LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Claudio Morandini http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 MARCELLO SIMONI con “L’eredità dell’abate nero” (Newton Compton) e CLAUDIO MORANDINI con “Le pietre” (Exorma) a “Letteratitudine in Fm” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/07/19/in-radio-con-marcello-simoni-e-claudio-morandini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/07/19/in-radio-con-marcello-simoni-e-claudio-morandini/#comments Wed, 19 Jul 2017 13:58:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7582 MARCELLO SIMONI con “L’eredità dell’abate nero” (Newton Compton) e CLAUDIO MORANDINI con “Le pietre” (Exòrma) ospiti del programma radiofonico Letteratitudine in Fm di lunedì 17 luglio 2017 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

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Nella prima parte della puntata abbiamo incontrato Marcello Simoni per discutere del suo nuovo romanzo intitolato “L’eredità dell’abate nero” (Newton Compton).

Nella seconda parte della puntata abbiamo incontrato Claudio Morandini per discutere del suo romanzo Le pietre” (Exòrma).

Di seguito, informazioni sui due libri protagonisti della puntata.

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L’eredità dell’abate nero” di Marcello Simoni (Newton Compton)

Firenze, 21 febbraio 1459.
Il banchiere Giannotto Bruni viene ucciso in circostanze misteriose nella cripta dell’abbazia di Santa Trìnita. L’unico testimone è Tigrinus, un giovane ladro di origini ignote, dai capelli neri striati di bianco, che paga caro l’avere assistito al delitto: immediatamente arrestato con l’accusa di omicidio, solo l’inspiegabile intervento di un uomo molto influente riesce a sottrarlo alla morte. Ma a quale prezzo? Da quel momento in poi Tigrinus sarà braccato e costretto a fronteggiare i tentativi di vendetta di Angelo e Bianca, il figlio e la nipote della vittima, convinti che meriti la forca. Mentre cerca di sfuggire ai parenti di Giannotto, il ladro scopre però qualcosa di decisivo per il proprio destino: la morte del banchiere è legata a un tesoro che si trova su una nave proveniente dall’Oriente. Per aver salva la vita, Tigrinus dovrà stringere un patto con il potente Cosimo de’ Medici e affrontare un incredibile viaggio per mare, alla ricerca di un uomo sfuggente e imprevedibile. Un uomo che pare conoscere tutto sul suo misterioso passato… Un uomo chiamato l’abate nero.

Marcello Simoni è nato a Comacchio nel 1975. Ex archeologo e bibliotecario, laureato in Lettere, ha pubblicato diversi saggi storici; con Il mercante di libri maledetti, romanzo d’esordio, è stato per oltre un anno in testa alle classifiche e ha vinto il 60° Premio Bancarella. I diritti di traduzione sono stati acquistati in diciotto Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato La biblioteca perduta dell’alchimista, Il labirinto ai confini del mondo, secondo e terzo capitolo della trilogia del famoso mercante; L’isola dei monaci senza nome, con il quale ha vinto il Premio Lizza d’Oro 2013; La cattedrale dei morti; la trilogia Codice Millenarius Saga (L’abbazia dei cento peccati, L’abbazia dei cento delitti e L’abbazia dei cento inganni).

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Le pietre” di Claudio Morandini (Exòrma)

Tutto è in movimento in questo romanzo: sono sempre in giro gli abitanti del villaggio alpino di Sostigno, che salgono alle baite di Testagno e subito dopo scendono, in transumanze sempre più frequenti e frenetiche; si agita il fiume, anzi il torrente, che «certe anse se le inventa la notte, e la mattina le scopriamo come un regalo di Natale al contrario». Soprattutto, si muovono le pietre.
Certo, la vallata si è formata su detriti, su instabile sfasciume: ma il dato geologico non basta a spiegare i bizzarri fenomeni che da decenni coinvolgono i paesani, quella specie di iperattività del mondo minerale che moltiplica le pietre nei campi, nelle case, ovunque. I sostignesi, però, non se ne lamentano troppo, anzi cercano di sfruttare l’esuberanza pietresca a loro vantaggio.
Gli eventi recenti si intrecciano con la storia passata dei coniugi Saponara, cittadini in pensione approdati in montagna: è proprio in una stanza della loro “Villa Agnese” che si sono materializzate dal nulla le prime pietre, accumulandosi giorno dopo giorno in un crescendo tra Ionesco e Buster Keaton.

Claudio Morandini, «uno dei romanzieri più competenti e spiazzanti nel nostro panorama letterario» secondo la rivista «Pulp», è nato ad Aosta nel 1960. Ha pubblicato diversi romanzi, tra cui Le larve (2008), Rapsodia su un solo tema (2010), A gran giornate (2012). Nel 2015 ha pubblicato Neve, cane, piede (Premio Procida – Isola di Arturo – Elsa Morante). Suoi racconti sono apparsi in antologie e riviste o sono disponibili in rete. Collabora con il blog Letteratitudine e con le riviste online «Fuori Asse», «Diacritica» e «Zibaldoni e altre meraviglie». Il suo sito è http://claudiomorandini.com.

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La colonna sonora della puntata: …

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

È possibile ascoltare le puntate precedenti, cliccando qui.


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IL TEMPO TAGLIATO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/03/il-tempo-tagliato/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/03/il-tempo-tagliato/#comments Fri, 03 Mar 2017 14:30:54 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7427 letteratura-e-musicaIl nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato al romanzo “Il tempo tagliato” di Silvia Longo (Longanesi). Di seguito, l’autrice in una conversazione con Claudio Morandini.

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CONVERSAZIONE CON SILVIA LONGO: autrice de “IL TEMPO TAGLIATO” – (Longanesi, 2012)

A cura di Claudio Morandini

Con il romanzo “Il tempo tagliato”, uscito nella collana longanesiana “La gaja scienza” nel 2012, Silvia Longo racconta la storia di una donna, Viola, che di recente ha perduto il marito, celebre direttore d’orchestra dalla personalità insieme forte e fragile, del quale è stata per anni silenziosa vestale; e racconta della sua fuga imprevista, una sera, nel corso di un concerto in onore del coniuge, con un giovane tecnico del suono. Combattuta tra tentazione di abbandono all’avventura e desiderio di autocontrollo, Viola vive quella fuga, solo in parte sentimentale, come un allontanamento da tutto ciò che la tratteneva al ricordo ingombrante del marito, al suo bisogno perenne di ordine e equilibrio.
La musica c’è, a diversi livelli, in questo romanzo di grande finezza: è presente nella vita dei personaggi, che di musica vivono e si circondano, nei loro discorsi, addirittura nel loro modo di percepire il mondo; si intravede anche nella struttura del libro, nel titolo, perfino nella scelta del nome della protagonista. Sono motivi sufficienti per invitare Silvia Longo a una conversazione su un tema che ci sta a cuore, il rapporto tra scrittura e musica, tra parola e suono.

CM – La protagonista del tuo romanzo si chiama Viola. Una scelta che non mi suona casuale: la viola, tra gli archi, è lo strumento che di rado assume un ruolo di primo piano, e il più delle volte rinforza il tessuto armonico, lasciando liberi gli altri strumenti di fare i protagonisti. È uno strumento umile, ma indispensabile, senza il quale le altre parti perderebbero di significato. Anche tu lo hai inteso in questo modo?
SL – Hai centrato in pieno, Claudio. Presto molta attenzione quando si tratta di scegliere i nomi dei miei personaggi, seguendo gli insegnamenti dei Maestri: pensa al Manzoni, per esempio. Ne “I promessi sposi” i nomi dei personaggi rispecchiano il modo di essere e di agire, le qualità morali di ciascuno. Per la protagonista de “Il tempo tagliato” volevo un nome simbolico che ne rappresentasse l’umiltà (la viola è anche un fiore spontaneo che, quasi per pudore, cresce celandosi tra le foglie, alle radici di alberi maestosi), lo spirito di abnegazione per la buona riuscita di una causa, la capacità di adattamento alle necessità altrui. Come fa la viola in una orchestra: quasi mai è strumento solista e si può dire che lavori nell’ombra. Ma a un orecchio attento non sfugge quanto necessario sia il suo apporto.

CM – Sin dal titolo, “Il tempo tagliato”, il tuo romanzo è incentrato sul concetto di tempo, anzi sulle possibili declinazioni del concetto di tempo. Tecnicamente, “tempo tagliato” è la misura in 2/2, segnata con una C appunto tagliata, ma forse questo significato non mi pare determinante nel libro. Vi è invece, in senso più generale, il rapporto complesso con il passato (la vita con il marito direttore d’orchestra), il “taglio”, cioè la frattura determinata dalla morte di lui, il senso di spaesamento nel presente. Poi, sempre più insistente, si fa strada il tempo inteso come elemento centrale del linguaggio musicale: il marito, in quanto direttore, domina il tempo, lo scandisce, lo impone agli altri, ne ha bisogno in quanto gli garantisce controllo sul caos della vita, sulle sue paure più profonde. Il tempo si presenta a questo punto anche come ossessione, concretamente, nell’oggetto della sveglia dal ticchettio molesto. Liberarsi di quella sveglia, per Viola, diventerà un emanciparsi dal ruolo paziente e passivo messole addosso dal marito (e dalla famiglia di lui).
SL – Ho giocato con la parola “tempo”, sì. Cercando di usarla in quante più accezioni possibili, dato che la lingua italiana attribuisce a questo termine un ampio ventaglio di significati. Il tempo atmosferico, ad esempio, con i bollettini meteo che ho inserito all’inizio dei capitoli. Il maltempo che fa franare la strada alle spalle di Viola e del suo compagno di viaggio, e li blocca per una notte lontani da casa, dal circolo vizioso delle abitudini. Quanto al tempo di Viola, esso è tagliato perché con la morte del marito (che a sua volta necessitava di scandirlo e dominarlo, per mestiere e per nevrosi, e che ha avuto comunque la vita interrotta bruscamente da una cesura imprevista, l’infarto) – come hai rilevato – il suo percorso umano d’un tratto è diviso tra un prima e un dopo. Ma è soprattutto il suo tempo personale a essere tagliato, e cioè ridotto all’osso, poiché Viola ha scelto di dedicare la propria esistenza al servizio della famiglia, alle urgenze e alle velleità del marito e della figlia, trascurando le proprie. Che poi è la condizione in cui versano molte persone: chi ha un forte senso del dovere, e finisce con identificare la propria realizzazione con quella altrui. Infine c’è il concetto di tempo musicale, sì. Il 2/2 è un tempo che ha due movimenti marcati, il battere e il levare, che in qualche modo riproducono il prima e il dopo di cui ho parlato prima, il ticchettio di un orologio, l’inspirazione e l’espirazione, e anche il battito del cuore (nel libro a un certo punto parlo di battiti per minuto, bpm: termine che si usa tanto in musica quanto in cardiologia). Forse era questo il mio fine. Associare musica e vita, musica e amore, musica e scrittura. Creare un forte legame simbolico utilizzando l’idea di ritmo.

CM – Il repertorio del marito di Viola sembra prediligere la grande musica classica pre-romantica: non ama l’Ottocento, evita, si direbbe, ogni intrusione nel Novecento. C’è, in questa scelta, il desiderio di una musica che sia perfettamente ordinata, fondata su un attento, implacabile equilibrio contrappuntistico – una musica che ha trovato la sua più compiuta espressione in Bach?
SL – Esatto, Claudio. Per molti esperti (io non lo sono, posso solo definirmi una “amante” della musica) Bach è colui che meglio rappresenta l’idea di ordine, di perfezione. Pensa ai suoi canoni (alcuni dei quali pare fossero improvvisazioni su un tema), alla sua “Arte della fuga”: vi è una tale compiutezza in essi, e nel contempo una grande audacia nel cercare nuove soluzioni, sempre in quel preciso equilibrio di cui parli.  Pare che Bach avesse aderito al neopitagorismo, che credesse cioè in una stretta relazione tra matematica e musica, e tra musica e ricerca spirituale. I suoi canoni perpetui, in questa ottica, sono stati interpretati come la rappresentazione in musica del movimento delle stelle nelle loro orbite. Bach è dunque spesso associato alla teoria della Musica delle Sfere, e per me è impossibile non collegarlo a Dante, che vede nell’armonia cosmica la manifestazione del divino. Federico, il marito di Viola, ama questo genere di musica perché gli è di conforto: è un uomo colto, sensibile, spesso con la mente se ne va altrove, in un mondo tutto suo, una sorta di Iperuranio.

CM – Se il marito è una fuga di Bach, Viola musicalmente a quale forma corrisponde? La citazione posta in esergo fa riferimento al ricercare, come forma musicale antica e originaria, da cui si sarebbero sviluppate strutture più vincolate, come appunto la fuga. La si potrebbe applicare, con la consueta dose di approssimazione, anche alla ricerca personale di Viola di un suo suono, di una sua parte?
SL – Viola, nelle mie intenzioni, è il pop. O comunque un genere più “moderno”. A un certo punto parla dei suoi gusti, accenna ai Depeche Mode, a Bowie, ai Pink Floyd. Non è che non apprezzi Bach, ma non disdegnerebbe ogni tanto (anche sotto metafora) qualche nota meno canonica, un po’ di improvvisazione. Nella vita come nella musica. Ricercare era la parola con cui, in origine, si indicava la fuga. Ecco, qui ho giocato ancora, come con la parola “tempo”: credo si colga, nel romanzo, l’insofferenza che Viola ha covato per molto tempo, avendo scelto di vivere in funzione dei ritmi altrui, e trovandovisi poi incastrata. Ed è da tutto questo che, più o meno consciamente, decide di fuggire. Per smettere di scappare da se stessa, dalle verità che deve ammettere. Una fuga vera e propria, del tutto improvvisata, per ricercare se stessa.

CM – C’è, in questo riferimento al ricercare, anche l’indicazione di un metodo di scrittura? Perché effettivamente il tuo romanzo stesso pare mosso da un senso di ricerca, di esplorazione analogo a quello che spinge Viola, che lo tiene ben lontano da ogni prevedibilità, e che si coniuga bene con un senso complementare di fuga dal passato, o almeno di ridefinizione del passato.
SL – Approfitto di questa domanda, Claudio, per ringraziarti: hai letto con tale attenzione il mio libro che nulla pare esserti sfuggito, né della storia né del modo in cui l’ho narrata.
Sì, credo che la scrittura debba essere in continua evoluzione e che qualcosa sia ancora possibile re-inventare, in ambito letterario. Per questa ragione spesso, nel rileggermi, penso che quel passaggio lo modificherei, che quel periodo lo scriverei in modo diverso. Una storia può essere narrata in molti modi, ma solo uno – di volta in volta – è per me il modo giusto: quello che non solo si mette al servizio della storia, ma porta a essa un valore aggiunto. Quando ho preso a scrivere “Il tempo tagliato” sapevo che, tutto sommato, narrava una storia abbastanza ordinaria. Ma volevo fortemente raccontarla, attribuirle dignità letteraria (penso che nessuna esperienza umana sia banale, che ogni esistenza abbia valore). E allora ho deciso che me la sarei giocata anche sulla forma. Si parla di musica, in questo libro: ciò che ho fatto è stato tentare di attribuire al testo una cadenza musicale. La forma è importante tanto quanto l’intreccio. Lungi mille miglia dall’idea dell’effetto speciale, una scrittura fuori dall’ordinario può riscattare l’ordinarietà reale o presunta di qualsiasi narrazione.

CM – Allargando il discorso: come ritieni che la letteratura possa accostarsi alla musica, “raccontarla”, evocarla?
SL – Credo fermamente che le arti siano connesse tra loro, e trovo che ciò sia commovente. Quando scriviamo, per esempio, stiamo anche dipingendo ritratti e paesaggi. E stiamo dando tridimensionalità a personaggi e ambienti, come accade nella scultura. Il legame tra letteratura e musica, poi, è ancora più evidente, dal mio punto di vista. Penso a quanto sia importante che le parole, nel loro susseguirsi, abbiano un ritmo e un suono preciso. Il suono è tutto, perché ricrea nell’animo di chi legge una sensazione di armonia o disarmonia, a seconda delle situazioni che stiamo descrivendo. E la punteggiatura, non è forse una questione di ritmo e di respiro, come quando si canta? Descrivere la musica forse è più difficile, ma non impossibile. Per fortuna esistono le canzoni, che offrono la possibilità di una fruizione diretta del legame stretto tra musica e parola. Anche per chi non si intende troppo né dell’una né dell’altra.

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Il libro

Nella luce di un giugno radioso e sfacciato, Viola sente crescere il vuoto delle sue giornate. Ha quarantatré anni, e per metà della vita è stata moglie devota di un acclamato direttore d’orchestra e madre di una figlia avuta da giovanissima. Nient’altro, nessuna concessione a se stessa, nessun inciampo, nemmeno ora che, con la morte improvvisa del marito e una figlia ormai adulta, le sue giornate sono scandite dalla solitudine.
Il pomeriggio del solstizio d’estate, durante un concerto in memoria del marito, Viola conosce un uomo e qualcosa accade dentro di lei: una breccia nel muro, un’infiltrazione d’acqua nelle crepe, un punto di sutura che si dissolve. Mentre nel chiostro assolato risuonano le note di Bach, un’impacciata Viola in abito da cocktail, il filo di perle al collo e i capelli raccolti, lascia il concerto e fugge in macchina con lui. La tentazione è quella di abbandonarsi, di lasciarsi portare dalla corrente, ma l’autocontrollo è la disciplina in cui Viola eccelle e quello che sta succedendo non è solo sconveniente: è assurdo. Eppure è tardi per tornare indietro, perché il viaggio è iniziato, e con quell’uomo lei sta andando esattamente dove desiderava da tempo: lontano. Lontano da tutto per avvicinarsi alla sua verità, semplice e scandalosa.

[Silvia Longo è nata a Cuneo nel 1965 e vive ad Alba con il marito e il figlio. Lavora presso una cooperativa che si occupa di disagio sociale.]

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LETTERA A DINA di Grazia Verasani http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/10/21/lettera-a-dina-di-grazia-verasani/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/10/21/lettera-a-dina-di-grazia-verasani/#comments Fri, 21 Oct 2016 14:49:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7314 letteratura-e-musica

Il nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato al nuovo libro di Grazia Verasani, intitolato “Lettera a Dina” e pubblicato da Giunti.

La puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” con Grazia Verasani dedicata al suo precedente romanzo “Mare d’inverno” (Giunti) è disponibile per l’ascolto qui.

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Lettera a Dinadi Grazia Verasani (Giunti, 2016)

recensione di Claudio Morandini

Nel nuovo romanzo di Grazia Verasani, “Lettera a Dina”, uscito quest’anno per Giunti come il precedente “Mare d’inverno”, due personaggi femminili si incontrano, misurano le proprie incompatibilità eppure si attraggono e si stringono in un’amicizia appassionata nella politicizzata Bologna degli anni Settanta, tra scuole medie e liceo; si abbandoneranno, a un certo punto, per seguire strade inconciliabili, ma finiranno per ritrovarsi uniti nella memoria: uno è l’io narrante, una ragazza curiosa, buona, inquieta il giusto, “comunista” da sempre ma incuriosita dal mondo della borghesia benestante, stabile pur nei cambiamenti dovuti alla crescita e alle dinamiche dell’esistenza; l’altro personaggio è appunto Dina, “fascista” più per sfizio e gusto della provocazione che per sentita vocazione ideologica, piuttosto spinta da una disperata voracità consumistica, affascinante proprio perché diversa e inafferrabile, in continua metamorfosi tra fasi di rapinosa bellezza e altre di abbrutimento.
La prima possiede la solidità necessaria per superare le crisi, per opporsi a derive autodistruttive, e rimane sincera con se stessa e gli altri; la seconda, invece, tra sbandate bulimiche e comportamenti compulsivi, finirà per perdersi nell’alcool e nelle droghe pesanti, in un crescendo di bugie e depistaggi sempre più goffi. La morte di Dina, la sua scomparsa rappresentano l’oggetto di quella ricerca che dicevamo, che però è un affaire personale, un fare i conti con un momento opaco del proprio passato più che con un mistero da risolvere.
Due figure così opposte eppure complementari – se vogliamo leggerli come fossero elementi musicali – potrebbero ricordare le dinamiche che si creano tra il tema A e il tema B di una forma sonata: diversi per natura, eppure destinati a legarsi in uno sviluppo che li concili.
La musica, in effetti, ha un ruolo fondamentale nel bel romanzo di Verasani. È dall’ascolto casuale di una canzone degli Alunni del Sole, “E mi manchi tanto…”, che si scatena il ricordo, rimosso per tanti anni, dell’amicizia adolescenziale tra la narratrice e Dina. Anche in altre parti del romanzo la musica è questo: evocazione di sentimenti contrastanti e di straordinaria intensità, colonna sonora di situazioni alle quali rimarrà aggrappata per sempre nel ricordo, proiezione (anticipazione, amplificazione) di situazioni e momenti cruciali; compagna consolatrice, terapia della sofferenza dell’anima, distillato (in poche parole, in pochi accordi, quando si tratta delle canzoni che punteggiano il romanzo) di uno stato d’animo.
La musica in “Lettera a Dina” svolge anche un altro ruolo: caratterizza un’epoca, segna lo scorrere del tempo, certifica lo spirito di determinati anni. Per noi che abbiamo vissuto quegli anni, magari in altre città anche più sonnolente, tutti quei titoli diventano potenti madeleines evocatrici (da “Pop Corn” de La Strana Società a “Polli di allevamento” di Gaber, da “Perché no?” di Battisti a “Parsifal” dei Pooh), assieme ai titoli di film e libri (“Porci con le ali”, “Ecce Bombo”, “Bilitis”…) e di programmi televisivi, al “Corriere dei ragazzi” e a “Burda”, alla morte di Giovanni Paolo I e agli spettacoli di Carmelo Bene: e rimaniamo indecisi tra l’abbandono complice al gioco della nostalgia o il distacco di chi, raggiunta la maturità, contempla il proprio passato come la vita di qualcun altro.
Accanto alle canzonette, qualche classico (Sibelius, Rachmaninov, Bellini, Liszt…) frutto degli interessi della protagonista narrante e dei suoi studi musicali. A volte questa particolare competenza musicale colora di un’immagine imprevista una situazione:
«Sono confuso» mi aveva detto R. quella sera, col tono di chi farà di tutto per eliminare un eccesso di ridondanza strumentale da un brano solistico.
Analogamente, la relazione con l’amico R. viene descritta così poche righe dopo: Eravamo ancora in una specie di backstage, durante il nostro concerto, come due romantici studenti fuori corso.
Il tempo, in questa vicenda che intreccia passato e presente, è l’altro vero protagonista. E Grazia Verasani ci fa sentire l’intricata commistione della personale quête della protagonista narrante attraverso un escamotage interessante: racconta l’indagine nel presente ricorrendo al tempo passato, facendolo così sprofondare indietro, e con la vividezza del tempo presente racconta la persistenza del passato indagato e ritrovato.

[Un estratto del libro è disponibile qui]

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La scheda del libro
È una mattina del 1973 e nella classe 2a H entra per la prima volta Dina. Ha dodici anni, indossa abiti costosi, è bionda e sovrappeso. Si volta verso la sua nuova compagna di banco e le dice: ”Io sono fascista”. L’altra le risponde: ”Io sono comunista”. E’ un colpo di fulmine. Tra le due nasce un’amicizia travolgente, fatta di sotterfugi, giuramenti, chiacchiere, litigi, riconciliazioni appassionate. Due mondi diversi, due famiglie di estrazione opposta, una di matrice operaia, l’altra, quella di Dina, decisamente borghese, che le due ragazzine mescolano e alternano in una Bologna animata dalle prime lotte studentesche.
Trentasette anni dopo, mentre parcheggia l’auto, la protagonista di questa storia sente alla radio la canzone che lei e Dina ascoltavano fino allo sfinimento su un giradischi. E di colpo, vivissima, Dina è di nuovo lì. Dove si è persa l’adolescente ribelle sempre in lotta con una madre fredda e seducente? Qual è stato il momento esatto in cui qualcosa si è spezzato? E perché quella tentazione irrefrenabile di camminare a occhi chiusi sul bordo di un precipizio?
Lettera a Dina” di Grazia Verasani è il racconto toccante di un’amicizia assoluta e dei segni che ha lasciato; una riflessione sui sogni e gli ideali della giovinezza attraverso un paesaggio esistenziale che tocca un decennio importante della storia italiana, in una sovrapposizione tra passato e presente il cui raccordo emotivo – e provvidenziale – è la musica.

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Grazia Verasani (Bologna 1964), scrittrice e musicista, ha esordito ventenne pubblicando racconti sul Manifesto, nella rubrica curata da Gianni Celati. Sono seguiti romanzi, antologie, opere teatrali, fino a Quo vadis baby? (Feltrinelli) da cui il regista Gabriele Salvatores ha girato l’omonimo film nel 2005 e prodotto una serie tv. Per Feltrinelli, oltre a Tutto il freddo che ho preso, sono usciti Velocemente da nessuna parte, Di tutti e di nessuno, Cosa sai della notte e Senza ragione apparente (menzione speciale premio Scerbanenco 2015), con protagonista l’investigatrice privata Giorgia Cantini. Del 2012 è il film Maternity Blues
tratto dalla sua opera From Medea (Sironi Editore), vincitore di molti premi. Per Giunti, sono usciti Mare d’inverno (2014) e Lettera a Dina (2016).
Il suo sito è www.graziaverasani.it

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NOTTURNI di Kazuo Ishiguro http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/09/29/notturni-di-kazuo-ishiguro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/09/29/notturni-di-kazuo-ishiguro/#comments Thu, 29 Sep 2016 17:20:21 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7292 letteratura-e-musica

Il nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato ai racconti “Notturni. Cinque storie di musica e crepuscolo” di Kazuo Ishiguro (volume pubblicato da Einaudi e tradotto da Susanna Basso).

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Notturni“Notturni. Cinque storie di musica e crepuscolo” di Kazuo Ishiguro (traduzione di Susanna Basso – Einaudi, 2009)

recensione di Claudio Morandini

Sceglie la via della commedia agrodolce, Kazuo Ishiguro, nei racconti di ispirazione musicale che Einaudi ha pubblicato nel 2009 nella limpida, spigliata traduzione di Susanna Basso con il titolo “Notturni. Cinque storie di musica e crepuscolo”.
L’effetto complessivo, piuttosto lontano dalle atmosfere sottilmente, inquietantemente mélo di romanzi come “Quel che resta del giorno” o “Non lasciarmi”, è quello di un mondo di passioni, illusioni (composte) e conseguenti delusioni (mai davvero dolorose), che può ricordare, quanto a ritmo e situazioni, certe canzoni dei bei tempi andati tra il sentimentale e l’ironico, diciamo tra Noël Coward e Cole Porter: brio up-tempo, svenevolezze virgolettate, arguzie british e sottintesi tenuti sotto controllo. Nei dialoghi, nella predilezione per musiche dell’età dell’oro della canzone e del jazz, sembra a volte di trovarsi dalle parti del Woody Allen migliore, quello in cui l’umorismo (anche la comicità più disarmata) non esclude scivolate verso il dramma (che però qui, in Ishiguro, è sempre solo accennato, o per meglio dire eluso).
Lo humour perfettamente british di Ishiguro predilige toni meno farseschi (con l’eccezione del racconto intitolato “Come Rain Or Come Shine”, vera e propria comica slapstick al rallentatore), conversazioni più composte, in cui il non detto finisce per essere più importante delle parole, paradossi meno compiaciuti. Non è cinema, in effetti, è piuttosto teatro, anche nel taglio delle scene, e poco importa che alcuni racconti siano ambientati in luoghi esterni come i rii e le piazze di Venezia o le campagne inglesi.
La musica è raccontata attraverso le vite sempre in bilico di musicisti che vivono di essa: in cerca di riconoscimenti, di successo, anche solo di stabilità economica, questi musicisti (che sono esecutori, ma ambirebbero a essere qualcosa di più, ora compositori, ora grandi interpreti), si confrontano a volte con modelli illustri ma ormai in declino (in “Crooner”), o si trovano dinanzi ad altri colleghi che si sono rassegnati a ruoli di contorno (come nel sottilmente amaro “Malvern Hills”, in cui l’io narrante, chitarrista in cerca di riconoscimento, rivela a poco a poco il suo opportunismo un po’ egoista, l’idealismo ingenuo e velleitario). In “Violoncellisti”, l’ultimo racconto, ancora una volta di ambientazione veneziana, l’io narrante del musicista di turno (violoncellista di una delle tante orchestrine di piazza San Marco) è messo a confronto con la figura affascinante di una dotatissima violoncellista che però non ha mai più preso lezioni da quando era bambina – questo è anche l’unico racconto in cui si sfiora il repertorio classico e vengono fatti i nomi di Britten e Rachmaninov.
Talvolta la musica è in sottofondo, risuona da dischi (CD, o preferibilmente vecchi vinili), affonda nei ricordi di gioventù. Sembra allora che non se ne parli, che la musica sia stata dimenticata, invece è lì, nascosta tra le cose non dette, sedimentata nei rapporti di amicizia coltivati sin dalla gioventù, nei gusti musicali che rafforzano o appannano queste amicizie (in “Come Rain Or Come Shine”).
In tutti i racconti, insomma, le ambizioni dei personaggi vengono messe alla prova, le vite piene di speranza si avviano verso un declino morbido ma palpabile. I veri talenti stentano a essere riconosciuti, nel mondo tratteggiato da Ishiguro, ormai contaminato dall’industria dello spettacolo, mentre a contare sono piuttosto l’apparenza, l’esteriorità, la bella faccia: si pensi al talentuoso saxofonista di “Notturno”, spinto dal suo agente a farsi una plastica facciale per apparire più bello e arrivare quindi al successo, o al chitarrista di “Malvern Hills” che si vede rifiutare le proprie creazioni da ottusi esponenti del sottobosco pop e rock inglese.
Eccolo, il “crepuscolo” evocato nel sottotitolo, eccoli gli accordi in tonalità minori con cui si chiudono duetti e terzetti anche brillanti.

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Kazuo IshiguroKazuo Ishiguro è nato a Nagasaki nel 1954 e si è trasferito con la famiglia in Inghilterra nel 1960. Tutti i suoi romanzi sono tradotti in italia da Einaudi: Un pallido orizzonte di colline (1982), Un artista del mondo fluttuante (1986), Quel che resta del giorno (ultima edizione Super ET 2016), Gli inconsolabili (1995 e 2012), Quando eravamo orfani (2000), Non lasciarmi (ultima edizione Super ET 2016) e Il gigante sepolto (2015, ultima edizione Super ET 2016). Per Einaudi ha pubblicato anche la raccolta di racconti Notturni. Cinque storie di musica e crepuscolo (2009 e 2010). Da Quel che resta del giorno (Man Booker Prize 1989) è stato tratto un famoso film con Anthony Hopkins ed Emma Thompson. Nel 2008 il «Times» l’ha incluso fra i 50 più grandi autori britannici dal 1945.

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I SEGRETI DELLA GIARA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/06/07/i-segreti-della-giara/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/06/07/i-segreti-della-giara/#comments Tue, 07 Jun 2016 17:42:39 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7169 letteratura-e-musicaNell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “I segreti della giara”, di Alfredo Casella (il Saggiatore).

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Recensione di Claudio Morandini

I segreti della GiaraSi legge assai volentieri “I segreti della giara”, l’autobiografia che Alfredo Casella ha terminato nel 1938 e che opportunamente il Saggiatore ripubblica quest’anno a cura di Cesare De Marchi e con illuminante postfazione di Giovanni Gavazzeni (“Il nostro debito con Alfredo Casella”). Casella, compositore di temperamento, dalla vocazione europeista e modernista, ha in letteratura il gusto delle descrizioni vivide di ambienti e personalità. Certo, il testo soffre qua e là delle intenzioni auto-apologetiche: con quest’opera Casella doveva difendersi dall’ostilità dei rivali, dalle cortigianerie degli invidiosi, e mettere al riparo se stesso e la seconda moglie ebrea dai pericoli di una denuncia – l’anno della stesura è lo stesso delle famigerate leggi razziali – ed è per questo che si sente spinto a sottolineare la propria italianità, l’ispirato cattolicesimo di famiglia, la granitica fedeltà al fascismo – in questo non era insincero –, a esaltare le virtù dell’”Italia Littoria” concedendosi financo qualche antipatica stoccata che oggi ci suona razzista (la “qualità inferiore” dei “metèques” che ingolfano la Parigi del dopoguerra, la “congrega” di “elementi israeliti medieuropei” che influenzano in senso “anti-latino” le scelte delle associazioni internazionali della musica contemporanea).

Ma, si diceva, “I segreti della giara” è un’opera gustosa e illuminante per molti altri versi. Casella suddivide il testo in tre grandi momenti, corrispondenti alle tre città che più hanno contato nella sua formazione. Scorrono così, in ampi quadri fitti di dettagli, la Torino ottocentesca dell’infanzia e degli affetti familiari, città che in controtendenza rispetto al resto d’Italia preserva una solida tradizione strumentale e non pare attratta dal melodramma, a meno che non sia quello di nuovissimo conio e avanzato linguaggio di Wagner; la Parigi a cavallo tra Otto e Novecento, fucina cosmopolita di sperimentazioni artistiche ma anche di memorabili lotte tra “rivoluzionari” e passatisti, guastata da incomprensioni e gelosie logoranti, abitata da geni afflitti sempre, secondo Casella, da vezzi e debolezze – e da Parigi l’apertura verso il resto d’Europa, la Russia, la Germania, l’Inghilterra; infine la Roma del ventennio, in cui il ruolo e la personalità musicale di Casella si definiscono sia pure tra mille invidie.
L’apprendistato di Casella si nutre del confronto con metodi, scuole, culture diverse, praticato con curiosità intellettuale sin dagli anni torinesi e affinato durante il fertile soggiorno parigino: è come se attraverso lo studio del magistero di altri compositori, in apparenza diversissimi se non inconciliabili (Richard Strauss, Mahler, Debussy, i sinfonisti russi, Ravel, Stravinskij, che nella traslitterazione caselliana diventa Strawinski, e tanti altri), il giovane Casella imparasse, oltre al mestiere, anche a definire un suo stile personale (e, attraverso questo stile personale, lo stile di tutta una nazione, visto che l’autore pone se stesso come campione di italianità, sin dalle prime composizioni, sin da quella rapsodia intitolata “Italia” del 1907 che oggi rischia di suonare come un guazzabuglio kitsch e nazionalista di temi popolari e melense canzonette). Curiosamente, Casella non ci dice molto di sé come compositore: non lo vediamo quasi mai al lavoro su determinate composizioni, l’atto creativo non ci viene raccontato, se non per rari e sbrigativi accenni a questioni di orchestrazione o di alternanza di movimenti: le composizioni saltano fuori già fatte, magari irrisolte, ingenue, di precaria tenuta, ma già concluse; piuttosto il compositore ne segue le fortune concertistiche, riporta i giudizi dei colleghi o dei critici sui giornali o il plauso dei frequentatori delle sale da concerto. Ma, in un certo senso, Casella resta riservato, quasi pudico, a differenza, che so, di Stravinskij sempre prodigo di dettagli sulla genesi e lo sviluppo delle proprie idee musicali – eviteremo di cadere nel cliché attribuendo alle sue origini piemontesi questo riserbo. Per Casella, insomma, il racconto della musica è essenzialmente il racconto delle relazioni artistiche, del percorso dell’opera nel mondo, il riscontro del pubblico – la sua dimensione pubblica, insomma.
Nella terza sezione dei “Segreti”, intitolata “Roma (1915-1938)”, si alternano i dettagliati resoconti di tournée in giro per il mondo (Francia, Stati Uniti, Unione Sovietica) in cui Casella si impegna a diffondere composizioni proprie e di altri compositori italiani suoi contemporanei, e le fasi di fervida attività di promozione della musica contemporanea, italiana e internazionale, a Roma e in generale in Italia. Su questo punto è riconosciuto unanimemente da tutti coloro che conobbero Casella l’impegno infaticabile del compositore, sinceramente convinto che solo attraverso uno svecchiamento del linguaggio e il confronto con le correnti più avanzate della musica europea (Da Stravinskij a Schönberg, passando per Bartók e tutti i nomi più importanti) l’ambiente musicale italiano potesse liberarsi dal provincialismo e dal passatismo. In queste pagine dense di informazioni fino alla pedanteria, si sente ancora più chiaramente lo sforzo dell’autore di sbarazzarsi delle facili accuse di anti-italianità che i rivali gelosi gli gettavano addosso dai giornali. Casella che insiste nel far conoscere al pubblico romano o milanese degli anni trenta il “Pierrot lunaire” di Schönberg, “Les Noces” o “Oedipus” di Stravinskij sembra davvero voler fare apostolato di nuovi linguaggi musicali di cui l’Italia, ancora invischiata nel melodramma e nel verismo, aveva un gran bisogno (non era solo in questo il nostro Casella: anche Puccini, come ci viene ricordato, manifestò tale interesse nei confronti delle nuove musiche).
Le testimonianze di chi lo conobbe personalmente in quegli anni, ne fu allievo e fu aiutato da lui lo confermano: Casella era generoso di aiuti con chiunque fosse dotato di ingegno, seppure stilisticamente lontano (in questo senso sono particolarmente significativi gli esempi dei giovani Petrassi e Dallapiccola, soprattutto del secondo, attratto dal serialismo schönberghiano assai più sistematicamente di quanto a suo tempo il giovane Casella fosse stato dall’atonalismo del “Pierrot Lunaire”, che Casella chiama dodecafonia senza che lo fosse).
Per Casella non vi è contraddizione tra il suo impegno a favore delle correnti più avanzate in musica e l’adesione al fascismo; di questo ha voluto cogliere sin dagli inizi il lato più “rivoluzionario”, che sentiva coerente con un’arte a sua volta anticonvenzionale. Nel frattempo, curiosamente, lo stile di Casella andava in tutt’altra direzione: in nome dell’anti-verismo e dell’anti-romanticismo, la vena del compositore, affinandosi e liberandosi dall’ingerenza dell’atonalità e della politonalità praticate da giovane, andava scovando affinità nel repertorio barocco e pre-classico, nelle forme del concerto grosso e della sonata scarlattiana: si semplificava, si squadrava (rientrando così in quella vasta reazione alle vaghezze dell’impressionismo e ai residui del wagnerismo che va sotto il nome di “neo-classicismo”, nome che per la verità non piacque mai a nessuno dei compositori più dotati). Casella si emancipava, inoltre, dal ricorso a materiale folklorico, senza però smettere di alludere, attraverso il ricorso a danze, ninne-nanne e altre forme consimili, a una matrice popolare italiana (come avevano fatto o andavano facendo altrove colleghi ammirati quali De Falla o Bartók). Così, nel definire il suo stile maturo, Casella parla di “naturalezza e semplicità però che sono risultato di dolorose e faticate assimilazioni e rinunce e non espressioni oppure sfoghi di ingenuità e di dilettantismo” (e “naturalezza e semplicità” sono anche tra gli ingredienti alla base dell’enunciazione di un carattere nazionale, arduo impegno cui si dedica Casella nelle ultime pagine, intitolate, come in una di quelle forme tripartite care al compositore, “Constatazioni, idee e conclusione”).

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PERCHÉ PRINCE? http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/04/25/perche-prince/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/04/25/perche-prince/#comments Mon, 25 Apr 2016 15:47:21 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7120 La nuova puntata del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA” la dedichiamo a PRINCE, scomparso il 21 aprile scorso.

Prince Rogers Nelson

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Perché Prince?

di Claudio Morandini

Nel parlare di Prince nei giorni successivi alla notizia della sua morte sarò costretto a essere – in qualche misura – autobiografico. Me ne scuso sin d’ora. In compenso, in questo intervento mi limiterò a parlare della musica di Prince, non del personaggio e nemmeno dei testi, e questo forse mi aiuterà a non suonare celebrativo o, peggio, agiografico.
A differenza degli snob e dei fan improvvisati che si fermano a “Purple Rain” e al massimo citano “Kiss”, posso dire di avere tutti i suoi dischi – tutti, compresi quelli mai usciti ufficialmente. Possiedo tutti i singoli, con quei meravigliosi lati B. I remix dei singoli in tutte le versioni possibili, tranne forse qualche edizione giapponese. I remix dei remix. Non ho mai assistito a un suo concerto dal vivo, ma ho raccolto bootleg su bootleg (in vinile, in cassetta, in CD) per tutti gli anni novanta e anche oltre: registrazioni delle esibizioni in teatro e negli stadi, anche di qualità inascoltabile; outtakes e prove in studio, carpite chissà come. Gli aftershow nei club. Ho collezionato le canzoni scritte per altri. I remix delle canzoni scritte per altri. Gli album prodotti per altri, compresi quelli mai pubblicati. Ho pure le canzoni attribuitegli, forse sue forse no – non si sa mai. Molti album di collaboratori, di amici, delle ex, di chi ha avuto a che fare con lui per un certo periodo della sua vita – hai visto mai che si nasconda qualche frammento della sua grandezza, in mezzo a tanti volonterosi compitini. Prince andava inseguito sempre, ovunque, anche quand’era distratto o stanco. Era Prince, che diamine.

È stata, la mia, una ricerca compulsiva e caparbia, anche perché ho scoperto la sua musica un po’ in ritardo, dopo la metà degli anni ottanta, arrivandoci attraverso il Miles Davis prodotto da Marcus Miller e album come “Tutu” (1986) che al sound di Prince dovevano parecchio. All’epoca, i video delle canzoni princiane rivelavano un personaggio minuto ma dalla personalità ingombrante, alternativamente inquietante e attraente, che un po’ respingeva un po’ attirava – ma era la musica a colpirmi, quel funk asciutto e jazzato il cui ascolto era un’esperienza tutta intellettuale, in cui mi sforzavo di non muovere i piedi a ritmo, di non dondolare il capo. Era musica – come è sempre stato il funk – insieme fredda e torrida, elaborata e semplice, elegante e grezza. Si percepiva, dietro, un lavoro accanito di elaborazione, un controllo spietato, anche tirannico, degli altri musicisti, un atteggiamento perfezionista che talvolta spazzava via tutti gli altri e dava luogo a una creazione solitaria, in cui l’autore si moltiplicava per ogni strumento suonato, per ogni microfono piazzato. Era forma-canzone o ballad che però in qualunque momento poteva trasformarsi anche in altro. All’epoca (quegli anni ottanta che attaccavano fardelli anche ai momenti più lievi, gonfiavano le acconciature, imbottivano le spalline, allungavano i tacchi, truccavano le palpebre), la batteria implacabile teneva il tempo, con una pesantezza che era segno dei tempi, confinando in secondo piano tutti gli altri strumenti. Insomma, era il ritmo primordiale del funk, quello del sangue che pulsa nelle vene in stato di eccitazione, allusivo del ritmo dei lombi durante l’atto sessuale, o di quello della marcia a difesa dei diritti mancati, che poteva durare ore (come in effetti accadeva nei concerti dal vivo di Prince, nei numerosi aftershow, nelle interminabili prove in studio). L’interscambio ritmico tra batteria dominante e basso e chitarra, le cui pulsioni sincopate creavano sfasamenti danzanti di cui non ci si poteva saziare (chi vuole approfondire cerchi “Funk!” di Rickey Vincent, ed. Tarab, 1998). Era il ritmo dei Parliament- Funkadelic di George Clinton più che quello di James Brown, almeno agli inizi – e ammesso che abbia senso spaccare il capello in quattro su questo punto, visto che tra le band di Sly Stone e degli stessi Brown e Clinton il travaso di uomini e di idee è stato continuo.

Prince era (è rimasto) uno dei grandi operatori di sintesi dei contrari: più che un eclettico, mi è sempre sembrato un curioso in grado di fondere audacemente generi e stili contrapposti. L’eclettico mescola senza amalgamare: Prince, quando il gioco gli riusciva, cioè spesso, compendiava gli ingredienti fino a renderli indistinguibili, nella stessa canzone, o nell’accostamento nel medesimo album (spesso gli album nascevano come concept, estrapolarne un pezzo è fare torto alla complessità dell’insieme, è negarsi il piacere degli accostamenti, dei rimandi, dei giochi di contrasto e affinità tra una traccia e l’altra). Ascoltate “Lovesexy”, del 1988, a mio parere il suo album più ricco e il più allegramente sperimentale; o ascoltate le canzoni, composte in piena libertà, dei lati B dei singoli, in cui non è praticato l’inseguimento della formula pop di successo e l’approccio è quello libero e bizzoso del creatore in libera uscita (se ne può avere un’idea grazie al terzo CD della raccolta “The Hits / The B-sides” del 1993). O ancora, ascoltate i remix dei brani scelti come singoli – diciamo fino agli anni novanta, cioè fino a che è stato lo stesso Prince a curarne la versione remixata e allungata. Un pezzo come “I Wish U Heaven”, che in “Lovesexy” suona piacevolmente imbambolato, luminosamente melenso, nella versione più lunga si carica di ombre, di sonorità inaspettate, diventa funk, smette di sorridere e digrigna i denti. E noi sentiamo che quel carattere ombroso, anche minaccioso, era già dentro, aspettava solo di uscire, aveva solo bisogno di tempo per manifestarsi, era in agguato appena dopo i tre minuti della canzone.

Il ruolo di Prince nella pop music a partire dai primi anni ottanta è stato paragonabile a quello di Miles Davis nel jazz dagli anni sessanta (o a quello, lasciatemelo dire, di Stravinskij dagli anni dieci del Novecento): insieme propulsivo e riassuntivo. Prince appartiene al novero di quei compositori (preferisco parlarne così, invece che come di un personaggio dello show business) che con voracità si sono impadroniti di tutto quello che la musica offriva loro, e hanno operato sintesi vertiginose tra mondi incompatibili, facendoci scoprire che l’insieme dei loro riferimenti suonava molto più ricco della semplice somma, e che il loro guardarsi indietro o attorno non era un fermarsi ma un modo per accelerare verso forme più avanzate di linguaggio. Hanno avuto epigoni, certo, che hanno normalizzato il frutto delle loro ricerche e trasformato in cliché i loro gesti rivoluzionari – ma non stiamo parlando di loro, dello strano e ambiguo conservatorismo degli epigoni. E come Davis e Stravinskij, e a differenza dei loro epigoni, Prince era un ironico (non però un sarcastico come Frank Zappa): possedeva cioè il dono del distacco dalla materia che trattava, e sapeva giocare con gli stilemi dei generi di cui si impadroniva. Era un appassionato esegeta e insieme un manipolatore, e la difficoltà nel distinguere nella sua musica i due atteggiamenti rende intrigante l’ascolto. Sapeva essere torridamente sboccato, ma senza esserlo davvero fino in fondo, e con mezzo sorriso, quasi a chiedere scusa; riusciva a essere morbosamente smielato, ma bastava un falsettino, un trillo in più a svelare che in fondo era tutto un gioco. Se l’atmosfera si faceva troppo pesante, ecco spuntare la citazione di una filastrocca infantile. Se la torch song si impantanava in languori eccessivi, ecco un intervento dei fiati o di qualunque altro strumento a correggere, a smentire. Anche nei momenti di misticismo più imbambolato interveniva un qualcosa a riportare il tutto sulla terra: altrimenti era l’eccesso di misticismo a indurci a sospettare che non fosse da prendere sul serio fino in fondo.

Prince è stato uno sperimentatore anche di pieni e di vuoti. Ha asciugato certi suoi pezzi fino a un’essenzialità scabra (tutti sanno di “When Doves Cry” senza la linea del basso, effetto spiazzante che rende armonicamente indefinibile il brano: ma pensate anche alla secchezza di “Sign ‘O’ the Times”, in cui non c’è nulla di troppo, alla parsimonia di “Sometimes It Snows In April” da “Parade”, 1986, o a strani oggetti alieni come “Forever in My Life”, priva quasi di strumenti, o a “Slave”, da “Emancipation”, per non dire dell’intero “The Truth” del 1997, solo fatto di voce chitarra e poco altro; e ne ha resi ipertrofici altri con arrangiamenti da musical, tutti fiati cori e tastiere e elettronica varia (l’album “Love Symbol” del 1992 soffre, per così dire, di questa ipertrofia orchestrale, come “The Vault” del 1999). L’alternanza di queste due esigenze contrapposte, l’horror vacui da una parte, l’horror pleni dall’altra, ha dato luogo a risultati imprevedibili, anche nelle versioni dello stesso brano – Prince era maestro nell’arrangiare i suoi pezzi, giocando sulle varianti e le metamorfosi in un modo che farebbe la gioia di generazioni di filologi musicali. Insomma, nell’altalenare tra essenzialità da rock suonato in garage, in un angolo di strada o in cameretta e opulenza pleonastica da big band ho sempre sentito un’affinità con le tendenze contrapposte che animano qualunque produzione artistica, qualunque scrittura. Non siamo anche noi oscillanti tra pieno e vuoto, tra bisogno di dire solo l’essenziale, anzi meno dell’essenziale, di praticare l’ellissi come una forma di ascesi, e dall’altra voglia di dilungarci, di essere iperbolici, marinisti, hollywoodiani, amazzonici?

Ecco il punto: nell’ascoltare Prince non potevi dimenticare il processo creativo che ha portato a quel prodotto finito; è musica sufficientemente fuori dal pop e dai suoi automatismi per costringere l’ascoltatore a interrogarsi sulle soluzioni formali, in un approccio che finisce per essere musicologico (e filologico nel raffronto tra le infinite varianti dello stesso brano). “Musicology”, guarda caso, è il titolo di una canzone (e dell’album che la racchiude) del 2004. Titolo programmatico, che esprime con orgoglio la necessità di riconquistare, dongiovannescamente, tutti filoni della musica pop, bianca, black, non importa, attraverso rimandi omaggi ammiccamenti emulazioni appropriazioni, e la consapevolezza di far parte di quel flusso storico. Ascoltare la musica di Prince richiede un atteggiamento di ricerca, di scoperta, di accettazione del rischio. Continuerai a battere il piede a ritmo e a dondolare il capo, perché insomma il funk ti costringe a farlo, ma non puoi smettere di pensare al resto, a quello che cori tastiere chitarre fiati voci armonie sghembe impazienze ritmiche continuano a fare sopra quel ritmo, alla sapienza costruttiva che anima l’insieme.

Dentro quella musica ci senti insomma fremere il processo creativo che domina o dovrebbe dominare anche la tua scrittura, il dosaggio di ordine e caso, l’oscillazione tra controllo e improvvisazione, il travaso dal caos alla coerenza di una struttura.

Negli ultimi album aveva smesso di inventare e di osare davvero nella sperimentazione, certo. Le sue canzoni più recenti, quando non ammiccano con un po’ di cinismo al pop à la page, ricordano – volutamente – quelle di vent’anni o trent’anni prima, anche negli arrangiamenti, giusto un po’ attualizzati (ascoltate “HITnRUN Phase Two”, l’ultimo album prima della probabile ondata di album postumi). Ma sono composizioni argute e eleganti, e ascoltarle è come ritrovare un vecchio amico che racconta sempre le stesse quattro o cinque cose – ma come le sa raccontare bene!

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IL NIPOTE DI BEETHOVEN http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/03/23/il-nipote-di-beethoven/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/03/23/il-nipote-di-beethoven/#comments Wed, 23 Mar 2016 17:03:09 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7091 letteratura-e-musicaNell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del romanzo “Il nipote di Beethoven” di Luigi Magnani (Endemunde, 2015)

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Recensione di Claudio Morandini

Dobbiamo alla casa editrice Endemunde l’opportuna ristampa de “Il nipote di Beethoven”, romanzo di Luigi Magnani che nel 1972 ha conquistato il premio Strega. Magnani travasa nella forma del romanzo la sua fine competenza di studioso di musica colta e in particolare di Beethoven, ma sceglie di raccontare gli anni difficili e avvelenati del rapporto tra Ludwig e il nipote Karl attraverso la voce di quest’ultimo. E dunque di musica, nel senso più stretto del termine, ce n’è poca, in questo denso romanzo, perché Karl sembra indifferente ad essa, e quando coglie l’illustre zio alle prese con i dilemmi della composizione pare non capire, come se si trovasse dinanzi alle elucubrazioni di un pazzo o almeno di un eccentrico.
Beethoven ci è mostrato mentre martella come un fabbro sul pianoforte, con una violenza che può ricordare lo Stravinskij alle prese con le armonie del “Sacre du printemps”; o mentre, assorto, elucubra e canticchia ostinatamente un motivo scarabocchiato su un foglio, da cui cerca di estrarre una forma, uno sviluppo, e intanto batte il ritmo con i piedi, incurante del resto. È un ritratto assai poco indulgente del musicista, che combatte contro la sordità sempre più grave e cocciutamente rincorre un’idea di musica dietro la quale nessuno sembra volerlo seguire, fatta di cellule materiche, di ritmi tellurici che miracolosamente conducono alle vertigini del sublime. Analogamente, le sue passeggiate nella campagna lontano da Vienna seguono percorsi imprevisti, a un passo forsennato, con un’impazienza ferina – qui, come un Robert Walser rimuginante, si perde per ore, concentrato dietro a pensieri che nessuno potrà conoscere (certo non Karl, oscillante tra una pietà di maniera e un desiderio di emancipazione molto adolescenziale).

A disposizione dell’autore, oltre a vasta esperienza nella ricostruzione di ambienti e nella definizione degli aspetti più propriamente musicali, vi sono i “Quaderni di conversazione” che il grande compositore ha lasciato e con cui era solito comunicare con gli ospiti: molti dialoghi prendono spunto o citano a piene mani da quel che rimane di quei quaderni, in cui i contrasti con il nipote Karl rappresentano uno dei temi più controversi. Magnani li ha studiati a fondo, ne ha scritto anche in altre occasioni, congetturando sul contenuto di quelli scomparsi e sui responsabili di tale sparizione.

Che cosa spinge Beethoven a occuparsi di Karl, a strapparlo alla tutela della madre, ad assillarlo con continui rimproveri, a spostarlo da un istituto all’altro nel tentativo di domarne il temperamento ribelle, la vischiosa amoralità? L’attuale editore del romanzo di Magnani insiste, nella quarta di copertina, su un atteggiamento ambiguo del compositore, parla di “tormentata relazione, intessuta di zuffe e tenerezze”, “soffocanti molestie”, “passione”, addirittura (lo si legge sulla copertina) di “ambigua passione senile”. Non ce la sentiamo di stare a questo gioco editoriale fino in fondo: dalla lettura del romanzo si trae un’altra impressione, quella di uno scontro sanguinoso tra due personalità inconciliabili, quella di un progetto educativo perentorio, che naufraga per mancanza di materia prima. Beethoven nutre l’ambizione smodata di fare del nipote una sorta di capolavoro morale, che rispecchi i più alti ideali a cui lui stesso, il compositore, si ispira per le sue più audaci architetture musicali: e per ottenere questo capolavoro è necessario operare in orgogliosa solitudine, in un rapporto strettissimo ed esclusivo tra maestro e allievo. Ma Karl è incline al divertimento, alle amicizie promiscue, è incostante e instabile, moralmente fiacco, pronto alla dissimulazione con chiunque, insensibile all’arte, incapace di legarsi a un luogo o a una persona, soprattutto – si direbbe – incapace di provare rimorso. Un vero epigono delle “Liaisons dangereuses”, in effetti, di cui a un certo punto ripercorre in chiave minore il gioco crudele, incerto tra il ruolo di vittima e quello di carnefice. Beethoven consuma tutte le sue energie nella realizzazione del suo capolavoro pedagogico da questo materiale umano così restio, elabora tutte le strategie possibili, dalla lusinga al ricatto, dall’offesa all’incoraggiamento: insegue il nipote fin dove può, lo spia, gli impone amicizie e abbandoni, ne condiziona il più possibile le scelte. Ora come un Napoleone muove alla conquista dell’animo di Karl, ne vuole espugnare la vita imponendosi come unico sovrano (salvo battere in ritirata come dopo una campagna militare tramutatasi in rotta rovinosa); ora come una vecchia madre – più che come un amante – si ritira in sdegnosa solitudine quando Karl lo delude o lo respinge. È appassionato nell’espressione dei suoi affetti, come è terribile e ricattatorio in quello della sua delusione o del risentimento – e qui, nell’iperbole continua dei sentimenti, sentiamo sia l’esorbitante grandezza del genio sia lo stile comunicativo del tempo.
Lo ritroviamo alla fine, Ludwig, distrutto dalla fatica, amareggiato per il fallimento, incapace di contentarsi di quel poco che ha ottenuto dal nipote (un prudente affetto a distanza, spartito con altre figure ostili), malato e isolato anche per effetto della sordità. Quanto a Karl, ha trovato finalmente una sorta di paradossale libertà nella vita militare, e dall’alto di questa raggiunta sicurezza può ripercorrere nella finzione del romanzo la sua lunga relazione con lo zio, eludendo i contrasti più dilanianti e gli episodi fonte di maggiore imbarazzo.

Nella breve e illuminante “Nota dell’autore” che apre il romanzo, Magnani concede una preziosa chiave di lettura, quando, riprendendo il titolo “Quasi una fantasia” della beethoveniana Sonata op. 27 n. 2 (quella detta anche “Chiaro di luna”), ci parla dell’equilibrio prodigioso ottenuto da Beethoven nel conciliare «il rigore razionale della forma» con «il fremito dell’ispirazione». “Quasi una fantasia”, appunto: un movimento controllato e insieme prodigo di svolte impreviste, un’architettura non convenzionale, una forma che si determina da sé, volta per volta. Qui cogliamo la definizione calzante per tutto il Beethoven maggiore, e in generale per tutto quel romanticismo musicale soprattutto mitteleuropeo che tanto gli deve. Allo stesso tempo, sentiamo che Magnani sta definendo il suo romanzo, che insegue un’«intima coesione» «nell’apparente intreccio casuale degli eventi», e alla fine «ricompone le parti mancanti, condizionandole all’armonia del tutto, come in una mutila polifonia».

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Il libro
All’età di quasi 50 anni, Ludwig van Beethoven, scapolo e senza prole, diventa tutore del giovane Karl, figlio del defunto fratello e sensibile al fascino del grande zio. Tra i due, fuggiti in una Vienna nel pieno del suo splendore, si stabilisce presto un’ambigua relazione, intessuta di tenerezze e terribili litigi, di missive inviperite, pianti, fughe e contriti ritorni all’ovile. Ma mentre Karl, col trascorrere del tempo, scopre i piaceri dei balli in maschera e delle sognanti infatuazioni per le fanciulle in fiore, in Ludwig l’attaccamento senile verso il nipote diventa ossessione, sospetto, gelosia, cupo e incessante rimuginio. Deciso a scrollarsi di dosso le soffocanti ingerenze di Beethoven, da preda indifesa Karl si trasformerà, passo dopo passo, nel dominatore di un vecchio artista ormai distrutto e umiliato.
Narrata da Magnani con sensibilità e stile incantevole, le vicende di questa travolgente passione trovano ampi riscontri nella realtà storica, scrupolosamente indagata dall’autore.

Luigi Magnani (1906-1984) è stato uno scrittore, saggista, studioso di musica e grande conoscitore di Beethoven. Ha pubblicato, tra gli altri, Goethe, Beethoven e il demonico (Einaudi, 1976), La musica in Proust (Einaudi, 1978). Sempre per i tipi di Einaudi, nel 1982 ha raccolto, ne Il mio Morandi, il suo carteggio con il grande pittore bolognese.

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MEMORIALI SUL CASO SCHUMANN di Filippo Tuena http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/12/18/memoriali-sul-caso-schumann-di-filippo-tuena/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/12/18/memoriali-sul-caso-schumann-di-filippo-tuena/#comments Fri, 18 Dec 2015 14:30:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7004 Memoriali sul caso SchumannNell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del nuovo romanzo di Filippo Tuena intitolato Memoriali sul caso Schumann” (Il Saggiatore, 2015).

Nei prossimi giorni, su LetteratitudineNews, pubblicheremo un estratto del libro…

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Recensione di Claudio Morandini

Tuena è oggi, per me, uno dei migliori costruttori di storie; è artefice – ambizioso, com’è giusto in letteratura – di romanzi che ora si stendono come partiture, ora come mappe, o diari di bordo, o alberi genealogici, a seconda del tema, dell’ambientazione, delle passioni che vi si agitano. La struttura, nel suo caso, è importante quanto il soggetto – anzi, “è” il soggetto, ne è l’estensione, la proiezione. Il suo ultimo romanzo, “Memoriali sul caso Schumann”, conferma questo assunto: attorno alla figura complessa dell’ultimo Robert Schumann, afflitto da deliri e demenza, Tuena raccoglie (cioè in parte trascrive, in parte immagina) con meticolosità le testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto, che ne hanno condiviso sofferenza e passioni, e che ne sono stati toccati fino al logoramento. Sotterranea, intanto, scorre una sensibilità musicale, che compone le parti del romanzo come sezioni di una vasta opera – cameristica, più che sinfonica, direi, visto l’esiguo numero di personaggi in gioco – in cui a prevalere, ancora una volta, come nella saga familiare delle “Variazioni Reinach” (di recente riviste per la nuova edizione Beat), è la forma della variazione. Il romanzo diventa polifonia di voci attorno allo stesso tema (la follia di Schumann): che ognuno dei personaggi declina a suo modo, attraverso punti di vista differenti, differenti distanze e livelli di comprensione, girando attorno al tema secondo dinamiche e giochi timbrici propri. A tutto ciò si inframmezza – in un modo che mi ha ricordato le abissali “lamentazioni oltremondane” in “Rosso Floyd” di Michele Mari, dedicato non a caso anch’esso a un caso di alienazione musicale, quello di Syd Barrett – una voce estranea, sgrammaticata, petulante, angosciosa, demoniaca, che all’inizio sembra una delle voci “sentite” da Schumann, ma diventa ben presto, tragicamente, la sua voce.
La variazione non è solo il mezzo attraverso cui si sviluppa e si articola l’indagine di Tuena: è anche una declinazione, insinuante e pervasiva, una sorta di rielaborazione a specchio dello stesso tema, cioè la follia ossessiva: non a caso, risuona in tutto il romanzo l’opera misteriosa e postuma di Schumann, quelle Geistervariationen, o Variazioni del Fantasma il cui tema, di struggente semplicità, sarebbe stato suggerito in sogno dallo spettro di Schubert.
Ecco, gli spettri: come è già stato notato, questa è una ghost story alla vecchia maniera, cioè secondo ritmi e dinamiche ottocentesche, che puntano sull’attesa e sull’economia di effetti, e dilatano atmosfere. In questo gioco di ombre, lo stesso Schumann è rievocato – come un fantasma – da distanze irraggiungibili, sia per lo stato che lo aliena dalla realtà chiudendolo in un mondo di allucinazioni e ossessioni, sia per l’impossibilità oggettiva di raggiungerlo nella clinica in cui è subito ricoverato dopo un tentativo di suicidio.
I fantasmi agitano le visioni di Schumann: ma per Schumann sono presenze reali, vivide, con loro ha un dialogo anche fecondo. Per curioso ribaltamento, sono gli esseri reali, gli amici che si preoccupano per lui e lo seguono da lontano, che Robert prende – forse – per apparizioni. È la prassi, nella clinica in cui è ricoverato: solo nascondendosi, e spiando non visti, i visitatori possono intercettare in un paziente segni di uno sperato miglioramento o di un temuto declino. Il vedere da lontano non visti è per lo più insoddisfacente e ingannevole, ma talvolta l’incertezza coglie frammenti di verità. «Quel suo modo di essere frammentario, nella parola, nella musica, nel fumare. Chissà se anche i suoi pensieri si disperdono nel vuoto.» Così, parafrasando Brahms, scrive Elise Junge sul suo diario. Ma le apparizioni contagiano un po’ tutti, nel romanzo di Tuena, al punto che ogni personaggio che sia stato vicino a Schumann prima o poi scorge un’ombra, sente parlare un fanciullo con la voce di un vecchio, vede animarsi angoli bui di una stanza.
Anche i temi musicali appaiono come spettri, nelle testimonianze circa la fine delle Variazioni del Fantasma: riemergono dopo anni di oblio, se ne scovano le tracce là dove non ci si aspetterebbe, anche in composizioni altrui, tornano a scomparire…
È racconto che turba e commuove proprio perché raccontato da lontano, per dettagli colti da amici e conoscenti, quello del precipitare nella demenza di Schumann: il dolore sempre composto dei parenti e degli amici trova sfogo nella fitta corrispondenza, come si usava allora. E diventa straziante quando si intravede la consapevolezza dello stesso Schumann dinanzi all’avanzare della malattia (le voci, le accuse immaginarie di non essere l’autore delle proprie musiche, la perdita di controllo delle mani sulla tastiera, l’aprirsi di voragini sempre più profonde nella memoria, e a correzione di tutto questo lo sforzo di apparire «presente a se stesso», di ricordarsi di tutto ciò che ha di più caro).
E ancora più straziante si fa il racconto quando scopriamo “il caso Schumann” duplicato nel monologare fitto e incoerente del figlio Ludwig, di cui si trascrivono pignolescamente i monologhi nel corso delle visite al manicomio di Colditz: e nelle sue parole la quotidianità in una casa di musicisti (con annesse sedute di spiritismo e visite di spettri, primo fra tutti “don Franzetto Sciubba”, cioè Franz Schubert) è riletta attraverso la lente distorta di una mente alienata, ancora capace però di distillare i dettagli veri che una mente lucida non saprebbe scorgere.
Come in un racconto gotico che si rispetti, si insinua il tema del doppio: il più consapevole sembra esserne Brahms, che con i doppi (gli pseudonimi) ha giocato a lungo, negli anni giovanili, in una moltiplicazione di identità (ne sa qualcosa Hélène Grimaud, che oltre a essere fine interprete pianistica ama cimentarsi nella letteratura, e nel “Ritorno a Salem”, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2014, immagina una sorta di thriller musical-filologico attorno a un manoscritto perduto di Brahms). Il Johannes Brahms di Tuena entra nella vita degli Schumann travolgendoli, vampirizzando Robert, in un continuo cimento, in una perenne emulazione che non si esaurisce nell’ambito musicale ma tracima in quello letterario e nel campo degli affetti. È interessante scoprire come, infine, non sia stato Brahms a vampirizzare Schumann ma piuttosto Schumann a “possedere” Brahms (così, almeno, sembra di leggere tra le righe del memoriale del vecchio Johannes, che conclude il romanzo mettendo un po’di ordine tra tutte le testimonianze). I due compositori sembrano davvero l’uno complementare all’altro – e il vecchio Brahms, nel suo “Memoriale”, ripensando agli errori passati, traccia le linee di queste due vite intrecciate, fino a mostrare come l’uno, Schumann, abbia finito per scrivere musica «titubante», balbettante, fragile e imperfetta, ma proprio per questo espressione di una lingua nuova e aperta verso l’avvenire, che spaventerà Clara, la quale reagirà nascondendo o distruggendo quelle pagine estreme; e l’altro, Brahms, si sia avviato verso una sorta di afasia musicale che ormai consente solo più forme brevi, composizioni di scarso respiro.

È notevole il modo in cui la musica è raffigurata nel romanzo di Tuena. In certe testimonianze (la citata Elise Junge, ad esempio) i musicisti vengono presentati come dotati di un’inquietante capacità di estraniarsi dai dolori e dalle angosce della vita reale attraverso la musica: questa capacità di «allontanarsi dal contingente» e ritirarsi in un mondo olimpico, «lunare», che è creato dalla stessa musica e si nutre del «piacere profondo di essere in accordo», è un dato che sembra accomunare Clara Schumann e il giovane Brahms, mentre invece la musica di Schumann va in tutt’altra direzione, conduce verso abissi di sofferenze e inquietudini di cui è la trasfigurazione. «Dice altro, dice di onde e di tempeste», chiosa il giovane amico Christian Reimers.
In Schumann la musica – su questo le diverse testimonianze concordano – è un viaggio o il sogno di un viaggio verso territori sconosciuti, è forse – come i percorsi astrusi che traccerà ossessivamente sugli atlanti – percorso sciamanico verso altri tempi e altri luoghi, «sentiero di sogni», «strada dei canti»: «Il sistema è temperato e dunque asimmetrico e c’è uno scartamento nella direzione della bussola di cu occorre tener conto perché re diesis non corrisponde a mi bemolle e si diesis e do bemolle sono note addirittura inesistenti dunque questo è un sentiero inesplorabile ancorché è proprio su questa traccia che mi trovo quando mi rivolgo al nord» come si legge nel delirio sinestesico della seconda seduta sciamanica in Australia raccontata da un contagiato Reimers in uno dei suoi diari.
Ma c’è dell’altro. La perdita di contatto con la musica da parte di Schumann nel ricovero di Endenich sta non solo e non tanto nella perdita di agilità manuale o di capacità tecnica, e nemmeno nella confusione crescente in cui sprofonda l’atto del suonare e del comporre, sostituito da surrogati come giochi matematici, compulsazione di atlanti e soprattutto dal domino, che da gioco diventa codice cifrato; sta, probabilmente, nella perdita di ogni contatto con il “tempo”, nel rallentamento del tempo fino all’immobilità (lo nota, in una sua lettera, il solito Christian Reimers); un sintomo del degrado mentale di Schumann stava, già prima del ricovero, nel rallentamento dei tempi fino all’estenuazione; ora tutto, nella clinica, a confronto con lo scorrere naturale del tempo nelle vie attorno, «si arresta, in attesa della guarigione, della follia conclamata o della morte». La musica di Schumann muore così, nel dilatarsi insopportabile del tempo fino alla stasi definitiva.

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La scheda del libro
Memoriali sul caso SchumannIl 27 febbraio 1854, in piena crisi artistica ed esistenziale, Robert Schumann esce dalla propria abitazione di Düsseldorf e si butta nelle fredde, nere acque del Reno. Salvo per miracolo, viene affidato alle cure del dottor Richarz e internato nel manicomio di Endenich, dove rimarrà fino alla morte, perseguitato da voci incorporee che lo accusano di non essere l’autore della sua musica e solo occasionalmente visitato da allievi e protetti, fra cui il prodigioso Johannes Brahms. Non rivedrà mai più l’amata moglie Clara e i figli.
Intorno a questa follia – e alle enigmatiche “Variazioni del fantasma”, che Schumann sosteneva gli fossero state dettate dallo spettro di Franz Schubert – Filippo Tuena costruisce un romanzo a incastro dalla presa magnetica, un congegno narrativo che dissimula la finzione come un raffinato trompe l’oeil ottocentesco e sfrutta sei punti di vista diversi – da un’anziana amica di Robert e Clara a Ludwig Schumann, affetto dallo stesso male del padre – per sondare il mistero che ancora circonda gli ultimi anni di Schumann e i suoi rapporti con la moglie e con Brahms, l’allievo dal volto angelico arrivato nella vita della coppia sei mesi prima del tentato suicidio e destinato a giocare un ruolo centrale non solo nella vita del Maestro, ma anche nella storia della musica.
Abilissimo come sempre nel mescolare verità storica e rielaborazione immaginifica, Filippo Tuena utilizza lettere, stralci di diari, partiture per raccontare una storia di arte e pazzia che ha i toni foschi di un romanzo gotico, e che attraverso la vicenda emblematica di Schumann esplora i rapporti della civiltà europea con la morte e l’aldilà, con la religione e la scienza, e da ultimo con la musica, «corpo spirituale del mondo», suo pensiero in scorrimento . Il risultato è un romanzo che si legge con la voracità di “Dracula” o “L’abbazia di Northanger”, una storia di fantasmi la cui scoperta più spaventosa è l’impossibilità di capire fino in fondo l’altro.

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SENZA MUSICA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/16/senza-musica/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/16/senza-musica/#comments Mon, 16 Nov 2015 14:35:54 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6960 Nell’ambito del forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Senza musica”, di Bruno Canino (Passigli, 2015).


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Bruno Canino – “Senza musica” (Passigli, 2015)

Recensione di Claudio Morandini

La lettura del libro di Bruno Canino, dal titolo paradossale “Senza musica” (Passigli, 2015), mi ha fatto ragionare su quello che potremmo definire umorismo da musicisti, anzi proprio da pianisti: è un umorismo fatto di osservazione scrupolosa di tic di colleghi strumentisti, coltiva idiosincrasie e le perfeziona nel corso degli anni come fossero una sorta di repertorio parallelo a quello concertistico. Lo si può ritrovare anche nelle note di Alfred Brendel (“Abbecedario di un pianista”, Adelphi, 2014), così come nel precedente libro di Canino, “Vademecum del pianista da camera”, in fase di ristampa, di cui quest’ultimo si presenta con modestia come una sorta di appendice, di aggiornamento. È un umorismo che predilige la catalogazione alfabetica, non rinuncia a un intento didattico o pedagogico, o almeno morale, e sembra fare della musica (e della musica pianistica in particolare) un paradigma della condizione umana: ma lo fa senza darlo a vedere, senza calcare la mano, e probabilmente negherebbe di farlo, se glielo si chiedesse.

Meno sistematico, più bizzoso di Brendel, a tratti più “cattivo” nell’evidenziare vizi e miserie del mondo musicale (di quello italiano in particolare), anche più concreto nel calare la musica, il “mestiere” della musica nella realtà quotidiana e nell’indifferenza della società di oggi, Canino non disdegna di parlare di soldi, cioè di costi della musica, dei micidiali meccanismi tritatutto che sono i concorsi (moltissimi in Italia), della ragnatela di connivenze che lega musicisti a critici e a committenti; si sofferma sulle “patologie” dell’esecutore, soprattutto del pianista, e sulle deformazioni che l’industria discografica ha prodotto sulla resa e sulla percezione della musica classica; colto da quel misto di repulsione e di attrazione per l’orrido che ben conosciamo e in un certo senso condividiamo, si attarda a descrivere l’uso umiliante che si fa della musica nei ristoranti, nelle pizzerie, nelle suonerie dei cellulari; dei virtuosi di qualche strumento descrive i “peccati capitali”, e alcune cose ci sono già note, le abbiamo osservate anche noi, perché basta assistere a qualche concerto per trovarsi dinanzi a una serie di comportamenti, di vezzi, di automatismi iperbolici, di espressioni e gesti innaturali: ma è la classificazione puntigliosa a farceli sembrare (ora lo dico) “mostruosi”, patologici appunto. Canino ha suonato per un’intera vita, da solo, in duo e in gruppo, e ha potuto osservare con agio, negli altri esecutori e in sé, quei comportamenti anomali, effetti di quella tensione con cui il musicista deve imparare a convivere se non vuole sciogliersi in pianto su palco. In questo, sa essere molto convincente: in “Trac”, per esempio, la sua disamina della paura che coglie ogni musicista che si esibisca in pubblico (o anche che entri in sala di registrazione) è così persuasiva che fa sentire inquieti anche noi semplici lettori, e forse ci farà sentire più inquieti del solito quando assisteremo a un concerto e non riusciremo ad abbandonarci al godimento della musica perché temeremo il vuoto di memoria, l’ingripparsi delle dita, l’attacco fuori tempo, l’accordatura in calo. E dopo aver letto “Registrazioni” non potremo che ascoltare con sospetto ogni incisione, perché ci verrà il dubbio che quei crescendo, quei diminuendo siano frutto non dell’ispirazione dell’interprete ma dello smanettare del tecnico preposto alla registrazione, e che quei viluppi virtuosistici di accordi risultino il prodotto di un montaggio nota per nota in fase di postproduzione. Potremmo continuare a citare gelosie, rivalità, divieti, ossequi a mode, superstizioni e meschinerie varie, se non temessimo di dare un’immagine troppo negativa del musicista, che per noi – come per Canino – resta un eroico difensore del bello in un’epoca di approssimazioni, accelerazioni insensate e crollo del senso estetico. L’intento di Canino, in effetti, non è metter su un circo Barnum di mostruosità musicali su cui sghignazzare, quanto segnalare i rischi a cui una professione così delicata e vitale può andare incontro.

Chiude il libretto una fantasticheria, “Senza musica” appunto, in cui l’autore abbozza il racconto di una distopia particolare, un mondo di troppa musica, rissoso e capriccioso, in cui, l’autocrate di turno decreterà di poter godere lui stesso soltanto della musica, mentre il resto del mondo dovrà restare in silenzio. Qui Canino, ne creare il quadro preliminare di un racconto (il plot arriva alla fine, quasi di malavoglia), dà sfogo più che altrove a un suo risentimento, si fa “un po’ borbottone” (sono parole sue), si toglie qualche sassetto dalla scarpa.

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ALBERTO SPADOLINI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/10/05/alberto-spadolini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/10/05/alberto-spadolini/#comments Mon, 05 Oct 2015 14:22:47 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6908 In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Alberto Spadolinidi Ignazio Gori (Castelvecchi, 2015), con un’intervista all’autore a cura di Claudio Morandini.

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“Alberto Spadolini” di Ignazio Gori – Castelvecchi, 2015

Conversazione con l’autore a cura di Claudio Morandini

Chi era Alberto Spadolini e perché ci siamo dimenticati di lui? Ignazio Gori, nel ritratto del “Danzatore, pittore, agente segreto” Alberto Spadolini (Castelvecchi, 2015), risponde a queste domande scegliendo la via del resoconto amabile e scrupoloso – in cui però, sottilmente, la reinvenzione letteraria ha una parte preponderante.
Sin da adolescente Alberto Spadolini (nato nel 1907) ha ammaliato pittori, scultori, artisti, ai quali è apparso come un’epitome di bellezza maschile; il suo mondo, tra l’Italia e la Francia con diramazioni negli Stati Uniti e altrove, era frequentato da nomi come Bragaglia, D’Annunzio, de Chirico, Bontempelli, Cocteau, Joséphine Baker, Picasso, Marlene Dietrich, Maurice Chevalier e molti altri. Nessuno di loro si è mostrato indifferente al fascino (artistico e umano) di questo personaggio: eppure, nonostante la vastità dei suoi interessi e l’impressione che suscitò ai suoi tempi, Spadolini è stato rimosso dalla memoria collettiva e ridotto a culto di una ridotta nicchia.
Gori evidenzia bene il vorace amore di Spadolini per la vita, l’entusiasmo mai disgiunto dalla ricerca della perfezione. Ne fa un personaggio complesso e sfuggente nella sua complessità, non contraddittorio ma articolato, mai caricaturale, nemmeno nei momenti in cui l’eccesso o l’improvvisazione sembrano togliergli spessore trasformandolo in un semplice corpo perfetto.
Che l’interesse per questa figura eclettica ed eccentrica sia frutto di passione autentica è chiaro sin dalla Premessa, in cui Ignazio Gori confida la scoperta della «bellezza» e dell’«eleganza» di Spadolini attraverso la visione di un’antica foto di Dora Maar, Uomo nudo con sfera in mano. Questa confidenza mi ha ricordato quell’altro romanzo biografico, anch’esso sottile gioco di invenzione e documentazione, che è il Riefenstahl di Lilian Auzas, in Italia pubblicato nel 2013 da Elliot.
Talvolta, nella ricostruzione d’epoca, Gori si concede qualche pennellata stilistica d’antan: ed ecco che la partenza del giovane Spadolini viene descritta con queste parole: «si sente libero di sciogliersi i calzari materni, di riempirsi il petto di giovane sparviero e d’involarsi lontano dalla sua dolce Ancona». In altri punti, l’ispirazione dell’autore, nella descrizione di pose e movenze di personaggi, sembra essere certo cinema muto dei primi decenni, ancora teatrale: così è nelle scene delle visite da D’Annunzio, o (e qui il riferimento al cinema muto è esplicitato) nella partenza alla stazione dopo la chiusura degli Indipendenti di Bragaglia, o nelle numerose altre scene di interni – quelle in cui Spadolini, con la sua bellezza e prestanza, seduce qualcuno magari senza volerlo.
Insomma, c’è materia sufficiente per una conversazione con l’autore Ignazio Gori.

- Spadolini attrae, turba, seduce. Nei campi non solo artistici in cui si muove (nella pittura, nella danza, nella canzone, nel documentarismo, in ogni attività creativa a cui si dedica, persino nelle parentesi spionistiche, esoteriste e mistiche) provoca reazioni mai tiepide, eccessi di generosità e di trasporto oppure scossoni, gelosie, rivalità, pettegolezzi feroci. Certo, i suoi dipinti possono apparire di fattura modesta, e gli elogi di amici artisti ci suonano francamente esagerati, condizionati più dal fascino dell’autore che dal valore delle opere. Quanto alla danza, per lui è passione, poesia, insomma non essenzialmente tecnica; per questo, Bragaglia lo ha definito “danzatore barbaro”. I rarissimi frammenti che ci mostrano Spadolini su un palco confermano questo giudizio.
Mi pare, insomma, che l’aspetto più determinante della sua vita sia stato un prodigioso dilettantismo. Sei d’accordo con questo giudizio?
Decisamente sì. Nel caso di Spadolini però il “dilettantismo” ha un valore intrinseco alla sua dirompente espressione poliedrica; si tratta quasi di uno showman a tutto tondo, ma di natura raffinata. Probabilmente Spadolini aveva un contenzioso aperto fra istinto e professionalità, avendo tra l’altro intrapreso lavori diversi, come la scenografia e la danza. Ma forse non è questo il punto. In Spadolini quello che affascina e sorprende è un istinto – barbaro e charmant allo stesso tempo – che lo ha portato a una carriera scintillante, decisamente ben oltre valori critici universalmente riconosciuti, anche se non vanno trascurate delle caratteristiche uniche, che rendono esclusivi alcuni suoi exploit, parlo della sua personalissima interpretazione danzante del “Bolero” di Ravel, e anche di tutta la serie di dipinti sulla danza, definiti veri e propri scrigni allegorici, di tipo esoterico. La forza di Spadolini sta dunque proprio nella sua istintività artistica, in un opportunismo camaleontico e in un gusto per il bello sopraffino.

- Fenomeno di massa, cresciuto al di là dei meriti artistici, Spadolini è stato tra i primi personaggi vittime del gossip. Eppure, paradossalmente, oggi è ricordato da pochi. Perché, secondo te, è stato oggetto di questa sorta di damnatio memoriae?
L’Italia purtroppo è il “Paese senza memoria” per eccellenza, ma il caso-Spadolini è particolare. Ha lasciato il paese molto giovane, dopo il declino, provocato dal regime fascista, del Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, dove Spadolini lavorava come scenografo, per approdare a Parigi, allora la capitale mondiale dell’arte, delle opportunità. Molti italiani hanno deciso di trasferirsi a Parigi, su tutti il pittore e poeta Filippo de Pisis. Il vuoto temporale è stato enorme, perché ritroviamo Spadolini in Italia quasi solo un ventennio dopo e infine nell’ultimo periodo della sua vita, quando decise di tornare nelle sue Marche. Nel frattempo il regime non permetteva a personaggi “scandalistici”, come lo era in parte Spadolini, di catturare l’attenzione popolare, tutta accentrata sui valori della famiglia e sull’arte razionale e razionalista. Gli stessi Cocteau, Josephine Baker, Picasso (osteggiato perché “comunista”), Jean Marais, e altri, non divennero popolari in Italia se non alla fine degli anni ’40.

- Spadolini entra nelle vite già avviate dei personaggi con cui ha a che fare «con una dolce insolenza», come tu dici del suo incontro con la contessa Yvette de Marguerie. Questa «dolce insolenza», così ricorrente, assieme alla passione sincera e anche ingenua disseminata generosamente in ogni cosa, può essere considerata una delle ragioni del suo fascino?
C’è una bellissima poesia di Brecht intitolata “Consigli di una puttana vecchia a una puttana giovane” dove l’autore in sostanza fa dire alla vegliarda il suo consiglio più prezioso: Non bisogna innamorarsi mai. Secondo me Spadolini, consapevole del suo fascino, nella sua vita non si è mai innamorato veramente, cavalcando l’attrazione che esercitava su straordinari personaggi, ma rimanendone distaccato, quasi intoccabile. Ha attraversato la sua epoca – il fulcro artistico del Novecento – sollevato mezzo metro da terra, leggero come una piuma. La presunzione di Spadolini era probabilmente supportata da un ego smisurato, da una padronanza dei propri limiti con pochi eguali. Paul Colin gli diede la chance di diventare aiuto scenografo quasi sulla parola; Josephine Baker rimase folgorata la prima volta che lo vide danzare; e così tanti altri. Non può essere stato sempre un caso.

- Tu parli di uno Spadolini teso sempre tra due poli, da una parte la carnalità passionale (e, legata a questa, la danza e le altre attività artistiche connesse a questa), e, dall’altra, una spiritualità che oscilla tra l’esoterismo e la riscoperta del cattolicesimo delle sue origini. Nel tracciare le contraddittorietà della sua vita, lo mostri sempre comunque come una figura credibile, sincera, qualunque fosse l’interesse del momento.
Perché era così. Alberto Spadolini è il prototipo dell’italiano, avendo mostrato un lato profondamente e sinceramente cattolico, intriso di arte barocca, e un lato passionale, carnale, quasi irrefrenabile. Si può essere, come è stato detto, cristiano e libertino? Forse sì, anche se “libertino” non è il termine adatto per definire Spadolini, perché parafrasando D’Annunzio – uno dei sostenitori di Spadò – ogni bel fiore è destinato a sbocciare, anche in sgarbo a Dio. L’arte sacra rappresenta una grossa fetta della storia dell’arte e anche se col tempo Spadolini ha cambiato genere, non ha potuto sottrarsi dall’esprimere una tenera spiritualità, riflessiva e autoriflessiva; non bisogna nemmeno dimenticare che il primo maestro di pittura di Spadolini è stato Gianbattista Conti, pittore in forza al Vaticano. Il caso più emblematico dove Spadolini sembra coniugare narcisismo intimità e fervore religioso è il San Francesco, una sorta di autoritratto alienato. Non a caso era il dipinto che più lo rendeva orgoglioso. Ma la spiritualità del marchigiano va ben oltre, fino ad abbracciare l’esoterismo, con il quale Spadolini dimostra di non voler fuggire da niente, tantomeno dalla sua innegabile contraddittorietà.

- Ammetti, nelle prime pagine, di lavorare alla vita del tuo personaggio come a una fiaba: edificando cioè, accanto alla congerie di dati reali e testimonianze storiche, parti morbide di invenzione, animate da «licenze poetiche», in cui «il sogno fa da collante agli eventi». Così, quando mancano le testimonianze dell’epoca, immagini come avrebbero potuto parlare di Spadolini i suoi contemporanei.
Come sei riuscito a conciliare la ricostruzione storica con l’invenzione letteraria?
Innanzi tutto devo dire di essere rimasto folgorato dalla bellissima biografia che Pietro Citati ha fatto di Katherine Mansfield, e poi anche di quella su Manouche scritta da Roger Peyrefitte. Anche per Spadolini ho dovuto attuare una scelta non facile, perché a differenza della Mansfield e di Manouche (altro personaggio conosciuto di persona da Spadolini) il nostro vantava una vita non priva di enormi vuoti, periodi con date ed eventi contrastanti, se non ambigui e confutabili; era in definitiva una esistenza semileggendaria, tutta da ricucire. Così ho optato per una ricostruzione frammentaria, dal tono magico, permeata di una leggerezza complice. Certo, si poteva anche scegliere diversamente, ma in questo caso, non essendo il personaggio di natura rigorosa o scientifica, una scelta di tono favolistico mi è sembrata la più adatta. È stato un lavoro difficile, soprattutto il coniugare il giornalistico con il poetico, il cronachistico con il gossip da rivista.

- Più volte, leggendo il tuo libro, mi sono tornate in mente le rivisitazioni biografiche oscillanti tra esaltazione e degradazione alla Ken Russell. Russell avrebbe adorato un personaggio come Spadolini, «uomo sorretto dai segreti» (secondo Bragaglia) teso tra «eleganza e mistero, modestia e sfrenatezza, fede religiosa e lussuria» (secondo te), pronto insomma per diventare un mito contemporaneo, o almeno un abbozzo di mito. Ma mi pare che tu abbia scelto strade diverse, che tu ti sia tenuto lontano dagli eccessi e dal rischio del kitsch. C’è un modello di biografia romanzesca a cui ti sei ispirato per tracciare la vita del tuo protagonista?
Spiegando meglio la risposta precedente, devo ammettere che mi sono concesso delle “licenze poetiche” ma solo in via deduttiva e verosimigliante. Prima ho citato le biografie scritte da Peyrefitte e da Citati, le quali rispetto alla mia sono senz’altro opere di carattere prosaico, quasi dei romanzi. La mia invece ha il carattere frammentario, perché descrivendo la vita di Alberto Spadolini passo dopo passo, ho utilizzato dei quadri sospesi, dove il protagonista entra ed esce di scena, come i personaggi dei sogni, eterni e integri, senza contaminare nulla né prima né avanti a sé; il passato e il futuro nelle favole non hanno rilevanza, solo la forza, la magia del presente ne ha. L’evitare il kitsch, che pur avrebbe avuto un grosso spazio nella vicenda spadoliniana, è stata una mia scelta precisa, come il non calcare troppo sugli eventuali eccessi che un artista del genere si concede. Come dire: il fatto che Cocteau fumasse oppio non sminuisce affatto la sua opera letteraria, anzi, la integra e la spiega, così in altri termini avrei potuto dire di Spadolini, ma non l’ho fatto perché non mi interessava. Riguardo a Ken Russell, ricordo il capolavoro L’altra faccia dell’amore e non nego di averci pensato più volte durante la stesura di questo libro. La vita del grande compositore russo Čajkovskij presenta caratteri simili a quella di Spadolini, con aspetti intimi contrastanti ed eccitanti. Ken Russell ci è riuscito in pieno, spero di esserci riuscito anch’io.

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ACCORDI MINORI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/07/28/accordi-minori/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/07/28/accordi-minori/#comments Tue, 28 Jul 2015 17:00:49 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6862 In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA“, ci occupiamo del volume “Accordi minori” di Grazia Verasani (Gallucci). Su LetteratitudineNews è disponibile uno stralcio del racconto su Kurt Cobain

[Ne approfittiamo per invitare i lettori ad ascoltare (o riascoltare) la puntata radiofonica di "Letteratitudine in Fm" con Grazia Verasani dedicata al suo romanzo "Mare d'inverno" (Giunti)]

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ACCORDI MINORI,  di Grazia Verasani

Gallucci, 2013

a cura di Claudio Morandini

“Strano, più muoio più mi applaudono.”

Grazia Verasani, nei brevi racconti-monologhi di “Accordi minori” (Gallucci, 2013), esplora con sensibilità partecipe quel particolare settore della musica (per lo più pop, con qualche scantonamento nel jazz) che in questi ultimi cinquant’anni ha fatto surf sull’onda lunga del maledettismo – lo diciamo senza preoccuparci di suonare irriverenti. È un mondo insieme colorato e umbratile, notturno anzi, in cui artisti di talento hanno vissuto la loro dedizione alla musica fino in fondo, fino agli esiti tragici. Incapaci di gestire il successo, la pressione, la fama, oppure logorati da ruoli che sono stati ritagliati loro addosso e in cui non si riconoscono, i musicisti coinvolti in questa dolente via crucis sono quasi tutti cantanti – fa eccezione Chet Baker, in rappresentanza di tutti gli infelici morti per autocombustione di cui è costellata la storia del jazz. Certo, alcuni di loro, oltre che interpreti, sono stati anche autori delle canzoni che li hanno portati al successo: ma nei racconti di Verasani compaiono come icone, come animali da palcoscenico oggetto di culto (di massa o di nicchia), e non li vediamo seduti a tavolino a scribacchiare versi, o intenti a comporre alla chitarra o al pianoforte, ma esposti a riflettori che ne rivelano le drammatiche debolezze, la stanchezza insostenibile, la profonda solitudine, gli abusi e l’alterazione. La musica, si direbbe, non ha rappresentato per loro una via di salvezza, ma piuttosto un’accelerazione verso la perdizione. Alla fine, «a vincere è solo la musica», come si legge nella conclusione di “Born to be kings” (Freddie Mercury): il che significa che la musica resta, anche dopo la morte dell’artista, ma anche, se vogliamo, che la musica vince su tutto, compresa la vita dell’artista.

Sin dal primo racconto, che raccoglie le esternazioni vaneggianti di Janis Joplin, i personaggi sono colti nella fase finale della loro parabola, nel momento in cui, crudelmente, il delirio ha la meglio sulla razionalità, ogni cosa è alterata da droghe alcol o follia e la deriva fatale dello spirito dionisiaco ha raggiunto un punto di non ritorno – alcuni di loro anzi ci parlano da un post mortem che non sembra migliore della vita precedente.

Le pagine più intense – quelle in cui la musica non entra come corredo di un atteggiamento da maudit, come arredo sonoro al bruciarsi di vite che si sarebbero bruciate comunque – ci rivelano anime inquiete, errori scontati in castigo per un’intera esistenza. Così in “La musica è finita”, la voce di Umberto Bindi narra senza troppo vittimismo la condanna al buio delle quinte che il mondo perbenista dello spettacolo ha decretato dopo il suo coming out, irreparabilmente in anticipo sui tempi.

Il loro confondere musica e vita (la musica è la vita, la vita è musica) a lungo andare ha isolato questi musicisti, li ha corrosi, li ha scollati. «Per me e per te» si legge in “Oh, ma belle”, dedicato a Giuni Russo, «l’arte è stata la vita intera, e anche nell’amore le abbiamo dato spazio. Abbiamo fatto musica e vita, insieme. Anche nelle malattie, nei fuori gioco». La musica permea quelle vite infelici al punto che nei monologhi si insinuano, con un certo virtuosismo, frammenti dei testi delle loro canzoni più celebri, e sembra quasi che i personaggi non sappiano distinguere più tra il mondo stilizzato concentrato in una canzone e la loro stessa vita – oppure significa, più probabilmente, che le canzoni, anche quelle più convenzionali, contengono in forma semplice e sintetica verità profonde, e che quello che accade nei tre minuti di una canzone è la trasfigurazione di quanto accade nella vita reale. Verasani incoraggia questa promiscuità tra vita e arte scrivendo pagine à la maniere de, in cui tono, registro, sostanza della scrittura sembrano di volta in volta imitare lo stile, le cadenze, perfino i manierismi dei dedicatari.

In questi racconti vi è comunque poca musica in senso tecnico: giusto qualche giro di accordi, all’inizio di “Grace”, dedicato a Jeff Buckley: «Ti ricordi come faceva Hallelujah, Keith? La quarta, la quinta, la caduta in minore, l’ascesa maggiore…» Per il resto, palchi, camerini, camere d’albergo. Un po’ spiace non sorprendere Tenco, Bindi, Buckley o Cobain nel momento della creazione artistica, al pianoforte o alla chitarra, intenti a trovare l’accordo giusto, la cadenza più adatta, a far combinare testo e melodia, e melodia e accordi. Ma questo lato diciamo artigianale non sembra interessare l’autrice, che invece preferisce estrapolare ciò che di noir emerge dal vissuto dei musicisti, fino a farne personaggi da noir a tutti gli effetti (di un noir immaginario in cui, temiamo, rivestirebbero tutti il ruolo di vittime).

Molti di quei nomi torneranno nel racconto finale, l’elegiaco “Cinque donne facili”, in cui l’io narrante, Angelo Catelli, pianista di pianobar che lavora al Cocorito e si dice privo di vero talento, ricorda le cinque donne della sua vita, tutte, in un modo o nell’altro, legate alla musica, e tutte – lo riconosce lo stesso Catelli – amanti della musica molto più di lui. Si respira un’aria piacevole di déjà-vu in queste pagine, anche per il fatto che lo stesso Catelli è figura grigia, modesta, priva di carattere e di gusti: di volta in volta si adatta al carattere e ai gusti delle donne con cui vive un’avventura, tra pop, jazz e cantautorato, esattamente come si adatta ai gusti e alle nostalgie dei clienti del Cocorito e suona standard che non gli dicono granché. Ma insomma – qui sta un motivo particolare d’interesse – le donne, sia pure presenze fugaci e spesso fraintese nella sua vita, in qualcosa lo cambiano, qualcosa gli lasciano: anche solo canzoni da suonare svogliatamente per sconosciuti, attraverso cui essere rievocate ed evocare un’idea di amore infelice che sembra non possa fare a meno della musica (della forma-canzone) per esprimersi.

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LE OPERE “BRUTTE” DI GIUSEPPE VERDI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/07/13/le-opere-brutte-di-giuseppe-verdi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/07/13/le-opere-brutte-di-giuseppe-verdi/#comments Mon, 13 Jul 2015 20:18:22 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6848 In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA

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LE OPERE “BRUTTE” DI GIUSEPPE VERDI,  di Massimo Mila

Manni, 2015

a cura di Claudio Morandini

Massimo Mila (1910-1988) è stato, oltre che un musicologo importantissimo, uno scrittore valente. Il gusto della scrittura letteraria, mescolata in bell’equilibrio con la terminologia propria della disciplina, si sente nelle opere più celebri, nei vari saggi dedicati a Mozart come nelle pagine dedicate all’amico Bruno Maderna (Maderna musicista europeo, Einaudi 1999). Anche nella Breve storia della musica, consultato ancor oggi e periodicamente ristampato, capolavoro concentrato di sintesi di epoche e scuole, Mila riesce a evitare le trappole della sintesi e del sommario e inserisce momenti di puro gusto letterario, lo stesso sparso generosamente in L’arte di Béla Bartók (prima pubblicato da Einaudi, ristampato nel 2013 nella BUR) o in Compagno Strawinsky (Einaudi 1983, BUR 2012).

Potremmo continuare a citare titoli per un pezzo, perché Mila è lontano da ogni specializzazione, ha coltivato interessi che hanno attraversato ogni epoca della storia musicale, con un occhio di riguardo nei confronti della contemporaneità: con Nono, Berio, Maderna era in fitta corrispondenza e di loro sapeva intravedere inaspettate prolessi nelle opere di musicisti dei secoli passati, come se tutta la musica fosse un fitto dialogare di uomini e di opere.

Il gusto di Mila per la scrittura, al di là dell’oggettività puntigliosa della terminologia musicologica, si avverte forte anche nell’ultimo libro a suo nome, Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi, che Manni ha da poco pubblicato nella collana Studi con la cura di Tito M. Tonietti, che di Mila è stato allievo. Si tratta di dispense scritte per un corso universitario di Storia della musica e rimaste inedite fino ad oggi. Sul compositore di Busseto Mila aveva già pubblicato altro: La giovinezza di Verdi (1974) e L’arte di Verdi (1980, entrambe ora raccolte sotto il titolo Verdi sempre dalla BUR) si soffermavano con pienezza di analisi sulla produzione matura e sulle opere maggiori, ed erano opere compiute, pensate per le stampe, lavorate fin nelle virgole – e, come dire, diplomaticamente levigate nei giudizi più severi proprio per l’ampia destinazione editoriale. Diverso (e proprio per questo interessantissimo) è il caso del libro edito da Manni: dal momento che i destinatari erano gli studenti del corso accademico del 1963-4 e non i frequentatori del teatro d’opera, Mila è stato assai poco cauto ai limiti della ferocia nelle osservazioni critiche. In più, non ha portato a termine il lavoro sui dettagli formali, lasciando qualche ripetizione, qualche tournure faticosa, qua e là anche qualche incongruenza (Tonietti ne propone, con discrezione, delle correzioni), perché lo scopo di questi scritti era pratico e immediato. Eppure, anche in questo testo che per forza di cose non ha ricevuto l’ultima revisione dell’autore, si apprezzano quelle formule stilistiche con cui Mila ha impreziosito i suoi saggi maggiori, quell’apparato di metafore e similitudini con cui ha reso comprensibili alla semplice lettura le opere musicali – con cui ha espresso, in questo caso, l’idea di “bruttezza” di quegli  “anni di galera” (tra il 1843 e il 1849) secondo lo stesso Verdi, fitti di frettolosi melodrammi scritti di malavoglia per onorare alla meno peggio gli impegni e perciò discontinui nella qualità, troppo ossequiosi nei confronti delle comode convenzioni dell’opera lirica, poco attenti a tradurre in musica con audacia di soluzioni i moti dell’animo.

Mila, da posizioni debitrici a Croce, applica al vocabolario operistico verdiano i criteri di una “critica stilistica” che si focalizzi sulla “qualificazione drammatica della melodia”, vale a dire sull’espressione dei valori drammatici più congeniali al compositore, lontani da ogni scorciatoia retorica (Tonietti lo mette in luce nella Postfazione). Nelle opere degli “anni di galera” Verdi non ha saputo (non ha potuto, in parte non ha voluto) esprimere compiutamente in musica questi valori, o lo ha fatto solo a tratti, a momenti, talvolta, si direbbe, quasi per caso.

Mila, dicevamo, denuncia senza reticenze il cattivo gusto di certi momenti e le deleterie soluzioni musicali: a proposito di un “Duettino melodiosamente melenso” nell’atto terzo de La battaglia di Legnano, Mila scrive: “Scena letteralmente disgustosa, per il vacuo edonismo melodioso e il celestiale fremito di arpa che l’accompagna”. E dei Demoni nella Giovanna d’Arco si legge che “cantano vittoria sopra un sommario e brutale arpeggio, una specie di «Allarmi, siam fascisti!», scandito a tutta forza”. Nella medesima opera, “Giovanna risponde con un’atroce Cabaletta… su un accompagnamento dozzinale di tonica e dominante”. Diverse melodie (Cavatine, Cabalette, i bersagli preferiti di Mila) sono definite “perfetto esempio di oziosa coniugazione melodica”, “innegabilmente dozzinale”, “sciocca e fatua” oppure “tronfia e pomposa”, sempre “gaglioffa”, “pigra”, “francamente brutta”, “stiracchiata troppo a lungo”, “cincischiata”, “d’una lacrimevole banalità”, quando va bene “stentorea”.

“Un’altra categoria del brutto verdiano” (la prima è appunto quella della melodia oziosa e della sciatteria brutale dell’accompagnamento) sta secondo Mila nel suo opposto, in certe ricercatezze fini a se stesse, non calibrate sulle esigenze drammatiche, nel “gusto dell’ornato e del ribobolo”, nello sfoggio di una sapienza strumentale in realtà ancora da dimostrare. E anche in questo caso gli esempi non mancherebbero.

Più sottile, ma non meno tagliente, la perfidia con cui Mila giudica i numerosi momenti di puro ossequio alle convenzioni del teatro d’opera. A proposito di un pezzo de La battaglia di Legnano: “La Cavatina, d’espressione tenera ed affettuosa, è convenzionalmente canora, e non si può riconoscerle altro pregio che quello della brevità”. Oppure: “Risveglio, segnato da banale frase ascendente dell’orchestra”. Anche quando si arrende alle convenzioni del linguaggio musicale nel descrivere aspetti della natura Verdi attira le critiche di Mila: ne Il Corsaro: “Si annuncia una vela: il movimento di agitazione orchestrale che sottostà alle esclamazioni del coro inizia dapprima, in maniera piuttosto fastidiosa, con banali scalette di cinque note che sembrano esercizi pianistici per principianti”.

C’è un intento polemico, nel corso accademico e in questo libro, dichiarato più volte, e indirizzato contro gli esaltatori di tutto il Verdi, anche quello più corrivo e facile, che in quegli anni tornavano a farsi sentire dopo decenni di critiche severe su tutto Verdi da parte di detrattori (Mila li chiama “nemici” altrettanto snob). Mila prende di mira i primi, soprattutto, ma non manca di prendere le distanze dai secondi. Tutto Verdi va studiato, scrive il musicologo, ma non ha senso pensare di studiare dei capolavori, o di presentare le opere più acerbe e frettolose come recuperi di capolavori. La renaissance verdiana è proseguita nei decenni, e perdura ancor oggi, facilitata dai mezzi di riproduzione, ben attestata nei cataloghi (non solo quelli di repêchages, anche quelli delle etichette maggiori) e nei cartelloni delle stagioni liriche. Chissà che ne avrebbe pensato Mila, che all’epoca di questo saggio analizzava la musica di Verdi, in mancanza di altri supporti, basandosi per lo più sulle riduzioni per canto e pianoforte oltre che su sporadiche esecuzioni (le sue ipotesi sull’orchestrazione sono quasi sempre azzeccate, a dimostrare l’acutezza della sua analisi).

Mila, assai severo con il Verdi più scadente e arrendevole, sa però mettere in luce i dettagli di pregio, le soluzioni inaspettatamente riuscite, le zampate da leone, o meglio i prodromi di quello che in età matura, con piena consapevolezza di mezzi e con minori vincoli contrattuali addosso, Verdi avrebbe realizzato compiutamente. Ed è abilissimo, Mila, a dissezionare arie, scene, recitativi e momenti strumentali, alla ricerca della gemma di valore, spesso incastonata tra parti tirate via, progressioni armoniche banali, cliché operistici – delle “autentiche intuizioni drammatiche” perse tra “obbrobriose banalità”. Spartito alla mano, scava nella musica, distilla i momenti più nobili e anche quelli “adeguati” che nella mediocrità di tante scene fanno la figura di gemme anch’essi: perché è vero che il saggio è dedicato al Verdi “brutto”, ma è anche vero che si possono rintracciare, anche nelle opere più stanche e corrive, momenti che anticipano la potente originalità della produzione successiva (non solo verdiana: più volte è citato Mussorgsky, una volta addirittura Luigi Nono), e che rischiano, a una lettura o a un ascolto disattenti, di rimanere soffocati, di essere rovinati da quello che segue o da quel che precede. Mila parla proprio di “contabilità, data la presenza e la giustapposizione di parti riuscite e di parti malamente tirate via”: e aggiunge amaramente che in arte le seconde nuocciono alle prime assai più di quanto le prime possano giovare alle seconde.

Come si diceva, Massimo Mila non ha intenti polemici nei riguardi di Verdi, bensì dei verdiani a tutti i costi: e sa riconoscere al musicista i suoi meriti anche nella produzione meno felice; sa anche distribuire le colpe, che non sono del solo compositore, ma anche di impresari, librettisti svogliati o inadeguati, pubblico desideroso di sensazioni a buon mercato, cantanti schiavi di vanità da primedonne – tutte figure a cui Verdi di lì a qualche anno saprà imporsi.

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Comporre. L’arte del romanzo e la musica http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/05/18/comporre-l%e2%80%99arte-del-romanzo-e-la-musica/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/05/18/comporre-l%e2%80%99arte-del-romanzo-e-la-musica/#comments Mon, 18 May 2015 13:45:23 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6782 In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA

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AA VV – “Comporre. L’arte del romanzo e la musica”

A cura di Walter Nardon e Simona Carretta

Pubblicazione dell’Università degli Studi di Trento – Dipartimento di Lettere e Filosofia, 2014

Collana Labirinti, 156

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a cura di Claudio Morandini

La raccolta di saggi “Comporre. L’arte del romanzo e la musica” nasce dal Quinto Seminario Internazionale di Studi organizzato nel 2012-13 dal Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, che da anni esplora sistematicamente i diversi elementi costitutivi del romanzo. Curato da Simona Carretta e da Walter Nardon, che nell’Introduzione presenta e orchestra i contributi dei relatori, pubblicato nella collana Labirinti, il volume fa il punto con precisione e rigore sui legami più profondi e meno scontati tra la forma del romanzo e la musica ponendosi essenzialmente dalla parte del romanzo e da questa prospettiva guardando alla musica.

E proprio il romanzo (lo precisa Simona Carretta) viene privilegiato non come genere, ma come “arte indipendente”, con “obiettivi estetici e conoscitivi” suoi; questo spiega perché gli interventi non si limitino allo studio di una generica “musicalità” nella lingua o nello stile, aspetto predominante in altri campi letterari come la poesia – senza contare che i rapporti tra musica e poesia, fondati su interrelazioni millenarie, su comuni origini, sono più chiari e più frequentati, mentre è meno scontata, e anche assai più interessante, l’analisi della condivisione di strutture, del travaso di articolazioni complesse tra composizione musicale e romanzo.

1 – Secondo Simona Carretta, è soprattutto “sul piano delle strutture formali… che l’ispirazione musicale ha prodotto i risultati più interessanti”. Alla musica, “commistione perfetta di forma e contenuto”, possono attingere i romanzieri disposti a sperimentare forme inconsuete di organizzazione del testo, adatte a “sviluppare uno sguardo diverso sul mondo”.

Nel saggio “Alla scuola di Broch” Simona Carretta investiga nella produzione di alcuni autori (lo stesso Hermann Broch, Milan Kundera, che nel libro, per competenza musicale, ampiezza di riflessione sul tema e metodicità di applicazione, fa un po’ la parte del leone, e poi Huxley, Perec, Alejo Carpentier, Danilo Kiš) la possibilità di commistione tra forma musicale e forma-romanzo: si parla allora di “polifonia”, di “contrappunto”, di “fuga”, di “variazioni sul tema”. In Kundera, in particolare, quest’esigenza nasce da un’idea ambiziosa di romanzo, in cui la “mise en abyme” di una struttura musicale nell’articolazione narrativa consente di cogliere la complessità del mondo secondo diverse linee prospettiche, pluralità di voci, incastri di linee.

Massimo Rizzante è ancora più specifico nell’analisi di certe pagine di Kundera e in “La fuga romanzesca” rintraccia il procedimento imitativo della fuga (il più complesso, se vogliamo) nell’intercalarsi di voci, temi, situazioni, piani temporali di opere come “La lentezza” e “L’identità”.

In generale, molti interventi non si soffermano sulla musica tematizzata (cioè descritta o raccontata) in un romanzo e preferiscono trattare il rapporto tra arti, tra linguaggi. Il tema è indubbiamente affascinante, e anche tutt’altro che semplice, come sappiamo, perché la musica in quanto “arte del suono” basta a se stessa, parla per così dire di se stessa: ma in quanto musica, cioè architettura, può suggerire impalcature complesse ai romanzieri, come suggerisce Carlo Cenini nel saggio “Innere Stimme, innerer Roman”. Ma altro interessa Cenini, il quale in particolare indaga lo “spettro narrativo” che “infesta” l’opera di uno scrittore, analogamente alle “melodie nascoste” nell’”Humoreske” di Schumann o nel Preludio in do maggiore dal “Clavicembalo ben temperato” di J. S. Bach, e che per Cenini diventa il più significativo e il meno pretestuoso punto di contatto tra musica e romanzo. Come la corrispettiva “melodia-fantasma”, lo “spettro narrativo” deve rimanere nascosto, ogni trascrizione o palesamento dell’indeterminato (come è accaduto al citato Preludio di Bach travasato e travisato nell’Ave Maria di Gounod) è una limitazione fastidiosa. Qui Cenini cita i romanzi sommersi, gli echi di romanzi nelle pagine di altri romanzi, il romanzo silenzioso tra le righe del romanzo scritto, andando dal Borges di “Finzioni” a Foster Wallace.

2 – Altri interventi raccolti in “Comporre” si soffermano sulla questione (insidiosa) della “musicalità”.

Walter Nardon in “Questioni di ritmo (e di composizione)” parte dalla ricostruzione del dibattito sull’origine comune di parola e musica per rintracciare poi esempi di “conservazione degli aspetti musicali nella scrittura”. E vede al lavoro, in certe pagine di C. E. Gadda, una “sottilissima sensibilità musicale” (cioè una maestria retorica nel ricomporre la complessità in un equilibrio armonico) che, al di là di quanto si dice della prosa esuberante e irriducibile dell’autore di “La cognizione del dolore”, porta a risultati “di composta grandezza”. Altri scrittori coinvolti nella disamina di Nardon sono l’inevitabile Kundera e il Bolaño di “2666”.

A sua volta Gabriele Frasca, in un denso intervento tutt’altro che accademico, tra mille cose indaga il romanzo come partitura, da leggere a voce alta, da interpretare come un movimento di sonata: e si concentra su quegli autori che nel Novecento non descrivono, ma chiedono ai lettori di eseguire la musica della loro voce, innanzitutto Joyce – in Joyce il concatenarsi delle immagini segue un corso sonoro, non logico, di suono non di significato, al punto che solo ascoltando la propria voce il lettore può arrivare a coglierne il senso.

Anche Andrea Inglese si sofferma sul concetto di “voce”, “entità ambigua e spettrale” che appartiene, “ma in modo problematico e sfuggente” sia al romanzo sia alla musica. Come elemento di contatto tra le due arti, la voce consegna al romanziere lo strumento per “trasformare il romanzo in qualcosa di musicale”. Inglese procede per excursus, tra Berio che si rifà a Joyce e Bene che legge Byron come fosse uno spartito, fino a Celine, “tra i maggiori scrittori novecenteschi che più hanno sfruttato le potenzialità acustico-vocali del genere romanzesco”: polifonico, contrappuntistico attrito di voci, in cui l’oralità originaria permea tutto il dettato, imprimendo un “timbro” e un “ritmo” che si trasfigureranno nelle ultime prove in “vociferazione assordante”.

3 – Alcuni saggi affrontano la questione della descrizione della musica (della sua “tematizzazione”).  Andrzej Hejmej, in “Comporre. La descrizione letteraria della musica”, sottolinea le differenze, e mostra come la letteratura che tematizza un brano, un’esecuzione, o il momento di una creazione, sia destinata a scegliere tra la lingua tecnica e non letteraria della musicologia, che analizza l’oggetto, e un approccio invece allusivo, metaforico, poetico, che però non espone l’oggetto in sé e, nel costruirvi attorno una sorta di fraintendimento, allontana piuttosto da esso. Per fortuna, esistono diversi gradi intermedi tra i due estremi, c’è sempre la possibilità di contaminare i due linguaggi prendendo dall’uno e dall’altro secondo le necessità.

Di “sfida tremenda” nel raccontare la musica, “perché i due linguaggi sono irriducibili”, parlano anche Elisabeth Rallo-Dichte e Marcel Dichte nel saggio su Christian Gailly, autore francese poco conosciuto da noi, dallo stile nervoso e cadenzato ispirato ai moduli di variazione e improvvisazione controllata del jazz. Ma è una sfida “vitale, essenziale” in questo caso. “La musica parla tacendo e io scrivo della mia sfiducia di non poter tradurre quello che dice” scrive Gailly in “K. 622” (titolo che è anche il numero di catalogo del Concerto per clarinetto in La maggiore di Mozart).

A conti fatti, la pluralità di voci rende questo “Comporre” a sua volta un libro polifonico: voci diverse, stili diversi, diversi approcci, anche diversi modi di interpretare il problema: in tutte questi contributi si sente comunque la fiducia nella capacità del romanzo di trasformarsi, contaminarsi, adattarsi e vivere così mille vite; si percepisce anche un’idea di romanzo come forma privilegiata di indagine della intricata babele del mondo, e la convinzione che proprio i rapporti di esso con la musica siano uno dei migliori campi da tener presenti per lo studio relativo all’evoluzione delle forme narrative.

4 – Coda (ad libitum): che la costruzione musicale eserciti un fascino speciale su chi ambisce a forme narrative non consuete è dimostrato anche da due tra le ultime uscite in libreria. La nuova edizione de “Le variazioni Reinach” di Filippo Tuena (Superbeat, 2015), a dieci anni di distanza dalla prima pibblicazione, racconta la storia di una famiglia ebrea ricca e colta che percorre i momenti più drammatici del Novecento, i Reinach appunto, attraverso una lunga serie di capitoli intitolati come Variazioni, che lavorano su trasformazioni di tono, di stile, di rimandi, innestano affinità e contrasti, contaminano racconto e documento. Alla base sta la Sonata in re minore per violino e pianoforte del 1925 di Léon Reinach, unica sua opera sopravvissuta all’Olocausto, inquieto e nostalgico monumento tardoromantico a un mondo che non esiste più.

Anche Giulio Mozzi, in “La stanza degli animali” e in “Operetta di giugno”, entrambe raccolte in “Favole del morire” (Laurana, 2015) struttura i racconti (o, come li chiama lui nella “Prima notizia”, i “pezzi”) ricorrendo specialmente nel primo a un suggestivo mix di forme chiuse del melodramma e di movimenti di una suite, tra “Recitativo”, “Preludio”, “Concerto”, “Cantata”, “Fuga”, “Canone”, “Sequenza”, “Rondò” (e “Cori” e “Invocazioni” nel secondo). La tentazione di leggere il tutto come un libretto e di immaginare possibili destinazioni musicali è forte.

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CALISTO, di Stefano Adami (Edizioni Effigi, 2015)

a cura di Claudio Morandini

Stefano Adami, nel breve romanzo “Calisto” (Edizioni Effigi, 2015), esplora le connessioni tra realtà e finzione, tra quotidianità e invenzione teatrale, e anche tra musica e parola. Lo fa con garbo, senza esagerare, senza rendere barocca a tutti i costi la vita quotidiana e senza forzare la contaminazione tra l’artificiosità del mondo del melodramma e le minuzie delle giornate dei diversi personaggi (con l’eccezione di un paio di momenti di cui parleremo più avanti).

L’occasione è data appunto da “La Calisto”, l’opera del veneziano Francesco Cavalli (1602-1676) del 1651 su libretto di Giovanni Faustini, ancor oggi riproposta a teatro. Cavalli, prolifico autore di melodrammi ispirati ai grandi miti greco-romani o agli eroi dell’antichità (citiamo un po’ a caso “La Didone” e “Gli amori di Apollo e Dafne”, entrambi su libretto del Busenello, “L’Elena” e “L’Egisto” su libretto dello stesso Faustini, “Il Giasone” su versi di Cicognini), è con Monteverdi il fondatore dell’opera barocca, e tra i primi a sperimentare certi stilemi che saranno sviluppati nei secoli successivi. “La Calisto”, ispirata a un episodio delle  Metamorfosi di Ovidio (II, 401-495), narra di amori di dei, ninfe e uomini. Calisto (Callisto, cioè) è appunto una ninfa seguace di Diana, vincolata al voto di castità, della quale però Giove s’incapriccia: per amoreggiare con lei il re degli dei si fingerà Diana, senza pensare troppo alle conseguenze. Quando Diana stessa e poi Giunone, moglie di Giove, scopriranno che Calisto è incinta, la ninfa sarà oggetto della vendetta di entrambe.

Travestimenti, equivoci, confusione di generi, lesbismo neanche tanto latente, voyeurismo: nella prima parte della versione ovidiana del mito compaiono tutti gli elementi che potevano rendere particolarmente perturbante l’episodio (elementi che solo in un’ambientazione precristiana era possibile preservare dalle censure), come è dimostrato anche dal dipinto di Tiziano “Diana e Callisto”, del 1556-59, conservato a Edimburgo, che è tutto un tripudio di nudità e promiscuità femminili.

Adami omaggia con discrezione la struttura del melodramma alternando movimentate scene d’assieme che potremmo equiparare a recitativi declamati, e pensosi e tormentosi monologhi che ricordano le arie, secondo un procedimento che proprio nelle opere di Cavalli si andava fissando.

Ma perché ispirarsi proprio a “La Calisto”? Che cos’ha di particolare quest’opera rispetto alle altre di Cavalli? Lo chiedo a Stefano Adami.

«Ho scelto “La Calisto” per due ordini di motivi, uno più generale, l’altro molto personale» mi risponde Adami. «In generale, perché “Calisto” è uno dei modelli paradigmatici di opera barocca, una storia piena di colpi di scena, di ironia. Una storia di trasformazione, di meraviglia, d’amore, d’inganno. Dove ci si chiede cosa è davvero l’amore. “Calisto” è, come dice il librettista stesso in un verso, “uno strano misto d’allegro e tristo”. Ed è sostanzialmente un’opera di trasformazione in senso biologico e filosofico: Calisto viene trasformata, Giove viene trasformato. Dal punto di vista personale, invece, “Calisto” è profondamente importante per me. Come l’Inghilterra degli anni ‘90. È la prima opera importante a cui ho lavorato. E ha alchemicamente trasformato anche me. Come spero che trasformi i lettori del romanzo.»

Nel romanzo di Adami si legge che, “dinanzi allo squallido presente che tutti i componenti del pubblico condividono giorno dopo giorno, lo splendore di questa storia, di queste parole, di questa musica, rappresenterà per loro l’esperienza più bella e più vera di una vita.” Sembra una dichiarazione sentita, anche se tutto, in questo romanzo, per influsso del fitto gioco di mascheramenti di derivazione teatrale e barocca, suona sempre virato verso sottintesi ironici che smentiscono nel momento in cui confermano, in un vortice di finzioni che accomuna il mondo dell’opera all’oggi (per dirne una, nemmeno Paul è il nome vero del protagonista, ma solo un alias datogli dal regista). Ma insomma, riteniamo di poter credere alla sincerità del personaggio del regista quando dice: “Un’opera che regala così tanta saggezza, così tanta bellezza, che può dare senso ad una vita, o almeno a una serata, meglio non esagerare. Voglio dire… è un’opera di travestimenti, di cambi di persona… Noi ci travestiamo tutti i giorni, cambiamo maschera tutti i giorni… per distruggere… distruggere rapporti, concorrenti, fiducia… Qui lo fanno per creare…” Il mondo della Calisto, del mito, è comunque più semplice, più giusto, meno ambiguo del nostro: gli errori sono puniti, gli inganni sono scoperti, i rei (Giove a parte) sono puniti; e alla fine tutto si sistema, attraverso un sistema di metamorfosi che trasforma ciò che era in qualcosa di completamente nuovo, al riparo dalle iniquità.

L’opera barocca, definita appunto nel romanzo “un pezzo d’oro di un mondo in cui gli sconosciuti erano dei, i pastori s’innamoravano delle divinità, e tutto il dolore si trasformava in stelle”, alterna momenti seri, drammatici, ad altri comici, fondamentali se si pensa che opere come questa andavano in scena nel periodo di Carnevale  (personaggi come Satirino e Linfea hanno proprio la funzione di alleggerire la seriosità dell’impianto, introducendo elementi scherzosi, parodici, che confermano con tono più lieve l’assunto alla base del dramma maggiore).

Sta proprio in questa complessa bellezza il fascino persistente dell’opera barocca? Lo chiedo ancora all’autore.

«La musica europea – e quella italiana in particolare – tra ‘500 e ‘600 ha dentro di sé una complessa, calda tessitura di saperi sull’uomo, sulle emozioni e sensazioni umane, di dono, che è davvero difficile da definire e da cogliere» mi dice Stefano Adami. «Le cronache dell’epoca ci raccontano che le signore bene svenivano dal turbamento ascoltando musica, o all’opera. Non è più solo musica, dunque, è alchimia, è magia, di estrema potenza.  E questo lo tocca con mano qualunque esecutore, direttore o ascoltatore di quella musica lì. È un tipo di musica che tocca davvero, e in grande profondità, certe corde interiori dell’essere umano. È il tipo di sapere musicale, di tocco, di cui parla spesso Sir Arthur in “Calisto”.

La potenza magmatica, vulcanica di quella musica si struttura poi meravigliosamente nell’opera lirica» prosegue Adami. «Perché l’opera barocca, mi chiedi dunque. Perché l’opera antica nasce come reinvenzione del teatro musicale greco. Perché nasce – nella Toscana del ‘500 – come alchimia, come esperienza catartica: per trasformare il piombo dell’umanità nell’oro dello spirito. Ed è un’alchimia – basta guardarsi intorno – di cui oggi abbiamo bisogno più che mai.»

Di quest’opera, in cui si racconta un mondo (due mondi, anzi, quello degli uomini e quello degli immortali) governato dalla forza irresistibile dell’eros, Stefano Adami racconta appunto le prove fino alla première, concentrandosi sulle fasi iniziali, quelle della lettura, del primo approccio interpretativo, attraverso il punto di vista del protagonista, Paul, che condivide con l’autore l’attività di ripetitore e aiuta i cantanti nella lettura e nell’interpretazione dei versi di Faustini. In questi episodi emerge con chiarezza quanto nell’opera seicentesca fosse importante il libretto, quanto il connubio tra parola poetica e musica fosse condizione essenziale (la voce, si legge a un certo punto, va “addomesticata” sulle parole). Il racconto delle sedute di lettura e di prova, assai gustoso e anche istruttivo, è fatto con competenza, dal momento che l’autore stesso ha collaborato, come si diceva, a diversi allestimenti di melodrammi, compresa la “Calisto”.

Adami, che ha contribuito anche con una voce sulla librettistica tra 1600 e 1750 al secondo volume dell’Atlante della Letteratura Einaudi, è attento a non strafare, dicevamo: cioè non allaccia legami troppo espliciti tra l’opera olimpica di Cavalli e la quotidianità dei suoi personaggi, non instaura parallelismi troppo evidenti. Però, certo, anche i suoi personaggi sembrano sballottati da Eros, per quanto sia un eros assai più modesto, e quel senso di ebbrezza del vivere che lo stile di Cavalli (assieme agli stilemi barocchi) stilizza e nobilita finisce anche per coinvolgere Paul e gli altri, sebbene in occasioni più dimesse.

E capita anche che dopo un po’ di prove il vissuto della compagnia si sovrapponga alla trama dell’opera, che interpreti e ruoli si confondano, e Calisto e Giove diventino i nomi anche di chi si calerà nelle parti sulla scena, e Giove si senta presuntuoso e strapotente come il re degli dei (riuscendo più che altro a fare una scenata ai danni della povera Calisto).

Due momenti si distaccano dal realismo del resto del racconto e assurgono a una dimensione allegorica, si impongono come una parafrasi del mito: il primo è il prologo, in cui un virtuoso di viola da gamba, solo sulla scena davanti a un pubblico venuto ad ascoltarlo, invece di suonare i pezzi in programma si lancia in un monologo dapprima misterioso e divagante poi sempre più chiaramente profetico sull’ipocrisia degli uomini e sulla loro responsabilità: quando profetizzerà la prossima distruzione del teatro gli daranno del pazzo – ma il teatro sarà colpito da un furioso incendio.

“L’azione” si legge nel romanzo “inizia proprio quando il mondo è distrutto da un fuoco devastante… no? Non viviamo tutto i giorni, oggi, nell’ansia della distruzione, nella passione della distruzione? Quest’opera ci dice cosa succederà dopo.” Nell’intreccio ovidiano, a cui è fedele anche l’opera di Cavalli, si tratta dell’incendio provocato dal figlio di Febo Fetonte, uno dei tanti traumi che resettano il mondo prima di una nuova rinascita.

Il secondo momento è costituito da un lungo episodio centrale in cui compare un nuovo personaggio di cui si è sentito parlare con reverenza già nelle pagine precedenti, sir Arthur. La centralità della scena (una cena-orgia nella villa di sir Arthur) pesa nel romanzo come, verrebbe da dire, il banchetto a casa di Trimalcione nel Satyricon di Petronio. Troppo importante, vasta, anomala, per passare inosservata, la scena ci vuole suggerire una chiave di lettura: segna la più evidente connessione tra presente e passato, tra sogno e realtà, tra tempo della storia e atemporalità del mito. Sir Arthur vi troneggia: all’inizio appare come un eccentrico e esuberante artista, interprete sopraffino, autorità riconosciuta da tutti, sostenitore ironico del potere salvifico dell’arte, un misto rabelaisiano di Zeffirelli, Ken Russell e Orson Welles, arbiter elengantiarum ben al di là del mondo della musica; ben presto il suo stentoreo cicalare diventa sintomo di una potenza sovrumana, da regista del mondo. Sir Arthur è Giove, insomma, un Giove calatosi dall’Olimpo a rimescolare le esistenze degli uomini, il depositario dei destini individuali, il giocoliere nelle cui mani diventiamo giochi. Evoca attraverso la musica (e gli strumenti, che della musica sono il tramite) Mozart, Bach, l’abate Casti, ed ecco che gli evocati sono lì, tangibili, presenti. Evoca l’amore come sola verità del mondo, ed ecco che una miriade di creature, mitologiche e non, appare a confermare concretamente la sua visione pansessualistica. Solo quando appare lui la combinazione tra l’aureo artificio del mito messo in musica e la nostra povera vita funziona, e appare evidente come la forza che governa ogni nostro gesto e pensiero e ogni elemento in natura sia un eros cui è impossibile opporsi.

Prima di concludere, chiedo a Stefano Adami qual è, secondo lui, il modo migliore di presentare oggi un’opera barocca, tra la proposta rigorosamente filologica e l’attualizzazione a tutti i costi.

«L’allestimento ideale per un’opera barocca è un po’ come il Santo Graal» mi dice Adami. «Ho avuto la fortuna di vedere dall’interno la preparazione di molti allestimenti di opere barocche. In “Calisto” ci sono varie, e divertenti, discussioni sugli allestimenti in generale, e sull’allestimento in particolare dell’opera che i protagonisti stanno preparando, “La Calisto”, appunto. Sono d’accordo con alcune delle cose che vengono dette in quelle discussioni. Direi, per esempio, che gli allestimenti attualizzanti hanno ormai stancato. È banale vedere, ormai, in scena, Zeus in divisa nazista o vestito come Berlusconi, Renzi o Obama. Dal mio punto di vista, l’allestimento ideale è invece quello che ha una linea sobria, essenziale, eleusina, che ricorda un po’ la mano del De Chirico del mito scarno, delle “Piazze d’Italia”.»

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Felisberto Hernández http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/04/15/felisberto-hernandez/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/04/15/felisberto-hernandez/#comments Wed, 15 Apr 2015 12:58:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6750 In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA

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La memoria della musica (o la musica della memoria): Felisberto Hernández

a cura di Claudio Morandini

Chi ama la musica e quella particolare musica che risuona nelle pagine di un libro farà bene a dedicarsi alla lettura di Felisberto Hernández (Montevideo, 1902-1964), di cui La Nuova Frontiera sta pubblicando i racconti e i romanzi nella bella traduzione di Francesca Lazzarato. Hernández era quasi dimenticato in Italia, prima di queste provvidenziali pubblicazioni: si erano perse da anni le tracce della precedente edizione di “Nessuno accendeva le lampade” (Einaudi, 1974, traduzione di U. Bonetti), mai più ristampata.

Le OrtensieHernández era pianista e scrittore; prima pianista, poi scrittore dalla sconcertante sensibilità. I racconti, sia quelli più corti sia quelli che ambiscono a uno statuto quasi di romanzo breve, sono qualcosa di diverso, di non catalogabile (se ne era ben accorto Italo Calvino, che nel presentare la prima edizione italiana di “Nessuno accendeva le lampade” scriveva che l’autore “non somiglia a nessuno… è un irregolare che sfugge a ogni classificazione e inquadramento ma si presenta ad apertura di pagina come inconfondibile”): procedono ambigui e spaesanti come sogni a cui certe ricorrenze concedono una parvenza di articolazione narrativa, sono assecondati più che scritti, osservati mentre crescono come piante più che articolati secondo una struttura. Hernández e i suoi personaggi si aggirano come sonnambuli (“sonnambulo di fiducia” è definito il narrante in “La casa allagata”, del 1960, in “Le ortensie”, La Nuova Frontiera, 2014), come fantasmi che non hanno dimenticato la cortesia, in un mondo in cui si affastellano oggetti, mobilia, figure femminili di tutte le dimensioni e età (e tutto ciò, oggetti e figure femminili, al centro di persistenti pulsioni e desideri). A volte i luoghi assumono significati nuovi: in uno dei racconti più sorprendenti, un palazzo viene allagato e diventa mare da navigare, disseminato di isole (“La casa allagata”, in “Le ortensie”).

Nessuno accendeva le lampadeL’io narrante vive situazioni ricorrenti: attraversa tunnel, oppure è ospitato in ville altrui dove indugia, si adagia, osserva, ascolta, compie con la più grande naturalezza atti misteriosi e incongrui (da questa incongruità nasce un lieve, spiazzante umorismo). Non elabora ragionamenti, ma è attraversato da pensieri evanescenti e insieme ossessivi provenienti da chissà dove; e legge ciò che lo circonda ricorrendo a una fitta rete di imprevedibili analogie. Il suo modo di osservare popola la realtà di arti e teste che fluttuano nello spazio come animati da vita propria, si stagliano contro i cieli e i muri: teste autonome come animali, come nuvole, attraversate da pensieri corposi e tangibili (così in “Nessuno accendeva le lampade”, 1947, La Nuova Frontiera 2013). I sensi vagano per gli spazi, li illuminano, li manipolano.

Hernández, che potrebbe indulgere in tecnicismi per rendere con precisione analitica il dipanarsi di un brano musicale, preferisce agire da poeta: racconta la musica attraverso densi rimandi analogici, inusitate sinestesie. Nei suoi racconti la musica si espande lenta, viva e carnosa nell’aria: “Quando suonai il primo accordo, il silenzio sembrava un pesante animale che avesse alzato una zampa. Dopo il primo accordo vennero dei suoni che presero a oscillare come la luce delle candele. Feci un nuovo accordo, come se avanzassi di un altro passo” (“Il balcone”, in “Nessuno accendeva le lampade”).

Le composizioni sono raccontate come imprevedibili organismi sentimentali che solo a momenti svelano qualcosa del loro carattere: nell’esecutore, all’entusiasmo iniziale subentrano ben presto la frustrazione, il senso di inadeguatezza, l’incapacità di preservarne il senso, di portarne alla luce definitivamente i segreti intravisti. Il primo approccio è quello sensuale, esaltato, dell’innamorato che vuole conquistare una ragazza: e la prima lettura è l’inizio di una cerimonia di seduzione, fitta di illusioni e di delusioni crescenti, in cui lo spirito vola alto ma il corpo, ahimè, si mostra inadeguato (le dita si affannano sulla tastiera come dieci “miserabili musicisti” sotto lo sguardo afflitto di un direttore d’orchestra).

Analogamente, quei momenti sempre un po’ salottieri che sono i concerti sono descritti come pantomime visionarie, in cui il pubblico rapito insegue passioni che crede di riconoscere nel flusso delle note, mentre l’esecutore (per esempio il narrante del racconto “Terre della memoria”, uscito postumo nel 1966, ma anche quello de “Il coccodrillo”, in “Le ortensie”), via via più demoralizzato, si sente ridurre a marionetta impacciata che si agita al centro di un colossale fraintendimento.

Terre della memoriaAnche i tre racconti lunghi compresi in “Terre della memoria” (La Nuova Frontiera, 2015) sono imbevuti di musica. I pianoforti abitano le stanze di questi racconti come personaggi vivi, e i ricordi infantili dei personaggi in carne ed ossa sono scanditi da lezioni di pianoforte spesso deprimenti, esercizi, scale, arpeggi, esecuzioni, rimproveri di maestri. Per fortuna, tra strumento e allievo si instaura talvolta una fraterna solidarietà: “Il pianoforte era una brava persona. Mi sedevo accanto a lui; poche delle mie dita erano sufficienti a stringerne molte delle sue, fossero bianche o nere; subito gli uscivano gocce di suoni; e combinando suoni e dita, diventavamo tristi entrambi” (“Il cavallo perduto”, 1943, in “Terre della memoria”).

In Hernández tutti gli oggetti, non solo i pianoforti, sono carichi di segreti, e vivono nelle stanze come esseri viventi; anche gli alberi, i cavalli, i carri, le automobili, le mura delle abitazioni, sono come personaggi immobili, e rimandano ad altri oggetti, secondo gradi di parentela che più che al simbolismo si ricollegano a certo surrealismo sudamericano, meno concettuale di quello europeo e tutto vita e cose, tutto sensazioni fitte e pesanti come cose. Nei racconti di Hernández tutto trascolora da una natura all’altra, gli oggetti inanimati di dotano di vitalità, la vegetazione esuberante sembra parlare e aspettare una risposta, le figure umane (femminili soprattutto) assumono fattezze minerali o vegetali. Nel racconto lungo “Le ortensie”, il gioco tra animato e inanimato si fa estremo: Horacio si circonda di bambole a grandezza naturale, con una di esse sostituisce la moglie morta, lascia che il gioco equivoco arrivi a un punto di non ritorno, alla perfetta illusione della vita. Per tornare alla musica, quando il gioco delle analogie coinvolge i convitati di un banchetto i rumori si fanno orchestrazione, i commensali sembrano eseguire una partitura, a capotavola il padrone di casa si muove come un direttore d’orchestra: “Sedendosi, il direttore salutava, tutti volgevano la testa ai piatti e provavano gli strumenti. Poi ciascun silenzioso orchestrale suonava per conto proprio. In principio si sentivano tintinnare le posate, ma dopo qualche istante il rumore svaniva e veniva dimenticato (…). Dopo poche serate a quella mensa gratuita, mi ero già abituato alle stoviglie e potevo suonare gli strumenti per conto mio” (“La maschera”, sempre in “Nessuno accendeva le lampade”).

I musicisti appaiono come dandy eccentrici, irregolari spinti da scelte misteriose a violare le convenzioni sociali. Ve n’è uno, in particolare, nel racconto “Ai tempi di Clemente Colling” del 1942, appunto Clemente Colling, che unisce un’innegabile sapienza musicale a una trasandatezza da barbone. Cieco o quasi, vive dove capita, grazie alla benevolenza degli ammiratori, si porta dietro pochi mobili scassati, non si lava mai, è pieno di pulci che non si degna di allontanare. In generale, i musicisti vengono visti dalla società come dei disadattati, per quanto d’ingegno, anche quando sono ricercati per occasioni salottiere (anche il narrante, dietro al quale si nasconde l’autore, quand’era giovanissimo veniva visto dai coetanei come un “tonto” proprio perché suonava il pianoforte). Sono poveri mestieranti, in “Terre della memoria”, componenti di orchestrine oberati da debiti e costretti a viaggi logoranti in treno, che vengono chiamati con il nome del loro strumento (Il Violino, La Fisarmonica…). Condannato al nomadismo, oltre che a irrefrenabili crisi di pianto, sembra anche il narrante de “Il coccodrillo” (in “Le ortensie”), concertista di pianoforte che è anche rappresentante di una ditta di calze femminili e cerca di conciliare le tournée artistiche con i viaggi commerciali. Più di una volta i sensibilissimi protagonisti dei racconti di Hernández sono afflitti da problemi organizzativi legati alle serate musicali, alle tournée, ai finanziamenti dei concerti (così anche in “La casa nuova”, da “Le ortensie”). Anche il povero Walter, il pianista che all’inizio di “Le ortensie” si esibisce in un concerto reso bizzarro dalle capricciose indicazioni del padrone di casa, appartiene alla stessa categoria. Qui la separazione tra autobiografia e invenzione letteraria si fa sottile: non a caso Julio Cortázar ha descritto il nostro autore come “un uomo triste e povero che vive grazie a concerti di pianoforte in circoli di provincia”, e si potrebbe scrivere lo stesso di molti dei suoi personaggi narranti.

I legami con la musica si avvertono anche là dove non si parla espressamente di musica – anzi, si direbbe che proprio nelle pagine non dedicate alla descrizione della musica si fanno più forti, più profondi. In “Terre della memoria” (il racconto postumo) due sorelle francesi, maestre, vengono definite come la Maggiore e la Minore: e molto, nella descrizione del comportamento, della figura e del temperamento di entrambe, fa pensare che Hernández stia proprio dando corpo, attraverso quelle figure, ai due modi, il maggiore e il minore, e ai caratteri di cui questi due modi si sono caricati nel corso della storia della musica.

Hernández lascia che “l’immaginazione, come un insetto notturno, esca dal salotto per ricordare i sapori dell’estate e voli a distanze che nemmeno la vertigine o la notte conoscono”; così pesca nel serbatoio dei ricordi, nella fluttuante “terra della memoria”, in cui i ricordi permangono come sogni, e ogni ricordo è frutto di uno sforzo doloroso, tra pensieri che si affastellano e confondono, oblio, travisamenti. Molte pagine dei tre racconti compresi in “Terre della memoria” suonano come rimuginii attorno alla difficoltà di preservare l’essenza di ciò che è stato, la vividezza dello sguardo di allora (di quando si era bambini, al massimo adolescenti). Sembrano, queste tirate vertiginose sul ricordare, quelle parti che in un tempo di sinfonia o di concerto congiungono un tema a un altro, e lasciano il discorso in sospeso nella speranza di non diminuire la tensione. E i temi, cioè i singoli ricordi, Hernández sembra pescarli dal passato come un compositore cerca di trattenere il tema bellissimo che ha udito in sogno, magari eseguito da un diavolo (ricordate Tartini?), prima che svanisca del tutto dalla memoria e rimanga solo più un’impressione o l’impressione di un’impressione.

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Una casa editrice musicale: RueBallu http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/03/31/una-casa-editrice-musicale-rueballu/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/03/31/una-casa-editrice-musicale-rueballu/#comments Tue, 31 Mar 2015 18:00:46 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6729 Una casa editrice musicale: RueBallu
Conversazione con Gae Pisani

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Entra nel sito della casa editrice musicale rueBallu - Musica e Teatro

a cura di Claudio Morandini

RueBallu è una piccola e coraggiosa casa editrice palermitana che dal 2007 pubblica testi di letteratura musicale, inseriti in collane dedicate a biografie, testimonianze, didattica o narrativa anche per ragazzi, e presenta un bel catalogo di titoli per niente ovvi. Abbiamo chiesto agli amici della redazione di rueBallu di illustrarci il loro progetto editoriale. Gae Pisani, a nome della redazione, ha risposto così ad alcune nostre domande.

- RueBallu Edizioni prende il nome dalla via parigina in cui si trovava lo studio di Nadia Boulanger. Si tratta di un riferimento forte a un’esperienza umana, didattica e artistica centrale nel Novecento. Che cosa è rimasto di quell’esperienza? Che cosa ci può ancora insegnare il magistero della Boulanger?

La forza del magistero di Nadia Boulanger è rimasta intatta nelle sue parole e nell’insegnamento trasmesso. In un filmato molto bello – Mademoiselle – di Bruno Monsaingeon, girato in occasione del novantesimo compleanno di Nadia Boulanger, è possibile entrare in relazione con il mondo di questa didatta straordinaria e sentirne in prima persona la profonda attualità per chiunque viva di musica e per la musica.

- L’Italia è una nazione di vasta tradizione musicale, ma, ahimè, di scarsa educazione e di scarsissima attenzione da parte delle istituzioni. Come si muove un editore come rueBallu in questo contesto poco favorevole, almeno all’apparenza, al discorso musicale?

La domanda è particolarmente pertinente, ciò che lei dice è profondamente vero, il progetto rueBallu non si muove in un contesto poco favorevole alla musica non solo apparentemente, ma nella sostanza. Il percorso della casa editrice, totalmente indipendente nelle scelte editoriali e nella ricerca delle risorse finanziarie, è ardito se si riflette con attenzione alla struttura dell’intera filiera editoriale. Un ruolo dominante, come è noto, viene esercitato dai grandi gruppi di distribuzione direttamente collegati alle grandi librerie, trovare degli spazi di visibilità non è un lavoro semplice, né tanto meno ricevere un’attenzione mediatica che ordinariamente viene riservata ai grandi gruppi editoriali. Il nostro lavoro, come quello di altre realtà analoghe, è un cammino controcorrente; anche se non amiamo molto parlare degli aspetti pratici del lavoro che stiamo portando avanti, né delle “evidenti assurdità” in cui siamo totalmente immersi. Preferiamo dar voce con dedizione e rispetto a chi ha manifestato qualcosa di veramente straordinario nella vita e nell’arte, mescolarlo con altro riteniamo non sia utile.

– Secondo lei, che cosa può fare la letteratura per aiutare (diciamo così) la musica colta a superare lo scollamento drammatico con il grande pubblico di questi ultimi decenni e tornare ad allacciare un rapporto di reciproca curiosità?

La letteratura in generale ha sempre svolto nel corso del tempo una funzione di elevazione culturale. Nelle sue massime espressioni ha sempre dato la possibilità di attivare uno sguardo non ordinario sulle cose. Noi stiamo cercando di prestare attenzione anche al pubblico più giovane; riteniamo infatti auspicabile che possa avvenire l’incontro, anche in tenera età, con donne e uomini straordinari, che si possa contribuire a nutrire il sentimento e la mente dei giovani lettori alla ricerca di qualcosa di più profondo e autentico. In generale, comunque, quando usiamo la parola “musica”, lo facciamo nel senso etimologico. Ci riferiamo al concetto di musica nell’antichità classica, dove la musica, l’arte delle Muse, comprendeva poesia, musica e danza.

- All’estero (in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, negli Stati Uniti…) sembra esserci una maggiore attenzione alla letteratura musicale. Che cosa possiamo imparare da quanto viene da altre tradizioni culturali, in questo senso?

La maggiore attenzione alla letteratura musicale nei paesi che lei cita non è casuale. Germania, Francia, Stati Uniti, ad esempio, hanno una solida tradizione musicologica, la musicologia è disciplina molto feconda in questi paesi. Il resto, secondo noi, è una conseguenza.

- “Raccontare” la musica è sempre una scommessa: due linguaggi si confrontano, si incontrano, talvolta si inseguono. Si va dall’approccio biografico o autobiografico a quello filosofico, da quello più propriamente musicologico a forme ibride di contaminazione narrativa o poetica tra i due linguaggi. Quale può essere il modo più proficuo di incontrarsi delle due discipline artistiche? Qual è quello privilegiato da rueBallu edizioni?

Pensiamo che, al di là dei linguaggi, ci siano delle opere letterarie o musicali che portano con sé una grande forza che rimane intatta nel tempo. E ci siano uomini e donne che questa forza riescono a trasmettere, qualunque sia poi il veicolo che scelgono di privilegiare. Il nostro compito, l’obiettivo che ci siamo prefissi, è dare spazio alla straordinarietà.

- Oltre alla Boulanger, un altro punto di riferimento forte, e non solo musicale, mi sembra essere Yehudi Menuhin, di cui avete pubblicato “Musica e vita interiore”: la sua idea della musica come forma di dialogo e di conoscenza, come garanzia di universalità, suona particolarmente urgente in questi anni.

- Ciò che lei dice è profondamente vero. Condividiamo a pieno le parole di Moni Ovadia che ha curato la prefazione del volume che lei cita, quando dice che la visione universalista di Menuhin si manifesta particolarmente nella sua grande apertura alle diversità culturali sentite come ricchezza e opportunità. Nel suo pensiero, la musica, nella vastità delle sue molteplici espressioni, è linguaggio e interiorità che deve costruire una relazione di comprensione intima fra gli uomini. Menuhin ha incarnato mirabilmente la figura dell’artista intellettuale ebreo cosmopolita, figura paradigmatica della migliore cultura europea e occidentale dall’incorruttibile fibra morale, ma alieno da ogni moralismo, che ha saputo essere simultaneamente il migliore interprete della cultura nazionale in cui ha avuto la ventura di crescere e, al tempo stesso, ha saputo esprimersi come pensatore e cittadino universale nutrito da un irrinunciabile umanesimo, dalla passione per la dignità dell’uomo, per i suoi diritti, e da una vocazione radicale per la pace.

- Quale libro di ispirazione musicale vi piacerebbe pubblicare? Quali titoli avete in mente come prossime uscite?

Sicuramente sarebbe interessante e bello pubblicare qualcosa su Mstislav Rostropovich, Sviatoslav Richter, Rosalyn Tureck, personaggi che hanno fatto della musica un mezzo per raggiungere qualcosa di straordinariamente importante. Figure emblematiche al servizio di qualcosa più grande. Prossimamente pubblicheremo un volume di Jacques Chailley, musicologo, fondatore della prima cattedra di Storia della Musica alla Sorbona, allievo tra l’altro di Nadia Boulanger. Il titolo del volume è Storia della musica medievale. I primi passi della musica moderna. Il libro spezza alcune salde certezze di chi vede nel Medio Evo semplicemente l’età oscura di transizione tra l’Antichità e i tempi moderni; per Chailley, invece, lo stesso termine Medio Evo è un non senso, frutto di orgogliosa ignoranza di un periodo storico che è un immenso laboratorio, in cui le solide tradizioni della teoria musicale ellenica e i maestosi monumenti della musica gregoriana sono uniti da solidi ponti. Un libro in cui si parla di musica, ma emerge anche l’importanza del Medio Evo negli altri ambiti della conoscenza umana.
E poi ci saranno ancora dei libri, secondo noi preziosi, dedicati ai ragazzi, che avranno al centro protagonisti come Fryderyk Chopin, Gioacchino Rossini, Emily Dickinson. Questi lavori li abbiamo condivisi con autori sensibili e straordinariamente preparati: Matteo Corradini, Lina Maria Ugolini, Beatrice Masini.

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COME MACCHINE IMPAZZITE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/01/09/come-macchine-impazzite/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/01/09/come-macchine-impazzite/#comments Fri, 09 Jan 2015 14:30:50 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6642 letteratura-e-musica

Nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.

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Gianpiero Capra e Stephania Giacobone
Come macchine impazzite
Agenzia X, 2014

di Claudio Morandini

kinaÈ un’interessante operazione “Come macchine impazzite”, scritto a quattro mani da Gianpiero Capra e Stephania Giacobone attorno a quello che il sottotitolo definisce “il doppio sparo dei Kina”: “doppio” nel senso che l’avventura musicale del gruppo punk di Aosta viene tracciata con cordiale precisione da Capra, che della band è stato uno dei fondatori e il bassista, mentre in capitoli alternati a questi di Capra la Giacobone racconta, più narrativamente e anche con maggiore enfasi, la scoperta dei Kina diversi anni dopo e la ricerca delle loro tracce attraverso dischi, cassette, ma anche riviste, fanzine, testimonianze di conoscenti comuni.
Per essere precisi: Stephania nasce “un anno dopo l’uscita del secondo album dei Kina”, “tre anni dopo il primo album dei Kina e quattro anni dopo i loro primi concerti del 1983”. Scegliere di amarli “è stata una lotta in provincia e in città” (cioè in Valle d’Aosta e a Torino): “quelle lotte che aprono gli occhi, creano divari, scelgono per te, ti insegnano a tirare fuori i denti e a strappare la carne dai tendini per nutrirti”. Il libro è insomma la ricostruzione fedele di due momenti storici assai simili: il passare degli anni non ha reso distanti o distaccati i due testimoni-scrittori. Nell’accostare i due piani temporali, “Come macchine impazzite” rivela quanto poco sia cambiato nella provincia tra le Alpi: rivela anche quanto le inquietudini cantate dai Kina non appartengano all’archeologia, ma siano ben radicate e in un certo senso endemiche.
A questo proposito, chiedo un po’ provocatoriamente a Stephania Giacobone se si può considerare “storicizzata” l’esperienza dei Kina e di altri gruppi affini, se la si può leggere solo attraverso il ricordo, o se invece prosegue anche oggi.
“L’esperienza dei Kina” mi risponde Stephania “a mio parere ha subito un processo di storicizzazione diverso dal consueto sedimentarsi nel ricordo di generazioni che ormai si vergognano di cosa erano e cosa ascoltavano. Durante la mia ricerca di tracce e testimonianze ho potuto vedere negli occhi di chi raccontava uno slancio di vitalità che prosegue anche oggi. I Kina non suonano più ma vivono ben oltre il solo ricordo. Spero che in questo senso la struttura che abbiamo scelto per la stesura del libro e la presenza di una voce, la mia, anagraficamente distante dagli inizi dei Kina, possa dimostrare quanto sia ancora vivo, urgente e necessario questo genere di musica.”

Tra le righe, nell’esperienza seminale dei Kina rivissuta dalla Giacobone si coglie un intento “pedagogico” che contraddice tanti cliché sul punk. Stephania nota come le fasi cruciali di una vita siano sempre segnate da un disco: per lei, il disco kiniano dell’iniziazione, o meglio della rivelazione, è stato “Questi anni”: autoproduzione, autogestione, antagonismo, sono concetti che l’adolescente Stephania sente già propri e che trovano nell’esperienza dei Kina un riferimento trascinante.

Stephania racconta dapprima di una Courmayeur, suo paese natale, ben diversa dalla località promossa dalle strategie di marketing: ne fa un luogo svuotato, “spoglio, in cui le mezze stagioni erano l’isolamento da tutto e da tutti”. Risale a questa fase iniziale una sorta di sensibilità al rumore che finirà per assumere quasi una funzione proustiana e il valore di un’epifania: “Il rumore dell’acciaio” della pistola del padre lasciata cadere “sul pavimento di legno era un’eco metallica sorda. Avrei ritrovato lo stesso suono nei giri di batteria di alcune canzoni punk”. E, poco prima: “Avevo bisogno di una musica che diventasse il grido che avevo soffocato e la rabbia mai espressa”. E soprattutto, a proposito delle interminabili domeniche in famiglia, scandite dai rumori della televisione e dei programmi sportivi: “Spaccavo il ghiaccio a morsi. Mi piaceva il rumore che faceva, mi piacevano i rumori striduli e spaventosi. Il rumore della pistola sul pavimento di legno. Il rumore della mamma del mio migliore amico Diego che urlava di dolore e lanciava la bottiglia contro il muro.” È insomma il racconto di un’iniziazione al “rumore” come dotato di spessore semantico e la scoperta di una vocazione (Quei rumori… “mi hanno fatto capire che la via di fuga era nascosta nel mio stesso inferno”).
Come Courmayeur, anche Aosta, in cui la Giacobone si traferisce qualche anno più tardi, è descritta come un non-luogo, una città solo di nome, o “per errore”, di fatto un paese di poco più grande di quello da cui proveniva, e allora “una camera anecoica”.
“All’epoca della mia adolescenza” mi dice Stephania “avevo solo Aosta come città di riferimento, volevo tutto e subito, volevo spazi, rumore, festa. E non c’era nulla di tutto questo. Ecco il motivo della mia definizione della città di allora come camera anecoica e il mio estremo bisogno di suono. Poi, la città di riferimento negli anni dell’Università per me è cambiata, è diventata Torino, dove il rumore non mancava, non mancavano gli spazi occupati, la vitalità del teatro, della musica, della cultura. Dopo otto anni di Torino, tornare ad Aosta è stata inizialmente una scelta obbligata, poi una piacevole riscoperta. Aosta è anecoica come sempre, forse peggio, ma io ho trovato il suono che voglio ascoltare, quando voglio, e se mi va di sentirlo suonare dal vivo, Torino è vicina.”
Emerge sempre più chiara la definizione di un punk che rompe gli schemi e libera energie represse, assimila le paure e le angosce e ne cava qualcosa di nuovo e di vero, rappresenta una “via d’uscita e un antidoto al veleno del presente”, e diventa infine, nella sua fase matura (con “Parlami ancora”, del 1992) una sorta di sintesi consapevole delle ribellioni e le lotte di tutti i tempi. Vale la pena citare le parole con cui i Kina presentavano l’LP al momento della sua uscita: “Le idee e le battaglie ci parlano ancora: noi proviamo ad ascoltare l’eco di ieri per costruire nuovi suoni oggi, sperando che questo disco parli ora e in futuro a te e a coloro che verranno”. È una dichiarazione di poetica e di politica, insieme ambiziosa e umile (“proviamo”, “sperando”), in cui il legame con il passato nutre la ricerca del presente e del futuro e che travalica ogni definizione di genere. “È l’essenza del punk hardcore” mi conferma Stephania. “È quel che mi ha formata da sempre. Sono le idee e le battaglie che ho fatto mie negli anni. E come ho fatto io, avranno fatto molti altri.”
La musica dei Kina finisce per avere una funzione insieme terapeutica e catartica: scatena l’urlo, e insieme “cuce le ferite e cura gli ematomi”; evoca gli angosciosi e mai rimossi “rumori” sintomi di ingiustizia e allo stesso tempo li formalizza e li ricompone in un tessuto che li spiega e li domina: esalta e appiana. Musica e testi dei Kina sono inframmezzati al racconto e collegati a momenti della vita dell’autrice come se ne avessero previsto lo svolgimento o come se la scoperta di quei testi rappresentasse l’indicazione di una svolta, la rivelazione che quello che le accadeva non riguardava solo lei, ma era tappa di un percorso comune.
Quanto ai dettagliatissimi capitoli firmati da Capra, vi notiamo grande determinazione, insoddisfazione e caparbietà (nel senso migliore), desiderio di imparare e mettersi in gioco continuamente, fino allo sfinimento; io vi leggo anche l’elogio dell’onestà intellettuale, della sincerità, anche (paradossalmente) della pazienza. Il suo resoconto è privo di quel macchiettismo fin troppo facile a cui molti ricorrono in casi simili, eppure è divertente, schietto nel descrivere prove, concerti, cambiamenti di formazione, fondazione dell’etichetta indipendente Blu Bus, e soprattutto la serie impressionante di concerti in giro per l’Europa.
“Ci sarebbe bisogno anche oggi di qualcuno come i Kina” mi confida Stephania. “A livello musicale ci sono nuovi gruppi punk hardcore non male in Italia e all’estero. La crisi dovrebbe essere terreno ancora più fertile per far nascere il conflitto, la dissidenza e la voglia di produrre musica in linea con l’attitudine della protesta. In realtà molti gruppi, fortunatamente non la maggioranza a mio parere, si abbandonano a un cinismo musicale, anziché riportare in vita quella che era l’agitazione del punk hardcore, perché sembrano dire «Se è morto, non sarò io a risuscitarlo».”

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SALVARE MOZART, di Raphaël Jerusalmy http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/10/25/salvare-mozart-di-raphael-jerusalmy/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/10/25/salvare-mozart-di-raphael-jerusalmy/#comments Sat, 25 Oct 2014 14:01:19 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6550 letteratura-e-musicaNuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.

Protagonista del post è SALVARE MOZART, romanzo di Raphaël Jerusalmy, pubblicato dalle edizioni e/o.

Di seguito la recensione di Claudio Morandini).

Massimo Maugeri

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SALVARE MOZART, di Raphaël Jerusalmy, edizioni e/o (traduzione di Gaia Panfili)

di Claudio Morandini

“Salvare Mozart” di Raphaël Jerusalmy, tradotto in modo eccellente da Gaia Panfili, racconta lo scontro tra due diverse concezioni della musica (e della vita, in buona sostanza). Da una parte troviamo il protagonista Otto J. Steiner, che malato, sconfitto, burbero, recluso in un sanatorio cascante, confida i suoi umori alle pagine di un frammentario diario destinato al figlio lontano. Ci troviamo a Salisburgo, tra il 1939 e il 1940 (Salisburgo? Una voce narrante “burbera”? Non siamo lontani dai rimuginii di Thomas Bernhard): l’Austria ha aderito con allarmante entusiasmo all’annessione con la Germania di Hitler, e il nazismo imperversa ovunque. All’inizio Steiner, che vivrebbe circondato dalla musica, se potesse, se gli lasciassero il grammofono, e ascolta fino a consumarli i pochi dischi che gli sono rimasti, scopre di condividere l’amore per la musica con i nazisti – e questo lo preoccupa, lo riempie di dubbi. Prima del ricovero va ad assistere a un concerto (“Il ratto dal serraglio” diretto da Böhm, “un’interpretazione… brillante, poderosa, immensa”), si trova circondato da ufficiali nazisti, c’è anche Hitler in un palco. Perché perseguitati e persecutori condividono gli stessi gusti? Le differenze emergeranno chiare, definitive, più avanti, quando il kitsch dei nazisti e dei loro complici infetterà Salisburgo e il suo Festival, trasformandolo in “una sagra di militari in libera uscita e buzzurri impinguinati”, con direttori come Böhm e Léhar che brandiscono “le loro bacchette come randelli” e se ne stanno sul podio a dirigere “come caporali” (quest’ultima cosa la si dice di Heinz Hilpert, che però, a dire il vero, era regista, non direttore d’orchestra).
Agli antipodi del gusto di Steiner si trovano proprio i melomani di marca germanica, amanti di marcette e valzer, pronti a scattare sull’attenti allo squillo di una fanfara, prigionieri, per così dire, di una concezione militaresca della musica, incapaci di apprezzare le sfumature di un’esecuzione meditata e invece esaltati da interpretazioni tronfie, retoriche – lontanissimi da quel Mozart che per Steiner finisce per rappresentare l’ultima voce da preservare, l’ultima oasi di bellezza in un mondo in declino verso il brutto (e l’orrore). “Il nostro Mozart” scriverà verso la fine, “non il loro”: musica cioè che i gerarchi nazisti non sanno capire, anche se la ascoltano compunti, e che nemmeno i loro lacchè possono capire, anche se la sanno eseguire. Nelle sue proposte meno volgari ed effimere la musica tedesca è comunque intrisa di “lirismo esaltato, grandioso”, in nome di “una sorta di romanticismo esacerbato” di marca genericamente straussiana che al tempo stesso esprima “l’impeto del Reich” e si tenga lontano “dai patemi e dalla tetraggine” della musica non di regime.
“Perché tutto questo accade a suon di musica?” si chiede con amarezza il protagonista il 13 marzo 1940, anniversario dell’Anschluss e occasione per un concerto di gala a Vienna. “Gli strumenti dovrebbero tacere. I tenori, i violinisti. Non essere complici. Per pudore”. La “spudorata” mancanza di gusto (o meglio, degenerazione del gusto), che sembra nascere da una sovrapposizione dell’estetica nazista su certe inclinazioni austriache, viene sarcasticamente etichettata in diversi frammenti del diario. Vittime illustri del giudizio severo di Steiner sono, oltre a certi compositori di basso rango benvisti dal regime, anche alcuni direttori d’orchestra, più o meno celebri. Sulla loro complicità più o meno dichiarata l’autore (Jerusalmy, stavolta, non più Steiner) scriverà una nota finale di condanna senza appello: “Nessun musicista né direttore d’orchestra citato nel diario di Otto si schierò mai in difesa della libertà di espressione, o prestò il benché minimo aiuto ai colleghi perseguitati” si legge, prima della stoccata finale: “Dopo la guerra incassarono tutti l’ammirazione incondizionata dei melomani di tutto il mondo”.
Steiner, per esaltare il lato inafferrabile, irriducibile a un semplice schema, della musica che ama, ricorre anche al paradosso, all’assioma tranchant: “Strano che i tedeschi siano melomani. La musica è perenne approssimazione” scrive l’8 marzo 1940. Ecco, ci siamo: la musica di Mozart non impone un ritmo di marcia (non fa venir voglia di invadere la Polonia, come Wagner, ha detto o scritto non so più dove Woody Allen): è allusiva e carezzevole, vibrante anche quando la si immagina soltanto: “Palpito di piacere. Immagino le prove, le ramanzine del direttore d’orchestra, i macchinisti che disturbano. Percepisco ogni grattio d’archetto, ogni fiato degli ottoni e perfino il fruscio della carta quando i musicisti voltano pagina”. È senso dell’attesa, dilatazione della sensibilità. Vive oltre le note, si prolunga nei silenzi che precedono e seguono l’esecuzione. Dà calore e prolunga la vita.

Il fatto che gran parte delle vicende narrate si svolga in un luogo così spiccatamente simbolico come un sanatorio non deve far pensare che il romanzo si esaurisca in una dimensione allegorica: la realtà storica si intromette spesso e rabbiosamente nel torpore dimesso, sofferente e sempre più degradato della clinica, dapprima grazie alla radio, poi attraverso improvvise perquisizioni, interrogatori violenti, sparizioni di persone sospette di essere ebree, requisizioni di un intero piano per il ricovero di soldati orribilmente feriti provenienti da uno dei tanti fronti di guerra. Per fortuna Steiner, che per metà è ebreo, riesce a eludere i controlli, a confondersi nella folla dei malati, ad apparire addirittura uno degli altri, con tanto di saluto con il braccio levato.
Oltre alle incursioni brutali del mondo esterno, si infittiscono le allusioni a quello che avverrà di lì a poco: quando Steiner sogna di mettere su un’orchestra con gli altri degenti l’immagine fa rabbrividire: “Tutti quegli scheletri in pigiama che suonano Schubert all’ingresso della mensa. Davvero buffo.” Non si può non pensare alle orchestrine di reclusi nei campi di concentramento, obbligate a suonare dinanzi ai loro persecutori.
“Salvare Mozart” è davvero un’operina ricca di allusioni sottili. L’appartenenza di Steiner al mondo ebraico, mai negata ma, per forza di cose, tenuta nascosta, in un certo senso anche a lui stesso, emerge pian piano verso la fine, quando il protagonista si troverà a condividere la camerata con un vecchio morente che per farsi forza canticchia ininterrottamente una vecchia melodia yiddish. Quella filastrocca entrerà nella mente di Steiner fino a occuparne ogni spazio, fino a diventare un’ossessione (“Cerco di canticchiare qualcosa di Mozart, di Schubert, ma il dannato motivetto torna alla carica non appena sto zitto. Soprattutto di notte”), e gli fornirà la soluzione per una “vendetta” esemplare quanto incruenta. Eppure, nemmeno il vecchio agonizzante e incosciente è ebreo: quella melodia appiccicosa è un ricordo remoto della sua infanzia, venuto a galla chissà come nel degrado definitivo della sua mente, a dimostrazione di come un tempo i due mondi, quello degli ebrei e quello dei non ebrei, potessero convivere e fondersi senza grossi traumi.
La melodia farfugliata aiuta il vecchio morente a respirare meglio: allora anche Steiner la canticchia, a canone, e un po’ alla volta riesce a liberarsi i polmoni dall’oppressione del male. La musica, ancora una volta, sia pure in questa situazione notturna e ai limiti dell’onirico, può salvare – dunque bisogna salvarla.

A poco a poco la ribellione di Steiner, il suo atto estremo prima della morte, si chiarisce: assume dapprima il carattere di un attentato (e la descrizione del tentativo di avvelenamento di Hitler al momento dell’incontro tra questi e Mussolini al Brennero ce lo fa sentire assieme come indispensabile e impossibile, nella cornice pacchiana, fracassona e grottesca dell’evento); poi diventerà, dicevamo, una vendetta più sottile e sofisticata, una splendida vendetta musicale che non riveliamo per non togliere ai lettori il piacere di scoprirla.
Se Mozart va salvato (e in effetti si salva) nonostante tutto, altri musicisti amati escono malconci, come Beethoven: prima umiliato nel refettorio del sanatorio, sparato da un grammofono tra gli ammalati in vestaglia, deformato da un’acustica pessima (“Non pensavo che un giorno avrei detestato Beethoven”, chiosa Steiner); poi, senza che abbia alcuna colpa, infilato nel repertorio dei direttori di regime, enfatizzato da Karajan e dagli altri, reso tronfio monumento (assieme a Richard Strauss e a Bruckner) di un modo di intendere la musica che il protagonista giudica “superato” e “privo di originalità”.
Giorno dopo giorno, la solitaria resistenza di Steiner si configura sempre più come una difesa dell’arte, del gusto, della bellezza dinanzi alla rozzezza dei barbari. Il “rubare la musica” dei nazisti, il loro triviale appropriarsi dei luoghi della cultura, delle opere dei grandi compositori, è un’offesa contro cui vale ogni mossa, anche l’omicidio, se è il caso – di sicuro vale rischiare la vita, giocare il tutto per tutto, mirare a quell’ultimo obiettivo rimasto prima che la malattia si porti via tutto. Per preservare la musica che ama dalle ruberie dei nazisti e dei loro complici e dalle rozze e stupide tirate retoriche dei musicisti di regime (per “salvare Mozart”, insomma), Steiner è disposto anche a sporcarsi le mani, ad aiutare l’amico Hans a vergare i programmi del Salzburger Kultursommer, sempre più olezzante di “varietà da soldataglia”, e a difendere certe scelte di repertorio: malato, indebolito, isolato, accetterà di sobbarcarsi viaggi e impegni che lo debiliteranno ancora di più, ma insieme gli daranno la sensazione di essere ancora vivo. In un empito di combattività non privo di comicità, il protagonista si abbandona a proclami che suonano come dichiarazioni di guerra: “Salisburgo non sarà Bayreuth. Giammai!”

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Raphaël Jerusalmy, dopo essersi laureato alla École Normale Supérieure e alla Sorbona, ha fatto carriera nei servizi di intelligence militari israeliani. In seguito ha promosso iniziative di carattere educativo e umanitario. Oggi vende libri antichi a Tel-Aviv. Salvare Mozart è il suo primo romanzo.

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© Letteratitudine

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DIBATTITO SU LETTERATURA E MUSICA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/06/25/letteratura-musica/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/06/25/letteratura-musica/#comments Fri, 25 Jun 2010 21:52:21 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2270 imageQuesto post si è trasformato, nel tempo, in uno spazio permanente dedicato al dibattito sul rapporto tra letteratura e musica.
Si discuterà periodicamente su alcuni libri che rientrano nella tematica, coinvolgendo – laddove possibile – i rispettivi autori.
Ringrazio lo scrittore Claudio Morandini (consiglio la lettura di questa intervista sul blog “La poesia e lo spirito”), che mi darà una mano ad animare e moderare la discussione.
Massimo Maugeri
(11 ottobre 2010)

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POST ORIGINARIO DEL 25 GIUGNO 2010

letteratura-e-musicaVorrei avviare un nuovo e (spero) interessante dibattito su un tema particolare: il rapporto tra letteratura e musica…

Un rapporto che – a mio avviso – ha origini antichissime: basti pensare alla “musicalità” dei versi poetici o di certi testi narrativi (perché anche un romanzo deve “suonare” nella testa del lettore). Ma non mi riferisco solo a questo.
Mi piacerebbe poter prendere in considerazione, per poi analizzarli, i romanzi che si sono occupati di musica (e viceversa)… che hanno fatto vivere la musica all’interno delle loro pagine.

Di conseguenza, mi pongo (e vi pongo) alcune domande…

Che cosa hanno in comune letteratura e musica?
In cosa si differenziano nettamente?

In quali occasioni la musica è “entrata” nella letteratura (con particolare riferimento alla narrativa)?
Quali titoli di romanzi vi vengono in mente?

E in quali occasioni, viceversa, la musica ha “rappresentato” la letteratura?

Quale romanzo eleggereste come il più rappresentativo del rapporto tra musica e letteratura?

Per partecipare alla discussione inviterò alcuni autori che hanno scritto, di recente, romanzi che in un modo o nell’altro hanno a che fare con la musica.

Primi ospiti di questo forum (che spero possa diventare “permanente”) sono: Marta Morazzoni, Claudio Morandini e Achille Maccapani. Discuteremo dei loro nuovi libri e degli argomenti proposti.
Di seguito, le schede sui suddetti libri… e il contributo di Nicolò Carnimeo sul romanzo della Morazzoni.
Claudio Morandini mi darà una mano ad animare il post.

Mi raccomando… aspetto i vostri contributi.

Massimo Maugeri

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Il più recente romanzo di Marta Morazzoni si intitola “La nota segreta“, ed è pubblicato da Longanesi.
Questa, la trama del libro….

Nel monastero di Santa Radegonda, nella Milano del 1736, vive una ragazza dallo straordinario talento musicale. Il suo nome è Paola Pietra, una giovane contessa in clausura per imposizione della sua illustre famiglia. La voce di contralto, scura e potente, è la sua unica ragione di vita; ma la passione per la musica rappresenta una minaccia per la badessa del convento. Oltre la grata, nel corso delle messe cantate, un diplomatico inglese in missione presso l’arciduca d’Austria nota la sua voce e non la dimentica. Nasce così, da una suggestione del canto, da profumi e immagini rubate, l’amore proibito fra la novizia e Sir John Breval, a cui farà seguito la fuga dal convento sino a Venezia e da lì il viaggio della ragazza per nave in un mare pieno di insidie… Romanzo d’amore, romanzo d’avventura, romanzo di rivendicazione femminile, La nota segreta è un fiume narrativo in piena, che scorre fra intrighi e colpi di scena; al centro, un personaggio femminile straordinariamente consapevole e attuale, nel quale l’autrice si confronta e si riflette in un continuo, sorprendente gioco di specchi.

Recensione/ intervista a “La nota segreta” di Marta Morazzoni (Longanesi)
di Nicolò Carnimeo

Una voce unica, inconfondibile, negli acuti dello Stabat Mater lancia un messaggio disperato attraverso le fitte grate del convento di clausura di Santa Redegonda nella Milano del 1736. Colei che canta non conosce a chi sono destinati i suoi sentimenti, eppure nel profondo dell’animo sa che qualcuno è pronto ad accoglierli. Il modo in cui sboccia l’amore tra Paola Pietra monaca di clausura e il nobile inglese John Breval ne “La nota segreta” (Longanesi 2010) di Marta Morazzoni, ha del miracoloso, ma la magia è che ci si crede davvero, come se nell’amore vi sia una componente di predestinazione, più forte di qualunque condizione avversa. Ancor più straordinario è che in ognuno di noi, nascosta sotto coltri di cinismo, c’è ancora la consapevolezza che ciò possa essere reale. La fascinazione del racconto ci ha spinto ad incontrare l’autrice.

Paola Pietra è realmente esistita, come si è imbattuta in questo personaggio? Cosa ha trovato straordinario nel suo carattere?
Ho conosciuto Paola Pietra leggendo il romanzo di Rovani, ma è stato per così dire ritardato l’approccio all’idea di raccontarne la storia. Per molto tempo non me ne sono curata, fin quando il soggetto mi è sembrato di colpo come già formato e scritto, pur scegliendo di modificare e inventare tanti particolari e dettagli e addirittura cose sostanziali, altre dalla storia vera di Paola Pietra. La mia non voleva essere una biografia e non ho condotto studi particolari su questo soggetto. È stato solo il la di un’invenzione.

Quale è il suo rapporto e cosa rappresentano per lei la musica e il canto? Nel romanzo si nota non solo una spiccata sensibilità, ma una conoscenza profonda…
Il mio rapporto con la musica è molto tenace e fa parte della mia storia da quando ero piccola. Del resto lavoro sempre ascoltando musica e per conto mio avrei davvero amato molto saper cantare; quindi nella passione e nella vocalità di Paola e della sua maestra ho messo molto delle mie tensioni e emozioni, della mia idea di voce come strumento dell’anima ma anche del corpo.

Quanto di vero c’è nella storia narrata? Può descrivere come nell’immaginazione di un autore riesce a generarsi un sentimento così particolare capace d’essere portato solo dalle note oltre le grate di un convento?
Di vero nella storia narrata c’è la fuga di Paola e il matrimonio con l’inglese che si è innamorato di lei, nella realtà in altro modo rispetto alla mia invenzione, come è vero e documentato lo scioglimento dei voto da parte della Penitenzieria di Roma. A me è piaciuto inventare una storia che partisse da una sensualità e sensibilità così marcata attraverso aspetti di solito poco considerati, la voce di lei, l’olfatto, il tatto, cose apparentemente minori su cui si costruisce una storia di intensa profondità. Non so se credibili e meno e non mi preoccupo della credibilità dell’incontro che ho immaginato. Sono per altro convinta che certe storie e certe passioni nascano nei modi più inattesi e sfuggano alla razionalità. Paola Pietra mi ha dato il destro di costruire un’ipotesi così apparentemente assurda, ma segnata da una tensione che nasce per entrambi dal loro corpo prima che dalla loro mente.

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claudio-morandini-rapsodiaIl più recente romanzo di Claudio Morandini si intitola “Rapsodia su un solo tema. Colloqui con Rafail Dvoinikov” ed è edito da Manni.
Questa, la trama del libro…

Nel 1996 Ethan Prescott, giovane compositore di Philadelphia, si reca più volte in Russia a incontrare l’anziano collega Rafail Dvoinikov, per una lunga intervista che è anche l’omaggio di un discepolo nei confronti di un maestro quasi dimenticato. Il titolo del progetto, Rapsodia su un solo tema, rimanda a una delle partiture più emblematiche di Dvoinikov.
Il vecchio rievoca infanzia e giovinezza, incontri, amori, umiliazioni, con la libertà e il disincanto di chi finalmente non deve più rendere conto a nessuno. La sua musica e le sue parole dimostrano che si può rimanere liberi, come artisti e come uomini, anche sottostando alle direttive di un potere oppressivo.
Schiudendosi come una matrioska, questo romanzo combina tentativi di saggio, pagine di conversazioni e di diario, verbali di interrogatori, trascrizioni da un pamphlet settecentesco, per raccontare di musicisti che parlano di altri musicisti che raccontano di altri musicisti che immaginano la vita di altri musicisti ancora.
In sottofondo, la Storia, spesso dolorosa ed enigmatica, del Novecento.

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Bacchetta in levareIl più recente romanzo di Achille Maccapani si intitola Bacchetta in levare (edito da Marco Valerio).
Segue un breve scheda del libro…

Un direttore d’orchestra di fama internazionale, sconvolto da una lacerante crisi personale decide improvvisamente di smettere con la carriera artistica.

Con una serie di colpi di scena che condurranno ad esiti imprevedibili, sarà invece il ritorno sul podio a svelargli la verità che ad ogni costo cercava di rimuovere dalla propria vita. E a riconciliarsi col mondo che lo circonda.

Un romanzo che ci introduce dietro le quinte del mondo della musica sinfonica.

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AGGIORNAMENTO DEL 30 GIUGNO 2010
A proposito del rapporto tra letteratura e musica pop/rock, l’ufficio stampa della Fanucci mi ha segnalato il nuovo libro di Francesco Marchetti (già autore di saggi su Lucio Battisti). Si tratta di un romanzo, intitolato “Perdonami“, i cui protagonisti sono (musicalmente parlando) agli antipodi: Carlo è un giovane rockettaro (amante dei Deep Purple, degli AC/DC e dei Led Zeppelin); Marta, invece, stravede per Tiziano Ferro.
Di seguito, la scheda del libro. Invito Francesco Marchetti a partecipare alla discussione e a parlarci del suo romanzo.
Massimo Maugeri

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“Perdonami” di Francesco Marchetti (Fanucci, 2010)

Carlo è un giovane rockettaro, tutto Deep Purple e AC/DC, quello che si autodefinisce “un fan postgenerazionale dei Led Zeppelin”. Ma un giorno incontra Marta, ventitré anni, che ascolta solo Tiziano Ferro e che di musica non sembra affatto un’esperta, e proprio lui, che non pensava di poter ascoltare la musica “commerciale”, pur di conquistare il suo cuore si finge un estimatore del cantante. Con l’aiuto del suo migliore amico comincia a studiare la vita, le canzoni e ogni curiosità reperibile su Tiziano Ferro, e poco a poco fa breccia nel cuore di Marta. E mentre conosce meglio questa ragazza dal fisico perfetto e con una grande passione per lo sport, scopre che dietro l’apparenza c’è qualcosa di più: una storia personale tormentata dalla bulimia e dal difficile rapporto con una madre irraggiungibile e troppo bella. Nel cercare di capire Marta, Carlo finisce per spingersi troppo in là; e per riconquistarla potrà affidarsi solo alla musica che lei ama così tanto… perché “Un rockettaro che ascolta Tiziano Ferro è la fine del mondo”.

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AGGIORNAMENTO DEL 14 ottobre 2010

la-musica-e-il-mio-radar-nuzzoloAggiorniamo lo spazio inserendo notizie sul nuovo libro curato da Massimiliano Nuzzolo: “La musica è il mio radar“.
Tra fiction e realtà, diciannove autori famosi e meno famosi, giovani e meno giovani, scrivono di se stessi per rendere omaggio alla musica. Ne emerge un incredibile e variegato universo sonoro, a volte quasi impercettibile, pacifico e di sottofondo, altre volte dirompente e rumoroso, altre ancora divertente, spiazzante, ma sempre lì, a meno di un passo da noi, ben presente come un abbraccio, come un singolare compagno di viaggio dell’esistenza.
Dai dischi in vinile al mitico Walkman degli anni Ottanta, dalla musica come riscatto sociale e mezzo di comunicazione all’attuale processo di globalizzazione sonora e di saturazione del mercato, da Battisti, De Gregori e Tenco a Kurt Cobain e Bob Dylan, ricordi di infanzia, di tempi e luoghi lontani si mescolano in narrazioni oniriche e romantiche tra zarzuela e rock’n’roll.
Diciannove racconti che parlano di musica e di vita e di come la prima sia importante per la seconda, perché capace di legare imprescindibilmente a sé i momenti più indimenticabili dell’esistenza di ogni essere umano.
IVANO BARIANI – RICHARD BLANDFORD – FEDERICA DE PAOLIS – MARCO DI MARCO – RENZO DI RENZO – ELISA GENGHINI – TEO LORINI – ANDREA MALABAILA – IGNACIO MARTÍNEZ DE PISÓN – FEDERICO MOCCIA – RAUL MONTANARI – GIANLUCA MOROZZI – GIULIO MOZZI – PAOLO NORI – MASSIMILIANO NUZZOLO – TOMMASO PINCIO – MARCO ROSSARI – UGO SETTE – MAREK VAN DER JAGT

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ELENCO DI AUTORI E LIBRI CITATI NEL CORSO DEL DIBATTITO

Ho pensato che potrebbe essere utile inserire, in coda al post, un elenco aggiornato dei titoli citati nel corso della discussione. A ogni titolo corrisponde un link. Cliccandoci sopra si aprirà una pagina sul libro in questione.
Ringrazio Claudio Morandini che ha predisposto, dietro mia richiesta, l’elenco che segue.
Massimo Maugeri

  • Roberto Russi, “Letteratura e musica” (Carocci, 2005)
  • Thomas Bernhard, “Il soccombente”, Adelphi
  • Luciano Berio,“Lezioni americane” (Einaudi), e “Intervista sulla musica” (Einaudi)
  • Alex Ross “Il resto è rumore” (Bompiani)
  • Colloqui di Stravinskij con Robert Craft, Einaudi, poi Adelphi , le “Cronache della mia vita
  • Tiziano Scarpa “Stabat mater” Einaudi
  • Cristò “Come pescare, cucinare e suonare la trota” (ed. Florestano)
  • Minervini “Incanto classico” (Stilo)
  • Paolina Leopardi “Mozart” Il Notes Magico
  • Guido Conterio (”Città caffè”, “Fosca Bis”, entrambi Mobydick
  • Jean Echenoz “Ravel. Un romanzo”, Adelphi
  • Hélène Grimaud, “Variazioni selvagge” e “Lezioni private” , Bollati Boringhieri
  • Hella Haasse “La pianista e i lupi”, Iperborea
  • Patrizia Bisi “Daimon”, Einaudi
  • Thomas Mann, “Doctor Faustus”, Mondadori
  • Patrizia Rinaldi, “Piano Forte”, Sinnos
  • Bonnefoy “L’alleanza tra la poesia e la musica”, Archinto
  • Cortázar, “ Clone” in “Tanto amore per Glenda”, Guanda
  • Francis Scott Fizgerald, “Il Grande Gatsby
  • Matteo Di Giulio “Quello che brucia non ritorna”, Agenzia X
  • Toni Morrison, “Jazz”, Frassinelli
  • Paolo Maurensig “Canone inverso”, Mondadori
  • Nick Hornby “Alta fedeltà”, “Un ragazzo”, “Tutta un’altra musica”, Guanda
  • Murakami “Norwegian Wood. Tokio Blues”, Einaudi
  • Baricco, ”Novecento” e ”Le mucche del Wisconsin”, Feltrinelli
  • Andrea De Carlo, “Arcodamore”, Bompiani
  • Cecilia Chailly, “Era dell’amore”, Bompiani 1998
  • Renzo Rosso, “La dura Spina”, ISBN
  • Norma Stramucci, Paola Ciarlantini, “Il cielo leggero” Azimut 2008
  • Thomas Mann “Doctor Faustus”, Lev Tolstoi “La sonata a Kreutzer”
  • Thomas Bernhardt, “Il soccombente”, “Perturbamento”, “Ja”, Adelphi
  • Enzo Siciliano “Carta per musica” ,Oscar Mondadori
  • Enzo Siciliano ”I bei momenti”, Mondadori
  • Paola Baratto “Solo pioggia e jazz” e “Saluti dall’esilio”, Manni
  • AA VV “Mina, una forza incantatrice”, Euresis, 1998
  • R. Murray Schafer “Il paesaggio sonoro”, Unicopli/Ricordi 1985
  • Hans Werner Henze “Canti di viaggio”, Il Saggiatore 2005
  • Evan Eisenberg “L’angelo del fonografo”, Instar 1997
  • AA VV “Il silenzio” (a cura di Fabrizio Filiberti), Interlinea
  • AA VV “Dylan revisited – Racconti su Mr. Tambourine”, Manni 2008
  • Davide Sparti, “Suoni inauditi” e “L’ identità incompiuta. Paradossi dell’improvvisazione
  • Guido Michelone, “Mi ricordo il jazz. Guida bibliografica per “sfogliare” la musica
  • afroamericana”, Marcos y Marcos
  • Dino Buzzati, “Il musicista invidioso”, “La notizia”, “Paura alla Scala”, in “Sessanta
  • racconti”, e i libretti “Ferrovia soprelevata” – sic – e “Procedura penale” nei Meridiani Mondadori
  • Dino Buzzati, “Solitudini”, ne “Le notti difficili”, Oscar Mondadori 1971
  • Katò Havas “La paura del pubblico, Cause e rimedi – con particolare riferimento ai violinisti
  • Dino Buzzati, “Un amore”, Mondadori
  • Franco Marcoaldi “Sconcerto”, Bompiani 2010
  • Paola Capriolo “Il pianista muto”, Bompiani 2009
  • Giovanni Iudica “Il principe dei musici”, Sellerio, 2008
  • Giorgio Vigolo “Diabolus in musica – Prose ed elzeviri musicali”, Zandonai 2008.
  • Gert Jonke “La morte di Anton Webern”, Meridiano Zero
  • Antonio Pizzuto “Sinfonia 1923” Mesogea 2005.
  • Antonio Pizzuto “Sinfonia 1927”, Lavieri 2010
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