LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » centoautori http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 LETTERATURA DELL’IRONIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/03/19/letteratura-dellironia/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/03/19/letteratura-dellironia/#comments Mon, 19 Mar 2012 22:15:01 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/02/16/letteratura-dellironia/ Questo, sulla letteratura dell’ironia, è un post a cui tengo molto e che – di fatto, nel tempo – si è trasformato in una sorta di spazio permanente.
Sarà, dunque, uno di quei post che verrà aggiornato periodicamente con l’obiettivo – nella fattispecie – di sostenere la letteratura che dà spazio all’ironia (con particolare attenzione all’area partenopea… ma non solo).
Massimo Maugeri

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Sono molto lieto di riaprire questo spazio dedicato alla “letteratura dell’ironia” ospitando nuovamente Pino Imperatore (Re dell’humour-lab partenopeo), già presente in questo forum con altri suoi libri. Stavolta l’occasione dell’incontro la fornisce la recente pubblicazione del suo nuovo libro pubblicato dalla Giunti e intitolato “Benvenuti in casa Esposito“: un romanzo che, tra le altre cose, sta riscontrando un grande successo editoriale.
Si tratta della storia che racconta “le avventure tragicomiche di una famiglia camorrista”… la famiglia Esposito, appunto.

Il rione Sanità, dove è nato il principe della risata Totò, è uno dei più affascinanti e misteriosi di Napoli. Qui vive, con la sua famiglia allargata, Tonino Esposito, orfano di un boss della camorra. Tonino riceve dal clan un sussidio mensile e potrebbe vivere di rendita. Invece si intestardisce a voler imitare le gesta paterne, senza riuscirvi. Perché è goffo, sfigato, arruffone, incapace di difendersi: un antieroe tragicomico, che tra incubi e visioni, ingenuità e imbranataggini, ne combina di tutti i colori.
Uno spaccato divertente e allo stesso tempo crudele della Napoli contemporanea, città dalle mille contraddizioni e dalle tante difficoltà, capace però di non perdere mai la speranza in un futuro migliore.

Vi propongo, di seguito, la bella recensione di Ciro Paglia (pubblicata su Il Corriere Nazionale, nell’inserto Scritture&Pensieri curato da Stefania Nardini).

Avremo modo di discutere con Pino Imperatore di questo suo nuovo libro, ma – contestualmente – ne approfitterei per “allargare” le prospettive di dibattito sulla base delle seguenti domande che pongo…

- In che modo l’ironia e la “narrazione ironica” possono aiutarci a comprendere meglio i vizi, le contraddizioni, i paradossi di certe nostre realtà?

- Quali caratteristiche dovrebbe avere la “narrazione ironica” per adempiere a tali scopi?

- Cosa, viceversa, dovrebbe evitare?

- Riuscire a ridere, o a sorridere, di una realtà “difficile” a noi vicina, può aiutare a cambiarla o solo ad accettarla con più facilità? O né l’una né l’altra?

A voi!

Massimo Maugeri

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Il realismo comico? E’ qui alla Sanità!
Un affresco ironico e vero sul mondo della camorra napoletana

recensione di Ciro Paglia (da Il Corriere Nazionale – Scritture&Pensieri del 12 marzo 2012)
Benvenuti in casa Esposito” non è un libro che si legge tutto d’un fiato. No. Perchè pagina dopo pagina strappa la risata sonora, suggerisce mille spunti di riflessione, induce alla voglia di rileggere una descrizione, perfino di andare a scoprire, per chi non le conosce, quelle stradine del rione Sanità a Napoli dove accade tutto e nulla, dove i colori e gli odori si mescolano, le notizie si trasmettono con la velocità della luce, dove la vita è allegria, pessimismo, serenità, paura, euforia, pianto. E quando non è tutto questo è sorriso e amarezza. Dunque è un libro che cattura dalle prime righe e sequestra il lettore. Tant’è che dopo l’ultima pagina si ha voglia di conoscere meglio questo effervescente autore che ha saputo coniugare con distacco sentimenti e vizi, platealità e pudori, passione e rassegnazione di cui è punteggiata la napoletanità, anche quella becera e plebea. E lo ha saputo fare con destrezza Pino Imperatore, nato a Milano dove i suoi genitori erano emigrati ma napoletano jus sanguinis. “Benvenuti in casa Esposito” (Giunti editore) non è soltanto un viaggio nel mondo della camorra che l’autore – Pino Imperatore – ci fa rivivere con spietato realismo e con lo sberleffo di chi sa raccontarne le miserie, ma è anche un affresco di scuola napoletana, quella stessa scuola di Eduardo Bennato che con poche pennellate tratteggia i caratteri somatici della sua città: stanca, rassegnata, innocente, invasata, nuda, svergognata, tradita, condannata. E sono sfiziosi e contraddittori, plebei e sbruffoni, da ridere e da compiangere i personaggi che Pino Imperatore ci regala in casa Esposito o ci fa conoscere attraverso la ragnatela di rapporti più o meno autentici che gli Esposito hanno con le mille anime del quartiere. L’autore di questa recensione ha dovuto leggerlo due volte, da buon napoletano che vive all’estero “Benvenuti in casa Esposito”: la prima per riappropriarsi dell’essenza di una città che uno crede di conoscere a fondo per poi scoprire che tanti, troppi volti, li avevo appena intravisti senza coglierne le infinite sfumature. E una seconda lettura per seguire – quasi come nelle sequenze di un film – le altalenanti vicende di Tonino Esposito ( anni trentacinque sciupati dalla calvizie e da una imbarazzante pancetta, brillantino all’orecchio sinistro, lampadato, ufficialmente disoccupato), di sua moglie Patrizia (ritenuta, nel giudizio del maschio medio napoletano, una femmina fresca e tosta), di sua madre Manuela che aveva conosciuto don Gennaro, papà di Tonino, a Firenze durante il servizio militare, prima che diventasse capo camorrista (poi “caduto sul lavoro” cioè assassinato per mano di camorra), del boss Pietro De Luca ‘o tarramoto (un uomo prestante, con uno sguardo che faceva squagliare le femmine e agghiacciare i maschi), che quando muore il padre di Tonino ne prende il posto, Enzuccio che ad ogni fine mese accompagna Tonino a riscuotere il pizzo (anzi il “contributo per la sicurezza” come lo definisce il boss), Tina che contesta i genitori che la vorrebbero velina mentre lei sogna di diventare giornalista, nonni, suoceri (esilarante è Gateano che si atteggia a intellettuale e “tombeur de femme”), l’immancabile Olga, domestica e cuoca, tutta ucraina ma anche napoletana e gli animali di casa Esposito, Sansone l’iguana e Gigetto il coniglio. E l’avventura si snocciola e si srotola quasi come infilzata in un girarrosto: si comincia con un dato obiettivo ma che induce alla perplessità (“o pullastro nun s’è cuotto bbuono”) per concludersi con un altro dato, stavolta preoccupante (“o pullastro s’è bruciato”). E tuttavia non finisce qui. Perchè altre sorprese, esilaranti e angoscianti, Pino Imperatore ce le riserva proprio nel gran finale, un finale che riporta alla mente quei botti di Capodanno che solo a Napoli sanno fare e che costituiscono anche l’incipit di “Benvenuti in casa Esposito”. Un romanzo nell’interno della camorra. Ma non solo. “Non ho fatto altro – spiega Pino Imperatore – che registrare e illustrare, mediante il formidabile strumento dell’ironia, fatti e personaggi che a Napoli si verificano e si incontrano tutti i giorni. Chiamatelo realismo comico, se volete. Più che in qualsiasi altro posto del mondo, a Napoli la realtà supera ogni fantasia”.

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Ne approfitto per mettere in evidenza le domande del post originario (soprattutto a beneficio dei nuovi commentatori).
- Anche secondo voi, oggi, la letteratura dell’ironia beneficia di spazi minori rispetto al passato?
- A quale opera ironica (o comica) vi sentite più legati? E perché?
(Potete citare testi teatrali, narrativa, poesia… va bene tutto).
- Con quale citazione celebre, tra quelle riportate sotto (alla fine dell’articolo di Asmodeo), vi sentite più d’accordo?

Per meglio capire il senso di questo spazio è consigliabile leggere (o rileggere) il testo integrale del post pubblicato il 16 febbraio 2008.

A voi…

(Massimo Maugeri)

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AGGIORNAMENTO DEL 4 febbraio 2010

maurizio-de-angelisNuovo ospite di Letteratura dell’ironia è… Maurizio De Angelis.

Maurizio De Angelis (nella foto), è nato a Napoli, ha vinto nel 2006 e nel 2008 il Premio Massimo Troisi per la scrittura comica, giungendo finalista nel 2007 (testi pubblicati da Comix). Presente, con una pagina a lui dedicata, nell’Agenda Comix 2008, è autore di cabaret per Gaetano De Martino e di teatro comico-brillante per Maurizio Merolla. Per la tv ha scritto testi comici per Promossi Sposi, clerical quiz con Gaetano De Martino, e dal 2009 è autore dei testi di Don Consiglio, per il programma I tappi, su Radio Kiss-Kiss Napoli.

I nuovi libri di Maurizio De Angelis (di cui avremo modo di parlare) sono:

- Achei, il prezzo è giusto! (Boopen, 2009): La più folle e divertente riscrittura del mito greco nel primo racconto demenzial-epico della storia.

- Il padrino parte prima così non trova traffico (Centoautori, 2009):

Credo che il buon umore letterario sarà assicurato.

Massimo Maugeri

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AGGIORNAMENTO DEL 23 febbraio 2009

De Vulgari Cazzimma (I mille volti della bastardaggine)
di Francesco Di Domenico (Didò)

“Prendete una buona dose di perfidia ed amalgamatela con l’astuzia e con la furbizia. Aggiungete un pizzico di cinismo, una manciata di prepotenza e un tocchetto di egoismo. Insaporite con la malizia e aggiungete un filo di scaltrezza.
Avrete così ottenuto la cazzimma, un intruglio dal gusto amarognolo.”

Inizia così, questo saggio serissimo e scientifico, del più grande umorista napoletano contemporaneo, Pino Imperatore. Il termine napoletano “Cazzimma” e uno di quei vocaboli interni ad una lingua praticamente intraducibile, tanto per fare un esempio, un po’ come gli anglosassoni “Spleen” e “Serendipity”. Una parola che deriva con chiarezza dall’innominabile attrezzo umano dalla triplice funzione, di scarico biologico delle scorie superflue, di produttore di piacere e di strumento formidabile di riproduzione umana. Ecco, il primo a dover essere additato a possessore di questa qualità è proprio lui, il cazzimmoso pene: “che cazzimma! Tre funzioni in un solo soggetto (o oggetto?)!
Ma il lemma, di cui parla l’autore nel libro è un sostantivo che va’ oltre la sua radice etimologica, serve ad identificare negli individui che la posseggono, una capacità micidiale di abbindolare, truffare, sfruttare o semplicemente irridere i soggetti o le situazioni che si trova ad incontrare o con cui è intenzionato a confliggere. Un’indagine del genere solo un umorista poteva produrla perché la cazzimma è molto vicina alla cattiveria e la cattiveria fa ridere, mentre la bontà ci rasserena ma spesso ci angoscia.
Imperatore fa un viaggio storico e geografico nei mille modi con cui si può identificare un “cazzimmoso”, scovandoli in tutte le loro attività, dalla politica alla guerra, nei rapporti economici e nella filosofia, fino ai cartoni animati, dove per esempio c’è: “… il canarino Titti, che dietro l’apparente innocenza nasconde una cazzimma sopraffina. Direte: lo fa per salvarsi le penne. D’accordo, ma l’uccelletto spesso esagera…”. I cazzimmosi sono i colleghi di scrivania cosi ben descritti da Totò & Peppino in “Chi si ferma è perduto” dove il rag. Guardalavecchia e il rag. Colabona, ne combinano e se ne combinano di tutti i colori; gli astanti nell’autobus che, dopo averti calpestato un piede, invece di scusarsi ti invitano a spostare il piede dalla linea gialla di pericolo.
L’inchiesta, gradevole e allegra, è sorprendentemente accurata, se si pensa che nella bibliografia sono citate oltre 130 fonti letterarie autorevolissime. Risulta un corollario di soggetti e ambientazioni curiose ma esplicative del portato di questo che potremmo definire un neologismo (il termine si comincia a sentire a Napoli negli anni ‘50 del ‘900), che da tempo ha varcato i confini della repubblica culturale partenopea per veleggiare su moltissime bocche italiane.
Nel suo spettacolo Fiesta il comico napoletano Alessandro Siani ha fornito, mediante un dialogo tra un napoletano ed un milanese, un esempio di cazzimma autoreferenziale:

«Milane’, tieni ‘a cazzimma!».
«E che significa ‘a cazzimma?».
«Nun t’ ‘o vvoglio dicere. Chesta è ‘a cazzimma».

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LETTERATURA DELL’IRONIA: POST PUBBLICATO IL 16 FEBBRAIO 2008

La letteratura “dell’ironia” (da quella tendente al comico a quella che trasborda nel drammatico) può vantare una grande tradizione: da Boccaccio a Cervantes fino a Pirandello, giusto per fare alcuni nomi. Eppure ho l’impressione che oggi sia considerata come una sorta di genere minoritario.

Di seguito troverete la sintesi di questo articolo di Asmodeo, intitolato “L’ironia nella letteratura”.

Subito dopo Francesco Di Domenico (in arte Didò) ci presenta Pino Imperatore e la sua “Trilogia del buonumore”: tre volumi editi dalle edizioni CentoAutori.

Vi invito a esprimere la vostra opinione sull’argomento.

Anche secondo voi, oggi, la letteratura dell’ironia beneficia di spazi minori rispetto al passato?

A quale opera ironica (o comica) vi sentite più legati? E perché? (Potete citare testi teatrali, narrativa, poesia… va bene tutto).

Con quale citazione celebre, tra quelle riportate sotto (alla fine dell’articolo), vi sentite più d’accordo?

(Massimo Maugeri)

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“L’ironia nella letteratura” di Asmodeo

Definizioni “L’ironia è l’espressione di una persona che, animata dal senso dell’ordine e della giustizia, si irrita dell’inversione di un rapporto che stima naturale, normale, intelligente, morale, e che, provando il desiderio di ridere a tale manifestazione d’errore o d’impotenza, la stimmatizza in modo vendicativo rovesciando a sua volta il senso delle parole (antifrasi) o descrivendo una situazione diametralmente opposta alla situazione reale (anticatastasi). Il che è una maniera di rimettere le cose per il verso giusto” [Morier, Dizionario di poetica e retorica] Questa definizione di Morier è interessante in quanto mostra due aspetti fondamentali dell’ironia: il primo, che essa si lega ad uno stato d’animo (secondo lui, un’irritazione di fronte a un rapporto invertito delle cose del mondo); il secondo, che la sua espressione si manifesta attraverso l’antifrasi o l’anticatastasi, cioè attraverso l’uso di figure retoriche. Sigmund Freud sostiene che l’ironia “consiste essenzialmente nel dire il contrario di ciò che si vuole suggerire, mentre si evita che gli altri abbiano l’occasione di contraddire: l’inflessione della voce, i gesti significativi, qualche artificio stilistico nella narrazione scritta, indicano chiaramente che si pensa proprio il contrario di ciò che si dice”. Tuttavia, questa definizione sembra riduttiva, nel senso che l’ironia, e soprattutto l’ironia letteraria, non si limita a essere un’antifrasi pura e semplice. Essa può avvalersi di un’infinità di altre situazioni reali o retoriche: può “giocare sulla permutazione di spazi, sull’inversione di rapporti, sulla semplice differenza, sull’evitamento, sul mimetismo del discorso dell’altro, e senza dubbio su numerose altre figure” (P. Hamon, L’ironia letteraria). C. Kerbrat-Orecchioni, in Problemi dell’ironia, mette in luce l’esistenza di due tipi di ironia: l’ironia referenziale, che esprime una contraddizione tra due fatti contigui, e l’ironia verbale, che esprime una contraddizione tra due livelli semantici legati a una stessa sequenza di significato. La differenza fondamentale tra la prima e la seconda è che mentre l’ironia referenziale si gioca su una relazione duale, tra l’oggetto dell’ironia e l’osservatore che percepisce l’ironia, l’ironia verbale si gioca su una relazione a tre: un locutore, che tiene un discorso ironico rivolto ad un ricevente, a detrimento (o sulle spalle di) un terzo, la vittima dell’ironia. L’ironia letteraria appartiene, ovviamente, all’ironia verbale, e mette perciò in gioco il suo stesso “trio di attori”: l’autore, che attraverso il suo libro si rivolge al lettore, sulle spalle di un terzo, vittima dell’ironia. Ma la complessità di un testo letterario, tra livello dietetico e livello extradiegetico, deve spingere la nostra ricerca molto più avanti e non può limitarsi a questa osservazione. In un testo letterario, infatti, le figure in ballo sono assai più numerose di tre. Accanto all’autore, al lettore e alla vittima dell’ironia, è necessario almeno aggiungere il narratore, e spesso anche altri personaggi che possono farsi portavoce dell’autore. In questo senso, e riallacciandosi alla concezione dell’Umorismo di Pirandello, si può affermare che lo spazio privilegiato dell’ironia è il teatro. Con le parole di Philippe Hamon possiamo dire che “l’ironia è messa in scena, il che presuppone degli spazi differenziati (sala, quinte, scena), ma anche, di conseguenza, dei ruoli o degli attori specializzati. Questi attori sono proprio quelli che abbiamo menzionato sopra; riassumendo: • autore • lettore • narratore • personaggio morale (portavoce della legge) • personaggio sovversivo (portavoce dell’ironia) • vittima dell’ironia. Tra questi “attori” ci possono essere sovrapposizioni, e non è detto che ogni figura sia sempre presente; il ventaglio delle possibilità combinatorie è in realtà molto ampio. Ad esempio, il narratore può essere anche il personaggio “morale”, cioè colui che si fa portavoce dell’ordine costituito, della legge contro cui si erge l’ironia, e diventare quindi anche, automaticamente, vittima dell’ironia. La cosa si complica ulteriormente nel caso, più frequente di quanto si possa credere, di situazioni in cui l’ironia si rivolge su se stesso: è l’auto-ironia. L’auto-ironia si trova quasi sempre in testi fortemente ironici. Si evince da tutto questo quanto sia il caso di “sostituire la nozione di opposizione ironica, che rischia facilmente di essere presa in un senso troppo stretto, con quella di campo di tensione o di un’area di gioco ironica” (Beda Alleman). Quest’area di gioco, o di tensione, si carica di ulteriori significati spaziali: la nozione di distanza e di marginalità. L’ironia segna un territorio, come una vera e propria metafora del sociale, dove l’ironista è spesso un outsider, volontario o costretto ad esserlo, che mantiene delle distanze, dei confini molto netti rispetto alle cose o a sé. (…)

Alcune citazioni celebri

“È dall’ironia / che comincia la libertà” (V. Hugo)

“Di tutte le disposizioni dello spirito, l’ironia è la meno intelligente” (C. H. Sainte-Beuve)

“L’ironia è il pudore dell’umanità” (J. Renard)

“Temere l’ironia, è temere la ragione” (S. Guitry)

“L’ironia e l’intelligenza sono sorelle di sangue” (Jean-Paul)

“Dalla mia più tenera età, una freccia di dolore si è piantata nel mio cuore. Finché vi rimane, sono ironico – se la si strappa, muoio” (S. Kierkegaard)

“L’ironia è una tristezza che non può piangere e sorride” (J. Benavento)

“Il più forte dolore è il sarcasmo” (Multatuli)

“L’ironia non è piuttosto spesso una forma di sentimentalismo, un sentimentalismo che fa una giravolta?” (K. Van de Woestijne)

“Non c’è che l’ironia che non ha nulla da temere, la parodia è il solo stile invulnerabile” (M. Kharitonov)

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LA “TRILOGIA DEL BUONUMORE” di Pino Imperatore

recensione di Francesco Di Domenico

La “Trilogia del buonumore” è l’ultimo surreale colpo di scena di Pino Imperatore. Probabile unico caso al mondo di uscita in contemporanea con tre libri (quelli del Guinness, contattati, hanno risposto: “Interessante!”) di un autore.La catena di Santo Gnomo”, “Manteniamo la salma” e “Questo pazzo pazzo mondo animale sono legati ad un filo conduttore unico, quello dell’umorismo involontario.

La risata che si scatena alla vista di una situazione ordinaria, come quella di un epitaffio funebre o di un manifesto dove per un leggero errore di un tipografo la realtà si capovolge – come quella della povera donna di nome Rosa Fiocco deceduta e assurta ai fasti del sorriso postumo per una burocratica stampa dell’avviso: “E’ morta Fiocco Rosa”! “La catena di…” è farcita di 99 racconti super brevi, fulminanti, a detta di Imperatore “bonsai”, perché al “secolo breve” ha fatto seguito “l’era del pensiero breve”. Li avrebbe scritti Carver se fosse stato un umorista. Alcuni freddi e quasi ebraici, altri scoppiettanti come i libri di cucina di Tognazzi (“la cipolla in padella dev’essere abbronzata come una puttana e non bruciata come un’africana”). Ultimo snobismo comico: il libro è numerato al contrario. “Manteniamo…” è un’enciclopedia di epitaffi, alcuni veri, altri che potrebbero esserlo, di passati di là, che hanno attraversato il di qua ridendo, fino alla fine. Monumentale la citazione sulla tomba di Groucho: “Scusatemi, non posso alzarmi”. Epitaffi falsi e credibili, frasi vere invece che potremmo considerare improbabili. Nel libro è compresa anche la citazione che Pino ha lasciato per la sua lapide.

Questo pazzo…” è una ricerca interessantissima e autentica sull’umorismo animale; un catalogo impressionante di situazioni che riguardano le bestie e il mondo che le circonda. Se si vuole esulare dall’umorismo tout court, è anche un volume per curiosi, un “giro del mondo in 580 bestie”. Pino Imperatore stupisce ancora per la levità delle sue storie. Che i suoi grandi maestri siano stati Achille Campanile, Marcello Marchesi e Beppe Viola, lo si intuisce chiaramente da ogni riga delle sue pagine. Non è un umorista acido, anche nelle battute più grevi si può leggere la morbida ironia di Guareschi, l’aplomb di Jerome K. Jerome; non ha paura del “vecchio che avanza”. Per concludere con una sua battuta sul coraggio: “Se vai a letto con le galline, all’alba dovrai fare i conti col gallo”.

Francesco Di Domenico

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Pino Imperatore nasce a Milano nel 1961 ed emigra a Napoli. Giornalista, poeta, scrittore, ma soprattutto umorista, è uno dei personaggi più eclettici del panorama culturale napoletano. Nel 2001 con l’opera “In principio era il verbo, poi vennero il soggetto e il complemento” vince il Premio “Massimo Troisi”. Oggi è lui stesso il curatore del premio (sezione Scrittura Comica). Nello stesso anno fonda il Laboratorio “Achille Campanile”, prima scuola italiana per autori comici ed umoristici, che conduce con il ludolinguista Edgardo Bellini. Con lo stesso Bellini nel 2005 ha curato l’antologia “Quel sacripante del grafico si è scordato il titolo”, primo volume che raccoglie le nuove leve dell’umorismo napoletano. Nel 2004 ha pubblicato “Un anno strano a Roccapeppa” (Kairòs Editore), un esilarante diario di 365 giorni di una meta-Napoli da cartoon disneyano. Agli inizi del 2007 è tornato in libreria con “Le mirabolanti avventure del Gladiator Posillipo” (Cento Autori Editore). Sue pubblicazioni sono presenti un po’ ovunque; una su tutte, l’agenda Comix.

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/03/19/letteratura-dellironia/feed/ 563
LA LETTERATURA DEL TERRORE E SIMONETTA SANTAMARIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/21/la-letteratura-del-terrore-e-simonetta-santamaria/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/21/la-letteratura-del-terrore-e-simonetta-santamaria/#comments Fri, 21 Nov 2008 16:53:07 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/21/la-letteratura-del-terrore-e-simonetta-santamaria/ Che rapporti avete con la letteratura del terrore?
Ne siete appassionati? Vi lascia indifferenti?
Vi disgusta?
In ogni caso essa vanta una storia piuttosto lunga, che coincide – più o meno – con la nascita del romanzo gotico classico; ovvero il 1764: anno di pubblicazione de “Il castello di Otranto” di Horace Walpole.
Poi si evolve con il “Dracula” di Bram Stoker, con il “Frankenstein” di Mary Shelley e con l’opera di Edgar Allan Poe. Senza dimenticare il celeberrimo “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Stevenson, che diventa pietra miliare anche del cosiddetto tema del doppio.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento bisogna ricordare H. P. Lovecraft (1890-1937), ma anche Gaston Leroux (autore de “Il Fantasma dell’Opera“).

Un filone particolare della letteratura gotica dà vita la cosiddetto genere horror diventato famoso anche grazie ai libri di autori come Stephen King e Peter Straub.

Ulteriori dettagli li potete trovare all’interno di quest’ottima rubrica tenuta da Sabina Marchesi, guida giallo e noir del portale supereva.it. 

In questo post, invece, nell’ambito dell’horror all’italiana presentiamo Simonetta Santamaria e il suo libro “Dove il silenzio muore” edito da Centoautori.

Lo introducono per noi Francesco Di Domenico e Enrico Gregori, che mi daranno una mano a moderare e animare la discussione.

Un post a due binari, dunque:
- la letteratura del terrore, in generale (nell’ambito della quale chiamo a intervenire la già citata Sabina Marchesi)
- e… Simonetta Santamaria (presentata da Francesco Di Domenico e Enrico Gregori)

Siete tutti invitati a partecipare.

Massimo Maugeri
P.s. Vi anticipo che a partire da domani e per tutta la prossima settimana sarò in viaggio di lavoro e mi sarà difficilissimo – se non impossibile – partecipare alle discussioni.

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“Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria – Centoautori – 2008 – euro 14 – pagg. 224

di Francesco Di Domenico

Simonetta Santamaria ha scritto il suo primo romanzo.
Non un racconto breve come una coltellata, a cui ci aveva abituato con i suoi corti surreali, ambientati in una Napoli attraversata dal mistero, ma un poderoso romanzo horror.
La Santamaria aveva già raggiunto vette altissime con i suoi racconti, fino ad arrivare ad essere incoronata regina italiana all’ XI premio Lovecraft, con “Quel giorno sul Vesuvio”, una narrazione metafisica che lasciava già intravedere un percorso di commistione con il noir. Ora ha meditato una storia lunga, intricata e appassionante.
La signora dell’horror italiano, Simonoir, stavolta ha scritto 211 pagine di non sola inquietudine.
L’undici sembra ritornare periodicamente nelle storie della Santamaria, coincidenza misteriosa o voluta: lei, Simonetta, non me l’ha mai spiegato.
L’11 è il numero atomico del sodio, il tenebroso sale e “Na” (guarda caso) è il suo nome scientifico.
Undici gli endecasillabi, come 11 i suoi racconti nel precedente libro “Donne in noir”.
“11 Parthenope” è il nome dell’asteroide che fu scoperto all’osservatorio di Napoli nel 1850.
Quindi ricorrenti, nelle storie della dark lady, ci sono questo numero misterioso e la sua città, oltremodo presenti. Di Napoli, si sente l’odore; di Napoli vi è raccontato il “come vorremmo che fosse”; la città è lambita dalla scena del libro a “vol d’oiseau ”. E’ la capitale del mezzogiorno che i Tg non rappresentano, ma che esiste, divisa come tanti atomi. E’ una città-libro Napoli, con tante pagine vere o immaginarie, e questa ne è una.
Il film di parole, perché di un autentico movie si tratta, si svolge in un ipotetico borgo, come ce ne sono tanti nascosti nella città della sirena, a Posillipo. Stavolta si evince uno scivolamento verso un horror più morbido, quasi noir, non ci sono mostri sanguinari e il sangue è più calibrato.
Il percorso di Simonoir sembra l’inverso di Dario Argento, che dai gialli sanguigni è sfociato nell’horror puro; la Santamaria, nel suo primo romanzo lungo sembra avere acquisito una cifra di narrazione trasversale tra orrore e noir puro.
E’ un libro d’amore, e come sempre, di lotta tra il bene e il male.
Quel “male” supremo, nascosto nelle pieghe dell’universo che riappare sempre sotto forme diverse.
L’intreccio è del miglior noir; sarebbe un vero e proprio giallo se l’idea di fondo non fosse autenticamente horror, con un antico mistero legato agli inizi della fede, quando tutto ricominciò, quando gli ebrei sbagliarono scommessa al totalizzatore della storia, e apparve il Messia e, in contemporanea, colui che per primo credette nella sua esistenza: il signore degli inferi.
Controindicazioni: da non leggere la sera in un parco, si affaticherebbero gli occhi, ma molto di più il cuore.

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“Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria – Centoautori – 2008 – euro 14 – pagg. 224

di Enrico Gregori

Horror è un genere che, come tanti altri, serve più che altro ai librai per ordinare gli scaffali.
Avete presente il pulp di Tarantino? O la kermesse vampiresca di “Dal tramonto all’alba”? Beh, dimenticate tutto ciò, perché questo nulla ha a che fare con “Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria (nella foto, ndr).
Qui l’horror non è splatter, ma inquietudine. E siamo nel Napoletano, con personaggi che tocchiamo e conosciamo.
Certo, c’è una maledizione che viene da lontano; c’è un medaglione simbolico e dai poteri esoterici. Ma il romanzo di Simonetta è vita, passione, quotidianità di gente comune che si imbatte nel mistero.
Non vi aspettate scheletri che appaiono dal nulla, né pioggia di viscere di cadaveri esplosi all’improvviso.
Qui c’è il racconto, scritto alla grande, di persone come noi.
I personaggi, per fortuna non tanti ma definiti molto bene, ruotano tutti dentro una dimora affascinante e in un giardino che necessita di cure continue.
Non si va in cerca di soprannaturale. Anzi, semmai è proprio l’elemento esoterico che all’improvviso piomba a disturbare quella che dovrebbe essere la tranquilla e quasi monotona vita di un borgo.
Pescatori, muratori, intellettuali e fannulloni. Coppie che vanno e coppie che scoppiano. Tutte cose che vediamo per strada o nei palazzi nei quali abitiamo.
Come dire che l’horror può arrivare sempre e comunque.
Non vi aspettate effetti speciali, ma solo cose normali o quasi, alle quali si può credere.
Riporto e sottoscrivo un pensiero di Loredana Lipperini che, una sera, mi disse: “E’ molto difficile scrivere un buon horror perché si racconta di cose che non esistono. E quindi lo scrittore deve essere bravo nel crederci mentre scrive, altrimenti, se non ci crede lui, ancor meno ci crederà il lettore”.
Simonetta crede e spinge il lettore a credere. Ecco perché, il suo horror è venuto bene. Molto bene.

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Le recensioni di Sabina Marchesi: guida “giallo e noir” di supereva

L’Anima Nera di Oscar Wilde Il Grande Ingannatore (Il fantasma di Canterville)
Il personaggio più controverso di tutta la storia della letteratura, che ha saputo con il suo raffinato umorismo, il suo fine sarcasmo, la sua sottile sagacia, mettere alla berlina un’intera società, pur vivendoci dentro, sembra essere a tutti gli effetti, un sapiente bluff, come del resto tutte le sue opere dimostrano, un complicato castello di carte a più livelli, che gli rovinarono poi addosso quando osò troppo e fu abbandonato da tutti al suo destino amaro di outsider.

Difficile coniare una definizione calzante per le opere e l’essenza di Oscar Wilde, forse in assoluto il personaggio più controverso di tutta la storia della letteratura, in molti si sono provati a descrivere con una sola frase il tocco raffinato di questa penna imprevedibile, capace di colpire in poliedriche direzioni, mischiando la satira alle tinte fosche del dramma, nascondendo amabilmente feroci stilettate al cuore dell’aristocrazia e della buona società britannica dietro una prosa leggera e sarcastica, dove la buona letteratura si mescola con sofisticata eleganza alla parodia umoristica.&#nbsp; Innumerevoli descrizioni ci sono rimaste di quest’uomo affascinante, grande ed eccelso conversatore, mente splendida ed acuta, vissuto sempre sul filo del rasoio, in precario equilibrio tra l’acclamazione più sfrenata e il più terribile ostracismo, ma la maniera più calzante per descriverlo è forse quella di attingere ad alcuni dei suoi detti memorabili e immortali destinati ad essere ripetuti e rivissuti dai posteri, a suffragio perenne della sua memoria.
“La Vita Imita l’Arte più di quanto l’Arte non imiti la Vita; ed è proprio così che sono tutte le sue opere, un’imitazione continua di tutto ciò che esiste, o che noi crediamo esista, una rappresentazione speculare di tutte le umane debolezze, dove anche le grandiosità nascondono i dettagli più fragili dell’animo umano.
“Non ho nulla da dichiarare eccetto il mio Genio” che descrive perfettamente il suo intero modo di vivere, quello di un uomo che fece dell’eccentricità un pregio, di nascita Irlandese riuscì ad imporsi all’attenzione della buona società affascinandola con la sua irruente personalità e la brillante conversazione che dominava incontrastata con ingegno ed audacia i salotti londinesi.
“Riesco a resistere a tutto tranne che alle tentazioni” ed è il manifesto di “Dorian Gray”, dove la cultura estetica predomina su tutte le altre virtù, capolavoro assoluto ed unico suo romanzo, che lo consegna alla storia come L’Esteta dell’Arte, colui disposto a tutto sacrificare in nome dell’amore per il bello, portando la passione a dominare su tutto il resto, in bilico sopra un precipizio di insospettabili profondità, separando una volta per tutte l’etica&#nbsp; e la morale, dall’estetica, cosa che l’aristocrazia dell’epoca mai gli perdonò.
Laureato ad Oxford, di raffinata cultura, grande parlatore, fine umorista, Wilde condusse tutta la sua esistenza&#nbsp; al di sopra e al di là delle comuni convenzioni, ostentando uno stile di vita provocatorio e spericolato, amorale ed asociale, sfoggiando un’eleganza stravagante e bizzarra, e per questo fu amato ed odiato da tutta la società vittoriana, facilmente influenzabile dalle mode e dall’eccentricità, vanesia e superficiale, ma terribilmente pericolosa nei giudizi, che erano senza appello e che alla fine lo condussero alla rovina. Il debutto di ciascuna delle sue commedie, da “Il ventaglio di Lady Windermere” a “L’Importanza di chiamarsi Ernesto”, gettavano in subbuglio tutta l’alta società londinese che accorreva in massa, rendendosi poi conto, quando era forse troppo tardi, di essere essa stessa fatta oggetto dell’umorismo al vetriolo e della satira mordente dell’opera; rappresentata, che ne beffeggiava i vezzi e le abitudini.
Snob, narcisista, depravato, vizioso, abbietto, omosessuale, Oscar Wilde era semplicemente un giovane ben nato, dotato di una sottile intelligenza, dalla lingua sciolta, che amava assumere atteggiamenti demodé, ambizioso e narcisista, amante del bello e di se stesso, capace di una ironia caustica che non esitava a usare per il solo desiderio di stupire, e tanto spericolato da fare quello che prima non era mai stato fatto, o da dire quello che nessuno aveva mai osato dire, un eterno giovanottone che bamboleggiava in società, al solo scopo di appagare il suo senso di avventura e di ribellione. Si fece beffe per anni dei migliori salotti vittoriani, in cui però veniva sempre benevolmente accolto, fino a che questo precario equilibrio si spezzò, i suoi stessi vizi tanto ostentati, lo tradirono, e la bella società gli voltò le spalle condannandolo al pubblico ludibrio e a una fine ignominiosa.
Ma fu comunque in assoluto l’uomo con il più grande coraggio di vivere e di osare mai esistito sulla faccia della terra, un borghese che giocava a fare l’anticonformista, un tradizionalista che amava assumere atteggiamenti sconvenienti, un pigro intellettuale che desiderava solo stupire ed ammaliare.
Colpisce il fatto che i suoi aforismi sono giunti fino a noi come esempi di raffinato cinismo e di spietata ironia, quando invece a una lettura più attenta rivelano, come fu per lui stesso e per la sua vita, una certa dose di saggezza, e di comprensione per le umane&#nbsp; debolezze. Se Dorian Gray fece gridare allo scandalo (e in effetti cosa ci può essere di più abbietto di un patto col diavolo che ti renda immune da tutte le conseguenze fisiche e morali delle tue malefatte scagliandole su un quadro immagine e simulacro di tutti i mali del mondo?) perché sembrava incitare le nuove generazioni verso una condotta amorale e sconsiderata, con la certezza di una sicura immunità, esso al tempo stesso rappresenta un momento di profonda riflessione, se letto in doppia chiave. Rivelando al suo interno una sottile dicotomia perché, se sottoposto a un esame più approfondito, denota una chiara disciplina morale, sottintesa con ironia ma visibile, sotto il primo strato di decadente disprezzo.
Fa tutto parte del sottile snobismo di Wilde a cui importavano di certo più la fama e la gloria, che non l’espressione di una morale, ma questo non esclude che ne avesse, e infatti ne aveva. Ci basti pensare ai suoi aforismi, apparentemente dedicati al solo culto del bello, dell’arguto, del sofisticato, del raffinato, ma sempre spietatamente diretti e scritti per colpire al cuore e sottolineare crudamente la verità. Che è poi l’intento primario di ogni artista.
“Non esistono libri morali o immorali … i libri sono scritti bene, o scritti male. Questo è tutto.”
Sembra un’affermazione irriverente, immorale, puramente estetica, ma nasconde invece una sovrana verità che tutti noi aspiranti scrittori dentro di noi conosciamo assai bene.
E’ solo uno dei tanti inganni di quest’anima suadente ed intrigante, che ancora si fa beffe di noi a distanza di un secolo e mezzo, e basta guardare una sua foto per vedere quello sguardo irridente e beffardo di uno che sa di averci sempre imbrogliati, come una delle sue opere più incompresa, Il Fantasma di Canterville, che viene a tutt’oggi introdotta nelle raccolte per ragazzi assieme alle altre favole che Oscar Wilde pare avesse scritto per i suoi due figli, e tuttora si rappresenta nei teatrini scolastici. Ma non è una favola, o se mai lo è, è una favola nera, un piccolo intrigo, un bluff sapiente e misurato tramato ai danni di noi lettori dal più grande ingannatore della storia.
Brillante e spumeggiante come una coppa di champagne questo racconto è tutto imperniato sull’incontro tra due culture agli antipodi, la vecchia solida inamovibile realtà britannica contrapposta con la nuova rampante ed emergente società americana. Il fantasma di per sé è solo un elemento nel contesto, anzi tecnicamente parlando è uno degli oggetti compresi nella compravendita della casa avita, presso la quale dimora.
Esilarante e burlesco, scritto in tono scansonato, con una prosa sciolta e disincantata, umoristico ma non troppo, questo testo, ingiustamente trascurato, racchiude dentro di sé tutto un universo: fatto oggetto di studi approfonditi esso rivela tutta una serie di piani narrativi elegantemente sovrapposti e sapientemente dosati. Ironia e satira nei confronti delle due culture contrapposte: da una parte il solido pragmatismo degli americani, convinti di conoscere la soluzione a tutti i problemi, sicuri di poter dominare il mondo, certi di ottenere la conquista di ogni obiettivo e di conseguire il superamento di tutti gli ostacoli, la nuova aristocrazia, il potere del denaro, la classe emergente, il futuro, dall’altro lato il passato, la vecchia solidità britannica, l’amore per le tradizioni, il mito, la leggenda, la classica imperturbabilità e quel vecchio ancestrale modo di essere sempre uguali a sé stessi in ogni circostanza che hanno fatto degli inglesi il popolo conquistatore e colonizzatore che ha dominato il mondo. Da una parte la vecchia solida Inghilterra dunque, e dall’altra l’America nascente, da una parte la fantasia, la creatività, l’emozione, dall’altra il realismo, lo scetticismo, il pragmatismo, due mondi diversi che mal si conciliano, e ancora una volta la lacerante divisione sempre più sentita tra l’umanismo e il positivismo, tra le tradizioni e il progresso, tra la storia e la scienza, tra la filosofia e la tecnica, in una lettura frizzante e umoristica, condotta con mano leggera e sobrio “sense of humour” che sono tipici di tutta la produzione di Wilde.
La storia in breve narra di un’ antica e solida famiglia britannica in procinto di vendere la dimora avita a una famiglia di americani rampanti, borghesi e arroganti. Vediamo il compunto capostipite Lord Canterville fornire al nuovo proprietario ragguagli circa gli accessori e le pertinenze del bene immobiliare, pare infatti che il distinto ministro americano non stia acquistando solo un antico castello, ma anche il suo intero contenuto, annessi e connessi, dunque comprensivo di mobili, tendaggi, tappeti, vasellame, domestici e …fantasmi. Dunque imperturbabile Lord Canterville sta informando Mr.Otis con distinto “savoir faire” non solo dell’esistenza del fantasma, appartenente alla sua famiglia da generazioni, ma anche dei suoi usi, costumi e abitudini. Chiaro che il ministro americano e la sua famiglia,da buoni appartenenti a una cultura giovane e irridente non prendano la cosa molto sul serio, anzi la considerano come un’ulteriore stranezza da parte dei vecchi Lord Inglesi e come tale la archiviano e la mettono da parte.
E qui assistiamo alla partenza della vecchia famiglia inglese, e all’insediamento della nuova turbolenta famiglia americana, quasi a leggere tra le righe una metafora sui cambiamenti che proprio allora si stavano preannunciando nel panorama mondiale con l’inesorabile&#nbsp; sopravvento della cultura del Nuovo Mondo sulle abitudini sopra le consuetudini e i costumi del Vecchio.
Anche se Wilde con il suo sofisticato snobismo non può esimersi dallo schierarsi dalla parte della solida e nei secoli immutabile realtà vittoriana,&#nbsp; non può nemmeno evitare di schiacciare scherzosamente l’occhio all’ingenua semplicità del popolo americano che pur facendo sorridere esercita comunque un fascino innegabile.
Dunque racconto fantastico, favola nera, testo di potente atmosfera gotica, o satira mondana-sociale che sia, questo racconto incanta e strega, fa sorridere e riflettere, mentre ascoltiamo il ministro americano opulento e saccente dichiarare che se mai un fantasma fosse esistito realmente in Europa i migliori impresari del continente nuovo lo avrebbero sicuramente ingaggiato per farlo lavorare nei loro teatri, come già accaduto con i migliori attori e cantanti, paragonando quindi una leggenda vivente a un mero fenomeno da baraccone. Nel contempo lo sentiamo dichiarare che se una governante sviene rompendo il servizio buono per aver visto un fantasma, è lecito e doveroso addebitarle i danni, e vediamo la distinta e imperturbabile Missis Otis offrire al fantasma sferragliante che percorre i corridoi trascinando le sue catene, un famoso e potentissimo prodotto per oliare gli ingranaggi, e il giovane rampollo della casata pulire la macchia di sangue che da secoli riaffiora nel salotto buono, a memoria di un turpe delitto compiuto in vita dal fantasma, con uno smacchiatore di provata efficacia, mentre i due gemelli, i più piccoli&#nbsp; della famiglia tendono al povero e ormai terrificato spettro ogni sorta di trappole e di trabocchetti tutte le volte che questi tenta di esibirsi in una delle sue famosissime apparizioni.
Ma Wilde strizza l’occhio ancora una volta al lettore inserendo nel racconto un ennesimo imprevedibile dualismo, perché, attenzione sarà proprio Virginia, l’unica figlia femmina della casata americana, a sanare questa ferita apparentemente inguaribile, questo enorme divario tra il vecchio e il nuovo mondo, tra la cultura emergente e quella discendente, riuscendo inaspettatamente a comprendere il fantasma e a soffrire per il suo dramma, venendo così a spezzare una maledizione antica di secoli, che nessuna delle generazioni precedenti, tutte solidamente inglesi, aveva potuto combattere, dando così al fantasma pace e riposo eterno.
Sembrerebbe finire qui, quando però il nostro arguto e imprevedibile ingannatore ancora ha una riserva di sarcasmo, nel mostrarci una Virginia, ormai non più ragazza ma donna sposata, tornare nostalgicamente al castello per rivisitare la sua personale leggenda, portando fiori sulla sua tomba, con indosso i vecchi gioielli di famiglia dei Canterville,i quali, di proprietà dello spettro ormai defunto e facente parte delle pertinenze, annessi e connessi del castello, appartengono ora di pieno diritto agli Otis….e chi ci vuol leggere qualcosa in questo epilogo ne tragga pure la sua personalissima morale…
Senza mancare però di considerare che proprio nel momento in cui il sagace, arguto e sarcastico Wilde ci ha ancora una volta ingannati, e con rara maestria e disinvolta leggerezza per di più, non possiamo non amarlo per l’eternità ripetendo con lui: “Chi intende il simbolo, lo intende a suo rischio e pericolo”.

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Gli inquieti fantasmi di Henry James ne “Il Giro di Vite”
Cosa c’è di più conturbante di una storia di fantasmi in cui sia implicato un bambino? Semplice: una storia di fantasmi con due bambini coinvolti loro malgrado in una spirale senza fine di terrore … Da qui trae spunto il travolgente inizio di una delle storie di fantasmi meglio narrate nella storia di tutti i tempi, con incredibili risvolti di suspense e angosciosissimi dubbi….

Henry James nasce a New York nel 1843, e come molti suoi contemporanei subisce prepotente il fascino del cossidetto virus europeo che indusse buona parte degli scrittori e degli intellettuali dell’epoca a viaggiare in lungo e in largo per il vecchio continente assumendone e assimilandone la cultura e la storia.
A Parigi viene influenzato dalla frequentazione con Flaubert, Zola e Maupassant, dopodichè si stabilisce definitivamente a Londra, dove dà vita alla maggior parte dei suoi capolavori, tra cui Giro di Vite.
Universalmente riconosciuto come una pietra miliare dello sperimentalismo formale, questo romanzo è basato sulle diverse connotazioni conferite alla narrazione dalla scelta del punto di vista, in grado di rappresentare gli eventi in maniera diametralmente opposta, rispetto alle altre prospettive possibili. Al punto che per la prima volta la storia narrata, non è più LA storia, ma solo UNA delle storie realmente possibili, perché ogni cosa cambia e si trasforma a seconda del punto di osservazione, trama e personaggi sono mutevoli, cangianti, ingannevoli e come fantasmi sembrano dissolversi e rapidamente riapparire sotto multiformi vesti di momento in momento. Tanto che il lettore una volta chiuso il libro, non è più nemmeno in grado di dire egli stesso a quale delle possibili rappresentazioni abbia appena assistito, riuscendo comunque solo a riconoscere che, qualsiasi storia fosse delle tante possibili, ne è rimasto magicamente ammaliato subendone il fascino senza neanche sapere come.
Oltre ad essere un gran romanzo gotico, questo testo si presta a molteplici analisi essendo in esso tutto appositamente studiato per stupire, meravigliare ed irridere. Ogni dettaglio, la pur minima sfumatura, la più sottile percezione, sono stati concepiti per ottenere un determinato risultato, che sorprendentemente muta a seconda della chiave interpretativa con cui viene esaminato.
Vediamo il titolo per esempio, siamo in un’epoca letteraria in cui i titoli sono mediamente molto lunghi e tendono a descrivere l’oggetto della narrazione in maniera esaustiva, tipo Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni, Frankestein o il Moderno Prometeo, Alice nel Paese delle Meraviglie o semplicemente ricalcano il nome del protagonista, Jane Eyre, Moll Flanders, Michele Strogoff, Dorian Gray, questo titolo sorprendentemente moderno, Giro di Vite, sembra alludere o precludere a consuetudini letterarie ancora da venire.
A una prima interpretazione il titolo, come spiegato dallo stesso autore nel prologo, anzi nell’antefatto, sta a simboleggiare una situazione aggravante, il dramma che si aggiunge al dramma, la goccia che fa traboccare il vaso: all’inizio della storia, troviamo un gruppo di persone riunite attorno al fuoco intente (come accadde alla famosa compagnia di Byron, Polidori, Percy e Mary Shelley) a raccontarsi storie per passare il tempo, storie intense, storie terrificanti, storie spaventose, insomma storie di fantasmi, e uno dei presenti esordisce dicendo, cosa ci può essere di più orrorifico di una storia di fantasmi in cui sia coinvolto un bambino?
Semplice: una storia di fantasmi in cui appaiono non uno ma ben due bambini. In pratica un giro di vite.
Ed ecco spiegato il titolo, o meglio così iniziamo a credere, ma sarà poi vero? E’ davvero questa l’interpretazione corretta che possiamo dargli? Cos’è in definitiva una vite? Un oggetto metallico costruito ed ideato in maniera tale da conficcasi profondamente nel legno man mano che ruota su se stesso. Se ci soffermiamo su questa immagine cosa possiamo vedere da un’altro punto di vista? Qualcosa che si fissa girando su sè stessa e che penetra lentamente e inesorabilmente nella superficie che ha davanti, un atteggiamento psicologico e pscicotico, una debolezza umana, un attaccamento selvaggio a un’idea fissa, una volontà pervicace, ottusa, ed ostinata.
Siamo nel giusto? Non lo sappiamo, e non lo sapremo mai per tutta la durata del racconto, come non lo sapremo una volta che lo avremo terminato, e come non potremmo saperlo nemmeno se lo rileggessimo altre mille volte.
Ma qual è l’io narrante scelto per realizzare questo innovativo stile letterario?
Molteplice anche questo: uno dei personaggi riuniti attorno al fuoco inizia raccontare una storia, a suo dire riportata da un suo amico, che a sua volta l’aveva letta in un diario.
Dunque un triplo passaggio. E chi è poi questo io narrante?
La protagonista diretta degli accadimenti, colei che è stata presente in ogni momento dello svolgimento, è una persona di tutta prova, di solida moralità, un’istitutrice, sufficientemente colta da non essere facile preda di isterismi o vittima di visioni, essa ci viene presentata, anzi si presenta da se stessa, come un soggetto degno della massima considerazione, tale per cui siamo costretti e quasi obbligati a prestare fede a ciò che dice, ciecamente, senza nulla chiedere né domandare. E pure gli eventi riportati sono di una tale “non credibilità” da lasciarci perplessi, anche perchè quel che ci viene prospettato dalla giovane donna non è tanto la narrazione oggettiva, ma la interiorizzazione dei fatti, la sua visione personale quindi, la sua proiezione singola ed individuale. Allora non ci resta altro che rivolgerci nel dubbio agli altri attori della narrazione scenica per avere conferme da loro sulla realtà dei fatti.
Già, ma chi sono poi gli altri? Abbiamo un capostipite, che però appare distante, lontano nella sua casa di città, che si limita ad assumere un’istitutrice col preciso intento di non essere né coinvolto né disturbato per la gestione delle necessità quotidiane, e che dopo il primo capitolo non compare praticamente più se non per dire, a mezzo lettera “per cortesia non voglio essere disturbato, sbrigatevela da Voi”. Dunque non è un attore quanto piuttosto un “deus ex machina”, colui che mette in moto gli avvenimenti, e poi si mette in disparte ad osservare, e su di lui non possiamo far conto, non interverrà.
Poi abbiamo una governante, e il personale di casa, ma chi sono questi elementi? Personaggi appartenenti a una classe inferiore (il romanzo rivela tra le altre cose anche insospettate connotazioni sociali, se non socialiste), poco affidabili, emotivi, influenzabili, rozzi, ignoranti, chiacchieroni e creduli: che aiuto possiamo mai aspettarci da loro?
Chi altro allora? Ci sono gli altri due protagonisti, i bambini sui quali l’istitutrice deve vegliare, ma sono bambini appunto, creature deboli, in balia degli eventi, inconsapevoli vittime, al centro di un arcano mistero, di cui non hanno consapevolezza, e come potrebbero?
Non ci resta dunque nulla altro che riaffidarci nelle mani della giovane donna, che ci narra la storia, ed assistere con lei ai misteriosi eventi, e con lei schierarci quando essa ne rimarrà coinvolta e drammaticamente sconfitta.
Anche la prosa di James è infida, i suoi stessi passi narrativi traggono in inganno, dicono e non dicono, e al contempo dicono tutto e il contrario di tutto, questo testo, a ben guardare somiglia a un gioco di puzzle montato male, non c’è un pezzo che si incastri bene con gli altri, ma tutti fluttuano vorticosamente senza mai fermarsi, tanto che non riusciamo nemmeno a vederne bene la forma né il colore né la dimensione.
L’istitutrice arriva nella casa di campagna, con il tipico entusiasmo dei giovani, e si accinge a prendere in mano la conduzione della casa e l’educazione dei ragazzi con tranquilla e disinvolta sicumera, certa che le sue fragili spalle siano perfettamente in grado di reggere tale peso, ma ecco che, quasi subito, vede una figura spettrale, oscura e misteriosa, uno sconosciuto che la osserva con malanimo, e poi scompare. Chi è costui? Indagando e chiedendo scopre presto che le fattezze da lei descritte si attagliano perfettamente all’intendente di casa, morto tragicamente anni prima, anzi scomparso…
Bene, non importa: i ragazzi sono graziosi, docili e arrendevoli, apprendono con facilità e si prestano volentieri a collaborare con la nuova maestra, la governante offre il suo valido aiuto, il personale di servizio è efficiente ed affidabile, tutto scorre per il meglio, l’andamento della casa procede a meraviglia, l’educazione dei ragazzi è posta su solide basi, il compito sembra dunque essere più semplice del previsto, se non fosse… se non fosse per quest’uomo subdolo ed oscuro che continua ad apparire e a scomparire.
Ma presto qualcosa si inceppa, il meraviglioso meccanismo perde dei colpi, il pacifico progredire dei giorni esce dai consueti binari della tranquillità quotidiana, le apparizioni si moltiplicano, si insinua prima il dubbio, e poi la terrificante certezza che anche i bambini sappiano, che anche i bambini vedano… ma che per qualche oscuro motivo essi non dicano nulla.
Anche la governante sa, anche la governante vede, e confidandosi narra di malefiche influenze, di oscure malvagità che a tratti affiorano nel comportamento di quelle angeliche creature, di parole irripetibili proferite dalla piccola, di comportamenti indecorosi tenuti dal ragazzo, si insinua presto l’ombra di un maleficio, i ragazzi sanno, i ragazzi vedono, essi sono posseduti, vittime di un maleficio, colpiti da una maledizione.
Ed i fantasmi che appaiono ora sono due, la precedente istitutrice e l’intendente, colpevoli di una bieca relazione amorosa che infrangeva e i limiti di classe e i confini della decenza, fuggiti, morti, defunti, scomparsi, eppure vivi, tornati a prendere possesso dei ragazzi, o forse a rivivere attraverso essi e dentro di loro.
Ma sono veri questi fantasmi? Ci sono davvero? O sono un frutto della mente malata dell’istitutrice?
Forse le troppe responsabilità, il peso eccessivo che grava su di lei, forse la gioventù, l’inesperienza, un supposto amore ideale e impossibile per il suo austero datore di lavoro, un eccesso di romanticismo, il forzato isolamento, forse tutto questo ha avuto ragione del suo equilibrio mentale, e la posseduta, la folle, la visionaria potrebbe alla fine essere solo lei? Ma allora perché questi ragazzi sono così angelici, così perfetti nella loro arrendevolezza, così assolutamente candidi e innocenti, al punto da apparire quasi sospetti? Non sappiamo e mai potremmo dire da che parte sta la verità.
Quando ecco nelle pagine finali il mistero sembra svelarsi, dal fondo del tunnel cominciamo a intravedere una luce, che si avvicina, ora sta per illuminarci, quasi vediamo, quasi crediamo di capire, quasi comprendiamo il macabro gioco di prestigio di cui sicuramente siamo stati vittime ( e vi assicuro che a questo punto nemmeno un allarme antiaereo o un incendio in salotto riuscirebbero a schiodarvi dalla vostra poltrona) e un attimo prima che la soluzione ci venga svelata, o forse giusto un attimo dopo, ricadiamo perplessi nelle tenebre più oscure della più impenetrabile non conoscenza.
Perché alla fine ne sappiamo meno di quanto credevamo di sapere all’inizio, il vento ha girato e ha riportato l’imbarcazione in mare aperto, i flutti e i marosi ci sballottolano di qua e di là, le vele sbattono implacabili contro l’alberatura, gli spruzzi ci colpiscono sul viso, e noi vaghiamo senza meta in questo oceano sconfinato e non troveremo mai la strada. Perché sapete cosa succede alla fine? Che la giovane e coraggiosa istitutrice, colta in fondo anch’essa dal dubbio di essere pazza, decide di uscire allo scoperto, e costringe le piccole creature ad affrontare le inquietanti visioni, di cui ovviamente davanti alla loro possibile o supposta innocenza prima non si era mai parlato, e gli chiede, non senza devo ammetterlo, un certo tono da invasata, allora li vedi? Dimmi che li vedi anche tu… Ottenendo dalla bimba un collasso immediato e una fortissima crisi di febbri epilettiche, che la costringono ad allontanarla e a mandarla sollecitamente dal medico di città accompagnata dalla governante. Fatto questo l’istitutrice resta ovviamente sola col ragazzo, il quale a momenti appare un bimbo sprovveduto ed ingenuo, ancora rivestito dei candidi panni dell’infanzia, a tratti invece appare un semi-adolescente inquieto e spavaldo, quasi in tentazione di sedurla. Messo a confronto anch’esso, brutalmente e con violenza, con l’ennesima apparizione, al reiterato: dimmi che anche tu la vedi… egli crolla folgorato tra le braccia della povera sconsolata avventata folle e coraggiosa istitutrice e, ci dice l’autore, il suo povero cuore ora non batte più.
Potete leggerlo e rileggerlo questo romanzo, e anche copiarlo parola per parola se credete che questo vi possa aiutare, e setacciare tutte le biblioteche alla ricerca di prefazioni, interpretazioni e recensioni, tutto quello che troverete sarà sempre e soltanto un grande, meraviglioso, incomparabile gioco di alchimia letteraria, mai tentato prima, e devo dire, mai eguagliato dopo.
Anche se, ve lo confesso, se solo Henry James fosse stato vivo gli avrei scritto o telefonato, per avere le mie risposte.
Ma chissà che io non possa, forse, dopotutto, evocare il suo fantasma ?

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Frankestein di Mary Shelley
Il terribile mostro che condanna la falsa onniscenza dell’uomo è in assoluto la prima prima pietra miliare che viene posta in letteratura a creare la genesi di tutta una serie di filoni destinati ad avere in seguito grandissima fortuna, dal gotico al noir, dall’horror al thriller, questo romanzo è l’antesignano di tutti i generi “neri”

Influenzato dalla rapida successione di incredibili scoperte scientifiche e tecnologiche e dai primi studi evoluzionistici a firma di Erasmus Darwin, vede la luce nel 1817 il Frankestein di Mary Wollstonecraft Shelley, nel tentativo di spiegare un universo in pieno mutamento e di rappresentare la falsa onniscienza in cui l’uomo all’epoca si cullava, questo romanzo rappresenta la genesi del genere fantastico frutto di una perfetta fusione di elementi gotici e fantascientifici.
La scrittrice inglese nacque il 30 agosto 1797 in un ambiente ricco di stimoli culturali e di pensieri decisamente innovativi, da due genitori letterati ed intellettuali: il padre, William Godwin, fu filosofo, teorico, politico e scrittore appartenete al movimento del razionalismo anarchico, la madre Mary Wollstonecraft, scomparsa prematuramente, viene considerata l’antesignana di tute le femministe, tra le prime a promuovere i diritti della donna, scrisse una serie di testi sul femmismimo, fu attiva militante del movimento, decisamente progressista, fu la fondatrice di un circolo che per la prima volta accoglieva le donne di ogni ceto sociale, tra cui molte scrittrici. A lei si deve il primo manifesto femminista di tutti i tempi, tra l’altro pubblicato anche in Italia nei caldi anni ‘70.
La vita della madre di Mary Shelley fu per molti versi drammatica, e per alcuni aspetti simile e speculare a quella che ebbe poi la figlia, protagonista di una fuga d’amore e di una relazione clandestina dopo aver concepito una figlia fuori dal matrimonio, tentò il suicidio a seguito dell’abbandono dell’amante, e infine lo seguì fino in Scandinavia, scrivendo poi un romanzo su questo inseguimento d’amore, Travel, dove descrive se stessa come un’intellettuale alle prese con le difficile scelte di donna e di madre, nonchè di rivoluzionaria. Di lei ci restano le struggenti lettere d’amore al suo perduto amore, il diario di viaggio, e un successivo romanzo sempre autobiografico dal titolo Maria, or The Wrongs of a Woman pubblicato postumo dal vedovo, il padre di Mary, con cui aveva intrapreso una nuova relazione dopo la precedente drammatica esperienza amorosa, e che sposò solo dopo essere rimasta nuovamente incinta. Morì di febbre puerperali nel 1797 dopo aver dato alla luce Mary.
Mary, invece, sulle orme delle esperienze materne, a soli 16 anni incontra durante un soggiorno in Scozia il romantico, giovane e geniale poeta ribelle Percy Bysse Shelley, e lo segue in una romantica fuga d’amore fino in Svizzera, lo sposa solo nel 1816, dopo la morte per suicidio della prima moglie di lui, Harriet Westbrook, anch’essa giovanissima. Con il marito viaggia attraverso l’Europa in Francia, Germania ed Olanda, ed approda infine in Italia.
Come per le sorelle Bronte la sua vita fu improntata da una serie infausta di tragedie ed eventi lussuosi, succedutisi senza interruzione: nel 1822 muore il marito Percy per il naufragio del suo natante da diporto nelle acque tra Genova e La Spezia, i comuni amici Byron e Polidori muoiono anch’essi giovanissimi, Byron a Missolungi, Polidori suicida, la nipotina Allegra, figlia che la sorellastra Claire ebbe da Byron, fu da questi affidata a un Istituto dove morì di malattia in tenera età, come accadde anche ai figli di Mary e Percy, di cui solamente uno sopravvisse.
L’esistenza di Mary stessa si trascinò tormentata da scandali, amori non corrisposti, e aspre difficoltà economiche fino alla morte, probabilmente per un tumore al cervello, nel 1851.
Tuttavia nonostante le alterne vicende Mary Shelley, a quanto ci risulta,fu in assoluto la prima donna a vivere dei suoi proventi di scrittrice, nonostante fosse stata costretta a dare alle stampe le sue prime opere in forma anonima, o sotto pseudonimo maschile. E il suo romanzo, definitivamente consegnato al mito della storia della letteratura, essendo in assoluto il capolavoro che vanta in tutti i tempi il maggior numero di imitazioni, dimostra una struttura narrativa particolarmente ardita ed innovativa.
Come tutti sanno, la genesi di questo romanzo ebbe inizio durante un incontro, la cui storia appartiene ormai alla leggenda. Nell’estate del 1816 Lord Byron si trovava sul lago di Ginevra, in una suggestiva Villa, la Villa Diodati, che aveva preso in affitto per la stagione, e la sera per ingannare la noia di una lunga serie di giorni piovosi, davanti al caminetto gli ospiti eccellenti di quel soggiorno estivo, dopo aver narrato storie di fantasmi facendo a gara per raccontare la storia migliore, decidono di dar vita a una gara di scrittura, con l’idea di preparare ciascuno una storia attinente al genere gotico-orrorifico.
I presenti erano Lord Byron (padrone di casa), il poeta Percy Bysshe Shelley, accompagnato dalla sua giovanissima moglie Mary Wollstonecraft e il medico John Polidori, e quella fu una notte memorabile per la storia della letteratura.
Byron e Shelley composero due brevi racconti, The Burial e The Assassin, Polidori ideò un romanzo breve Il Vampiro, poi dato alle stampe nel 1819, anch’esso antesignano di uno specifico filone letterario di indiscussa fortuna, sopravvissuto fino ai nostri giorni, e Mary stese una novella ispirata al mito di Prometeo, dal titolo di Frankestein, pubblicata nel 1818 e destinata alla consacrazione eterna nella storia della letteratura.
Pur non essendosi mai cimentata con il genere, l’opera di Mary risultò talmente carica di orrore inespresso, che ella sentì il bisogno di celarsi dietro un immaginario sogno ” a occhi aperti” che, disse, le aveva ispirato il racconto, rivelandosi forse, la prima esperta di Marketing Letterario nella storia.
Difficilmente si riesce a immaginare una trama simile concepita da una mente femminile, ed era certo più semplice trovare riparo nel facile espediente di un evento onirico.
La novella iniziale era molto più breve, e furono necessari anni di rielaborazioni per portarla a compimento nella forma attuale. Sia la trama che la struttura narrativa sono ardite e ardimentose, prospettando dei modelli innovativi per l’epoca e dei contenuti che furono a suo tempo aspramente criticati. Negli anni a venire la critica letteraria ha creduto di rintracciare in quest’opera, dichiaratamente ispirata al mito di Prometeo, influssi e connotazioni comuni con le opere di Milton ne Il Paradiso Perduto, di Omero nell’Iliade e nelle Metamorfosi, di Shakespeare ne LaTempesta e nel Sogno di Una Notte di Mezza Estate, di Stevenson nel celeberrimo Dr. Jekyll and Mr Hyde, e di Oscar Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray.
Basterebbero da soli questi parallelismi così eccelsi e tanto complessi per proiettarci in quella che è la reale dimensione di questa opera fondamentale ed unica, anche al di fuori del suo genere.
“I am by birth a Genevese, and my family is one of the most distinguished of that republic. My ancestors had been for many years counsellors and syndics, and my father had filled several public situations with honour and reputation. He was respected by all who knew him for his integrity and indefatigable attention to public business. He passed his younger days perpetually occupied by the affairs of his country; a variety of circumstances had prevented his marrying early, nor was it until the decline of life that he became a husband and the father of a family.”
Questo il sommesso incipit, pur vigoroso, di un testo complesso, svolto su diversi piani temporali, che non predilige nessuna delle forme narrative consuete all’epoca, in questa partenza nulla ci anticipa, nulla ci prepara, nulla ci avvisa del sommesso fremito orrorifico che presto ci pervaderà, e già nella quarta delle lettere che ci introducono, riassumendo, in “media res” ci sentiamo chiedere dallo stesso co-protagonista della vicenda: “…..non senti anche tu ghiacciarti il sangue per l’orrore?…” e non possiamo non concordare con lui, perche’, pur sapendo poco o nulla della vicenda, tuttavia sentiamo serpeggiare nelle nostre vene un indiscusso, irrefrenabile e oscuro fremito di puro terrore.
Sarà l’ambientazione tra i ghiacci, sarà la sensazione che il co-protagonista non è altro in realtà che la “spalla” dell’orrida creatura, vera indiscussa e incontrastata stella dell’intera narrazione, sarà che la vicenda si snoda in una serie di falsi piani temporali e narrativi, ma la magia di questo testo difficlmente è riproducibile, ed effettivamente mai è stata riprodotta, neppure in parte, nelle centinaia di tentativi di imitazione che si sono succedute nei secoli a venire.
Ma vediamo per sommi capi la storia, ovviamente nota a tutti, e la trasposizione narrativa, esaminata nella sua complessa architettura strutturale.
Facendo una rapida sintassi, una specie di Bignami della trama, possiamo dire per sommi capi che si narra di uno studioso di medicina svizzero, che sperimentando tenta di creare la vita dal nulla ed assembla una creatura mostruosa usando pezzi trafugati dai cadaveri nel cimitero, riuscendo ad infondere in essa la vita, ma che poi, terrorizzato dal suo medesimo successo, fugge nell’attimo stesso del suo affacciarsi alla vita, lasciandola ad affrontare da sola le difficoltà della sua esistenza. La creatura orrorifica ed incompleta, dotata di un aspetto terrificante, abbandonata a se stessa tenta di trovare una sua via, ma viene rifiutata e perseguitata a causa del suo orrido aspetto, la sua bramosia di vita si ritorce in odio verso l’umanità in genere e verso il suo creatore in particolare.
Parte così una doppia caccia del mostro in cerca del suo creatore per vendicarsi e del creatore in in cerca del mostro per liberare l’umanità dalla sua fastidiosa presenza, in una rocambolesca fuga attraverso i ghiacci, in cui non si sa più chi sia preda e chi cacciatore, chi vincitore e chi vinto, chi il bene e chi il male.
Questo dualismo è in realtà il filo conduttore di tutta l’opera.
Il primo editore a cui si rivolse, facendo passare il suo manoscritto per quello di un giovane autore, rifiutò il libro, che venne poi pubblicato da Lackington, Allen and Company, nel marzo 1818, non conoscendo un successo immediato se non dopo innumerevoli discussioni e polemiche, che non fecero altro che alimentarne il mito, definitivamente consacrato con la realizzazione delle prime trasposizioni cinematografiche, almeno sei di cui l’ultima celeberrima, senza contare tutta la produzione minore.
Mary Shelly scrisse successivamente biografie, racconti di viaggio, storie della letteratura, articoli di giornali, romanzi futuristici e novelle, ma senza mai eguagliare la sua prima eccelsa opera, morì nel 1851, logorata da un lungo travaglio doloroso, probabilmente a causa di un tumore al cervello.
A tutti gli effetti la Shelly fu considerata la vera madre dell’intero filone fantascientifico e il suo Frankestein continua ad avere un grande successo, tanto che vanta il maggior numero di tentativi di imitazione, ristampe; e trasposizioni sia teatrali che cinematografiche.

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CENTOAUTORI (di Gabriele Montemagno) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/07/centoautori-di-gabriele-montemagno/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/07/centoautori-di-gabriele-montemagno/#comments Fri, 07 Sep 2007 20:19:25 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/07/centoautori-di-gabriele-montemagno/

Cari amici di Letteratitudine,

recentemente, trovandomi a Roma, ho avuto modo di assistere all’ultimo incontro (prima della pausa estiva) dei membri di Centoautori, tenutosi nella suggestiva cornice della “Libreria del Cinema” che si trova nel quartiere Trastevere in via dei Fienaroli. Cos’è Centoautori? Presto detto. E’ un movimento che raccoglie molte personalità del cinema e della televisione nostrani (registi, sceneggiatori, attori, documentaristi, fra i quali spiccano i nomi di Giuseppe Piccioni, Daniele Luchetti, Paolo Virzì, Francesca Archibugi, Cristina Comencini, Stefano Rulli, Sandro Petralia e molti altri), i quali, incontrandosi periodicamente (ogni giovedì pomeriggio) in detta libreria, hanno deciso di agire per promuovere una più equa legislazione che regolarizzi il nostro cinema (e la nostra tv). In un documento presente nel loro sito si legge infatti che Centoautori ha avuto inizio «quando, nel febbraio scorso, abbiamo iniziato a vederci alla libreria del Cinema a Trastevere, eravamo una cinquantina di registi e sceneggiatori, alcuni dei quali si conoscevano appena. Scrivemmo due lettere aperte per chiedere un nuovo profilo culturale ed etico alla direzione di Rai Cinema. In calce a quelle lettere, radunammo duecento firme di autori di cinema e televisione, e rimanemmo in fiduciosa attesa». A questo, è seguito un importante momento nella serata del 7 maggio scorso in cui, nel teatro romano “Ambra Jovinelli”, si sono trovati riuniti i «1400 firmatari del documento». Costoro –si legge ancora nel sito- riunitisi « per una costituente del cinema e della tv si sono moltiplicati: molti quella sera piovosa sono rimasti fuori dal teatro, ma da allora Centoautori ha avuto la certezza di aver toccato nervi scoperti, di essere diventato movimento». L’urgenza di una nuova legislazione sembra nascere, nei membri di Centoautori, dalla piena consapevolezza che televisione e cinema incidono nei costumi e nei modi di pensare della gente (e ciò, nel bene come nel male), e che tali media sono spesso guidati da logiche di guadagno e/o interessi particolari che penalizzano talenti, professionalità e la creatività di coloro che non accettano lo stato delle cose o che non vogliono allinearsi con alcuna cordata (politica e non), pur avendo, possibilmente, loro precise idee e talenti. Tale stato crea danno sia alla qualità artistica dei “prodotti” che non offrono utili e diversificati stimoli al pubblico, mirando a creare solo ascolto e consenso, sia ai molti professionisti, i quali non riescono a lavorare perché non “supportati” da alcun grosso nome o provenienti da ambiti sconosciuti. Uno stato delle cose che continua ad agire in barba alla tanto citata meritocrazia.

Cari amici, detto ciò vi invito a visitare il sito di Centoautori (www.100autori.it) in cui troverete più diffusamente le notizie circa il movimento e tutto ciò che vi può interessare (e potrete intervenire voi stessi); vi domando, poi: siete d’accordo con le istanze e le necessità di questo movimento? Secondo voi può rappresentare uno dei baluardi contro quell’imbarbarimento culturale da molti (giustamente) denunciato?

Vorrei anche aggiungere che quando ho loro domandato, nella riunione in cui ho partecipato, cosa si può fare per sostenerli, mi hanno risposto che il modo più diretto è quello di farli conoscere ed anche quello di intervenire nel loro sito. Ma poi qualcuno di loro mi ha anche suggerito di promuovere dibattiti sul nostro cinema, sulla sua qualità. E soprattutto sulla sua capacità di saper raccontare nel profondo e onestamente la nostra Italia.

Vi chiedo allora: secondo voi, il nostro cinema è ancora efficace come un tempo? Interessa ancora perché ci racconta realmente, oppure perché segue delle mode accattivanti? Non temete! Tali domande non si esauriranno qui, ma mi auguro che potremo, tutti insieme, dare loro spazio anche in altri interventi. E parleremo ancora di Centoautori. Nel frattempo, attendo le vostre risposte.

Un caro saluto a tutti voi e buon cinema!

Gabriele Montemagno

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