LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Emma Di Rao http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 LUIGI PIRANDELLO, “DIMISSIONARIO” DALL’ESISTENZA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/05/luigi-pirandello-dimissionario-dallesistenza/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/05/luigi-pirandello-dimissionario-dallesistenza/#comments Mon, 05 Apr 2021 08:20:23 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8753 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine Saggistica Letteraria” è dedicato alla figura di Luigi Pirandello con questo contributo di Emma Di Rao

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Luigi Pirandello: dal suo involontario cadere sulla terra a dimissionario dall’esistenza

di Emma Di Rao

“Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli di un altipiano di argille azzurre sul mare africano”. Con un linguaggio che è stato privato della sua funzione logico-comunicativa e ricondotto ad espressioni quasi aurorali, Luigi Pirandello immerge la propria nascita, facente parte di un comune destino di sofferenza e casualità, in un’atmosfera irreale e sospesa. In tale evento, verificatosi il 28 giugno 1867, si cela un surplus di significato che può dedursi dalla stessa concezione dell’autore: esso rappresenta, infatti, solo uno degli innumerevoli eventi connessi con l’involontario cadere dell’uomo sulla terra, in seguito al quale, strappato al divenire cosmico e condannato a consistere in una forma limitante e limitata, egli è destinato ad una perenne lacerazione fra molteplici scelte esistenziali. Una di queste scelte, una delle possibilità di ‘Pirandello persona’ è, a nostro avviso, quella di ‘Pirandello scrittore’, che potrebbe configurarsi come una maschera capace di osservare e rappresentare la tragedia dell’esistere con il distacco di chi “ha capito il gioco”.
“Forestiere della vita”, al pari dei suoi personaggi, l’autore affida loro la propria prospettiva, una prospettiva dolente e critica, derivante dal “vedersi vivere” e dall’aver acquisito la consapevolezza che non sarà possibile ricomporre l’unità della coscienza, stratificata e sottoposta alle oscure pulsioni dell’inconscio. Ciò potrebbe trovare origine in un’esperienza personale, in una crisi di identità, come suggerisce una lettera del 7 gennaio 1894 alla futura moglie: “ In me son quasi due persone. Tu già ne conosci una; l’altra, neppur la conosco bene io stesso”. Ed è anche per questa ragione che in molti suoi testi la personalità appare soggetta a un processo di sdoppiamento dell’io che, come ha osservato Franco Zangrilli, diviene il referente delle inquietudini, delle instabilità interiori e delle schizofrenie dell’uomo contemporaneo.
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/2f/Luigi_Pirandello_1919.jpgSe si tiene presente che l’anima – da intendersi sul piano psichico, non spirituale-religioso – è percepita, nell’opera del Nostro, come un non luogo, come un campo di eventi in cui tutto è vero e tutto è falso a seconda delle circostanze, non ci sfuggiranno ulteriori implicazioni, come, ad esempio, il fatto che l’autore non è più autorevole garante di una vicenda coerente che rifletta l’organicità del reale.
Chi, infatti, si addentri nell’ universo della scrittura pirandelliana per rinvenirvi una verità o un ordine possibile può cogliere soltanto il non senso dell’esistenza e la tragica assurdità della condizione umana. Il lettore è inoltre destinato a imbattersi in una moltitudine di personaggi stravolti dalla sofferenza, attori di “quella molto triste buffoneria” che è la vita, la cui quotidiana rappresentazione costringe alla scelta di una maschera da indossare. Quest’ultima, deprivata di un qualsiasi principio ontologico che la giustifichi, viene a coincidere con una forma rigida e statica in cui l’uomo, separatosi dal flusso inconsapevole del divenire, rimane per sempre intrappolato.
Nell’ambito dell’interazione sociale, giudicata da Pirandello del tutto artificiosa, si assiste dunque ad “una vicendevole imposizione di parti prestabilite, che, d’altronde, permette di riconoscere un’identità istituzionalizzata”. Come più volte è stato osservato, l’uomo pirandelliano non può infatti prescindere dall’accettazione collettiva, ma, nel contempo, aspira a liberarsi dalle finzioni del vivere civile e da ogni costrizione morale e sociale. Lo si evince chiaramente da un passo dei Quaderni di Serafino Gubbio: “Inevitabilmente noi ci costruiamo, vivendo in società…già, la società per se stessa non è più il mondo naturale, è mondo costruito anche materialmente. Dentro queste nostre costruzioni restano ben nascosti i nostri pensieri più intimi, i nostri più segreti sentimenti. Ma ogni tanto, ecco, ci sentiamo soffocare; ci vince il bisogno di gridare fuori, in faccia a tutti, i nostri pensieri, i nostri sentimenti tenuti per tanto tempo nascosti e segreti”.
Risulta evidente che lo spazio entro cui ogni identità si colloca è sicuramente contraddittorio, definendosi, da una parte, come anelito ad una dimensione libera ed autentica e, dall’altra, come prigionia e inevitabile solitudine. Una solitudine che non deriva solo dall’essere rinchiusi in una forma, ma anche dalla sostanziale incomunicabilità cui sono condannati gli individui a causa dell’ingannevole maschera verbale. Il ricorso costante, da parte dei personaggi, al ragionamento al fine di far coincidere prospettive conflittuali è infatti votato all’insuccesso, anche se testimonia comunque l’importanza dell’alterità. Si potrebbe addirittura sostenere che lo sguardo altrui, necessario all’affermazione dell’identità, è l’elemento che contribuisce a disgregare quest’ultima. A ragione, il vivere sociale, nella poetica di Pirandello, è stato paragonato a un palcoscenico straniante, a una festa sinistra, priva di giocondità – come quella rappresentata nella novella C’è qualcuno che ride -, il cui senso è ignorato da tutti.
File:Luigi Pirandello 1932 (3).jpgLa dissociazione della coscienza, scaturita dal vedersi vivere “come davanti a tanti specchi quanti sono gli occhi degli altri”, si coniuga, nel personaggio pirandelliano, con l’angoscia derivante dalla scelta di una maschera che, nel teatro dell’esistenza, coincide con una costruzione del tutto innaturale e non definitiva: “Oggi siamo, domani no. Che faccia ci hanno dato per rappresentar la parte del vivo?…Maschere, maschere…Un soffio e passano per dar posto ad altre. Ciascuno si racconcia la maschera come può – la maschera esteriore. Perché dentro poi c’è l’altra, che spesso non s’accorda con quella di fuori.”.
Significativo, al riguardo, quanto osserva la studiosa Anna Frabetti, la quale intravede nel concetto di maschera un duplice livello di significazione, metaforico ed espressivo, nello stesso tempo. La maschera, che si concretizza nell’interpretazione di un ruolo, rinviene una sorta di correlativo espressivo nella propensione di Pirandello a connotare la figura umana per mezzo di un tratto distorto e iperbolico della fisionomia o per mezzo dell’alterazione delle proporzioni corporee. Lo scrittore agrigentino risulta così “grande visionario dell’anamorfosi, straordinario pittore della sconciatura e della disarmonia”. Indubbiamente, nel corpus delle Novelle per un anno, il cui carattere aperto e la cui frantumazione in autonome schegge narrative corrispondono alla parcellizzazione della vita stessa, si rileva che il venir meno di ogni tratto autentico della figura umana e il prevalere di particolari anomali concorrono a creare quei ritratti “sconciati” in cui la descrizione iperespressiva evidenzia elementi spesso sgradevoli o repellenti. Occorre però ricordare che tale rappresentazione di una natura umana dai tratti caricaturali e abnormi è anche la rappresentazione di una soggettività sempre negata e impossibilitata a realizzarsi. Insomma, come ha osservato Gesualdo Bufalino, è la frantumazione dell’identità a tradursi a livello espressivo in un “disturbo della visione”, ovvero in una deformazione delle maschere fisionomiche. Cristallizzazioni esemplari della disarmonia e dell’inautenticità, le maschere assurgono, come afferma Graziella Corsinovi, a “simboli emblematici, densi di continui rinvii psicologici ed esistenziali”.
Vale la pena ricordare che il prototipo di tutte le maschere pirandelliane, in virtù del suo valore paradigmatico, è quello delineato nel saggio sull’Umorismo, ovvero la “vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili”, che “pietosamente s’inganna” di conservare l’amore del giovane marito. In questo caso, il ricorrere al trucco non solo muta vistosamente i lineamenti, ma finisce per sovrapporre una seconda maschera a quella già indossata, come accade a molti altri personaggi “imbellettati”, fra cui Enrico IV, “nel quale l’evidenza sguaiata del trucco diviene espressione visiva dalla sua condizione di erma bifronte”.
Ed ancora, Anna Frabetti pone in relazione l’inautenticità artificiosa della maschera pirandelliana con la concezione della maschera, di radice heideggeriana, formulata da Ludwig Binswanger, con riferimento al Manierismo in ambito figurativo, culturale ed esistenziale. In Tre forme di esistenza mancata, lo psichiatra e filosofo svizzero sottolinea come l’elemento costitutivo del Manierismo sia l’angosciosa, disperata impossibilità di essere se stessi e, insieme, la ricerca di un appiglio in un modello attinto alla “pubblicità del Si”. Tale espressione, nel significato di “si ritiene”, “si dice”, indica, secondo Martin Heidegger, il rischio della conformità, l’indifferenza quotidiana che soffoca, nella dimensione pubblica, ogni tratto originale.
Sia la maschera pirandelliana che quella manieristica si configurerebbero come una sorta di corazza imposta dalla società cui è necessario appartenere, una corazza resa necessaria dall’incapacità dell’uomo di aderire alla propria “ipseità”. Secondo la studiosa, è proprio l’adeguarsi dell’uomo pirandelliano e dell’uomo manieristico ad un modello prefissato, al fine di far parte del ‘gioco’ sociale, a sortire come esito, per la totale innaturalezza, la deformazione e la “sconciatura”.
Inoltre, come nel Manierismo si attribuisce importanza al cerimoniale e alla forma esteriore, così nell’opera dello scrittore agrigentino si assegna centralità alla ‘parte’: nel suo scritto Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, egli ribadisce che “il macchinismo è voluto, è la maschera per una rappresentazione, il giuoco delle parti, quello che vorremmo o dovremmo essere, quello che agli altri pare che siamo, mentre quel che siamo non lo sappiamo neanche noi stessi; la maschera è la goffa,incerta metafora di noi…”.
File:Luigi Pirandello.jpgD’altra parte, l’alternativa alla “mascherata, continua, d’ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontari” è una voragine, un abisso “a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo d’impazzire”. Una pazzia che somiglia a un’inquietudine angosciante, a una fuga verso una realtà in cui gli eventi risultano privi di ogni consequenzialità logica e che rappresenta una dimensione ‘altra’ da contrapporre a quella che opprime l’individuo. I folli, pertanto, sono “i diversi”, coloro che, respinti dal giudizio ordinario e convenzionale della società, scelgono la diversione, la fuga, l’altrove. In tal modo, l’individuo finisce per collocare se stesso al di fuori della vita, in una sorta di inconsistenza priva di quella maschera in cui si sommano i vincoli sociali, come accade a Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno e centomila: nella scelta radicale della dissoluzione della sua persona, questi rifiuta persino il proprio nome in quanto etichetta che non può racchiudere la vita fluida e indeterminata cui egli ha deciso di aderire. Se infatti molti personaggi pirandelliani restano disperatamente agganciati a un nome, a un atto che la vita fa scontare loro come una condanna senza remissione, altri, invece, decidono di svuotare quel nome e quell’atto di ogni contenuto e significato.
L’ultima produzione pirandelliana potrebbe testimoniare, come ha sostenuto Gabriella Corsinovi, una “riconquistata leggerezza dell’Essere”, ovvero una riconquistata libertà dalle finzioni psichiche e dal tormento della parola-logos. A conferma della nuova condizione dell’io, il mago Cotrone, nei Giganti della montagna, dichiara: “Io mi sono dimesso. Dimesso da tutto: liberata da tutti questi impacci ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci disperde e solleva in misteriose lontananze. Guai a chi si vede nel suo corpo e nel suo nome.”.
Questo è il Pirandello – ribadisce la studiosa – che vorrebbe ricomporre la lacerazione provocata dalla caduta originaria, quando “l’uomo è precipitato dall’Essere all’Esser-ci per la morte”.
La propensione verso la fragile consistenza del sogno sembra dunque imporsi nell’ultima fase dell’iter sia letterario che esistenziale, come si evince da alcune dichiarazioni dello scrittore, quale, ad esempio, quella contenuta nello scritto Insomma la vita è finita, in cui si legge: “Ormai preferisco sognare che vedere”. Subentrano, a questo punto, le esperienze di suggestiva evanescenza e le atmosfere fantastiche della raccolta Una giornata, i cui personaggi non sono ritratti con i moduli espressionistici che si addicono a chi è “alla ricerca di una comunicazione-scontro col mondo”, ma con stilemi decisamente surrealistici, del tutto consoni a chi si muove in una dimensione atemporale e in una indeterminatezza spaziale. E mentre la morte apre un varco sull’oltre e conferisce finalmente l’autenticità negata in vita, si sfalda il legame con la maschera corporea e con la fisicità “sconciata”.
Accanto a luminose visioni oniriche, come quelle di Effetti di un sogno interrotto e de Il chiodo, si osservano, adesso, forme chiaramente denarrative: la maggior parte delle novelle facenti parte dell’ultima raccolta s’interrompe infatti “su un’esitazione tra veglia e sogno, tra reale e irreale” e su una sospensione interpretativa accentuata dal travalicare nel lirismo fantastico. Basti pensare alla novella eponima Una giornata che sembra assolvere un compito conclusivo, anche se risulta più verosimile credere che lo scrittore agrigentino non abbia mai rinunciato a rilanciare il messaggio della fondamentale incompiutezza di ogni operare.
“Poetica allegoria della vita dal punto di vista della morte”, questo testo è ritenuto una sintesi ideale di diversi motivi presenti nell’opera pirandelliana: un uomo, privo di nome, di voce e di volto, gettato da un treno in corsa in una stazione di passaggio, si ritrova in una città sconosciuta e fra una moltitudine di uomini “sicuri di non sbagliare, senza la minima incertezza, così naturalmente persuasi a fare come fanno”. La vicenda sembra alludere al tema dell’individuo che, ‘gettato’ nel mondo e posto in una situazione da lui non voluta, sperimenta nel vivere civile il più totale disinganno esistenziale. Il corso della vita è qui sintetizzato simbolicamente dalle diverse scene che evidenziano lo smarrimento conoscitivo del soggetto, il quale, in un presente del tutto immobile, vive una condizione tale di straniamento da non riconoscere i segni della sua identità. Quando egli cerca poi in uno specchio la conferma della propria esistenza, vede scorrere su quella lucida superficie le numerose immagini del suo passato. Da una remota lontananza, gli occhi di un bambino scoprono nel viso di un vecchio che la giornata della vita sta volgendo al termine, mentre la fredda lastra diviene sinistra metafora di morte.
File:Seis personajes en busca de autor pg 10.jpgEstraneo a se stesso e agli altri, condannato a consistere in forme stabili e determinate, l’uomo, davanti alla morte, è ancora irreversibilmente solo, ma, finalmente libero dalla limitatezza asfittica della ‘trappola’, può dimettersi dall’esistenza.
Non può negarsi che la disumanizzazione surreale che accompagna il processo di liberazione dalla maschera corporea debba intendersi come la ricerca, da parte dell’autore, di forme espressive atte a rappresentare la nuova condizione dell’uomo. A noi piace comunque condividere l’ipotesi suggestiva di chi ha ritenuto che Pirandello, ormai presago della morte imminente, abbia voluto concedere ai suoi ultimi personaggi una libertà che va oltre la fantasia e la follia, ovvero la libertà della morte. Come il protagonista di Una giornata, lo scrittore si dimetteva forse dalle proprie maschere, anche da quella di ‘Pirandello scrittore’, e riconosceva nella morte il superamento di ogni parcellizzazione dell’esistenza, nonché la liberazione da quel mondo in cui, una notte di giugno, sotto un pino solitario, in una campagna d’olivi saraceni, era stato lasciato cadere.
Ed infine, nelle sue disposizioni testamentarie, “Bruciatemi. E il mio corpo sia lasciato disperdere”, affiora la speranza nutrita dallo scrittore di tornare alla forza dinamica del flusso ininterrotto della vita, dopo aver preso commiato dalle azzurre argille e dal mare africano.

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OGGI: ricordando Elena Salibra http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/20/oggi-ricordando-elena-salibra/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/20/oggi-ricordando-elena-salibra/#comments Mon, 20 Jul 2020 15:25:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8542 Nell’ambito delle rubrica di Letteratitudine Poesia” ospitiamo il secondo dei due saggi dedicati a ricordare la poetessa Elena Salibra, firmati dalla professoressa e saggista letteraria Emma Di Rao.

Il primo saggio, incentrato sull’opera Nordiche, la quinta raccolta poetica di Elena Salibra, è disponibile cliccando qui.

In questa sede ci occupiamo del saggio dedicato a oggi.

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Note in margine a oggi

di Emma Di Rao

Il titolo oggi, che Elena Salibra attribuisce al suo ultimo componimento, scritto il 28 novembre 2014,[1] era già apparso in un testo della prima raccolta poetica, Vers.es,[2] testimonianza dell’esigenza costante, nell’autrice, di fissare la dimensione presente per individuarne la rilevanza nel proprio percorso interiore. Il contenuto di quella poesia lascia intravvedere una sorta di arresto  del soggetto lirico, che appare desideroso di quiete e di oblio, ma anche propenso ad affidarsi alla dimensione del sogno, come si evince dai versi: <<Lasciamoci dormire un’altra notte/ nella direzione dei sogni chè/ nella distanza non vadano via>>. Il contesto temporale è quello del tramonto che, allungandosi <<oltre il limite del giorno>>, guida i passi di due figure, l’io lirico e il consueto, silenzioso interlocutore,[3] verso la dimora di campagna che una sbarra chiusa  rende inaccessibile. Nella luce persistente della sera di fine estate, che avvolge e dilata lo spazio oltre i confini del reale, si muovono lievemente  le due presenze, che non percepiamo distinte, ma unite in un intimo ‘noi’ e immerse nella natura sino a fondersi con essa. Le suggestioni che tali immagini lasciano affiorare evocano l’atmosfera dominante  ne La pioggia nel pineto, cui rimanda, peraltro, anche un elemento abbastanza puntuale:<< sui nostri volti bruni>>, variazione minima del dannunziano <<sui nostri volti silvani>>.[4] Dal testo sembra lecito evincere  che l’oggi si identifica con una prospettiva che si colloca al di là della condizione presente, con quella dimensione onirica  in cui si dissolve ogni ostacolo che venga a frapporsi tra l’io e il suo desiderio di evadere in direzione di un ‘oltre’. Ne è prova evidente il ricorrere di termini  quali << limiti>>, << sbarra chiusa>>, <<chiudere di luce>> su cui, tuttavia, finisce per prevalere la <<direzione dei sogni>>, unitamente alla formulazione della speranza che essi <<nella distanza>> non vadano perduti.
imageE proprio in tale visionarietà si rinviene quell’elemento che, affidandosi a diramazioni nascoste e profonde,  salda l’Oggi di ieri con  l’oggi del presente. Se, infatti, ogni componimento della produzione lirica di Elena Salibra si configura come un microcosmo autonomo e in sé compiuto, è pur vero che i vari testi sono connessi da una fitta trama di richiami e corrispondenze che concernono sia l’ambito tematico che quello espressivo. Da qui la ripresa del titolo – con l’unica variante grafica della lettera minuscola – in una composizione che, configurandosi fatalmente come l’ultima, non può non ritenersi di fondamentale importanza. Ancora una volta, ma in una situazione di certo più drammatica, l’io poetante avverte l’esigenza di far confluire l’oggi nel bilancio del proprio itinerario esistenziale  e di analizzarlo con lucida consapevolezza. Il componimento, il cui titolo costituisce la chiave essenziale di lettura, assolve dunque la funzione di suggellare un percorso che, fin dalla raccolta di esordio, aveva rinvenuto nel tempo -così come nello spazio-  la categoria entro cui si snodano le più significative avventure interiori. Nel discorso poetico salibriano, infatti, è frequente la propensione a far riaffiorare il passato,[5] su cui non viene, però, esercitata una mera, sterile nostalgia: il recupero memoriale scaturisce dal desiderio di evocare un luogo, un incontro, un oggetto perché essi svelino, nella distanza temporale, un ulteriore, più riposto significato. In altri casi, anche in virtù di un’innegabile riluttanza nei confronti  del futuro,[6] l’io rimane ancorato alla precarietà del presente che, a causa dell’aggravarsi della malattia, diviene l’unica realtà che si intenda comunicare.
Oppresso da una condizione psicologica di angoscioso smarrimento e da una sofferenza che non logora soltanto il corpo, il soggetto lirico, che sempre più tende a identificarsi con l’io biografico, si volge ad analizzare e interpretare gli esigui e dolorosi segnali provenienti da una quotidianità cui si vorrebbe aderire con le forze residue,  ma che infonde solo un paralizzante senso di incertezza e blocca ogni pur minimo gesto. Nei desolati luoghi ospedalieri, che concorrono a minacciare l’identità, riducendola ad arido numero o insignificante lettera, si avverte l’opaca pesantezza del vivere su cui non è ormai possibile  esercitare  quella ‘doppia visione’ che, in altri contesti poetici, aveva consentito di cogliere significati sottesi   e di avviare un processo di sublimazione del reale. Persino la misurazione del tempo è affidata a un elemento tristemente prosaico, imposto dalle cure mediche, quale il lento  cadere di un liquido instillato attraverso una fleboclisi – come si evince dal cadere ‘alla rovescia’ della goccia – che dovrebbe permettere di <<guarire almeno un poco>>, sebbene l’impegno quotidiano di <<imparare a morire>> risulti, per l’io, la prospettiva forse più veritiera. L’oggi è dunque scandito dalla durata di un ‘protocollo d’intervento’ e impone di vivere in una situazione di sconsolata inerzia, nella quale si può soltanto ricordare il passato più recente, ovvero quei risvegli e quello stato pensoso di veglia durante i quali il malinconico dialogo con ‘l’altro’ – da identificarsi con la ricorrente figura del coniuge dell’autrice-[7]rivela una volontà in procinto di disarmare.
Il disorientamento e la timorosa esitazione del soggetto lirico si traducono in movimenti  irregolari e convulsi, propri di chi non sa collocarsi nè sulla linea del tempo né su quella dello spazio, come suggeriscono i versi: << ti toglie/il respiro ti alzi confusa t’aggiri>>. Vale la pena osservare che l’espressione <<t’aggiri>> rimanda a << ti aggiravi diego>>, incipit del componimento di apertura de la svista, ballando diego.[8] Ascrivibile a una memoria involontaria dell’io poetante o  consapevole raccordo intertestuale, l’<<aggirarsi>> di oggi è segno del mutamento esistenziale nel frattempo intervenuto: non più la vitale danza di chi, come il ballerino madrileno, riempiva di sé lo spazio circostante <<per diramarsi in un esistere proteo, onnipervasivo>>,[9] ma il vano e concitato <<aggirarsi>> di chi appare sospinto verso il basso.[10] In tale ambito il soggetto rimane inesorabilmente confinato, quasi si trattasse dell’unica dimensione ora possibile e dal punto di vista ontologico e dal punto di vista morale. E’ quasi superfluo notare che l’uso del tempo presente,  in <<t’aggiri>>, riconduce le azioni, in modo definitivo,  all’orizzonte breve dell’oggi, imposto dal venir meno di ogni prospettiva di sopravvivenza. Da qui, a nostro avviso, deriva il rifiuto ostinato e  categorico del salire, <<neppure in ascensore>>, che la studiosa M.C. Cabani interpreta come riluttanza  da attribuire al presentimento dell’ultimo viaggio.[11]
Eppure, nella chiusa del componimento, <<leggi il tuo destino/nella punta là in alto dei Climiti>>, si delinea, inaspettato, l’affrancarsi dell’io  dal luogo straniante in cui  la contingenza della malattia lo ha rinchiuso: quell’altezza cui non si credeva di poter aspirare viene raggiunta per mezzo di un percorso del tutto alogico, che sostituisce a uno spazio fisico un luogo squisitamente interiore. Al turbamento avvertito dinanzi al ritmo incalzante del display che, mutando lettere e numeri, governa in modo dispotico la fila dei ‘dannati’, fa infatti da contraltare quella visionarietà che permette di  svelare  un’indeterminata lontananza spaziale. In virtù di una disposizione contemplativa quasi incantata e sospesa, il soggetto lirico è  <<capace>> di proiettare il proprio sguardo ‘oltre’: in lontananza, sulla vetta dei monti Climiti, elemento geografico della città natale, ma anche realtà del tutto smaterializzata, si rinviene la chiave di lettura per interpretare la propria esistenza e concludere una ricerca avviata in passato.
Il tempo, il cui corso  appariva poco prima spezzato dal tragico incalzare degli eventi fino a ridursi in elemento minimo, in << goccia/che cade alla rovescia>> - tale immagine dello stillicidio è presente, con valenza metaforica, anche in un componimento de la svista -[12] ,  sembra assumere una dimensione circolare: riavvolgendosi su se stesso, viene a configurarsi come una linea ininterrotta che cancella ogni soluzione di continuità e riannoda il filo dell’esistenza al punto di origine, ai luoghi, quasi mitici, dell’infanzia e della giovinezza dell’autrice.
Ci sembra significativo notare che la parte di testo racchiusa fra i trattini, come frequentemente si riscontra nella scrittura salibriana, non risulta incidentale o accessoria, ma introduce la voce di ‘un altro sé’ , che appare in grado di osservare da una prospettiva distaccata, quasi opposta a quella che determina l’inquieto aggirarsi dell’io. Rilevante deve considerarsi in <<leggi>> il conservarsi della seconda persona  al di fuori dei trattini, ascrivibile al fatto che è proprio il momentaneo sdoppiarsi dell’io a permettere di ampliarne la prospettiva, legittimando la conquista di una superiore visione. Pertanto, <<leggi il tuo destino>> potrebbe intendersi come l’esortazione che ‘l’altro sé’ rivolge all’io – di cui rappresenta comunque una rifrazione – perché questi rinvenga << nella punta là in lato dei Climiti>> il senso più profondo della sua esistenza.
A una lettura non semplicemente cursoria di oggi non può sfuggire, inoltre, che il termine ‘Climiti’ compariva già nel componimento dal titolo …anche mio:[13]<< ora rifletto sui limiti/della mia carne tra i clivi dei climiti>>, in cui le parole rimanti, <<limiti>> e <<climiti>>, creano un sotteso rapporto di opposizione tra ciò che è noto e finito e ciò che, già allora, appariva misterioso e quasi irreale.
Per quanto concerne l’ambito stilistico, il testo appare caratterizzato, come ogni altro componimento dell’iter poetico di Elena Salibra, da una ricercata cifra espressiva e da un’elevata letterarietà a determinare la quale concorrono non pochi artifici retorici: la presenza dell’allitterazione, come in <<ricordando i risvegli>> e in <<ti alzi…t’aggiri>>; il ricorrere dell’enjambement, come in <<non sono/ capace>>, dove la collocazione di <<capace>> all’inizio del verso conferisce all’aggettivo un particolare rilievo sul piano semantico; la presenza, nel verso finale, del suono della vocale ‘a’ che, tonica in <<là>> e in <<alto>>, suggerisce l’idea di una vastità indefinita. Ed ancora, si osservi che il ripetersi della consonante liquida ‘l’ , nel verso conclusivo, produce effetti di levità e fluida scorrevolezza, che ben assolvono la funzione di esprimere la nuova condizione dell’io. Infine, è innegabile che  la rarefazione dei segni di interpunzione consente alla scrittura lirica di configurarsi come il fluire ininterrotto di un discorso avviato e concluso nell’interiorità.
Del tutto interiore è, infatti, la visione evocata dal termine  ‘Climiti’ che si carica di una intensa suggestione allusiva  e in cui l’uso della lettera maiuscola non è certo da giudicarsi casuale, poichè concorre a evidenziare la funzione svolta, nella vicenda del soggetto,  dal recupero di una dimensione aurorale.
E’stato dunque sufficiente sillabare ‘Climiti’ perché il destino avesse un nome o, meglio, una direzione in cui  potesse compiersi. E’ stato sufficiente sillabare ‘Climiti’  perché si potesse finalmente trovare, al pari della stella marina, la <<giusta posizione>>,[14]
Avrebbe avuto termine, di lì a poco, a causa dell’infausto esito della malattia, la vicenda dell’io biografico, ma prosegue, destinata a oltrepassare l’oggi, la vicenda eterna dell’io lirico.

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NOTE


[1] Il testo è stato di recente pubblicato, con una breve nota introduttiva di V.Manca, in Nella punta là in alto dei Climiti, Quaderno della Fondazione IL Fiore , edizioni Polistampa, 2016.

[2] Oggi, Vers.es, Diabasis 2004, p.37.

[3] Sulla presenza del ‘tu’, come <<necessità di un altro da sé o un altro sé>> , nel discorso poetico salibriano, cfr.  M.C.Cabani, <<Introduzione a il martirio di ortigia>>, Lecce, Manni, 2010, p.8. Al riguardo, si leggano anche le considerazioni espresse da M.Minutelli, in <<Introduzione a Nordiche>>, Soglie, anno XVI,1,2014, pp.53-54.

[4] Sulle reminiscenze dannunziane nella produzione lirica di Elena Salibra ,cfr. M. Santagata, <<Introduzione a sulla via di Genoard>>, Lecce, Manni, 2007, pp.5-6.

[5] Al riguardo, v. M.C. Cabani, << Poesia per l’occhio, poesia per l’orecchio>>, Il Portolano,51/52, 2008, p.46.

[6] Come è stato osservato, << Se c’è una dimensione assente e forse non del tutto pacificata è quella del futuro>>, Ibidem.

[7] Su tale <<indefettibile presenza tutelare>> e sulla funzione che essa svolge nel discorso lirico di E.Salibra si veda M.Minutelli, <<Introduzione a Nordiche>> cit., pp.53-56.

[8] E.Salibra, la svista, Catania, A&B editrice, 2011,p.7.

[9] D. Salvatori, Le prospettive intrecciate: spazi, corpi e presenze ne La Svista, in Nella punta là in alto dei Climiti cit.,p.112.

[10] L’espressione <<t’aggiri>> ricorre anche in <<t’aggiri in dormiveglia/nella stanza. spalanchi/gli scuri della finestra>>, Un colibri, in Nordiche, Stampa 2009,Azzate 2014). In questo caso, l’autrice fa  riferimento all’inquieto aggirarsi del coniuge nell’intimo spazio familiare, dove si consuma tristemente l’attesa di un nuovo giorno.

[11] Al riguardo, si leggano le considerazioni espresse da M.C.Cabani, Le diverse scrivanie: studiosa, docente e poeta, in Nella punta là in alto dei Climiti cit., p.52.

[12]Si leggano i versi:<< fisso la boccia di vetro appesa a fianco/ e piano piano ancora due. una goccia >>, Il salotto, in la svista cit.,p.25.

[13] Da il martirio di ortigia, Lecce, Manni,2010 p.16.

[14] In vena, Nordiche, Stampa 2009, Azzate 2014.

* * *

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NORDICHE: ricordando Elena Salibra http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/10/nordiche-ricordando-elena-salibra/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/10/nordiche-ricordando-elena-salibra/#comments Fri, 10 Jul 2020 14:35:24 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8534 Nell’ambito delle rubrica di Letteratitudine Poesia” ospitiamo il primo di due saggi dedicati a ricordare la poetessa Elena Salibra, firmati dalla professoressa e saggista letteraria Emma Di Rao.

Questo primo saggio è incentrato sull’opera Nordiche la quinta raccolta poetica di Elena Salibra

* * *

L’Io di Nordiche: né Ulisse né Tiresia

di Emma Di Rao

L’inscindibile legame che intercorre tra vita e letteratura si rinviene anche in Nordiche[1], la quinta raccolta poetica di Elena Salibra, e ne costituisce il tratto più significativo. Dissimulata, o persino assunta come materia su cui viene esercitata un’ironia sottile ed elegante, la dolorosa contingenza della malattia si configura, infatti, come la prospettiva da cui l’io poetante rappresenta i molteplici aspetti del reale – finanche elementi riconducibili alla quotidianità o dettagli apparentemente insignificanti -, sui quali interviene quella “doppia visione” che consente di rinvenire in essi un significato ulteriore.
L’ambito del vissuto individuale è oltrepassato mediante il dar voce alla ricerca del significato da attribuire alla nostra esistenza, soprattutto quando essa è minacciata dal sopravvenire di circostanze drammatiche. È tuttavia innegabile che l’esperienza del dolore produce una sorta di potenziamento della capacità di vedere e di conoscere il reale, coniugandosi con una straordinaria lucidità. Come nelle raccolte precedenti[2], il discorso lirico non accoglie, però, toni che non siano pacati e sobri, dando luogo a una cifra stilistica che coincide con una scrittura elegante e armoniosa, acquisita dall’italianista siracusana anche in margine ad uno studio rigoroso del patrimonio letterario classico e moderno. Alla resa letteraria e alla creazione di un dettato sempre ricercato -anche quando si fa ricorso a toni volutamente dimessi e colloquiali – contribuisce indubbiamente la memoria poetica che, nell’itinerario lirico salibriano, si manifesta nella fitta trama di reminiscenze mutuate da poeti quali Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, Montale. Si tratta di echi o citazioni che, come è stato a ragione affermato[3], “non fanno macchia” e non sono di ostacolo alla creazione di un linguaggio poetico autonomo. Basti pensare al tema ricorrente del varco, che, pur rimandando innegabilmente a Montale, rappresenta anche un’innovazione rispetto al modello di riferimento. E’ fin troppo noto, infatti, che per il poeta ligure tale immagine si configura come una non comune e imprevedibile possibilità di sfuggire alla prigione della realtà fenomenica[4], come la rivelazione improvvisa di un segreto profondo, celato nella natura[5], da cui l’io lirico rimane escluso e a cui può accedere soltanto la figura femminile[6], quell’interlocutrice che, nelle Occasioni, al pari della Beatrice dantesca, assumerà il ruolo di visiting angel. Nella scrittura poetica di Elena Salibra, il termine varco si connota di una diversa sfumatura: non allude a una casuale ed improvvisa apertura che consenta di sfuggire al non senso della temporalità, ma si correla strettamente alla ricerca costante di un aldilà[7]. Si tratta di una tensione che caratterizza l’intero percorso salibriano[8], ma che in Nordiche assume uno spessore più profondo in virtù della dolorosa vicenda biografica, configurandosi come desiderio di trascendere la dimensione contingente, seppure in una prospettiva del tutto laica.
In alcuni casi, tuttavia, il soggetto lirico non appare deciso nella ricerca di un tunnel di passaggio e finisce per confessare la propria esitazione, come si evince dalla chiusa di Giorno 3, in cui si allude al dissolversi dell’oscurità e a quel sottile, ambiguo confine che separa il sonno dalla veglia:

[…]oggi nel disfarsi
delle tenebre si desta il sonno
alla mia voce…
non sono pronta al varco

image

Se il mistero indecifrabile dell’oltre produce nell’io una sorta di timorosa perplessità[9], è pur vero che non vengono invalidate le possibilità di conoscenza del reale. Dalla quinta raccolta di Elena Salibra si evince infatti la salda fiducia dell’autrice nel mondo sensibile, non ritenuto mai vuota e illusoria parvenza[10], ma realtà oggettiva cui si intende aderire con le forze residue e la cui pienezza si desidera ricomporre, pur in una situazione di estrema precarietà, con la medesima fermezza con cui ci si era prefissi di riparare pazientemente una conchiglia spezzata[11].
A nostro avviso, le reminiscenze montaliane non sono ascrivibili all’intervento di una memoria involontaria: preferiamo ipotizzare che l’autrice ricorra a tale presenza letteraria[12] non tanto perché  si prefigge di caratterizzare come colta la propria poesia quanto perché, con una strategia compositiva riconducibile alla ben nota arte allusiva[13], si propone di inserire riprese e citazioni proprio affinché queste siano riconosciute dal lettore, ma si configurino poi come elementi di uno sviluppo diverso e originale.
Alla memoria letteraria si fa appello anche quando sembra che la pena seguita a un verdetto non generoso debba far prevalere l’esigenza di un’espressione immediata. Al fine di esprimere la dolorosa rinuncia al viaggio – tema al quale si riconduce, nel discorso lirico salibriano, ogni esperienza interiore -, l’io ricorre, infatti, alla figura di Ulisse, in quanto paradigma di una condizione irrimediabilmente perduta. Archetipo dell’uomo perennemente teso alla ricerca di una meta, Ulisse è dunque presente in Nordiche, nell’itinerario estremo di un io che aveva già espresso nelle raccolte precedenti una costante propensione al viaggio, intrapreso in direzione di luoghi che, reali o mitici, si configuravano come l’approdo in cui potesse risolversi ora una perenne sete di conoscenza, ora un mero desiderio di evasione, ora una profonda inquietudine esistenziale.
In una cornice fatalmente mutata, qual è la realtà presente, è lecito solo protendersi verso il passato, come recita l’ultimo verso, scevro però da ogni autocommiserazione, di Mp3:

[…]penso ai miei viaggi…

Relegato in una condizione nella quale non si intravvede alcun orizzonte e in cui il tempo è

da riprogrammare ogni giorno.[14]

e consapevole dell’irrilevanza del prefiggersi una meta nella situazione presente[15], il soggetto lirico non può che accogliere una disposizione d’animo opposta a quella che, in altre circostanze,  si traduceva in un desiderio inestinguibile del viaggio. E’ quanto si coglie nel componimento Lo steccato, il cui incipit

al di qua dello steccato
che ci divideva dal mare

esprime già la difficoltà di aderire alla pienezza vitale che l’immagine del mare suggerisce. Ed ancora si legge:

nuotavo a rana nell’insenatura
se mi perdevi di vista oltre
il limite delle acque
sicure su di me
cadeva la tua scure.
ma non ero ulisse…
quando riprendevo fiato
tornavo nel tuo raggio

A causa di un male che non corrode soltanto il corpo, ma si insinua più profondamente, indebolendo consolidate certezze, l’io si riscopre, in talune situazioni, privo della temerarietà consueta, come quando, temendo di imbattersi in acque non tranquille, preferisce un approdo diverso: far ritorno nel raggio protettivo di chi attende amorevolmente sulla riva.
E’ lecito osservare che la presenza dell’enjambement in oltre/il limite conferisce rilevanza semantica a una dimensione che, sebbene non più accessibile al soggetto lirico, esercita ancora una profonda attrazione[16]. Su di essa, comunque, a causa della situazione dolorosa in cui versa l’io, finisce col prevalere la scelta di un rassicurante limite. Significativo appare, inoltre, lo spazio bianco che, creando una suggestiva pausa di silenzio, contribuisce ad accrescere il potenziale evocativo di oltre, in direzione di un senso ulteriore, veicolato proprio dal non detto.
Nella lapidaria e malinconica affermazione:

ma non ero ulisse…

si esprime, mediante l’antonomasia, l’impossibilità di identificarsi con l’eroe omerico e di aderire agli aspetti sottesi alla sua figura- come il desiderio dell’avventura e l’inarrestabile andare-, ma si esprime soprattutto la rinuncia a varcare i confini abituali dell’esistenza. Risulta dunque evidente che tale personaggio assolve la funzione di porre in risalto una condizione interiore dell’io, ovvero un’opprimente stasi e un arresto improvviso, imposti dal dramma personale.
Un’ulteriore menzione di Ulisse si rinviene ne Il cacciucco :

di fronte al tuo atelier
accanto all’accademia un insolito
ulisse progettava il suo viaggio
prima del naufragio. il mio è
per mare o in aereo- non importa-
purché mi guidi la stella del fondale

Nei versi citati si rinviene non la mancata identificazione del soggetto lirico con l’eroe di Itaca, ma una dimensione inusitata di quest’ultimo. Anche in questo caso è presente l’antonomasia,  che viene, però, attenuata dall’aggettivo insolito, poiché esso lascia intravvedere una corrispondenza al modello non così perfetta da giustificare l’assunzione del nome. L’insolito ulisse è collocato in un contesto che vari elementi, quali,  ad esempio, la menzione dell’accademia e della buca di oscar- quest’ultima offre il pretesto per un ulteriore elenco dei consueti sapori da contrapporre a ben diverse ricette-, inducono a identificare con la città di Livorno, che può aver suggerito l’immagine del viaggio per mare, così come,  in passato, aveva suggerito quella del ritorno con un attracco dolce[17]. La figura che viene rappresentata nell’atto di progettare il suo viaggio prima della catastrofe finale allude, verosimilmente,  all’Ulisse dantesco, exemplum della sete di conoscenza punita con la morte, o all’Ulisse pascoliano, travolto nella fallimentare ricerca di una risposta ai propri interrogativi esistenziali[18]. Risulta comunque evidente la contrapposizione fra chi è in grado di collocarsi sulla linea dello spazio e del tempo, nonostante il possibile esito fallimentare, e l’impossibilità, da parte del soggetto lirico, di fare altrettanto. Per orientare il percorso che si compie nelle strutture profonde della memoria viene evocato un elemento del tutto immateriale: quella stella marina,  attaccata al fondale, di cui si scrive, nel componimento In vena, che essa ha trovato la giusta posizione.

L’amara consapevolezza di non poter ormai disporre del tempo sembra attenuarsi nei versi conclusivi:

[…]ma a crocino a volte
i girasoli si volteranno
verso il sole

L’immagine dei girasoli, in cui si ravvisano tratti umani- come si evince dall’espressione si volteranno-, esprime  infatti uno slancio vitale che, pur attenuato dall’occasionalità dell’evento, configura comunque una promessa di felicità,[19] soprattutto in relazione a quanto recitavano i versi del martirio[20]:

[…] a crocino
i girasoli non ruotano
mai nel sole […]

Si osservi,  tuttavia,  che  il carattere corsivo, con cui tale immagine è resa nel testo, introduce una sorta di voce fuori campo – rifrazione o sdoppiamento dell’io – che, divergendo dal tono desolato di chi constata di non poter più sostare a fes, induce a ipotizzare che l’io riservi ad altri la speranza o che riponga quest’ultima nella mera capacità di ricreare, grazie alla guida infallibile della stella del fondale, la dimensione luminosa del passato.
Ancora una volta, in Off label , viene menzionata la figura di Ulisse:

tra le cartelle spuntava una foto
di te a trent’anni su una spiaggia
del Peloponneso durante
un workshop di logica formale.
leggevo ulysses al sole meridiano
dall’altro capo troia e un vento
di maestrale[…]

E’ una foto casualmente rinvenuta tra le cartelle ospedaliere a restituire l’immagine di una spiaggia del Peloponneso in cui il soggetto lirico appare intento a seguire, durante un’ assorta lettura, il   viaggio del moderno Ulisse nel labirinto della coscienza. Tale nome, unitamente all’atmosfera che avvolge il paesaggio egeo, è sufficiente a richiamare l’immagine della città che fu sconfitta dall’astuzia dell’eroe greco. La menzione di Troia, suggestivamente connessa con l’immagine del vento di maestrale[21] e collocata in una prospettiva spaziale indeterminata, fa indubbiamente  da contraltare alla realtà vissuta.
Lungi dall’assumere i toni di una sterile nostalgia, la memoria si configura dunque come una facoltà in grado di conferire al passato non solo ciò che esso autenticamente conteneva, ma anche quanto una visione dai  contorni sfumati  lascia affiorare,  permettendo così una sorta di ricreazione del passato stesso[22].

E’ quanto si evince dai versi sopra citati, in cui al contesto angusto e desolato di un interno si sovrappone uno spazio dalle linee ampie e luminose, proiezione simbolica di una pacificata condizione interiore dell’io, ma anche della trascorsa età giovanile.
Il dilatarsi dello spazio  si coniuga,  infatti, con l’indicazione di un tempo ben preciso – una foto di te a trent’anni - e di un elemento concreto – durante un workshop di logica formale -, che finiscono, però, con l’assumere i caratteri di una dimensione mitica.
Infine, ancora un mutamento nello spazio in cui si colloca il soggetto lirico: dissoltasi la visione del passato, quando una piena adesione alla vita induceva a lambire con il corpo le alghe del fondale, si profila  di nuovo l’orizzonte breve e limitato dell’oggi, in cui l’unica prospettiva concessa all’io sembra essere quella di rinvenire il senso della propria vicenda personale fra le numerose ricette mediche.
Se il viaggio è negato, è preclusa anche la dimensione temporale entro cui il viaggio si snoda: se non si è più Ulisse, non si è più nemmeno Tiresia. Così , infatti, recita l’incipit di Sapori da evitare:

ma non ero tiresia
quando ti ragguagliai sul mio destino
neanche sibilla che leggeva
tra le foglie[…].

Anche in tali versi si riscontra la figura dell’antonomasia, che esprime il significato fondamentale del testo: svanita quella tregua che sembrava fosse stata concessa dal destino, ci si scopre privi della capacità di formulare qualsiasi ipotesi sul futuro, proprio mentre si tenta di ragguagliare su di esso il proprio interlocutore. L’impossibilità di identificarsi con il celebre indovino dai poteri divinatori è rafforzata dalla seconda antonomasia: neanche sibilla. Proiettato inutilmente verso una nuova estate, il soggetto lirico prende le distanze dalla profetessa che, affidando al vento benevolo i propri responsi non sempre graditi, lasciava spazio alle illusioni degli uomini. Ed ancora, si legge:

ora tiresia non parla più
anzi dopo un po’ si addormenta
e insegue l’acqua del canale che scorre
lieve. dalle chiaviche guizza
un topo poi un altro e un altro ancora.
sono guariti da quel male e aspettano
la stagione propizia

E’ innegabile che l’immagine introdotta nei versi citati assume una valenza allusiva: gli animali che, guariti dal male, guizzano dalle acque putride esemplificano l’insensata casualità che riserva ad essi il privilegio di attendere quella stagione futura da cui l’io è invece escluso. Vi si potrebbe inoltre ravvisare un destino di sofferenza che accomuna leopardianamente tutti gli esseri viventi e che concede solo qualche pausa.
Se non risulta possibile identificarsi con l’eroe di Itaca o con l’indovino tebano, in quale nuovo contesto spaziale e temporale si muoverà allora il soggetto lirico?
E’ noto che nell’undicesimo libro dell’Odissea è rappresentato il colloquio di Ulisse con le anime dell’oltretomba e, in particolare, con Tiresia, cui l’eroe chiede ragguagli sul proprio ritorno in patria e sugli ostacoli da superare. Crediamo  - in virtù di un’ ipotesi suggestiva- che anche in Nordiche i due personaggi omerici interagiscano e riacquistino il significato connesso con la loro figura. Svanita l’euforia ulissidea di nuovi orizzonti, l’io ingloba, infatti,  la memoria dei viaggi passati – fossero stati reali o mentali non importa – e, con rinnovata audacia, si rimette in cammino verso un confine sconosciuto, in direzione di un approdo che ora si ha fretta di raggiungere, forse per concludere una ricerca avviata molto tempo prima. E’ quanto affiora dai versi:
[…]ora
c’ho voglia di andar via… nelle terre
del nord. […] .[23]

Allo stesso modo, è verosimile che, spentasi la voce malinconica di Tiresia, l’io, di nuovo fiducioso nel proprio canto, ponga fine al silenzio, proiettandosi ancora una volta verso il futuro, se è vero che vivere significa dare senso nell’unico modo possibile alla partita già persa in avvio contro la morte affidandosi alla letteratura, che è ricovero dell’unica realtà di cui può farsi artefice l’essere umano, ovvero la memoria…[24].
E’ innegabile infatti che, rispetto alla mutevolezza e alla caducità dell’esistenza, la parola poetica, scelta con rigore e con sapienza, permette di cogliere il reale e di fissarne definitivamente i contorni sfuggenti, esaudendo quell’esigenza di assoluto che avverte chi, come Elena, è in procinto di andar via, oltre le acque malsicure del vivere terreno.
Parola poetica, dunque, come possibilità d’infuturarsi, ma anche come risarcimento dei mali dell’esistenza. E’ forse in essa quel passepartout per l’aldilà di cui fa menzione l’autrice di Nordiche ? A noi che siamo qui finché ci saremo piace immaginarlo.

* * *

NOTE

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[1] Nordiche, Stampa 2009, 2014.

[2] Vers.es, Diabasis 2004; sulla via di Genoard, Manni 2007; il martirio di Ortigia, Manni 2010; la svista, A&B Editrice, 2011.

[3] Cfr. M. Santagata, Introduzione a sulla via di Genoard, pag.5.

[4] Cfr. :[…] una maglia rotta nella rete/che ci stringe […] ( In limine, vv.15-16, da Ossi di seppia).

[5] Cfr. : il punto morto del mondo, l’anello che non tiene ( I limoni, v.28, da Ossi di seppia).

[6] Cfr. :[…]tu balza  fuori, fuggi!/va, per te l’ho pregato, ora la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine…(In limine,vv.16-18, da Ossi di seppia).

[7] Al riguardo, cfr. le considerazioni espresse da M. Minutelli in Introduzione a Nordiche di Elena Salibra, Soglie, aprile 2014, pp.52-53.

[8]Cfr. i versi: che cosa a mente avevamo studiato/per l’aldilà (Per via, da sulla via di Genoard, pag.23), che suonano quasi come una citazione del verso montaliano Avevamo studiato per l’aldilà (Xenia,I,4). Si veda inoltre: c’è un aldilà per i matematici ( ipotesi ,da il martirio di Ortigia,pag.25), ipotesi che la grafia in corsivo consente di attribuire a un altro da sé, mentre il soggetto lirico preferisce declinare l’aldilà come un inferno o un limbo. Malinconiche riflessioni sul mistero di chi nasce/ e muore… inducono l’io, nella chiusa de Il fiume sotterraneo, ad estendere la prospettiva di un aldilà al proprio cane (e penso a un aldilà/per lui…), il cui respiro affannoso, nell’incipit de I sapori, non poteva non alludere al crudele destino che accomuna uomini e animali.

[9] E’ quanto affiora anche dai vv.16-18 de Il fiume sotterraneo ([…] ma non ero/pronta[...] a rispecchiarmi/nell’acqua scura), in cui il soggetto lirico riflette sulla propria riluttanza a specchiarsi nelle acque del fiume Amenano, perché ancora pervaso da la luce di su.

[10] Tale concezione si riscontra nel montaliano Forse un mattino (Ossi di seppia), in cui il poeta esprime il dubbio che il mondo fisico non sia altro che un inganno, un’illusione dei sensi, ma afferma anche di non voler divulgare il suo doloroso segreto agli uomini che non si voltano. Una reminiscenza di tale immagine si coglie nei versi salibriani: non sempre/negli arenili d’alghe le ombre vanno/alla deriva senza voltarsi. (L’appartamento), in cui le ombre non indicano, come nel poeta ligure, gli esseri inconsapevoli di quel nulla che una realtà ingannevole nasconde, ma figure che non si collocano dalla parte dei vivi.

[11] Cfr. i vv. 1-4 de  la conchiglia: mi si è spezzata tre le dita oggi /la conchiglia/che portavo al collo./mi ci provo/ a ricomporla (la svista)

[12] Sulla presenza di citazioni nella poesia salibriana, vedi M. Cristina Cabani, Salibra. Poesia per l’occhio, poesia per l’orecchio, Il Portolano, n.51-52, p.47.

[13] Sull’espressione arte allusiva, cfr. Giorgio Pasquali, in Pagine stravaganti, 2° ediz., Firenze 1968, pp.275-282.

[14] La condanna ( Nordiche).

[15] Lo si evince dai versi di Tragitti: oggi dopo vent’anni/ la meta non importa più.( Nordiche).

[16] Si noti che l’espressione oltre il limite appariva già, assumendo una connotazione di carattere non spaziale, ma temporale, nel verso iniziale di Oggi (Vers.es): Oggi il tramonto s’allunga oltre i limiti/del giorno[…] . In questo caso, nonostante il frequente  ripetersi dell’enjambement nel testo,  esso non è presente fra oltre e i limiti, quasi si volesse evidenziare che tra la dimensione contingente e l’oltre non è avvertita dall’io alcuna scissione, come si evince anche dall’atmosfera di quiete e dal desiderio di oblio che caratterizzano il componimento.

[17] Cfr. : Livorno o uno storno di tempo/ ancora da computare (Per via, da sulla via di Genoard, p.42).

[18] In relazione a L’ultimo viaggio, Poemi Conviviali ( canto XXIII) di G.Pascoli, cfr. E.Salibra, Voci in fuga, Liguori pp.32-33.

[19] Evidente risulta la reminiscenza dei versi montaliani: e mostri tutto il giorno agli ameni specchianti/del cielo l’ansietà del suo volto giallino. (Portami il girasole). E’noto che il girasole si configura, nella poetica montaliana, come simbolo dell’aspirazione a sradicarsi dalla condizione terrena, ma si ritiene anche che la luce illimitata provochi in esso un delirare, come si evince dall’espressione impazzito di luce. Al riguardo, cfr. Angiola Ferraris, Montale e gli Ossi di seppia. Una lettura, Donzelli, 1995,pag.25.

[20] Cfr. : a crocino,vv.2-4.

[21] Non riteniamo superfluo evidenziare il frequente ricorrere, nella scrittura salibriana, dell’immagine del vento: a volte è il caldo vento di scirocco (ora il vento /di scirocco accresce la calura…[L’appartamento]), a volte è un vento ostile  al soggetto lirico (ma un vento contrario mi spingeva/ fuori…[I piatti del giorno]) o, ancora , è il vento di maestrale (tra le foglie portate sulla soglia dal vento di maestrale…[Sapori da evitare]). Elemento dinamico, il vento sortisce l’effetto di produrre un mutamento e di rendere imprevedibile la vita,  fosse anche in senso negativo ( la vita la stessa di un mattino/ d’inverno- imprevedibile/ al vento di maestrale-… [Se imprigioniamo il mare da Vers.es]). Anche nei versi: sentivo/un tempo nuovo che increspava il mare (il secondo lavoro, da la svista) si alludeva al subentrare di un elemento non propizio che sconvolgeva la superficie del mare, metafora dell’esistenza, rendendo non sicura la navigazione. Si osservi che nella poetica montaliana, invece, il vento, anche quando si configuri come soffio vitale e liberatorio, non riesce ad attenuare la condizione di stasi e immobilità del soggetto, imprigionato nel mondo fenomenico. E’ quanto si coglie nel testo liminare degli Ossi di seppia (Godi se il vento ch’entra nel pomario/vi rimena l’ondata della vita, vv.1-2) e in Notizie dall’Amiata (Ritorna più forte/vento di settentrione che rendi care/le catene e suggelli le spore del possibile!,vv. 37-39, dalle Occasioni).

[22] Sull’efficacia della memoria in Nordiche ci limitiamo a citare alcuni esempi: forse riesumando i sudori/nell’afa cittadina qualcosa rimarrà/d’un martirio d’ortigia non goduto/ a pieno (-Alla Matalotta-); […] e incidi la mia ombra/sulla vetrata a piombo con la lima/della memoria […] (L’orchidea); […] lì un tempo-ricordi-ha trovato/la giusta posizione[…] ( In vena). Al riguardo, non si può non rilevare che la memoria, nella scrittura poetica montaliana è, invece, sempre destinata a fallire, configurandosi come morto viluppo (In limine) o riducendosi a poca nebbia (Casa sul mare), cosicchè, nonostante ogni tentativo di far emergere il ricordo, si deforma il passato, si fa vecchio,/appartiene ad un altro…(Cigola la carrucola nel pozzo).

[23] In vena ( Nordiche).

[24] Cfr. Essere o riessere . Conversazione con Gesualdo Bufalino, a cura di Paola Gaglianone e Luciano Tas, Omicron Roma 1996, pag.48.

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