LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » dora albanese http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 LETTERATURA DI MADRI E FIGLIE: Sandra Petrignani, Dora Albanese http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/14/letteratura-di-madri-e-figlie/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/14/letteratura-di-madri-e-figlie/#comments Mon, 14 Dec 2009 15:53:53 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1422 sandra-petrignani-dora-albanese

Il filo conduttore di questo post è il rapporto tra madre e figlia: uno dei più importanti tra quelli contemplati nell’ambito delle relazioni umane. Un rapporto non sempre facile, ma essenziale. Che muta nel tempo, ma che – alla fine (forse) – rimane sempre uguale.

Vorrei discuterne con voi insieme a due scrittrici (appartenenti a generazioni diverse) che hanno pubblicato – di recente – due testi di narrativa che, a mio avviso, sono collegati proprio dal tema che propongo in questa discussione: Sandra Petrignani (scrittrice notissima) e Dora Albanese (esordiente, ma già nota ai frequentatori di questo blog).

Introduco subito qualche domanda con l’intento di favorire la discussione:

Rispetto agli altri tipi di rapporti umani, cos’è che caratterizza quello tra madre e figlia?

È un rapporto basato più sulla complicità o sulla conflittualità?

Quali sono i rischi? E quali le opportunità?

Quali sono le fasi della vita (sia della madre, che della figlia) più delicate? Quelle che influenzano di più il loro modo di relazionarsi?

E come è cambiato il rapporto madre/figlia, in questi anni? Che differenza c’è – oggi – rispetto a venti, trenta, cinquant’anni fa?

Infine… che differenza c’è – a vostro avviso – tra il rapporto madre/figlia e quello madre/figlio?

I due libri protagonisti di questo post, in un modo o nell’altro, affrontano questo argomento.

Il libro di Sandra Petrignani è un romanzo intitolato  “Dolorose considerazioni del cuore” (edito da Nottetempo). Ecco la scheda…

Dal suo rifugio sotto le coperte, Tina racconta a Vittoria, amica amatissima, persa e ritrovata, i fatti, il disordine e i ricordi degli anni in cui una brusca rottura le ha tenute lontane. Nel tentativo di ricondurre a un unico, ricorrente malamore i tanti modi in cui ha amato, Tina recupera dai suoi cassetti brani di romanzi incompiuti e li annoda alla testimonianza di un presente insopportabile. L’assistenza a due genitori anziani, incattiviti da una relazione infelice, riporta in superficie le sofferenze infantili e permette di ricomporre gli indizi di un antico rifiuto. Si delinea così l’”autobiografia di una borderline” dalla caotica vita sentimentale, nella quale gli affetti vivono di strappi e tormentosi ritorni. Eppure il cielo resta alto sulle rovine e una ricomposizione è possibile.


Dora Albanese, invece, per i tipi di Hacca, ha pubblicato la raccolta di racconti “Non dire madre“…

Attraverso il topos della maternità, Dora Albanese racconta tre metamorfosi sociali e culturali del Sud postbellico: la dura maternità della Lucania “interna”, ancora legata a feroci e dolcissimi stili contadini; la frustrata maternità piccolo-borghese di una Matera “piana”, dimentica della superba e misera civiltà dei Sassi; e, infine, la maternità delle nuove generazioni, sospese tra “ritorni al passato”, fastidi per un benessere di facciata, e goffi e ostinati tentativi di abbracciare il mondo, magari attraverso un altro topos di questo libro, quello dell’emigrazione. In Non dire madre il tema della maternità e della femminilità è ossessivamente indagato e sviscerato con franchezza, senza abbellimenti estetici e senza indulgenze; anzi, le donne di questo libro sono sempre colte in un estremo momento di quotidianità scoperta, finanche di buffa sciatteria. A Dora Albanese interessa il trucco che si scioglie sul viso, l’odore immediato della carne e della placenta, la calata delle maschere, l’emergere impietoso delle paure, delle viltà, dei sentimenti più immediati, senza temere né la crudeltà né il sentimentalismo – dilagante attitudine, quest’ultima, di un Sud che, a furia di recitare, ha pure imparato a recitare i sentimenti.

Seguono due recensioni: la prima, firmata da Stefania Nardini, riguarda il romanzo di Sandra Petrignani; la seconda, di Gianfranco Franchi, è relativa alla raccolta di racconti di Dora Albanese.

(Spero che Stefania e Gianfranco abbiano la possibilità di partecipare al dibattito).

Siete tutti invitati a discutere dei due libri e dei temi proposti.

Massimo Maugeri

P.s. Potete ascoltare le interviste che le autrici protagoniste di questo post hanno rilasciato alla trasmissione Fahrenheit. Quella di Sandra Petrignani è qui… quella di Dora Albanese è qui.

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Petrignani: la storia dell’età forte

di Stefania Nardini

A un’amica, un’amica mai perduta nonostante le pause che il tempo intransigente impone, una lettera vera, di quelle che vengono dal profondo del cuore. Da scrivere rannicchiandosi sotto le coperte.

Perché ci vuole uno spazio intimo. Caldo. Come quando i gatti decidono di stare da soli. Perché scrivere sotto una coperta significa mettersi a nudo. Lasciarsi andare alle emozioni, viaggiare senza soste ripercorrendo la propria vita, la propria storia.

Erano trascorsi tre anni da quando Tina si incontrò l’ultima volta con Vittoria. Una scelta? No. Piuttosto le circostanze, i cambiamenti, che spesso creano distanze che poi si rivelano apparenti. Tina per raccontarsi a Vittoria sceglie la parte di sé che meglio riesce a esprimere senza paure, filtri: la scrittura. Recupera romanzi incompiuti rimasti nel suo cassetto.

Creando un melange con il suo oggi. L’oggi di una donna matura che suo malgrado è portata ogni giorno a fare i conti con la sua vita, i suoi antichi problemi, i suoi mali. L’oggi di Tina sono i suoi genitori. Anziani, malati, sui quali il tempo implacabile ha tracciato un segno irreversibile, che si rivela in comportamenti discontinui, tra fantasmi del passato che cedono spazio all’universo fragile di chi da vecchio perde le difese.

Un romanzo, “Dolorose considerazioni del cuore” di Sandra Petrignani (ed. Nottetempo), che ha sicuramente un connotato generazionale che sboccia, pagina dopo pagina, nel racconto della protagonista, nel suo rapporto con una madre, tipica donna del dopoguerra, simile a tante altre madri dell’epoca: capace di amare e di fare male in nome di un “credo” conformista, in nome di una morale umorale, o per quell’esteriorità che si fa “veleno” da inghiottire nella vita quotidiana. Il mito del figlio maschio, la scuola dalle suore, il marito eroe da accettare comunque, l’uso di “parabole” per giustificare un semplice desiderio. E lei: la piccola Tina che cresce nel suo disagio che un giorno cercherà di superare con l’esperienza dell’analisi. Perché poi, come ci racconta bene Petrignani, la vita oltre al malessere costruito dal passato ti riserva quello della crescita, dell’esperienza, delle relazioni, dove tutto va e viene senza tregua. Si collezionano amori sbagliati che sembravano perfetti, si cede ai carnefici che ti vogliono vittima, si ama senza sapere dove si va…

Un libro da cui si evince un percorso esistenziale che giunge ad una maturità liberatoria, quando viene il momento in cui è la vita che si ricompone intorno alla propria storia. Ma è anche la fase del declino dei propri genitori, per i quali non resta che l’essenza dell’amore. Sono vecchi, dimenticano le cose, vanno accompagnati ovunque, accuditi, assistiti, e non possono far altro che abbandonarsi a una figlia che li ricorda come erano, per poi guardarli come sono.

Quando ascoltando la vecchia canzone “O main papà”, il padre si commuove e con Tina si ritrovano uniti dalle lacrime.

Sandra Petrignani che ha al suo attivo romanzi per i quali ha ricevuto importanti riconoscimenti, come “Care presenze” , “Ultima India”, La scrittrice abita qui”, giusto per citarne alcuni, con “Dolorose considerazioni del cuore” si dimostra ancora una volta una scrittrice di grande talento e di grande sensibilità, dote, quest’ultima, che esprime senza risparmiarsi mai. “Questo libro é nato dalla realtà di dovermi improvvisamente occupare di due genitori vecchi, non solo dal punto di vista accuditivo, ma anche pratico, economico – mi racconta. Uno crede di aver chiuso i conti con l’infanzia e invece una situazione del genere ti ributta addosso tutto, anche di più. Rileggi tutta la tua vita e i rapporti difficili con due persone che hanno determinato la tua vita e il tuo carattere…

Ho rovistato nei cassetti e ho davvero trovato manoscritti iniziati e lasciati lì in epoche diverse della vita. Ho riscritto ricucito inventato qualcosa (pochissimo).”

In questo testo emergono due sentimenti: il dolore e la grande gioia di vivere nell’amore, nel sentimento dell’amicizia. Sandra Petrignani ci lascia riflettere, ma ci regala anche la speranza di essere persone vere. Perché il dolore è come l’onda del mare. Va, viene. E quando c’è tempesta si infrange su quella scogliera che è la nostra esistenza. Una scogliera a tratti friabile. Là dove ha lasciato il segno tante, forse troppe, volte. Dove, appunto, c’è il cuore.

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Non dire madre: Dora Albanese

di Gianfranco Franchi

Prepotente come l’esordio di questo romanzo, di bellezza pari all’intensità e alla violenza dei sentimenti di una madre, della madre che racconta cosa significa dare alla luce un bambino, e cosa significa avere diciannove anni, in quel momento, ricordo d’aver letto poco, negli ultimi anni. Forse niente. La maternità è un mistero assoluto, per noi uomini; è solo il principio di una metamorfosi della donna che abbiamo amato e ameremo per sempre, è solo la sensazione di un evento fenomenale, incancellabile (e: giusto. Naturale, perfetto). E da quell’esordio in avanti mi sono lasciato andare, tra le pagine, come se fossi cullato. È strano, non ho accompagnato né guidato la lettura – sono stato, come dire, trasportato. Tutto a un tratto è cambiata la voce della narratrice, e ho scoperto che avevo di fronte una raccolta di racconti di una scrittrice lucana, classe 1985, esordiente; alle spalle qualche pubblicazione web e cartacea, qui alla sua opera prima. Ho guardato meglio la copertina di Maurizio Ceccato e ho sorriso. Mi sono accorto che nessuno mi stava cullando, e ho letto. Da letterato, ho apprezzato una gran sensibilità per i dialoghi, un grande amore per le proprie origini, un enorme orgoglio per Matera, per Stigliano, per le proprie radici; infine – magnifico – per il dialetto delle madri, per l’essenza di quella società contadina, matriarcale, tenace, forte. Ho sorriso di come mi s’era rovesciato tutto. Ho pensato al mistero della maternità, a quanto grande è questo enigma anche per le stesse donne che vanno a viverlo. È tanto grande che a un tratto narrarlo diventa impossibile: si devia nell’allegoria, si pasticcia col presente, ci si confonde tra un ricordo e un altro, si cerca una fine che non c’è (la fine è sempre una fortuna, un dono: ma è qualcosa di giusto, e naturale. Proprio come la nascita), si guarda nel lago delle proprie origini per dimenticare d’essere diventate origini voi, voi stesse donne. È bellissimo, e sbagliato (ma quanto è bello sbagliare? Quanto è sano?).

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Saluto l’esordio di una narratrice che farà scintillare la Lucania di vita nuova, nelle patrie lettere. Sarà come pioggia su una terra arida. Sarà madre di un canto di quella terra, di quelle persone, di quella cultura, che sin qua manca. E come spesso accade, saprà farlo meglio di chi vive lì, perché adesso lei da Roma osserva tutto con più chiarezza: sta interiorizzando e giudicando la sua vita, e la sua cultura originaria, e presto ne deriveranno nuove e grandi cose. Questo libro è il primo passo. È l’elegia dolorosa e magnifica della maternità, sin quando è romanzo. Poi, è prosa letteraria, espressione ancora d’una ricerca – d’uno stadio della ricerca. D’una ricerca di qualcosa che io non posso dire, non ne ho la prepotenza, né l’incoscienza; ma è qualcosa che Dora Albanese saprà plasmare.

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“Sarebbe bello uscire da questa camera e gettarsi nella pioggia, donare al buio il rosso delle mie ferite e il verde dei miei lividi, riempire dei miei capelli neri ogni fosso, tanto da annullare quest’annullarsi di colori, e appiattire tutto. Sarebbe bello, questa notte, ballare a piedi nudi e a braccia aperte, bagnata da gocce di pioggia, e affondare i piedi nella mia terra. Ho scelto di partorire in Lucania per dare in eredità a mio figlio le mie stesse origini. Ho sempre creduto, fantasticando, che Lucania fosse il nome di una madonna nata nei Sassi, e morta in quello strapiombo acquoso che è la Gravina”

(Dora Albanese, “Non dire madre”, p. 43).

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Tutto ha inizio nel reparto Ostetricia dell’ospedale Santa Maria delle Grazie di Matera. La narratrice, diciannove anni, sta per dare alla luce suo figlio; e intanto sogna di ritrovare le piccole cose quotidiane, di tuffarcisi e di non voltarsi più indietro; e il dolore la fa sentire “sgraziata” e “involgarita”. Sembra incredula lei stessa, che sempre s’era sentita libera ed emancipata, e aveva grandi sogni di libertà e d’incoscienza (ballare il flamenco a Madrid; ballare, e basta) tatuati sul polso (“duende”). È incredula, ferita e combattiva: le altre gestanti sono tutte più grandi, e hanno qualcosa di borghese (la responsabilità: la programmazione della vita, come fosse una cena) che lei proprio non sopporta. Non vuole interagire con loro, non vuole che osservino, giudichino, pensino. Non vuole che si rapportino a lei. “Che ne sanno, loro, di me? Che ne sanno del motivo per cui ho fatto un figlio a diciannove anni? Cosa ne sanno loro del perché ho scelto di sdoppiarmi proprio in questo ospedale, proprio in questa città, davanti agli occhi di tutti?” (p. 21).

La mamma deve starle vicino. Lei vuole. Già s’accorge che parla con quell’intercalare che si usa “solo da noi a Sud, un intercalare con cui presto dovrò prendere confidenza, anche se non significa niente, perché in questo momento avrei bisogno io di essere attaccata al seno” (p. 23). E poi allatta il bambino, davanti a tutti. Accetta d’essere madre. Sa che il bambino è anche frutto delle sue paure, “della mancanza di coraggio, della giovinezza e dell’inesperienza”; s’accorge d’avere paura del bisogno che il piccolo ha di lei.

Osserva sua madre. Cerca impossibili vie di fuga. Pensa. “Credo che mia madre abbia trascorso buona parte della sua vita a ingoiare tutto: i problemi famigliari, le incomprensioni con la suocera e le cognate, i problemi e la vita dei figli. La vita dei figli mia madre l’ha depositata, come un’ape regina, nella gola, e sta aspettando la carestia per ridistribuire i viveri” (p. 39). Pensa, prima di dormire, che è stato bello vedere la madre dormire al suo fianco. Adesso sarà difficile dire “madre”: essere madre annienta il sacrificio dell’altrui maternità.

Passa del tempo. Passano cinque anni. Riesce a crescere suo figlio senza l’aiuto di nessuno. Si sente una donna bella e sazia. Si sente simile alle mamme del Sud nella stanchezza e nei tormenti (“Mentre gli occhi scavano pozzanghere, noi madri teniamo sempre il pianto in bocca”, p. 50). Soffre perché suo padre non capisce; perché sembra offeso dalla sua scelta di vita, perché ripete che sua sorella più piccola può prendere il cattivo esempio. Vive a Roma, e trova pace nel paese che ha deciso sia la sua origine – il paese delle sue madri – Stigliano, terra di contadine forti e coraggiose. E condivide ricordi. Nonna che racconta di aver assistito a un parto in casa, e di aver visto ammazzare un bambino storpio; che racconta la disperazione dei poveri, e di come cercavano di abortire; di come sopravvivevano alle cose della vita. Con dignità, nonostante le eccezionali difficoltà: e con semplicità. E poi, ricorda un aborto accaduto senza che nemmeno capisse. Ricorda un’amica anoressica, a sedici anni. Ricorda come ha combattuto quel male. Ricordando il male, vince il male: lo nomina, lo domina.

Altrove. La sua storia d’amore è in crisi. Luca non ispira più senso di protezione. Lei vuole andarsene. Vuole liberarsi della fedina. Vuole andarsene portandosi via qualche libro di poesia, due vestiti, un caricabatterie. E poi perdona, si rimangia tutto, cambia idea. Lui le appartiene come la sua terra.

E da qui in avanti il romanzo scompare. Sembra di trovarsi di fronte a una raccolta di racconti vera e propria. Storie di amori più maturi, di un istruttore di scuola guida che si innamora di una suora, di una madre che parla della nostalgia di sua figlia, di povere donne meridionali emigrate a Roma in cerca di una fortuna che non c’è; di un vecchio amico che diventa donna, e per farlo finisce in coma, e se ne va; di squarci di Roma, dove “Il mio quartiere è una piazza, un piccolo paese nella metropoli. La Roma insonne e chiassosa non toccherà mai la mia piccola piazza in via La Spezia, e questa cosa mi rassicura”, in cerca d’una dimensione di paese che non c’è. Se vi pare.

Fonte: Lankelot

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VIDEOINTERVISTA A SANDRA PETRIGNANI

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BRANI ESTRATTI DAI LIBRI DI SANDRA PETRIGNANI E DORA ALBANESE

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da Dolorose considerazione del cuore di Sandra Petrignani (pagg. 60-61)

“Tina, che fai?”
“Tina, vieni qui”.
“Tina, non ti sporcare”.
“Tina, non stare in mezzo alla corrente”.
“Tina, mettiti il golf”.
Ero sempre nei suoi pensieri, non ero in nessuno dei suoi pensieri. Ero nelle sue parole, questo sí. Nel suo cuore no. Il suo cuore lo avevano preso i cacciatori, chissà quando. Era rimasta viva, apparentemente. In realtà non c’era piú, io non avevo mamma. Un simulacro dalla pelle liscia, dai capelli neri, dagli occhi brillanti, dalla bocca rossa. E le perle ai lobi delle orecchie.
Io gridavo “non andare via” ogni volta che si preparava a uscire e non poteva portarmi con sé, “non lasciarmi sola”. Gridavo senza voce, “resta con me”. Ero muta. La voce compressa sotto lo sterno.
“Tina, fa’ la brava, aspettami, torno presto,” come si dice a un cucciolo, un cane che piega la testa sconsolato.
Quanto dura “presto”? Che razza di misura è? Ore di abbandono e di solitudine. E quell’altra parola, “subito”, la piú bugiarda di tutte. Lei usciva e non tornava mai piú, tutte le volte.
“Non stare in mezzo alla corrente”, questo il viatico per affrontare la giornata e la vita. Correnti e umidità.
Precipitavo nel vuoto, e lei mi metteva la maglia.

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da “Non dire madre” di Dora Albanese (pagg. 18-19)

Oggi e pure domani, e per sempre credo, non sarò lo specchio di nessuno, e questo viso gonfio ricoperto da capillari rotti sarà la mia seconda faccia: di certo non mi dimenticherò mai di me, e ogni volta che mi specchierò vedrò dall’altro lato un miscuglio di carne aperta e di sudore.
Mio padre sbuca all’improvviso, inaspettatamente, davanti alla barella, e mi dice che è tutto finito e che ce l’ho fatta. Mia madre, invece, da lontano si asciuga le lacrime, e tiene fermo sulla bocca un sorriso che sa di disperazione.
Nonostante la sofferenza, il travaglio e i nove mesi di gravidanza, non mi sono mai sentita così lucida come in questo momento; nonostante abbia partorito senza alcun conforto chimico un bambino di quasi cinque chili, non mi sento affatto stanca, interiormente. È come se non fosse ancora successo niente, è come se il peggio dovesse ancora arrivare.
Adesso l’unico mio desiderio è riuscire a smettere di tremare come una rana, essere più dignitosa nell’aspetto e avere poca gente attorno.
Domando subito a mia madre, non appena mi si avvicina un poco, se ho gridato molto durante il parto; lei fa di no con la testa, e dice che non si è sentito quasi niente, e che sono stata forte e coraggiosa a non pretendere il cesareo.
In effetti è vero, credo anch’io di non aver gridato molto, anche quando l’ostetrica, mentre mi radeva i peli del pube, per sbaglio mi ha tagliato un pezzo di carne; sì, alla fine sono stata brava, ho solo sforzato la gola per sostenere il dolore come fece Cristo quando venne inchiodato al palo, ed è proprio a lui che ho pensato per tutto il tempo – però è sempre a lui che si pensa quando la sofferenza graffia nelle vene.

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da “Dolorose considerazione del cuore” di Sandra Petrignani (pagg. 76-77)

Eppure l’amavo. Io non sapevo niente, sapevo solo la forza del mio amore frustrato. Non sapevo la sua debolezza, la sua infelicità, la sua pazzia. La guardavo prepararsi per andare a una festa. La pelle perfetta. I capelli neri. Le perle bianche. Il lungo vestito frusciante.
Le spalle che restavano scoperte. Volevo baciarla.
Volevo sempre baciarla.
“No. Mi rovini il trucco”.
Baciami tu.
“No. Ho il rossetto”.
No no no. L’aria percorsa da elettricità. Non sapeva di essere bella. Sempre insoddisfatta. Sempre preoccupata di non essere all’altezza. Troppo elegante. Troppi vestiti da sera, troppe pellicce. A me piaceva la misura, mi piacevano le cose semplici, però l’ammiravo a bocca aperta. Era scintillante. Si trasformava come Cenerentola.
Anche la sua carrozza era finta, pronta a ritornare zucca. Lei lo sapeva e s’innervosiva. Che io le togliessi il rossetto.

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da “Non dire madre” di Dora Albanese (pagg. 28 – 29)

Entra la ginecologa senza chiedere permesso, e invita a uscire gli ultimi parenti rimasti in camera. La ringrazio con gli occhi, ma la dottoressa, che è donna e medico, capisce al volo il mio rifiuto. È stata lei ad assistere al parto, è lei che ha tagliato il cordone ombelicale gonfio di ossigeno, è lei che mi ha fatto molto male quando con le dita ha rotto le acque.
Anche mia madre viene allontanata dalla stanza e, prima di uscire, prende Alessio dal mio petto, e lo rimette nella culla.
– Non mi lasciare sola, mamma, aiutami, non abbandonarmi, non so cosa fare con il bambino se piange, resta con me, mamma, voglio stringerti la mano –.
Vorrei implorarla di rimanere, anche se non ne ho più il diritto.
“Rilassati, adesso” dice la ginecologa. Poi getta uno sguardo alla cartella clinica e continua a parlarmi chiamandomi per nome, come per farmi sentire al sicuro – proprio come accadeva a scuola quando la prof di matematica, per tranquillizzarmi, mi chiamava per nome per farmi svolgere le equazioni alla lavagna.
“Adesso, Erica, devi fare un ultimo sforzo. Chiudi gli occhi. Puoi anche mordere le lenzuola, se vuoi…”
mi dice rimettendo a posto la cartellina.
– Mamma, mamma, aiutami madre, madre aiuto, o madre sempre meno madre –.
Taccio, pensando al conforto materno che non arriverà mai.
Chiudo gli occhi come mi è stato detto, e trattengo le lacrime mentre la dottoressa continua a lavorare con distacco.
È giusto che io non dica mai più madre ora che il mio volto è racchiuso in una lacrima; è giusto che io non dica mai più madre, perché secondo lei, l’ho abbandonata prematuramente, e non ho apprezzato fino in fondo tutti i suoi sacrifici, anche se in realtà non è andata proprio così. Ho fatto un figlio punto e basta. Ho fatto di me una donna completa, ho messo le mani nella sabbia, e non la testa, come pure fanno molti a diciannove anni, e le conseguenze le pagherò io da sola, mentre i miei genitori lentamente si volteranno di spalle.
Il bambino dorme e io soffro, mi arrendo a quella donna che non porta sollievo ma altro dolore.
“Dobbiamo fare la spremitura dell’utero, durerà poco, ma devi essere forte, non possiamo permettere che si formino grumi di sangue, altrimenti bisognerà fare il raschiamento” dice mettendomi il palmo della mano sulla pancia ancora gonfia.
– Mi fai male, mi fai male, voglio morire, morire… perché non ho abortito… quella maledetta paura… avrei dovuto abortire… aia! aia! aia!… Voglio morire! –
Tengo i denti stretti, e piango ad occhi chiusi, mentre sto ferma e mi lascio torturare. Per il troppo pudore non getto neanche un urlo, e mi faccio spremere la pancia come fosse un’arancia, mentre tra le mie gambe scorre un fiume rosso.

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da “Dolorose considerazione del cuore” di Sandra Petrignani (pagg. 161-162)

Era seduta davanti a una tazza di latte.
“Non ha chiuso occhio stanotte,” dice Roda, “è preoccupata”.
“Preoccupata perché? Deve solo bere tanta acqua,” faccio io a voce alta in modo che lei senta. “L’azotemia si cura cosí, ha detto il medico. Se fosse una cosa grave, non si curerebbe con l’acqua”.
“Ho un tumore al cervello,” dice lei lasciando la tazza dove sta.
Cerco di ridere: “Ma che dici?”
“Ho paura”.
Le spiego con calma che non ha niente di terribile. È solo vecchiaia, vorrei aggiungere, ma non lo dico. Nessun tumore. Il cervello è un po’ lesionato, ma solo nella trasmissione dal pensiero alla parola. È una seccatura, lo ammetto. Ma sarebbe piú terribile che fosse davvero un cancro: operazioni, chemioterapia. Invece deve solo adattarsi a quella che è indubbiamente una menomazione, con cui però si può provare a convivere.
“Le parole crociate, non riesco piú a farle, nemmeno le piú semplici,” farfuglia disperata. La frase è quasi incomprensibile, ma ho imparato a ricostruire il senso dei suoi discorsi frammentati.
“Va bene, rinuncerai alla Settimana Enigmistica,” cerco tutta la dolcezza possibile per consolarla. “Farai altre cose”. Frugo nella mia mente alla ricerca di un’idea, la guardo. Ha i capelli in disordine, da un mese dice che vuole tagliarsi i capelli. Non le piacciono i parrucchieri del quartiere. E quello che era il suo parrucchiere, Roberto, è al centro della città, lontano.
Come fa ad arrivarci da sola? Penso alla riunione di lavoro che mi aspetta.
“Potresti andare da Roberto, per esempio. Se vuoi ti ci accompagno, ci sto andando anch’io”.
Ha un lampo di arresa incredulità negli occhi. Oppone resistenza per mettermi alla prova. “Devo vestirmi”.
Già pronta a rinunciare.
“Va bene, ti aspetto”.
L’aspetto nell’ingresso, leggiucchiando un giornale, dando occhiate corroboranti alla vetrata del terrazzo.
L’intrico verde delle piante è l’unico dettaglio dell’appartamento dei miei genitori che non ho mai sentito ostile.
Ricompare ancora in vestaglia e mi abbraccia. Improvvisamente mi abbraccia stretta stretta, e piange.
La sento piccola e fragile, me la ricordo piú alta di me, altera, fredda.
“Ho solo te,” dice chiaramente.
“E io ci sono e ti proteggo”.
Quell’abbraccio ha cambiato ogni cosa fra me e lei.
Mi propongo di tornare a sentire quell’abbraccio sul mio corpo ogni volta che sto per crollare.

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DUE RACCONTI DA PANCHINA. DORA ALBANESE, GERMANO MILITE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/04/due-racconti-da-panchina-dora-albanese-germano-milite/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/04/due-racconti-da-panchina-dora-albanese-germano-milite/#comments Fri, 04 Apr 2008 20:49:36 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/04/due-racconti-da-panchina-dora-albanese-germano-milite/ Nuovo post sulla rubrica “Giovani scrittori crescono (selezione under 30)”.

Vi propongo due racconti diversi, ma che si assomigliano.

Gli autori sono Dora Albanese (di cui ho già pubblicato due racconti qui e qui) e Germano Milite (che ha pubblicato altri suoi racconti sulla rubrica Iperspazio creativo).

Due racconti “intimisti” e introspettivi. Due racconti che presentano voci narranti alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Atmosfere diverse, ambientazioni diverse. Ma è proprio la “ricerca” ad accomunare le due storie.

E poi le panchine. In entrambi i racconti troverete panchine dove i protagonisti, a un certo punto, si siedono. Nel racconto di Dora la panchina è di pietra; in quello di Germano – invece – è di marmo.

La duplice comparsa dell’elemento panchina è puramente casuale. Eppure mi sembra che abbia una sua significatività. Per questo ho deciso di intitolare questo post: “Due racconti da panchina.”

Vi invito a leggerli e a commentarli, interagendo con i due giovani autori.

Buona lettura.

Massimo Maugeri

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I LUMI SPENTI DI PIAZZA NAVONA

di Dora Albanese

L’anima mia, uno strumento a corde,

canta toccata dall’invisibile

una canzone di gondoliere,

trepida di colori e beatitudine.

C’era qualcuno forse – ad ascoltarla?…”

Nietzsche, Le poesie

 

“… questa giovinezza tanto vantata

il più delle volte mi appare come un’epoca ancora rozza della nostra esistenza,

un’età opaca e informe,

malsicura e fuggevole .”

Yourcenar, Memorie di Adriano

 dora-albanese.jpg

Ho camminato a piazza Navona da sola questa sera, stretta nel mio paltò doppiopetto beige. E’ la prima volta dopo tanti anni che torno qui, sola. E’ così cambiata da allora, così buia e vuota, che quasi m’intenerisce lei, invecchiata e stanca e pure ancora calpestata da piedi e da carrozze.

E come il volto di una donna vecchia che getta i trucchi nel gabinetto, rassegnata alla perduta giovinezza, anche lei cessa d’indossare i trucchi che sono i lampioni, e non gli accenderà questa sera e chissà per quante altre sere ancora. Nel cielo volano come brevi fuochi d’artificio le stelline colorate degli ambulanti pachistani, corteggiatori giullari di donne e bambini.

Il mio sguardo come anche la mia memoria, difficilmente sostengono questo cielo romano lasciato spento, indi nero. Il buio anima le mura curve della chiesa, che sembra si inchinino ai piedi di chi passa, indi anche ai miei; e suggestionata piego il capo sul petto, mentre i ricordi mi riempiono gli occhi.

Entra nelle mie narici, come l’avessi ancora al mio fianco, il profumo di tabacco secco della pipa di Giorgio; e il cuore mi duole quando volto la testa e cerco il suo corpo con ancora addosso il paltò doppiopetto beige che adesso riscalda me. Lo cerco disperatamente, credendo ancora alle favole, ma ovviamente non lo trovo e non lo troverò mai più, non vedrò mai più questo paltò addosso a chi condivise con me il suo passeggio, sempre stretto al mio fianco; anche la mia ombra sembra avverta l’assenza di Giorgio: è forse per questo che adesso sul muro si torce.

Un capogiro mi stordisce un istante mentre vengo trascinata dal vorticoso sentimento nostalgico che si prende cura di me ora che sono sola.

Respiro savia il suo ricordo e mi cingo il busto con le mani, come avrebbe fatto lui stringendomi al petto, poi nascondo il mento in gola, e mentre cammino cerco con lievi movimenti oscillatori del capo, di accomodarlo il meglio possibile; come una gallina che si accovaccia nel suo nido: è una danza disperata la mia.

Oh, inconsolabile malinconia che circoli nelle vene come fossi sangue malato, liberami dal peso di questi ricordi che tanto mi lasciano in pena.

L’aria statica sembra ascolti il demone della malinconia che si gioca di me: per questa ragione è ferma di fronte alla mia danza.

Non basterà tutta la vita per accettare la sua scomparsa, non basterà il suo ricordo a consolarmi: lo rivorrei e null’altro poi potrebbe gioirmi.

Rivorrei indietro il suo modo di pronunciarmi al mattino e la sua urgenza di amarmi.

Ludo’ Ludo’ Ludovica, amore mio” ecco, diceva proprio così caro Lettore; con un lieve accento spagnolo ereditato dal padre, chinava le labbra sulle mie, carezzandole dolcemente, e con ancora la bocca impastata dalla notte – non temevamo il confronto, ci amavamo senza freni – la apriva al bacio, e io senza alcun indugio facevo lo stesso, gustando così ognuno il sapore dell’altro.

E certamente con un bacio salutava i miei occhi e con una mano i miei capelli, accomodandoli con le dita dal disordine della notte.

- Quanto l’ho amato – penso mentre mi siedo su una panchina di pietra, e penso pure che questa solitudine mi ammazza ogni giorno più fortemente. Mentre con una mano mi levo dagl’occhi il pianto fatto, con l’altra cerco – frugando nella borsa e scompigliando ogni cosa, com’avendo in corpo la stessa ansietà di un ladro, come fossi estranea delle mie stesse cose – cerco l’accendino e una Cartier, la tiro fuori dalla borsa tenendola già tra l’indice e il medio, poi l’accendo senza portarla alla bocca e subito prende vita: ho così la certezza che l’aria ha ripreso a muoversi.

Avevo quindici anni e una zingara alla stazione Tiburtina, trattenendomi con un sorriso dorato, chiese di potermi leggere la mano; feci finta di niente, ero troppo piccola, non avevo soldi a sufficienza e forse ella mi avrebbe solamente derubata. Non so perché mi ritorna in mente dopo tanti anni, non so perché caro Lettore mi ritorna in mente quel sorriso dorato e quella verità che la mia mano trattiene ancora adesso che la guardo, è come quando si volge lo sguardo al cielo ricordandosi di Dio.

Poco distante da me c’è un’altra panchina resa opaca dall’umidità. Due ragazzi ci si siedono sopra non badando a quel leggero strato di bagnato. Certo, queste accortezze non si hanno a sedici anni, perché è di quell’ età che si tratta caro Lettore, sono i loro zaini che me ne danno conferma: sempre presenti, mai fuori luogo, consumati e scarabocchiati, abbelliti da ciondoli e da sonagli. Si baciano nell’ombra di questa piazza ammalata, con i busti uniti e le gambe incrociate, imitando un amplesso che presto arriverà, magari quando lei sarà diventata maggiorenne. E’ bello pensare che per adesso si stanno solo immaginando nel gesto d’amore; e mentre lei, più piccola e dolce si contenta di essere pensata, lui di qualche anno più maturo, si diverte a fantasticare le labbra della sua giovane amica schiuse al godimento quando per la prima volta lo troveranno dentro.

- Mi piacerebbe avere un po’ del loro tempo.

Un violino e un’armonica suonano accompagnati dalle corde di una chitarra pizzicate come fossero teneri polpacci di fanciulla.

Il ragazzo che le fa vibrare ha la pelle colorata di nero, ed è così bello anche se la notte gli maschera il volto, che resto a guardarlo mentre lui indifferente continua ad amare quella donna-chitarra e a carezzarle il ventre col plettro, non alzando mai lo sguardo.

Lo guardo, provando ad accettare un’altra bellezza maschile, provando a emozionarmi ancora.

Capisco dopo poco che sono gli altri due strumenti – il violino e l’armonica – ad accompagnare le corde della chitarra. Il bel ragazzo suona una musica d’addio e canta graffiando la voce. Il mio corpo… una sensazione strana lo pervade, sarà forse il risveglio di chi abita in me: una dama dell’Ottocento, o forse un principe azzurro rimasto ancora rana.

Ecco, è di tristezza che sto parlando; essa si sveglia e si attorciglia al cuore come una serpe a contatto con la voce rauca del bel ragazzo che canta la sua vita, e che non chiede nulla: né spiccioli né pane, solo la possibilità di rivolgere il suo canto profondo al cielo e agli astri, a qualche messaggero che si nasconde tra le nuvole e che ci guarda, guarda i nostri corpi caro Lettore, banali contenitori del tempo che passa; li osserva mentre vanno avanti e indietro, girano a vuoto sempre alla ricerca dell’altro, magari di un gesto, uno qualunque, il più lontano possibile dalle proprie dimore, dai propri affetti; l’importante è che non li assuefaccia, che non li rimetta rapidamente nello scorrere quotidiano della vita.

La sigaretta finisce e la spengo premendo il filtro bruciato sulla panchina, poi la getto nel cestino verde che mi è accanto. I due ragazzi continuano a baciarsi e a guardarsi, il chitarrista gitano continua a cantare e suonare coi suoi due amici, sicuramente gitani pure loro.

Vorrei accompagnare questa melodia danzando all’aria aperta, senza vergogna; come quando ero bambina e nella terra di Calabria nel mese di agosto, mi divertivo la sera a ballare la musica di certi extracomunitari arabi.

Indossavo sempre una gonna rossa e un bustino a fiori – rossi pure loro – su uno sfondo bianco: risaltava così il mio seno acerbo e mai sfiorato, pronto a offrirsi al primo amore, come quello della ragazza che si bacia sulla panchina di fronte alla mia, e che porta addosso gli anni che portavo io allora.

Ballavo per trasgredire le regole, per far impazzire di rabbia e gelosia i miei genitori, per conquistare i sogni di certi uomini sposati. Adesso però, caro Lettore, ballerei solo per ricordare lui, diventerei una prefica danzante, getterei il pianto ai piedi e li muoverei a ritmo di rumba.

Giorgio era molto più grande di me, e mentre la mia vita stava iniziando ad affrontare la salita – la stessa che tutti, dopo aver compiuto la maggiore età si trovano ad affrontare – la sua iniziava a percorrere una lenta discesa, cosicché col tempo la sua immagine si aggravava maggiormente, perdendo i vivaci contorni maschili di cui mi ero innamorata.

Non avrei mai creduto di dover tornare in questa piazza senza di lui, eppure è successo, sono rimasta sola.

Mi aggiravo per Roma aggrappata al suo braccio, come un cieco aggrappato al suo cane, imparavo a memoria le vie, le strade, le piazze, senza ragionare, non occorreva allora che io ragionassi l’urbanistica romana, avrei camminato sempre con lui, oppure attraverso i ricordi, seguendoli fedelmente.

Mi abituai all’idea di essere in coppia, di apparecchiare per due, di raddoppiare la pasta da bollire, di stirare camicie, di attendere con ansia – sempre la stessa di un cane col suo padrone – la porta aprirsi.

Avrei voluto invecchiare con lui invece che crescere.

I due giovani innamorati stanno andando via, stretti nei loro zaini tenendosi per mano : chissà se li rincontrerò. Adesso che sono passati tanti anni da quando anch’io ero giovane, mi piacerebbe per un attimo voltare le spalle e trovare qualcosa che mi appartenne un tempo, magari un fermaglio colorato o forse degli orecchini, qualcosa insomma che mi colorasse il volto, o forse la prova che il destino lascia traccia di sé, di ciò che è stato.

- Vorrei non aver perso la strada.

Una coppia di turisti è ferma di fronte a una baracca, si fa ritrarre il volto da un’artista ambulante. Sembrano statue di cera i loro volti esposti al colore artificiale di una piccola lampadina giallo scuro attaccata da un filo rosso al tetto del piccolo riparo, e pare un faro in mezzo al mare, con i suoi bagliori sfocati.

I pachistani giullari rimettono a posto i balocchi in una sacca di corda consumata, mentre i bambini ritornano a casa con le loro madri: è l’ora di cena.

Anche le altre piccole baracche di souvenir – che illuminano leggermente la piazza anche loro con delle piccole lampadine – stanno chiudendo. Tolgono dal banchetto il Panteon e il Colosseo, imballandoli scrupolosamente, poi mettono in una sacca di tela i ritratti fatti e li conservano in un camioncino per esporli l’indomani senza neanche una grinza. E’ tutto quello che hanno: volti di stranieri ritratti in pochi secondi.

I musicisti hanno cessato di suonare, bevono una birra seduti sulle scale dell’istituto di cultura Cervantes, proprio di fronte alla mia panchina; a dividerci è solo la strada luccicante di umidità. Continuo a pensare che mi piacerebbe ballare la loro musica gitana, ma non lo faccio e mai più lo rifarò. Non ballerò mai più caro Lettore, ho capito che i ricordi devono rimanere tali, o forse solo delle perdute nostalgie.

Il ragazzo della chitarra, solo adesso sembra si sia accorto di me, indi mi guarda intensamente, come se ne avesse il diritto; e proprio adesso che mi sta guardando, già io non lo vedo più.

Decido di andare via; l’ora si è fatta tarda, e una donna non può sostare a lungo coi propri pensieri all’area aperta; tiro fuori dalla borsa – questa volta senza fatica – un’altra sigaretta, e l’accendo tenendola stretta tra le labbra; saluto la piazza carezzando la panchina fredda, stringo in vita la cinta del paltò e gettando un ultimo sguardo ai lumi spenti, mi incammino con ancora gli occhi pieni di ricordi.

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Dora Albanese è nata a Matera e ha 23 anni. Studia lettere moderne e pubblica racconti su giornali e riviste. Vive a Roma ed è già mamma di un bimbo.

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INFINITO

di Germano Milite

 

 

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Un giorno di circa tre mesi fa, fui colto da un’angoscia indescrivibile. Mi sembrava di impazzire dalla voglia di evasione. Avrei avuto bisogno di un viaggio, lungo e lontano… un viaggio che, come tutti i viaggi spirituali, non sarebbe servito solo per fuggire da qualcosa o da qualcuno ma, anche e soprattutto, per effettuare una ricerca interiore che solo lontano dalle cose che conosci a menadito può riuscirti.

Non avendo però a disposizione abbastanza soldi, dovetti accontentarmi di qualcosa di molto più banale. Presi l’auto e i miei risparmi e mi fiondai in un negozio di articoli sportivi… con 80 euro acquistai un bel paio di pattini in linea. Quel giorno pioveva ma non mi scoraggiai: li misi ai piedi e pattinai per circa due ore, senza avere idea di dove andare e senza curarmi della pioggia che in breve mi aveva infradiciato i vestiti, né degli sguardi un po’ straniti delle persone o del fatto che potessi prendermi una polmonite.

La prima cosa che potreste pensare è: vabè, bravo il pirla; alla fine volevi riprodurre la classica scena da film dove lui, solo e con il cuore a pezzi, se ne va passeggiando sotto la pioggia impietosa. Immagine trita e ritrita, utilizzata in migliaia di romanzi e di pellicole che parlano di storie d’amore finite male. Ammetto che, all’epoca, avevo l’animo straziato da una lei, la classica lei che ferisce i tuoi sentimenti, che ti abbandona e che ti dice, fredda come il ghiaccio, dopo aver condiviso con te un oceano di emozioni: “Mi dispiace, non ti amo più”. Tuttavia, quella mia pattinata “under the rain”, non rappresentò un modo per rendere cinematograficamente scontata la pena d’amore di un ragazzo sentimentale e ancora innamorato.

Quel gesto servì a farmi sentire libero; libero dal tempo, dall’ombrello, dal giorno e dalla notte, dalle prediche dei miei, dai consigli degli amici, dagli esami all’università e dalla voglia di non prendermi la polmonite. Quell’episodio, rappresentò l’appagamento del mio bisogno di tensione verso l’infinito. Ero arrivato a sentirmi così schiacciato dalle dimensioni spazio-temporali, da aver bisogno di spaccarle e di illudermi, almeno per un po’, che non esistessero.

Pensavo agli orologi, ai calendari, alle batterie che si scaricavano, ai pacchetti di gomme che finivano, al serbatoio della mia moto che si svuotava, alle date degli esami che si avvicinavano, al ciclo lunare, al petrolio che si stava esaurendo; persino all’aria che respiravo e mi sentivo così schiavo del tempo, delle cose che finivano e della vita stessa che mi sembrava sul serio di andar fuori di testa. Del resto il tempo nessuno lo può fermare, il tempo passa dall’inizio dei tempi… e allora?! Perché, all’improvviso, vedevo me e il mondo così schiavi delle scadenze?!

In particolare mi angosciavano le batterie che si scaricavano e il continuo bisogno di ricaricarle; il ciclo infinito carica/scarica mi inquietava in maniera indicibile. La batteria del cellulare si esauriva in un giorno, quella del mio lettore mp3 durava al massimo 2 ore; per non parlare di quella della macchina fotografica digitale… e poi quella dello spazzolino elettrico, del cordless. Io stesso, mi sentivo come una batteria e avevo l’impressione che il mondo mi stesse consumando, o meglio, scaricando.

Solo che, una volta finita la mia carica, non potevo attaccarmi a nessun trasformatore e ricominciare da zero…una volta finita l’energia sarei stato out, per sempre. E avrei voluto urlare ai passanti: “Fermatevi; fermatevi cazzo… risparmiate energie, sentite la pioggia, sedevi e non correte, godetevi il mondo, imparate a sentirlo; a viverlo e non a consumarlo”. Ma chi avrebbe dato retta ad un disperato bagnato fino al midollo con un paio di pattini ai piedi?! Non mi restava che godermi la pioggia, donandole i miei vestiti, la mia testa fradicia e tutto il mio corpo come luoghi di schianto. Sentivo di dover essere solidale con lei, visto che, i miei simili, facevano di tutto per scansarla. In effetti, da quando avevo smesso di girovagare e mi ero seduto su di una panchina di marmo, non facevo altro che pensare a quanto dovessero sentirsi sole le gocce d’acqua che scendono dal cielo: scaricate dalle nuvole ed evitate dagli esseri umani… nemmeno fossero schizzi di acido muriatico.

Così chiusi gli occhi, per sentire solo il rumore dell’acqua che veniva giù dall’alto, sempre più vogliosa di inondarmi di scrosciante affetto e mi parve, per qualche istante, di riuscire ad afferrare l’infinito e di avere davanti a me altri mille anni da vivere, confortato dalle lacrime del cielo e con il passo alleggerito dalle rotelle di un paio di pattini.

Su quella panchina, d’un tratto, il mondo mi sembrò incredibilmente semplice, elementare e insieme inspiegabile, proprio come il senso di infinito di cui avevo bisogno e che mi colpì, sparato da nuvole nere le quali, di solito, mi spingevano a ripararmi. Stille di infinito mi colpivano di continuo, senza sosta e mi ricaricavano. Poi aprii gli occhi e rividi il mondo così com’era: uomini con gli sguardi spenti nelle auto, donne che tiravano sfinite i loro pargoli urlanti, una coppia di amanti che si baciava, sotto un portone e io che, all’improvviso, mi sentivo un povero matto schiavo dei suoi viaggi onirici. L’auto era lontana dal punto in cui mi ero fermato e, la cosa, adesso, mi preoccupava non poco. Mi sentivo i piedi stanchi e il freddo dei vestiti bagnati sulla pelle; poi guardai l’orologio e, in quel preciso momento, realizzai che ero tornato nel mondo reale, nel mondo finito… nel mondo dove, chi resta immobile su di una panchina a prendersi la pioggia, si prende anche una polmonite e in cui, chi non guarda costantemente l’orologio, arriva in ritardo.

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Germano Milite ha 21 anni e studia Scienze Politiche Dell’Amministrazione. Lavora come giornalista praticante per la Julichannel (canale 921 di Sky) e scrive articoli sul sito di redazione. Gestisce un blog.

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I CAPPUCCINI DEL MARE (racconto di Dora Albanese) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/14/i-cappuccini-del-mare-racconto-di-dora-albanese/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/14/i-cappuccini-del-mare-racconto-di-dora-albanese/#comments Fri, 14 Sep 2007 21:21:17 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/14/i-cappuccini-del-mare-racconto-di-dora-albanese/ dora-albanese.jpgVi propongo un inedito di Dora Albanese (nella foto).

Leggetelo, se potete. Io l’ho trovato delizioso: una piccola pennellata narrativa sospesa tra sguardi e pensieri.

Vi anticipo una cosa. Vi ricordate il precedente racconto di Dora: Portare il pane a casa? L’abbiamo pubblicato qui.

Raccogliendo la proposta di un commentatore ho chiesto a Dora: “E se fosse il primo capitolo di un romanzo?”

Lei mi ha detto: “Non ci avevo mai pensato”.

E io: “Secondo me è il primo capitolo di un romanzo.”

Da qui è nata l’idea e la proposta: pubblicare un romanzo online a puntate; un romanzo che ancora non esiste, che deve essere scritto (ad eccezione del primo capitolo).

Dora ha accettato con entusiasmo.

Ma sapete qual è la particolarità? Il romanzo sarà interattivo, nel senso che VOI – con i vostri commenti – indirizzerete Dora sull’evoluzione dei personaggi e della storia. Naturalmente l’autrice sarà libera di seguire un’indicazione piuttosto che un’altra, o – se capita – di non seguirne nessuna. Insomma, una concezione modernissima di romanzo interattivo che prenderà corpo tra gli impulsi dei commentatori e la penna di Dora.

Vi piace l’idea?

E ora il racconto. Leggete e commentate, please.

(Massimo Maugeri)

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La sala da pranzo dell’albergo di Maratea è poco distante dal mare. Si ferma proprio sulla spiaggia, come fa la libellula rossa d’estate. Quella momentanea sospensione, quell’impercettibile distacco da terra, rende tutto così feribile, così fragile, che a stento riesco a guardarlo il mare, seduta da qui. Mi sembra così profondo e infinito, che i miei occhi si fermano a riva, non vanno oltre. Credo che è solo da lontano che si percepisca esattamente la profondità del mare, e il suo pericolo. Il sapore di morte che ogni onda lascia sulla spiaggia. Invece, quando si è dentro, si smette di tremare, di guardare lontano; lo guardi dritto negli occhi il mare, i mille occhi, dei mille pesci azzurri che lo vestono, e si vedono le alghe, che gli sfiorano le gambe. Tutto è zumato, ha senso solo ciò che è efficace. Il mare è il riassunto di ogni vita, dalla paura più grande che ci rappresenta, alla pisciata di ogni uomo e di ogni cane. Il mare siamo noi: gente umida, uomini d’acqua, impastati con carne di sabbia. Il mare è il figlio che nasce e nuota, lasciando alle spalle il suo passato da feto, e pezzi di placenta galleggiante. Ieri notte, un uomo dell’età di mio nonno, è annegato nella sua piscina. “Aveva i pesci nella piscina, forse a guardarli gli è girata la testa ed è caduto dentro, o forse gli avranno cantato una melodia strana”. Ha detto così mia nonna, quando le ho telefonato, per chiederle come andava la salute. Le volevo dire che è troppo facile dare la colpa ai pesci, dire che sono degli assassini, le volevo dire che quell’uomo forse si è suicidato, che aveva una depressione inguaribile, che la moglie lo tradiva con un ragazzino di diciotto anni. Ho lasciato stare, le ho risposto: “sì, nonna forse è proprio come dici tu… che dobbiamo fare, pazienza”. Perché mia nonna è anziana, perché è convinta che ci sarà la fine del mondo, perché crede che gli occhi bruciano per colpa del vento dell’Africa, che arriva fino qua, in Basilicata. Le onde continuano a poggiarsi sulla spiaggia, a solcarla, senza tregua. Anche una ragazza della mia città è stata solcata da otto onde minorenni, senza tregua. L’hanno trasformata in tanti piccoli granelli di sabbia. Da allora, è scomparsa, nessuno più riesce a vederla. La immagino in camera sua, rannicchiata nel letto, ancora dolorante, mentre aspetta, aspetta come una farfalla, il soffio del vento, per essere trascinata via, per morire, per non volare più, e il solo pensiero mi provoca i brividi. Anche la sala è rossa, come la libellula. Il pavimento è fatto di tanti quadrati rossi e larghi, con gli interstizi neri. Neri di sporco. Di anni di sporco. Di anni di piedi passati a fare colazione o a cenare, di piedi che avevano tutti nel passo una decisione da prendere; se andare al mare o tornare in camera a dormire un altro po’, se restare seduti a leggere il giornale aspettando che la turista della duecentosei scendesse, o tornare dalla propria moglie lasciata a dormire. Sono tutti piedi “belli di giorno”, quelli che vivono nell’indecisione; non sapranno mai, alla fine, se salirle le scale, o scenderle per sempre. Quanti piedi decisi e innamorati incontriamo per strada e nella vita, anche se non lo sapremo mai, perché i piedi non parlano, ma si fanno capire.

I piedi di Adriana, la signora della centonove, sono allegri e frettolosi. Si fanno vedere poco, preferiscono nascondersi dentro stivali a punta, nonostante il caldo. Ma il loro passo, quello di certo non possono nasconderlo. Il piede destro tende a scappare verso l’esterno, anche se il piede sinistro, lo raggiunge in fretta; passano pochi attimi, e poi subito si coordinano; decidono che passo prendere; se scalpitante e fiero, o addomesticato e umile.

Oggi Adriana ha preferito non prendere l’ascensore. Scende le scale di corsa con gli stivali, assumendo un’ andatura animalesca. Scalpita come fosse un cavallo da doma. Alza i tacchi da terra, e prova gusto a ritmare il passo e a dargli una cadenza, a far sentire a tutti noi che siamo già seduti, in attesa che l’ordinazione venga servita, che lei c’è, anche oggi. Ha i capelli sciolti stamattina, biondi un po’ arruffati alle punte; forse non li ha ancora pettinati. Anche gli occhi sono quelli della sera passata; la matita è ancora lì, secca; la toglierà dopo aver fatto colazione, forse si tufferà direttamente in piscina, o forse farà una doccia in camera, restituendo il giusto candore alla sua pelle. Ha addosso una sottana ricamata, di lino verde oliva, che con l’abbronzatura, le dona un certo significato. Adriana significa qualcosa, stamattina. Credo che poche donne riescano ad avere un proprio significato. E’ bella, di una bellezza da ammirare, da approvare, e pure io che sono donna, resto a guardarla, imitando la sua compostezza e il suo naturale piacere nel farsi guardare, senza vergogna.Il cameriere la raggiunge e l’accompagna a sedere.

“Buongiorno signora, come è andata la notte… dormito bene?”

“Sì, sì… bene. Mi porterebbe un cappuccino? Grazie, e…”

“Certo signora, mi scusi, diceva… ?”

“E un caffè… un caffè da portare via, grazie.”

“Grazie a lei signora. Il numero della stanza?”

“Perché, a cosa le serve?”

“Per verificare se tutti riescono a fare colazione signora… se tutti i clienti dell’albergo hanno usufruito del servizio incluso nell’ospitalità, signora.”

“Ah, sì certo, certo… mi scusi, credevo voleste salire a portare il caffè… ”

“Come preferisce signora”.

“La 109… il numero è 109”.

“Grazie signora… le porto subito il cappuccino”

“D’accordo, grazie”.

Finalmente anche il mio cappuccino è arrivato. Il cameriere me lo serve accompagnandolo con un mazzo di buganvillea.

“Sono i fiori del mare, madame, per lei”.

Lo ringrazio, un po’ imbarazzata, poi mi guardo attorno, cercando di capire se ci sono altre buganvillea sui tavoli di chi ha ordinato la colazione, ed è proprio così. Sorrido, quando vedo altre donne girare la testa, alla ricerca di un qualche ammiratore segreto, e poi sbuffano un poco, o abbassano lo sguardo, quando scoprono che non c’è nessun bell’uomo dietro l’angolo, pronto a distrarle dalla noia del matrimonio. Sorrido nel vedere come è facile incantare una donna, illuderla di essere al centro del mondo, come fosse una sirena in mare aperto.

Anche Adriana ha ricevuto il mazzo di fiori; ma a fianco ai fiori c’è un telefono.

“Signora abbiamo suo marito in linea, vuole sapere cosa ha ordinato per colazione… quante colazioni ha ordinato cioè… vuole che glielo passi?”

“No, la prego… gli dica che sono salita in camera” risponde Adriana a voce bassa, con il panico in gola.

“La signora è salita in camera, spiacente signore, io non posso dirle altro… il numero della camera?”

Il cameriere posa la mano sul microfono della cornetta, poi si rivolge a Adriana: “Signora, suo marito vuole sapere il numero della sua camera…”

“Dica che non lo sa, che non mi ha servito lei, inventi una scusa, la prego”. Risponde agitata.

“Spiacente, signore, ma non ho servito io la signora, non conosco il numero della camera in cui alloggia… se vuole, provo a chiedere alla reception se la possono aiutare…”

“Bravo, bravo” dice Adriana, sussurrandogli un complimento.

“D’accordo, signore… comunicheremo alla signora che chiamerà più tardi… arrivederci, buona giornata”.

Adriana tira un respiro di sollievo.“Grazie, grazie davvero, lei… lei mi ha salvata… grazie”.

“Si immagini, signora, questo è il mio lavoro… allora, vuole che le salga il caffè in camera… vuole aggiungere altro?”

“Sì, grazie mi porti una colazione completa”.

“Certo, signora”.

Il cameriere, un uomo anziano con i capelli bianchi come la panna, non si è scomposto affatto, ha sostenuto la conversazione con un distacco quasi professionale, come se nella vita avesse fatto solo questo, coprire i clienti infedeli, magari avrà in cambio una mancia importante, penso alzando le sopracciglia. Adriana è immersa nel cappuccino, tira su la tazza, fino a coprirsi l’intero naso, lasciando fuori solo gli occhi. Pare una bizantina. E’ triste, e pensierosa. Chissà per chi è l’altra colazione, se per un ragazzo giovane, o per un uomo anziano, o forse per una donna.

Mentre penso alla scena vista, mi accorgo che il cappuccino che sto bevendo è ancora bollente; l’odore del latte a lunga conservazione emerge con il fumo, e dà un sapore sgradevole alla bevanda. Getto uno sguardo al mare, che si è scurito, il tempo oggi non è dei migliori. Adriana sorride al cameriere amico e con un cenno del capo gli dice che può salire a portare la colazione. Anche io vorrei salire, entrare in quella camera e soddisfare il mio desiderio voyeuristico. Peccato, peccato che sia tutto finito, che il mare è mosso, e che il cappuccino, come tutti i cappuccini degli alberghi di mare, sia troppo caldo, e senza sapore.

Dora Albanese

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Dora Albanese è nata a Matera nel 1985. Studia lettere moderne e pubblica racconti su giornali e riviste. Vive a Roma.

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