Cosa resta, dicevamo, di Vittorini? Le istanze della denuncia civile? L’ideale riscatto degli umiliati e offesi? Vittorini patì anche l’ottusità ideologica degli stessi compagni di partito (Togliatti e il suo becero “Vittorini se n’è gliuto e soli ci ha lasciato”), oltre alla sostanziale incomprensione e indifferenza dei conterranei.
La sprovincializzazione della nostra letteratura? Grazie all’antologia “Americana”, grazie ad uno stile che risente della lezione degli autori statunitensi. L’esperienza neoilluministica de “Il Politecnico” fu fondamentale, come la sua opera di “talent scout”.
Il suo stile? L’ermetismo, il simbolismo allegorico? Sono ancora proponibili?
Certo rimane memorabile il lirismo dell’incipit di “Conversazione in Sicilia”:

Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi sono messo a raccontare. Ma bisogna dica che ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, i qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero a capo chino.vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo.
Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

Rimangono la passione per i libri e la letteratura, scoperta e passione giovanile:

È una fortuna aver letto quando si era ragazzi. È doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggi e le Mille e una notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha la storia degli uomini e tutto il mondo in sé, con la propria infanzia.

Vorrei che iniziassimo un dibattito innescato dalle mie domande e da quelle che ci verranno in mente. Sono onorata di scrivere su Vittorini per orgoglio di comune siracusanità e spero che i miei concittadini prima o poi si sveglino dall’apatica quiete della non speranza.

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Vittorini editore e il suo rapporto con il cinema
di Salvo Zappulla

salvo_zappulla.JPGVittorini è stato uno degli intellettuali più poliedrici del ventesimo secolo, autodidatta, letterato per vocazione, aveva una visione pessimistica della vita, una costante tristezza che esprimeva attraverso la scrittura. E’ stato sempre dalla parte degli ultimi, i lavoratori, gli oppressi. Loro sapevano che di lui potevano fidarsi, e lo amavano. Si definiva un solariano e questo termine ne racchiude altri che intendono antifascista, europeista, antitradizionalista. In poche parole: illuminista. Se consideriamo che egli dichiarava con forza le proprie idee, in un momento storico in cui un sistema autarchico consigliava una certa “prudenza”, ci possiamo rendere conto della grandezza di quest’uomo. E’ nota la sua collaborazione con la Einaudi per la quale curò la collana I gettoni che servì a lanciare autori come Calvino, Fenoglio, Romano, Rigoni Stern, Ottieri, Testori, Bonaviri ed altri. Altrettanto famoso – una macchia sulla sua coscienza di intellettuale – fu il suo rifiuto al romanzo di Tomasi di Lampedusa. Va precisato però che il romanzo subì prima un rifiuto da parte della Mondadori alla quale Tomasi di Lampedusa aveva inviato quattro capitoli tramite il cugino Lucio Piccolo. Il testo letto dai redattori (Ricci, Antonielli e Romanò) pur non ricevendo un giudizio del tutto negativo, non fu ritenuto idoneo alla pubblicazione. Vittorini in quel caso si limitò a dare il suo parere conclusivo senza leggere il dattiloscritto personalmente. Successivamente egli ricevette ancora parte del dattiloscritto affinché il romanzo venisse pubblicato su I gettoni, ma lo ritenne lontano per la sua idea della collana in quanto Il Gattopardo, emblema dell’inettitudine sociale e politica della nobiltà siciliana, era un tema ritenuto da lui piuttosto stantìo. Come sappiamo il romanzo verrà pubblicato da Feltrinelli nel 1958 a cura di Giorgio Bassani. Forse il suo rapporto con il cinema è il meno conosciuto rispetto alle molteplici attività di intellettuale. Alla fine degli anni Trenta non esisteva in Italia una vera e propria critica cinematografica e Solaria fu una delle prime riviste a dare ampio spazio a questo settore. Gli anni fiorentini (1930-1938) sono quelli in cui Elio Vittorini si avvicina alla critica cinematografica, anche se costituisce sempre un’attività marginale rispetto alla sua corposa produzione letteraria. Sono anni di difficoltà economica per la famiglia Vittorini, ed egli si presta persino a interpretare una parte nel film Romeo e Giulietta di Castellani. L’attività dello scrittore è frenetica ma l’impegno dedicato al cinema è autentico ed estremamente competente. Egli afferma: “L’essenza artistica del cinematografo è nel movimento”. E ad esso occorre, se necessario, sacrificare le bellezze accessorie. Quando si riferisce al movimento, di successioni, di immagini, di ritmo, si riferisce al montaggio così come è inteso dai grandi maestri dell’avanguardia russa. Aveva una grande passione per Charlie Chaplin, la cui arte – a suo parere – apparteneva alla storia. Era tale la stima per il grande comico, che nel numero 10 del Politecnico gli dedica un articolo, anche se non firmato, ma la cui impronta stilistica è inconfondibilmente sua. Vittorini attribuiva al cinema un ruolo fondamentale per l’educazione del popolo italiano e già, sempre nel Politecnico, secondo numero, pubblica un breve articolo dal titolo ”Il cinematografo dell’avvenire”, a cui fa seguito nel numero successivo un altro scritto a firma di Carlo Luzzari. Il cinema come specchio dei tempi e dei problemi sociali. Tutta l’attività di Vittorini si sviluppa all’insegna dell’impegno civile e ideologico, un neorealismo che non va inteso nel suo senso più ristretto ma che lascia spazio alla poesia, al lirismo, permeato da grande valenza etica. Sicuramente ha lasciato un segno tangibile sulla storia degli uomini.

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Vittorini e l’Isola
di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGSi dice che l’uomo sia una scaglia di terra. Che sia nato da fango misto a saliva. Si dice che è questo a suggerirgli i passi. Che è la forma di quella terra a dar corpo al suo corpo. Parola alla sua parola. Sguardo al suo sguardo.
Si dice.
Ma non si dice soltanto.
Si sente.
Si sente se è grumo di montagna, goccia di lago, o sale di mare.
Si sente se è uomo di isola o di continente.
Ecco. Elio Vittorini fu uomo di isola. E lo fu due volte.
Perché non fu solo siciliano. Ma Siracusano. E di quella parte di Siracusa che è isola dell’isola: Ortigia.
Il nome pare venga da “quaglia”, perché Ortigia è un isolotto arpionato alla città e che dall’alto richiama la fisionomia di questo uccello.
Ma io che ci abito, io che ne respiro l’accroccato divincolarsi tra strade dai nomi ebrei, arabi, greci, io che saluto lo scudo della dea Atena che svetta dal Duomo sol che apra le mie finestre – io so che Ortigia non è nome di quaglia.
E che – anzi – non è neanche nome.
Piuttosto modalità dell’essere. Del vivere.
Del morire.
Tanto che non se ne può prescindere per comprendere l’opera di Vittorini. Né si può ignorare il suo essere contemporaneamente dentro la Sicilia e fuori di essa, quasi su un battello pencolante, che con uno sboffo di corrente potrebbe mollare gli ormeggi.
Doppia isola, dunque. E doppia solitudine. Doppio errare.
Doppio esilio.
Perché l’isolano è esule. E’ straniero.
Ma l’isolano che dall’isola passa ad un’altra isola è quasi un pellegrino di mare. Un eterno viandante. Un Ulisse meno precario che deve fare i conti con una stabilità sempre da rincorrere.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.
A tal punto un duplice rimando ci costringe ad allungare lo sguardo – avanti e ancora avanti – a tal punto ci impone di sognare due volte.
E poi, allontanarsi due volte. Tornare due volte. Intascarsi non una, ma due manciate di nostalgia.
Credo che in questa somma di ostacoli sia da cercare anche il senso del viaggio. Della navigata che in “Conversazione in Sicilia” non solca solo lo stretto di Messina, non Scilla e Cariddi, non una fetta di mare.
Ma un portale. Un ingresso in una dimensione e poi in un’altra. Un varco tagliato da uno Stige.
Quando questo confine viene oltrepassato la memoria di ciò che ci precede vacilla. Perché rientrando in Sicilia e poi ancora in Ortigia, il passo si abitua all’ondeggio del mare.
Lo vedi che ti assale ovunque, se vai avanti, se guardi indietro, se torni a casa.
Ovunque, ovunque. L’acqua a frastagliarti addosso come un dolore. Di non poter che essere questo. Questo oscillare e questo complicato rientro che non si accontenta di compiersi come per gli altri.
Che per te si raddoppierà sempre.
A tal punto scava in noi, la forma della terra.

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CENT’ANNI DI VITALIANO BRANCATI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/06/centanni-di-vitaliano-brancati/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/06/centanni-di-vitaliano-brancati/#comments Sat, 06 Oct 2007 07:56:57 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/06/centanni-di-vitaliano-brancati/ Cent’anni fa nasceva Vitaliano Brancati (per l’esattezza il 24 luglio del 1907). C’è da dire che la ricorrenza non è passata inosservata. Se ne è parlato molto, quest’estate, sulle pagine culturali di quasi tutti quotidiani.
Vi propongo due video relativi alla bella mostra organizzata a Catania in occasione del centenario presso il centro fieristico “Le Ciminiere” (sponsorizzato dal Ministero dei Beni Culturali e dall’Assessorato alla Cultura della Provincia Regionale di Catania). Ne approfitto per ringraziare la professoressa Sarah Zappulla Muscarà per la sua disponibilità.

(Qualora non riusciste a visualizzare i video cliccate sui rispettivi titoli per poterli visionare direttamente su YouTube).

Di seguito vi riporto un mio articolo pubblicato sulla pagina Cultura de Il Mattino del 23 luglio 2007.

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Mostra centenario nascita Vitaliano Brancati (parte I)

Mostra centenario nascita Vitaliano Brancati (parte II)

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Cent’anni son passati da quel 24 luglio del 1907 che segnò la nascita di Vitaliano Brancati, autore siciliano che si è conquistato con merito un posto di rilevo nella storia della letteratura italiana del Novecento. Conquista avvenuta nonostante la prematura scomparsa, avvenuta a Torino il 25 settembre del 1954 quando aveva 47 anni: età – di norma – in cui uno scrittore comincia a dare il meglio di sé. Una ricorrenza da ben celebrare, dunque. La moglie Anna Proclemer – che al marito ha voluto dedicare un pensiero in cui esprime ammirazione e amore ancora vivi: «Darei quel che mi resta da vivere per avere la possibilità di leggere una tua pagina sulla realtà italiana di oggi» -, insieme alla figlia Antonia, domani sera a Catania presenterà alle «Ciminiere» il recital «Viaggio intorno a Brancati» e nello stesso giorno si aprirà la mostra «Dalla Sicilia all’Europa, attraverso Brancati», curata da Enzo Zappulla e Sarah Zappulla Muscarà, Annamaria Andreoli e Franca De Leo, nell’ambito di Etnafestival. Perché è bene ricordare il Brancati scrittore, ma gli onori della ricorrenza vanno tributati anche allo sceneggiatore di cinema, all’autore di opere teatrali, al saggista e giornalista. Sono tanti i meriti dell’autore nato a Pachino e cresciuto a Catania, ma tra tutti primeggia la capacità di aver saputo conferire alla propria opera una forte connotazione umoristica. Forse è proprio questa l’eredità principale che lascia. Del resto Brancati non ha mai nascosto l’importanza che egli stesso attribuiva al comico, come è dimostrabile da questo stralcio tratto dal volumetto I piaceri: «Si ha paura del comico come di un potere diabolico. (…) Il male di non sopportare l’ironia non è vecchio in Italia. Comincia col Seicento. Nel Cinquecento, invece, il popolo italiano possedeva, insieme col più alto senso della realtà (Machiavelli), la più intelligente e poetica ironia (Ariosto). Dopo quel secolo, l’ironia abbandona l’Italia, lasciando al suo posto una forma pigra, passiva, rozza come la vignetta o la barzelletta. Eppure in nessuna parte del mondo essa è necessaria come da noi». Sciascia individuò in Brancati lo scrittore nazionale che meglio aveva saputo rappresentare le due tragicommedie italiane: quella del fascismo e quella dell’erotismo, intrecciandole in un contesto in cui il rispetto della vita privata e delle idee dei singoli erano ignoti o dimenticati, e tratteggiandone – al tempo stesso – le manifestazioni comiche in guisa tale da inglobare nel comico anche le situazioni tragiche. Il comico, il grottesco, l’ironia beffarda, veicolati attraverso l’erotismo, esplodono in Don Giovanni in Sicilia e rimbalzano con intensità variabile nelle altre opere dell’autore siciliano, fino a cedere il passo al sorriso amaro che si trasmuta in ossessione tragica nelle pagine di Paolo il caldo. Nel corso delle celebrazioni le tematiche saranno approfondite e riproposte. Sperando che non venga riproposto con altrettanto zelo il termine «gallismo», anacronistico e usurato. Forse sarebbe meglio far riferimento al – più generico, ma efficace – «umorismo brancatiano». Come ha scritto Enzo Siciliano a proposito del Don Giovanni in Sicilia: «Non è lo straordinario caratteriale di una piccola comunità che Brancati racconta, ma l’ordinario della comunità nazionale. (…) Pensare che egli fosse semplicemente uno scrittore siciliano o catanese significa fargli torto: fare torto non solo alla vitalità della sua immaginazione, ma alla luciferina forza conoscitiva che la possedeva e che esprimeva». Ha ragione. Per questo comprimere, oggi, l’opera di Brancati nei confini angusti del «gallismo» potrebbe tradursi, implicitamente, in un’involontaria accusa di effimero e datato provincialismo.

Massimo Maugeri

Vorrei invitarvi a ricordare Brancati e le sue opere. Ci state?

Un suo libro che avete amato. Un film da lui sceneggiato, o tratto dalle sue opere, che ricordate con piacere. Una sua opera teatrale, o altro. Fate voi.

Grazie.

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