LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » enrico gregori http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/10/11/cronache-di-inizio-millennio/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/10/11/cronache-di-inizio-millennio/#comments Tue, 11 Oct 2011 21:37:39 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3598 cronache-di-inizio-millennioChe cosa rimane del decennio che ci stiamo lasciando alle spalle?

Qual è l’evento “caratterizzante” degli anni 2001-2011?

Se vi venisse chiesto di redigere una classifica degli eventi più importanti che si sono avvicendanti in questi dieci anni… come la stilereste? (per ordine di importanza…)

Quali eventi, a vostro giudizio, sono rimasti “in sordina” e meriterebbero, viceversa, maggiore risalto nella nostra memoria?

E come si differenzia il decennio che si sta per concludere da quelli che lo hanno preceduto?

Vi invito a rispondere a queste domande, ispirate dalla recentissima pubblicazione del volume “Cronache di inizio millennio” (Historica, 2011) curato dal duo letterario Laura Costantini e Loredana Falcone. Si tratta di una antologia che ha come sottotitolo “32 autori italiani raccontano gli anni 2001/2011” a cui ho partecipato anch’io con grande piacere, invogliato dallo scopo benefico del progetto (come meglio precisato di seguito).
Dalla scheda del libro: “Dieci anni densi di avvenimenti, cambiamenti, cataclismi climatici, politici e sociali che vale la pena raccontare per lasciarne traccia e, senza avere la pretesa di un’interpretazione sociale e antropologica, poter restituire il sapore degli anni che ci siamo trovati a vivere”.
Dicono le curatrici: “Quello che abbiamo chiesto agli autori che hanno aderito (32 tra famosi ed esordienti) è di raccontare uno di questi anni, di questi avvenimenti. Dalle Torri Gemelle all’avvento di Facebook, dallo Tsunami ai Mondiali di calcio 2006, dal G8 di Genova al terremoto dell’Aquila. Sono solo esempi nella massa di stimoli che il decennio ha potuto fornire a tutti noi che scriviamo esercitando la passione della memoria e della parola.”

Il ricavato delle vendite verrà devoluto all’A.V.S.I. per il progetto “Al lavoro! Attività di formazione professionale e avvio al lavoro per i giovani di Rio de Janeiro”.
Mi piacerebbe che partecipassero al dibattito tutti gli autori coinvolti nel progetto (magari potrebbero raccontarci perché hanno scelto proprio quella data e quell’evento).

Laura Costantini mi aiuterà ad animare e a moderare la discussione.
Di seguito, l’elenco degli autori che hanno aderito al progetto e la bella prefazione firmata da Marino Sinibaldi.

(Inutile aggiungere che siete tutti invitati a rispondere alle domande del post).

Massimo Maugeri

Hanno scelto di raccontare le “Cronache di inizio millennio”:
Danilo Arona (23 settembre 2001) – Maria Silvia Avanzato (10 gennaio 2005) – Remo Bassini (16 marzo 2010) – Alessandro Berselli (1 agosto 2003) – Daniele Bonfanti (26 dicembre 2004) – Alessandro Cascio (25 giugno 2009) – Vincenzo Ciampi (14 febbraio 2004) – Fabio Ciriachi (10 aprile 2006) – Fabrizio Contardi (23 gennaio 2004) – Laura Costantini – Loredana Falcone (25 gennaio 2011) – Maurizio De Giovanni (30 gennaio 2002) – Francesco Dell’Olio (9 luglio 2006) - Francesco Di Domenico (21 maggio 2008) - Barbara Garlaschelli (22 luglio 2001) – Enrico Gregori (18 aprile 2002) – Maria Giovanna Luini (21 febbraio 2001) – Gordiano Lupi (11 giugno 2010) – Andrea Malabaila (10 settembre 2008) – Stefano Massaron (15 maggio 2011) – Massimo Maugeri (2 aprile 2005) – Francesca Mazzucato (2 febbraio 2008) – Paolo Melissi (estate 2003) – Enrico Miceli (10 luglio 2007) – Patrizia Mintz (6 aprile 2009) – Gianluca Morozzi (10 gennaio 2005) – Enrico Pandiani (11 settembre 2001) – Niccolo’ Pizzorno (2 maggio 2011) – Simonetta Santamaria (27 novembre 2010) – Pierpaolo Turitto (28 settembre 2003) – Floriana Tursi (28 gennaio 2011)

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LA PREFAZIONE DI MARINO SINIBALDI
Semmai i secoli nascessero innocenti, il nostro la sua purezza infantile l’ha persa subito e di colpo: due torri sbriciolate, “tremila persone vaporizzate” che aleggiano come una colpa o una maledizione non solo nei racconti di questo progetto che si misurano con l’anno fatale 2001 ma in tutti gli altri di questo originale diario di un decennio che fugge. Come in un diario vero e proprio, infatti, qui si ricordano momenti e luoghi sepolti nella memoria, si riscoprono eventi dimenticati, si rievocano emozioni lontane. E si finisce stupiti di fronte a coincidenze che non avremmo dovuto rimuovere: davvero il delitto di Novi Ligure –quel domestico ground zero di inspiegabile ferocia – anticipava di pochi mesi uno di ben altra scala? E abbiamo mai capito cose significasse quella sorta di replica farsesca che mandò a infrangere un Rockwell sul pacifico Pirellone? Sono le increspature e gli scarti della memoria, questa facoltà insonnolita che facciamo sempre più fatica a ridestare. Ma va detto subito che l’intelligenza della sfida e la qualità dei racconti che l’hanno raccolta hanno intanto questo merito: non lasciarci svicolare nel comodo rifugio dei “non ricordo”. Ognuno degli autori di questi racconti ha affrontato un momento e un anno, un evento e le figure che lo hanno animato o subito; e ce li scaglia contro, con precisione ed emozione, con rabbia, a volte, fino a lasciarceli definitivamente infissi nella memoria.
Che sensazioni ci restano, infine? Del trauma originario di questi anni si è già detto qui –e altrove anche troppo. E l’11 settembre del decennale ci sta già saturando con una implacabile macchina memoriale-spettacolare. Ma è come se quelle macerie fossero un segno distintivo dell’epoca, reiterato in luoghi e forme diverse ma tutte riconoscibili e dolorose, come le pietre mai più rialzate delle strade dell’Aquila, come “il largo solco simile a una trincea enorme” scavato da chi? E dove? Nei mari solcati da carrette omicide, nell’epicentro di qualche terremoto, nelle spiagge dello tsunami? (Tsunami, parola seminuova di un decennio che ne ha adottate molte, spesso cambiando senso: “il tuo profilo” non è una silhouette da evocare con nostalgia ma qualcosa da esibire nei social network). Come i rifiuti inamovibili di comunità urbane che sembrano aver consumato la loro parabola secolare. Come la macerie sempre meno metaforiche di una economia globale che appare preda di un delirio psichico, tecnicamente schizofrenica, prigioniera di un balletto simile a quello fantastico che intrecciano tra loro le tre lettere dell’austera sigla Fmi nella rivisitazione irriverente e salutare che non potrà che farvi amaramente sorridere. Sorridere appena, però. Perché non si può pensare al disastro finanziario e alle sue conseguenze infinite senza infinitamente ripetersi le verità urlate e ignorate nelle strade del G8 di Genova. Per questo il trauma originario del primo anno di vita del nostro secolo è così difficile da ignorare: non si manifestò solo nello spazio aereo di un mattino americano ma nelle lunghe, tragiche giornate (e notti) vigliaccamente insanguinate di una nostra amata città. (Solo così il 2001 è davvero l’anno fatale che è stato: se alla memoria globale e imperiale delle Torri Gemelle si affianca la nostra colpa –e magari la nostra giustizia).
Ma questi anni sembrano non emettere sentenze davvero definitive. Sono anni incerti, inconclusi. Come nel topos immortale della tragedia greca, in queste pagine troverete salme insepolte, cadaveri senza pace: provengono dal dramma enorme che preme sulle nostre coste ma anche, più banalmente, da una grottesca vicenda funerario-televisiva. Appaiono comunque il segno di qualcosa che non è finito ancora, non è definito, non può essere sistemato. Segna i nostri tempi come un buco, un vuoto (eccolo lì lo spazio mai colmato di Ground Zero che ritorna come un mantra visivo). E non genera mai sentimenti facili: di gioia ce n’è poca, quasi niente. Nessun autore, mi sembra, ha scelto uno di quegli eventi brillanti che regalano ricordi smaltati anche agli anni più oscuri. Persino i mondiali di calcio, persino la vittoria che a volte inaspettatamente ci arride non può essere goduta in santa pace. E’ destino che un intralcio, una grande o piccola maledizione lo impedisca.
E’ così, un po’ a brandelli e nelle forme diverse che la diversità degli autori coinvolti felicemente implica, che leggendo questi racconti un’idea degli anni alle nostre spalle si fa progressivamente largo. Sono anni difficili perfino da siglare: “anni zero” forse, non solo per pedanteria aritmetica ma perché un senso di azzeramento politico, economico, mentale sembra intimamente segnarli. Ma il numero nullo implica inevitabilmente qualcosa da costruire o ricostruire. Imprese assai difficile da immaginare, anche uscendo dal recinto di queste brevi narrazioni. Sembra piuttosto di intravedere la paradossale coda lunga di un secolo breve. “Fine secolo” , con una formula inventata da Adriano Sofri, si intitolava un’impresa editoriale che alla vigilia del decennio precedente (i terminali anni Novanta) giocava con l’idea che qualcosa –i rifiuti ideologici del Novecento, per esempio- stesse per abbandonarci. Mi è capitato di lavorare a quell’impresa e di portare in eredità quel titolo a una trasmissione radiofonica che Radio3 ospitò dal 1992. Altro che fine, però: mentre lo sguardo superficiale dei contemporanei sembrava fisso su ciò che stava terminando, ci capitò di incontrare eventi del tutto nuovi, e giganteschi: le migrazioni mondiali, per esempio, e la nuova, altrettanto globale, economia –e il tramonto dell’illusione energetica, e la fine del lavoro, e i nuovi fanatismi paranoici e parareligiosi eccetera eccetera. Gli anni sono così, scivolano uno dentro l’altro, confondono eredità e tradizioni, appaiono immobili e mutano catastroficamente. Sono difficili da fissare. Con punti di vista diversi gli autori di questi diversi racconti ci hanno provato. E sfidano noi lettori sollecitando la nostra facoltà più addormentata e quella più atrofizzata: la memoria e l’immaginazione.
Marino Sinibaldi

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RECENSIONI INCROCIATE n. 5: Francesco Di Domenico e Enrico Gregori http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/03/recensioni-incrociate-n-5-francesco-di-domenico-e-enrico-gregori/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/03/recensioni-incrociate-n-5-francesco-di-domenico-e-enrico-gregori/#comments Fri, 02 Jan 2009 23:33:06 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/03/recensioni-incrociate-n-5-francesco-di-domenico-e-enrico-gregori/ Nuova puntata delle “recensioni incrociate”.

I due autori/recensori invitati sono Francesco Di Domenico e Enrico Gregori.

I libri oggetto delle recensioni sono “Storie brillanti di eroi scadenti” (di Francesco Di Domenico) e “Doppio Squeeze” (di Enrico Gregori).

Due libri diversi che ci vengono qui (reciprocamente) presentati da due scrittori che si conoscono bene e… si stimano? (lo vedremo).

Il libro di Di Domenico è composto da una serie di racconti umoristici alla Woody Allen/Groucho Marx, con prefazione curata da Maurizio de Giovanni. Il romanzo di Gregori è una spy story ambientata nella Roma di oggi; il titolo (doppio squeeze) si rifà a una manovra nel gioco del bridge nella quale un giocatore costringe gli avversari a disfarsi di carte vincenti.

Di seguito troverete la doppia recensione – a entrambi i libri – di Gea Polonio, che mi darà una mano a moderare il dibattito.

Invitati speciali: il già citato Maurizio de Giovanni e Simonetta Santamaria. Ma siete tutti invitati a dialogare con i due autori protagonisti di questo post.

Massimo Maugeri

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STORIE BRILLANTI DI EROI SCADENTI di Francesco Di Domenico – Cento Autori, 2008 – pagg. 160 – euro 12

recensione di Enrico Gregori

Volete ridere? Volete ridere e pensare? Volete, nel ridere, sentirvi anche un po’ intelligenti?
Sembra assurdo, conoscendolo, ma allora dovete affidarvi a Francesco (didò) Di Domenico e al suo “Storie brillanti di eroi scadenti” (Edizioni Cento Autori).
Immaginate gli interventi che Didò fa qui e nei vari blog. Ebbene, sono miccette. Il libro è il Capodanno a Piedigrotta: fuochi d’artificio che scoppiano e sbottano luci colorate in un susseguirsi di battute (anche amare) che sono un viaggio attraverso la geografia e la storia dell’Italia.
Nessuna lezione, vivaddio, ma una doccia di umorismo che affonda le sue radici nel “Travaso”, nel “Marc’Aurelio” e, via via, fino a “Il Male”.
Persino i nomi dei personaggi fanno ridere. E ci si diverte a vedere manie, difetti, tic e fuffa di una società che, nei suoi aspetti ridicoli, non è mai cambiata. Il tutto in una ventina di racconti che scorrono come un “fumetto”, ma di classe intendiamoci. Dalla politica al calcio, dall’amore al sesso, dall’arte alla cialtroneria. Una parata di parole e persone che fanno di “Storie brillanti di eroi scadenti” 158 pagine di penna al seltz.
Poteva scriverlo un non-napoletano? Ecco, questo (non per campanilismo d’accatto) è un bel quesito.
Certamente Di Domenico non è un fustigatore, né una sorta di serioso Cesare Baretti.
Lui, tutto sommato, è il primo a mettersi in gioco e a offrire la sua faccia e le sue strampalate idee al pubblico dei lettori.
Comica, infatti, persino la biografia dell’autore “dal 1975 pioniere delle radio libere napoletane”. E via, avanti, fino a pubblicazioni improbabili in occasioni altrettanto improbabili. Una lunga biografia, insomma, di uno che non ha mai combinato un cazzo. Vuoi mettere?

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DOPPIO SQUEEZE di Enrico Gregori – Bietti, 2008 – pagg. 212 – euro 15

recensione di Francesco Di Domenico

Laura è un cadavere che cammina.
Ha vent’anni, una vita (quasi) inutile, ai margini della società omologata, eppure è il trait d’union di una storia verosimile, di una formidabile spy story che Enrico Gregori disegna.
All’inizio non lo credi che il personaggio della ragazza, insignificante, tratteggiato crudamente come orpello di altre cose, possa essere utile alla storia e, alla fine, ci stai ancora pensando e devi chiudere il libro per comprenderlo, piacevolmente.
E difficile dire cose su un giallo che hai gradito senza scoprirne la trama, la voluttà di raccontarlo è grande, più dell’esegesi surreale a cui si è costretti dal dovere, per questo le recensioni dovrebbero scriverle i professionisti del superfluo, i famosi critici, che sono capaci solo di quello.
A cominciare dal prologo, il libro è un depistaggio continuo, un giocare al gatto e al topo col lettore. Senza inutili tentativi di ricerca di contaminazioni coi grandi del noir americano, io penso subito al numero uno: se è infetta questa storia, allora il contagio si chiama Hitchcock.
Alla stregua del maestro anglo-americano, lo scrittore usa inconsciamente una tecnica tutta hitchcockiana, il “McGuffin”, un espediente per dare importanza ad un oggetto o un personaggio che saranno o ininfluenti o lievemente complementari alla storia, e di McGuffin ne sono seminati a josa nei brani. La suspence c’è ma è morbida, rotonda come l’ambientazione in una Roma color seppia, la capitale barocca in un movie barocco, in una specie di mescolanza col moderno, ecco: un’atmosfera da Batman.
E’ la città che non conosci se non ci sei nato da generazioni. L’autore, scrive come un trucido coatto redento a Regina Coeli, nei tempi morti di un ergastolo, ricama; come se cucire organza e non rapinare banche fosse il suo mestiere e, nonostante questo, lo fa egregiamente. Il tratto surreale e ruvido di Gregori nel “The prima di morire”, era come una prova generale ad un gran premio di formula uno. Molti avevano pensato: “Okay Gregori è in pole-position, ma la corsa vera la vince un altro”, invece con questa seconda opera è tra i primi; se non un’assoluta novità nel giallo d’autore italiano.
Sembra anche un racconto “interno”, scritto da un vice-questore, tanta è la precisa descrizione dell’attività poliziesca; la rappresentazione simenoniana delle stanze dell’intelligence, dei metodi, ma conoscendo l’antica professione di “topo di questura” del grande redattore di “nera” possiamo agevolmente comprendere la sua navigazione sicura. Forse, di Simenon, usa lo stesso metro nella ricerca dei nomi, l’elenco del telefono per quelli italiani, i telefilm per quelli stranieri, ma la loro semplicità non è un limite, forse un valore aggiunto per non perdersi nella trama che si dipana nei vicoli di una Roma altra da come la conosciamo, una Roma romana.

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Doppio squeck sberequeck: le gea-recensioni
di Gea Polonio

Mica facile recensire ’sti libri, degna progenie di due ingombranti personalità, tanto diverse quanto unite dal comune denominatore dell’intelligente ironia.
In Enrico è lo sguardo, distaccato ma mai distante, sull’umanità con tutte le sue sfaccettature, con i suoi limiti, le sue ferite, le sue crudeltà più o meno innocenti a seconda.
In Didò prende la forma di un’esplosione di parole in libertà, una valanga di comicità: uno stand up comedian cresciuto ad avanspettacolo e woody allen.

”Doppio squeeze” è, rispetto al precedente ”Un tè prima di morire”, secondo me più maturo. Sia come scrittura che come sviluppo. La struttura è sempre quella, ormai marchio di fabbrica del Greg: i personaggi vengono seguiti singolarmente in un concatenarsi quasi cinematografico di scene, di momenti della loro vita che ce li fanno conoscere a fondo in poche righe.
Qui sta la mano felice di quest’uomo: nella capacità di rendere vivi e tangibili protagonisti e comprimari con poche pennellate, qualche dialogo, un’osservazione buttata là. Il tutto in una lingua scarna, dura quasi, ma mai povera.
Funziona, funziona bene. La proverbiale attenzione del Nostro per i dettagli delle tecniche investigative e per i meccanismi nascosti dei Servizi si sposa con un buon ritmo narrativo, il tutto a insaporire una trama decisamente avvincente.

”Storie brillanti di eroi scadenti” è Didò allo stato puro: fuochi d’artificio verbali al servizio di racconti assurdi nati da spunti di vita: storia, letteratura, sesso, emozioni; il tutto visto con gli occhi di un travolgente genio. Qualcosa che sta tra lo humour ebraico newyorkese e la grassa commedia popolare napoletana, situato in un luogo dello spirito da qualche parte tra Queens e Mergellina.
La sur-realtà di Francesco è fatta di citazioni, di ricordi, di invenzioni passate al setaccio di un cervello che ha delle ragioni che la ragione non conosce.
Maurizio de Giovanni, che non è un fesso, sostiene nella prefazione che l’uomo è folle, e a dimostrazione porta inoppugnabili pezze d’appoggio. Non me la sento di contestarlo, perchè gli voglio bene e Maurizio è un uomo d’onore (nel senso shakespeariano del termine, non vi venissero idee) e pure perchè oggettivamente non saprei come farlo.
È pazzo sì, probabilmente.
Ma è anche un genio.
E un poeta.

In conclusione, e da lettore con come unica referenza l’amore che ci metto e la voracità.
Questi energumeni hanno prodotto due libri molto belli, secondo me.
Semplicemente molto belli.

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(Marassi ritrae Francesco Di Domenico – 1988 – l’immagine è stata usata per la quarta di copertina del volume “‘Storie brillanti di eroi scadenti”)

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LA LETTERATURA DEL TERRORE E SIMONETTA SANTAMARIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/21/la-letteratura-del-terrore-e-simonetta-santamaria/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/21/la-letteratura-del-terrore-e-simonetta-santamaria/#comments Fri, 21 Nov 2008 16:53:07 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/21/la-letteratura-del-terrore-e-simonetta-santamaria/ Che rapporti avete con la letteratura del terrore?
Ne siete appassionati? Vi lascia indifferenti?
Vi disgusta?
In ogni caso essa vanta una storia piuttosto lunga, che coincide – più o meno – con la nascita del romanzo gotico classico; ovvero il 1764: anno di pubblicazione de “Il castello di Otranto” di Horace Walpole.
Poi si evolve con il “Dracula” di Bram Stoker, con il “Frankenstein” di Mary Shelley e con l’opera di Edgar Allan Poe. Senza dimenticare il celeberrimo “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Stevenson, che diventa pietra miliare anche del cosiddetto tema del doppio.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento bisogna ricordare H. P. Lovecraft (1890-1937), ma anche Gaston Leroux (autore de “Il Fantasma dell’Opera“).

Un filone particolare della letteratura gotica dà vita la cosiddetto genere horror diventato famoso anche grazie ai libri di autori come Stephen King e Peter Straub.

Ulteriori dettagli li potete trovare all’interno di quest’ottima rubrica tenuta da Sabina Marchesi, guida giallo e noir del portale supereva.it. 

In questo post, invece, nell’ambito dell’horror all’italiana presentiamo Simonetta Santamaria e il suo libro “Dove il silenzio muore” edito da Centoautori.

Lo introducono per noi Francesco Di Domenico e Enrico Gregori, che mi daranno una mano a moderare e animare la discussione.

Un post a due binari, dunque:
- la letteratura del terrore, in generale (nell’ambito della quale chiamo a intervenire la già citata Sabina Marchesi)
- e… Simonetta Santamaria (presentata da Francesco Di Domenico e Enrico Gregori)

Siete tutti invitati a partecipare.

Massimo Maugeri
P.s. Vi anticipo che a partire da domani e per tutta la prossima settimana sarò in viaggio di lavoro e mi sarà difficilissimo – se non impossibile – partecipare alle discussioni.

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“Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria – Centoautori – 2008 – euro 14 – pagg. 224

di Francesco Di Domenico

Simonetta Santamaria ha scritto il suo primo romanzo.
Non un racconto breve come una coltellata, a cui ci aveva abituato con i suoi corti surreali, ambientati in una Napoli attraversata dal mistero, ma un poderoso romanzo horror.
La Santamaria aveva già raggiunto vette altissime con i suoi racconti, fino ad arrivare ad essere incoronata regina italiana all’ XI premio Lovecraft, con “Quel giorno sul Vesuvio”, una narrazione metafisica che lasciava già intravedere un percorso di commistione con il noir. Ora ha meditato una storia lunga, intricata e appassionante.
La signora dell’horror italiano, Simonoir, stavolta ha scritto 211 pagine di non sola inquietudine.
L’undici sembra ritornare periodicamente nelle storie della Santamaria, coincidenza misteriosa o voluta: lei, Simonetta, non me l’ha mai spiegato.
L’11 è il numero atomico del sodio, il tenebroso sale e “Na” (guarda caso) è il suo nome scientifico.
Undici gli endecasillabi, come 11 i suoi racconti nel precedente libro “Donne in noir”.
“11 Parthenope” è il nome dell’asteroide che fu scoperto all’osservatorio di Napoli nel 1850.
Quindi ricorrenti, nelle storie della dark lady, ci sono questo numero misterioso e la sua città, oltremodo presenti. Di Napoli, si sente l’odore; di Napoli vi è raccontato il “come vorremmo che fosse”; la città è lambita dalla scena del libro a “vol d’oiseau ”. E’ la capitale del mezzogiorno che i Tg non rappresentano, ma che esiste, divisa come tanti atomi. E’ una città-libro Napoli, con tante pagine vere o immaginarie, e questa ne è una.
Il film di parole, perché di un autentico movie si tratta, si svolge in un ipotetico borgo, come ce ne sono tanti nascosti nella città della sirena, a Posillipo. Stavolta si evince uno scivolamento verso un horror più morbido, quasi noir, non ci sono mostri sanguinari e il sangue è più calibrato.
Il percorso di Simonoir sembra l’inverso di Dario Argento, che dai gialli sanguigni è sfociato nell’horror puro; la Santamaria, nel suo primo romanzo lungo sembra avere acquisito una cifra di narrazione trasversale tra orrore e noir puro.
E’ un libro d’amore, e come sempre, di lotta tra il bene e il male.
Quel “male” supremo, nascosto nelle pieghe dell’universo che riappare sempre sotto forme diverse.
L’intreccio è del miglior noir; sarebbe un vero e proprio giallo se l’idea di fondo non fosse autenticamente horror, con un antico mistero legato agli inizi della fede, quando tutto ricominciò, quando gli ebrei sbagliarono scommessa al totalizzatore della storia, e apparve il Messia e, in contemporanea, colui che per primo credette nella sua esistenza: il signore degli inferi.
Controindicazioni: da non leggere la sera in un parco, si affaticherebbero gli occhi, ma molto di più il cuore.

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“Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria – Centoautori – 2008 – euro 14 – pagg. 224

di Enrico Gregori

Horror è un genere che, come tanti altri, serve più che altro ai librai per ordinare gli scaffali.
Avete presente il pulp di Tarantino? O la kermesse vampiresca di “Dal tramonto all’alba”? Beh, dimenticate tutto ciò, perché questo nulla ha a che fare con “Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria (nella foto, ndr).
Qui l’horror non è splatter, ma inquietudine. E siamo nel Napoletano, con personaggi che tocchiamo e conosciamo.
Certo, c’è una maledizione che viene da lontano; c’è un medaglione simbolico e dai poteri esoterici. Ma il romanzo di Simonetta è vita, passione, quotidianità di gente comune che si imbatte nel mistero.
Non vi aspettate scheletri che appaiono dal nulla, né pioggia di viscere di cadaveri esplosi all’improvviso.
Qui c’è il racconto, scritto alla grande, di persone come noi.
I personaggi, per fortuna non tanti ma definiti molto bene, ruotano tutti dentro una dimora affascinante e in un giardino che necessita di cure continue.
Non si va in cerca di soprannaturale. Anzi, semmai è proprio l’elemento esoterico che all’improvviso piomba a disturbare quella che dovrebbe essere la tranquilla e quasi monotona vita di un borgo.
Pescatori, muratori, intellettuali e fannulloni. Coppie che vanno e coppie che scoppiano. Tutte cose che vediamo per strada o nei palazzi nei quali abitiamo.
Come dire che l’horror può arrivare sempre e comunque.
Non vi aspettate effetti speciali, ma solo cose normali o quasi, alle quali si può credere.
Riporto e sottoscrivo un pensiero di Loredana Lipperini che, una sera, mi disse: “E’ molto difficile scrivere un buon horror perché si racconta di cose che non esistono. E quindi lo scrittore deve essere bravo nel crederci mentre scrive, altrimenti, se non ci crede lui, ancor meno ci crederà il lettore”.
Simonetta crede e spinge il lettore a credere. Ecco perché, il suo horror è venuto bene. Molto bene.

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Le recensioni di Sabina Marchesi: guida “giallo e noir” di supereva

L’Anima Nera di Oscar Wilde Il Grande Ingannatore (Il fantasma di Canterville)
Il personaggio più controverso di tutta la storia della letteratura, che ha saputo con il suo raffinato umorismo, il suo fine sarcasmo, la sua sottile sagacia, mettere alla berlina un’intera società, pur vivendoci dentro, sembra essere a tutti gli effetti, un sapiente bluff, come del resto tutte le sue opere dimostrano, un complicato castello di carte a più livelli, che gli rovinarono poi addosso quando osò troppo e fu abbandonato da tutti al suo destino amaro di outsider.

Difficile coniare una definizione calzante per le opere e l’essenza di Oscar Wilde, forse in assoluto il personaggio più controverso di tutta la storia della letteratura, in molti si sono provati a descrivere con una sola frase il tocco raffinato di questa penna imprevedibile, capace di colpire in poliedriche direzioni, mischiando la satira alle tinte fosche del dramma, nascondendo amabilmente feroci stilettate al cuore dell’aristocrazia e della buona società britannica dietro una prosa leggera e sarcastica, dove la buona letteratura si mescola con sofisticata eleganza alla parodia umoristica.&#nbsp; Innumerevoli descrizioni ci sono rimaste di quest’uomo affascinante, grande ed eccelso conversatore, mente splendida ed acuta, vissuto sempre sul filo del rasoio, in precario equilibrio tra l’acclamazione più sfrenata e il più terribile ostracismo, ma la maniera più calzante per descriverlo è forse quella di attingere ad alcuni dei suoi detti memorabili e immortali destinati ad essere ripetuti e rivissuti dai posteri, a suffragio perenne della sua memoria.
“La Vita Imita l’Arte più di quanto l’Arte non imiti la Vita; ed è proprio così che sono tutte le sue opere, un’imitazione continua di tutto ciò che esiste, o che noi crediamo esista, una rappresentazione speculare di tutte le umane debolezze, dove anche le grandiosità nascondono i dettagli più fragili dell’animo umano.
“Non ho nulla da dichiarare eccetto il mio Genio” che descrive perfettamente il suo intero modo di vivere, quello di un uomo che fece dell’eccentricità un pregio, di nascita Irlandese riuscì ad imporsi all’attenzione della buona società affascinandola con la sua irruente personalità e la brillante conversazione che dominava incontrastata con ingegno ed audacia i salotti londinesi.
“Riesco a resistere a tutto tranne che alle tentazioni” ed è il manifesto di “Dorian Gray”, dove la cultura estetica predomina su tutte le altre virtù, capolavoro assoluto ed unico suo romanzo, che lo consegna alla storia come L’Esteta dell’Arte, colui disposto a tutto sacrificare in nome dell’amore per il bello, portando la passione a dominare su tutto il resto, in bilico sopra un precipizio di insospettabili profondità, separando una volta per tutte l’etica&#nbsp; e la morale, dall’estetica, cosa che l’aristocrazia dell’epoca mai gli perdonò.
Laureato ad Oxford, di raffinata cultura, grande parlatore, fine umorista, Wilde condusse tutta la sua esistenza&#nbsp; al di sopra e al di là delle comuni convenzioni, ostentando uno stile di vita provocatorio e spericolato, amorale ed asociale, sfoggiando un’eleganza stravagante e bizzarra, e per questo fu amato ed odiato da tutta la società vittoriana, facilmente influenzabile dalle mode e dall’eccentricità, vanesia e superficiale, ma terribilmente pericolosa nei giudizi, che erano senza appello e che alla fine lo condussero alla rovina. Il debutto di ciascuna delle sue commedie, da “Il ventaglio di Lady Windermere” a “L’Importanza di chiamarsi Ernesto”, gettavano in subbuglio tutta l’alta società londinese che accorreva in massa, rendendosi poi conto, quando era forse troppo tardi, di essere essa stessa fatta oggetto dell’umorismo al vetriolo e della satira mordente dell’opera; rappresentata, che ne beffeggiava i vezzi e le abitudini.
Snob, narcisista, depravato, vizioso, abbietto, omosessuale, Oscar Wilde era semplicemente un giovane ben nato, dotato di una sottile intelligenza, dalla lingua sciolta, che amava assumere atteggiamenti demodé, ambizioso e narcisista, amante del bello e di se stesso, capace di una ironia caustica che non esitava a usare per il solo desiderio di stupire, e tanto spericolato da fare quello che prima non era mai stato fatto, o da dire quello che nessuno aveva mai osato dire, un eterno giovanottone che bamboleggiava in società, al solo scopo di appagare il suo senso di avventura e di ribellione. Si fece beffe per anni dei migliori salotti vittoriani, in cui però veniva sempre benevolmente accolto, fino a che questo precario equilibrio si spezzò, i suoi stessi vizi tanto ostentati, lo tradirono, e la bella società gli voltò le spalle condannandolo al pubblico ludibrio e a una fine ignominiosa.
Ma fu comunque in assoluto l’uomo con il più grande coraggio di vivere e di osare mai esistito sulla faccia della terra, un borghese che giocava a fare l’anticonformista, un tradizionalista che amava assumere atteggiamenti sconvenienti, un pigro intellettuale che desiderava solo stupire ed ammaliare.
Colpisce il fatto che i suoi aforismi sono giunti fino a noi come esempi di raffinato cinismo e di spietata ironia, quando invece a una lettura più attenta rivelano, come fu per lui stesso e per la sua vita, una certa dose di saggezza, e di comprensione per le umane&#nbsp; debolezze. Se Dorian Gray fece gridare allo scandalo (e in effetti cosa ci può essere di più abbietto di un patto col diavolo che ti renda immune da tutte le conseguenze fisiche e morali delle tue malefatte scagliandole su un quadro immagine e simulacro di tutti i mali del mondo?) perché sembrava incitare le nuove generazioni verso una condotta amorale e sconsiderata, con la certezza di una sicura immunità, esso al tempo stesso rappresenta un momento di profonda riflessione, se letto in doppia chiave. Rivelando al suo interno una sottile dicotomia perché, se sottoposto a un esame più approfondito, denota una chiara disciplina morale, sottintesa con ironia ma visibile, sotto il primo strato di decadente disprezzo.
Fa tutto parte del sottile snobismo di Wilde a cui importavano di certo più la fama e la gloria, che non l’espressione di una morale, ma questo non esclude che ne avesse, e infatti ne aveva. Ci basti pensare ai suoi aforismi, apparentemente dedicati al solo culto del bello, dell’arguto, del sofisticato, del raffinato, ma sempre spietatamente diretti e scritti per colpire al cuore e sottolineare crudamente la verità. Che è poi l’intento primario di ogni artista.
“Non esistono libri morali o immorali … i libri sono scritti bene, o scritti male. Questo è tutto.”
Sembra un’affermazione irriverente, immorale, puramente estetica, ma nasconde invece una sovrana verità che tutti noi aspiranti scrittori dentro di noi conosciamo assai bene.
E’ solo uno dei tanti inganni di quest’anima suadente ed intrigante, che ancora si fa beffe di noi a distanza di un secolo e mezzo, e basta guardare una sua foto per vedere quello sguardo irridente e beffardo di uno che sa di averci sempre imbrogliati, come una delle sue opere più incompresa, Il Fantasma di Canterville, che viene a tutt’oggi introdotta nelle raccolte per ragazzi assieme alle altre favole che Oscar Wilde pare avesse scritto per i suoi due figli, e tuttora si rappresenta nei teatrini scolastici. Ma non è una favola, o se mai lo è, è una favola nera, un piccolo intrigo, un bluff sapiente e misurato tramato ai danni di noi lettori dal più grande ingannatore della storia.
Brillante e spumeggiante come una coppa di champagne questo racconto è tutto imperniato sull’incontro tra due culture agli antipodi, la vecchia solida inamovibile realtà britannica contrapposta con la nuova rampante ed emergente società americana. Il fantasma di per sé è solo un elemento nel contesto, anzi tecnicamente parlando è uno degli oggetti compresi nella compravendita della casa avita, presso la quale dimora.
Esilarante e burlesco, scritto in tono scansonato, con una prosa sciolta e disincantata, umoristico ma non troppo, questo testo, ingiustamente trascurato, racchiude dentro di sé tutto un universo: fatto oggetto di studi approfonditi esso rivela tutta una serie di piani narrativi elegantemente sovrapposti e sapientemente dosati. Ironia e satira nei confronti delle due culture contrapposte: da una parte il solido pragmatismo degli americani, convinti di conoscere la soluzione a tutti i problemi, sicuri di poter dominare il mondo, certi di ottenere la conquista di ogni obiettivo e di conseguire il superamento di tutti gli ostacoli, la nuova aristocrazia, il potere del denaro, la classe emergente, il futuro, dall’altro lato il passato, la vecchia solidità britannica, l’amore per le tradizioni, il mito, la leggenda, la classica imperturbabilità e quel vecchio ancestrale modo di essere sempre uguali a sé stessi in ogni circostanza che hanno fatto degli inglesi il popolo conquistatore e colonizzatore che ha dominato il mondo. Da una parte la vecchia solida Inghilterra dunque, e dall’altra l’America nascente, da una parte la fantasia, la creatività, l’emozione, dall’altra il realismo, lo scetticismo, il pragmatismo, due mondi diversi che mal si conciliano, e ancora una volta la lacerante divisione sempre più sentita tra l’umanismo e il positivismo, tra le tradizioni e il progresso, tra la storia e la scienza, tra la filosofia e la tecnica, in una lettura frizzante e umoristica, condotta con mano leggera e sobrio “sense of humour” che sono tipici di tutta la produzione di Wilde.
La storia in breve narra di un’ antica e solida famiglia britannica in procinto di vendere la dimora avita a una famiglia di americani rampanti, borghesi e arroganti. Vediamo il compunto capostipite Lord Canterville fornire al nuovo proprietario ragguagli circa gli accessori e le pertinenze del bene immobiliare, pare infatti che il distinto ministro americano non stia acquistando solo un antico castello, ma anche il suo intero contenuto, annessi e connessi, dunque comprensivo di mobili, tendaggi, tappeti, vasellame, domestici e …fantasmi. Dunque imperturbabile Lord Canterville sta informando Mr.Otis con distinto “savoir faire” non solo dell’esistenza del fantasma, appartenente alla sua famiglia da generazioni, ma anche dei suoi usi, costumi e abitudini. Chiaro che il ministro americano e la sua famiglia,da buoni appartenenti a una cultura giovane e irridente non prendano la cosa molto sul serio, anzi la considerano come un’ulteriore stranezza da parte dei vecchi Lord Inglesi e come tale la archiviano e la mettono da parte.
E qui assistiamo alla partenza della vecchia famiglia inglese, e all’insediamento della nuova turbolenta famiglia americana, quasi a leggere tra le righe una metafora sui cambiamenti che proprio allora si stavano preannunciando nel panorama mondiale con l’inesorabile&#nbsp; sopravvento della cultura del Nuovo Mondo sulle abitudini sopra le consuetudini e i costumi del Vecchio.
Anche se Wilde con il suo sofisticato snobismo non può esimersi dallo schierarsi dalla parte della solida e nei secoli immutabile realtà vittoriana,&#nbsp; non può nemmeno evitare di schiacciare scherzosamente l’occhio all’ingenua semplicità del popolo americano che pur facendo sorridere esercita comunque un fascino innegabile.
Dunque racconto fantastico, favola nera, testo di potente atmosfera gotica, o satira mondana-sociale che sia, questo racconto incanta e strega, fa sorridere e riflettere, mentre ascoltiamo il ministro americano opulento e saccente dichiarare che se mai un fantasma fosse esistito realmente in Europa i migliori impresari del continente nuovo lo avrebbero sicuramente ingaggiato per farlo lavorare nei loro teatri, come già accaduto con i migliori attori e cantanti, paragonando quindi una leggenda vivente a un mero fenomeno da baraccone. Nel contempo lo sentiamo dichiarare che se una governante sviene rompendo il servizio buono per aver visto un fantasma, è lecito e doveroso addebitarle i danni, e vediamo la distinta e imperturbabile Missis Otis offrire al fantasma sferragliante che percorre i corridoi trascinando le sue catene, un famoso e potentissimo prodotto per oliare gli ingranaggi, e il giovane rampollo della casata pulire la macchia di sangue che da secoli riaffiora nel salotto buono, a memoria di un turpe delitto compiuto in vita dal fantasma, con uno smacchiatore di provata efficacia, mentre i due gemelli, i più piccoli&#nbsp; della famiglia tendono al povero e ormai terrificato spettro ogni sorta di trappole e di trabocchetti tutte le volte che questi tenta di esibirsi in una delle sue famosissime apparizioni.
Ma Wilde strizza l’occhio ancora una volta al lettore inserendo nel racconto un ennesimo imprevedibile dualismo, perché, attenzione sarà proprio Virginia, l’unica figlia femmina della casata americana, a sanare questa ferita apparentemente inguaribile, questo enorme divario tra il vecchio e il nuovo mondo, tra la cultura emergente e quella discendente, riuscendo inaspettatamente a comprendere il fantasma e a soffrire per il suo dramma, venendo così a spezzare una maledizione antica di secoli, che nessuna delle generazioni precedenti, tutte solidamente inglesi, aveva potuto combattere, dando così al fantasma pace e riposo eterno.
Sembrerebbe finire qui, quando però il nostro arguto e imprevedibile ingannatore ancora ha una riserva di sarcasmo, nel mostrarci una Virginia, ormai non più ragazza ma donna sposata, tornare nostalgicamente al castello per rivisitare la sua personale leggenda, portando fiori sulla sua tomba, con indosso i vecchi gioielli di famiglia dei Canterville,i quali, di proprietà dello spettro ormai defunto e facente parte delle pertinenze, annessi e connessi del castello, appartengono ora di pieno diritto agli Otis….e chi ci vuol leggere qualcosa in questo epilogo ne tragga pure la sua personalissima morale…
Senza mancare però di considerare che proprio nel momento in cui il sagace, arguto e sarcastico Wilde ci ha ancora una volta ingannati, e con rara maestria e disinvolta leggerezza per di più, non possiamo non amarlo per l’eternità ripetendo con lui: “Chi intende il simbolo, lo intende a suo rischio e pericolo”.

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Gli inquieti fantasmi di Henry James ne “Il Giro di Vite”
Cosa c’è di più conturbante di una storia di fantasmi in cui sia implicato un bambino? Semplice: una storia di fantasmi con due bambini coinvolti loro malgrado in una spirale senza fine di terrore … Da qui trae spunto il travolgente inizio di una delle storie di fantasmi meglio narrate nella storia di tutti i tempi, con incredibili risvolti di suspense e angosciosissimi dubbi….

Henry James nasce a New York nel 1843, e come molti suoi contemporanei subisce prepotente il fascino del cossidetto virus europeo che indusse buona parte degli scrittori e degli intellettuali dell’epoca a viaggiare in lungo e in largo per il vecchio continente assumendone e assimilandone la cultura e la storia.
A Parigi viene influenzato dalla frequentazione con Flaubert, Zola e Maupassant, dopodichè si stabilisce definitivamente a Londra, dove dà vita alla maggior parte dei suoi capolavori, tra cui Giro di Vite.
Universalmente riconosciuto come una pietra miliare dello sperimentalismo formale, questo romanzo è basato sulle diverse connotazioni conferite alla narrazione dalla scelta del punto di vista, in grado di rappresentare gli eventi in maniera diametralmente opposta, rispetto alle altre prospettive possibili. Al punto che per la prima volta la storia narrata, non è più LA storia, ma solo UNA delle storie realmente possibili, perché ogni cosa cambia e si trasforma a seconda del punto di osservazione, trama e personaggi sono mutevoli, cangianti, ingannevoli e come fantasmi sembrano dissolversi e rapidamente riapparire sotto multiformi vesti di momento in momento. Tanto che il lettore una volta chiuso il libro, non è più nemmeno in grado di dire egli stesso a quale delle possibili rappresentazioni abbia appena assistito, riuscendo comunque solo a riconoscere che, qualsiasi storia fosse delle tante possibili, ne è rimasto magicamente ammaliato subendone il fascino senza neanche sapere come.
Oltre ad essere un gran romanzo gotico, questo testo si presta a molteplici analisi essendo in esso tutto appositamente studiato per stupire, meravigliare ed irridere. Ogni dettaglio, la pur minima sfumatura, la più sottile percezione, sono stati concepiti per ottenere un determinato risultato, che sorprendentemente muta a seconda della chiave interpretativa con cui viene esaminato.
Vediamo il titolo per esempio, siamo in un’epoca letteraria in cui i titoli sono mediamente molto lunghi e tendono a descrivere l’oggetto della narrazione in maniera esaustiva, tipo Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni, Frankestein o il Moderno Prometeo, Alice nel Paese delle Meraviglie o semplicemente ricalcano il nome del protagonista, Jane Eyre, Moll Flanders, Michele Strogoff, Dorian Gray, questo titolo sorprendentemente moderno, Giro di Vite, sembra alludere o precludere a consuetudini letterarie ancora da venire.
A una prima interpretazione il titolo, come spiegato dallo stesso autore nel prologo, anzi nell’antefatto, sta a simboleggiare una situazione aggravante, il dramma che si aggiunge al dramma, la goccia che fa traboccare il vaso: all’inizio della storia, troviamo un gruppo di persone riunite attorno al fuoco intente (come accadde alla famosa compagnia di Byron, Polidori, Percy e Mary Shelley) a raccontarsi storie per passare il tempo, storie intense, storie terrificanti, storie spaventose, insomma storie di fantasmi, e uno dei presenti esordisce dicendo, cosa ci può essere di più orrorifico di una storia di fantasmi in cui sia coinvolto un bambino?
Semplice: una storia di fantasmi in cui appaiono non uno ma ben due bambini. In pratica un giro di vite.
Ed ecco spiegato il titolo, o meglio così iniziamo a credere, ma sarà poi vero? E’ davvero questa l’interpretazione corretta che possiamo dargli? Cos’è in definitiva una vite? Un oggetto metallico costruito ed ideato in maniera tale da conficcasi profondamente nel legno man mano che ruota su se stesso. Se ci soffermiamo su questa immagine cosa possiamo vedere da un’altro punto di vista? Qualcosa che si fissa girando su sè stessa e che penetra lentamente e inesorabilmente nella superficie che ha davanti, un atteggiamento psicologico e pscicotico, una debolezza umana, un attaccamento selvaggio a un’idea fissa, una volontà pervicace, ottusa, ed ostinata.
Siamo nel giusto? Non lo sappiamo, e non lo sapremo mai per tutta la durata del racconto, come non lo sapremo una volta che lo avremo terminato, e come non potremmo saperlo nemmeno se lo rileggessimo altre mille volte.
Ma qual è l’io narrante scelto per realizzare questo innovativo stile letterario?
Molteplice anche questo: uno dei personaggi riuniti attorno al fuoco inizia raccontare una storia, a suo dire riportata da un suo amico, che a sua volta l’aveva letta in un diario.
Dunque un triplo passaggio. E chi è poi questo io narrante?
La protagonista diretta degli accadimenti, colei che è stata presente in ogni momento dello svolgimento, è una persona di tutta prova, di solida moralità, un’istitutrice, sufficientemente colta da non essere facile preda di isterismi o vittima di visioni, essa ci viene presentata, anzi si presenta da se stessa, come un soggetto degno della massima considerazione, tale per cui siamo costretti e quasi obbligati a prestare fede a ciò che dice, ciecamente, senza nulla chiedere né domandare. E pure gli eventi riportati sono di una tale “non credibilità” da lasciarci perplessi, anche perchè quel che ci viene prospettato dalla giovane donna non è tanto la narrazione oggettiva, ma la interiorizzazione dei fatti, la sua visione personale quindi, la sua proiezione singola ed individuale. Allora non ci resta altro che rivolgerci nel dubbio agli altri attori della narrazione scenica per avere conferme da loro sulla realtà dei fatti.
Già, ma chi sono poi gli altri? Abbiamo un capostipite, che però appare distante, lontano nella sua casa di città, che si limita ad assumere un’istitutrice col preciso intento di non essere né coinvolto né disturbato per la gestione delle necessità quotidiane, e che dopo il primo capitolo non compare praticamente più se non per dire, a mezzo lettera “per cortesia non voglio essere disturbato, sbrigatevela da Voi”. Dunque non è un attore quanto piuttosto un “deus ex machina”, colui che mette in moto gli avvenimenti, e poi si mette in disparte ad osservare, e su di lui non possiamo far conto, non interverrà.
Poi abbiamo una governante, e il personale di casa, ma chi sono questi elementi? Personaggi appartenenti a una classe inferiore (il romanzo rivela tra le altre cose anche insospettate connotazioni sociali, se non socialiste), poco affidabili, emotivi, influenzabili, rozzi, ignoranti, chiacchieroni e creduli: che aiuto possiamo mai aspettarci da loro?
Chi altro allora? Ci sono gli altri due protagonisti, i bambini sui quali l’istitutrice deve vegliare, ma sono bambini appunto, creature deboli, in balia degli eventi, inconsapevoli vittime, al centro di un arcano mistero, di cui non hanno consapevolezza, e come potrebbero?
Non ci resta dunque nulla altro che riaffidarci nelle mani della giovane donna, che ci narra la storia, ed assistere con lei ai misteriosi eventi, e con lei schierarci quando essa ne rimarrà coinvolta e drammaticamente sconfitta.
Anche la prosa di James è infida, i suoi stessi passi narrativi traggono in inganno, dicono e non dicono, e al contempo dicono tutto e il contrario di tutto, questo testo, a ben guardare somiglia a un gioco di puzzle montato male, non c’è un pezzo che si incastri bene con gli altri, ma tutti fluttuano vorticosamente senza mai fermarsi, tanto che non riusciamo nemmeno a vederne bene la forma né il colore né la dimensione.
L’istitutrice arriva nella casa di campagna, con il tipico entusiasmo dei giovani, e si accinge a prendere in mano la conduzione della casa e l’educazione dei ragazzi con tranquilla e disinvolta sicumera, certa che le sue fragili spalle siano perfettamente in grado di reggere tale peso, ma ecco che, quasi subito, vede una figura spettrale, oscura e misteriosa, uno sconosciuto che la osserva con malanimo, e poi scompare. Chi è costui? Indagando e chiedendo scopre presto che le fattezze da lei descritte si attagliano perfettamente all’intendente di casa, morto tragicamente anni prima, anzi scomparso…
Bene, non importa: i ragazzi sono graziosi, docili e arrendevoli, apprendono con facilità e si prestano volentieri a collaborare con la nuova maestra, la governante offre il suo valido aiuto, il personale di servizio è efficiente ed affidabile, tutto scorre per il meglio, l’andamento della casa procede a meraviglia, l’educazione dei ragazzi è posta su solide basi, il compito sembra dunque essere più semplice del previsto, se non fosse… se non fosse per quest’uomo subdolo ed oscuro che continua ad apparire e a scomparire.
Ma presto qualcosa si inceppa, il meraviglioso meccanismo perde dei colpi, il pacifico progredire dei giorni esce dai consueti binari della tranquillità quotidiana, le apparizioni si moltiplicano, si insinua prima il dubbio, e poi la terrificante certezza che anche i bambini sappiano, che anche i bambini vedano… ma che per qualche oscuro motivo essi non dicano nulla.
Anche la governante sa, anche la governante vede, e confidandosi narra di malefiche influenze, di oscure malvagità che a tratti affiorano nel comportamento di quelle angeliche creature, di parole irripetibili proferite dalla piccola, di comportamenti indecorosi tenuti dal ragazzo, si insinua presto l’ombra di un maleficio, i ragazzi sanno, i ragazzi vedono, essi sono posseduti, vittime di un maleficio, colpiti da una maledizione.
Ed i fantasmi che appaiono ora sono due, la precedente istitutrice e l’intendente, colpevoli di una bieca relazione amorosa che infrangeva e i limiti di classe e i confini della decenza, fuggiti, morti, defunti, scomparsi, eppure vivi, tornati a prendere possesso dei ragazzi, o forse a rivivere attraverso essi e dentro di loro.
Ma sono veri questi fantasmi? Ci sono davvero? O sono un frutto della mente malata dell’istitutrice?
Forse le troppe responsabilità, il peso eccessivo che grava su di lei, forse la gioventù, l’inesperienza, un supposto amore ideale e impossibile per il suo austero datore di lavoro, un eccesso di romanticismo, il forzato isolamento, forse tutto questo ha avuto ragione del suo equilibrio mentale, e la posseduta, la folle, la visionaria potrebbe alla fine essere solo lei? Ma allora perché questi ragazzi sono così angelici, così perfetti nella loro arrendevolezza, così assolutamente candidi e innocenti, al punto da apparire quasi sospetti? Non sappiamo e mai potremmo dire da che parte sta la verità.
Quando ecco nelle pagine finali il mistero sembra svelarsi, dal fondo del tunnel cominciamo a intravedere una luce, che si avvicina, ora sta per illuminarci, quasi vediamo, quasi crediamo di capire, quasi comprendiamo il macabro gioco di prestigio di cui sicuramente siamo stati vittime ( e vi assicuro che a questo punto nemmeno un allarme antiaereo o un incendio in salotto riuscirebbero a schiodarvi dalla vostra poltrona) e un attimo prima che la soluzione ci venga svelata, o forse giusto un attimo dopo, ricadiamo perplessi nelle tenebre più oscure della più impenetrabile non conoscenza.
Perché alla fine ne sappiamo meno di quanto credevamo di sapere all’inizio, il vento ha girato e ha riportato l’imbarcazione in mare aperto, i flutti e i marosi ci sballottolano di qua e di là, le vele sbattono implacabili contro l’alberatura, gli spruzzi ci colpiscono sul viso, e noi vaghiamo senza meta in questo oceano sconfinato e non troveremo mai la strada. Perché sapete cosa succede alla fine? Che la giovane e coraggiosa istitutrice, colta in fondo anch’essa dal dubbio di essere pazza, decide di uscire allo scoperto, e costringe le piccole creature ad affrontare le inquietanti visioni, di cui ovviamente davanti alla loro possibile o supposta innocenza prima non si era mai parlato, e gli chiede, non senza devo ammetterlo, un certo tono da invasata, allora li vedi? Dimmi che li vedi anche tu… Ottenendo dalla bimba un collasso immediato e una fortissima crisi di febbri epilettiche, che la costringono ad allontanarla e a mandarla sollecitamente dal medico di città accompagnata dalla governante. Fatto questo l’istitutrice resta ovviamente sola col ragazzo, il quale a momenti appare un bimbo sprovveduto ed ingenuo, ancora rivestito dei candidi panni dell’infanzia, a tratti invece appare un semi-adolescente inquieto e spavaldo, quasi in tentazione di sedurla. Messo a confronto anch’esso, brutalmente e con violenza, con l’ennesima apparizione, al reiterato: dimmi che anche tu la vedi… egli crolla folgorato tra le braccia della povera sconsolata avventata folle e coraggiosa istitutrice e, ci dice l’autore, il suo povero cuore ora non batte più.
Potete leggerlo e rileggerlo questo romanzo, e anche copiarlo parola per parola se credete che questo vi possa aiutare, e setacciare tutte le biblioteche alla ricerca di prefazioni, interpretazioni e recensioni, tutto quello che troverete sarà sempre e soltanto un grande, meraviglioso, incomparabile gioco di alchimia letteraria, mai tentato prima, e devo dire, mai eguagliato dopo.
Anche se, ve lo confesso, se solo Henry James fosse stato vivo gli avrei scritto o telefonato, per avere le mie risposte.
Ma chissà che io non possa, forse, dopotutto, evocare il suo fantasma ?

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Frankestein di Mary Shelley
Il terribile mostro che condanna la falsa onniscenza dell’uomo è in assoluto la prima prima pietra miliare che viene posta in letteratura a creare la genesi di tutta una serie di filoni destinati ad avere in seguito grandissima fortuna, dal gotico al noir, dall’horror al thriller, questo romanzo è l’antesignano di tutti i generi “neri”

Influenzato dalla rapida successione di incredibili scoperte scientifiche e tecnologiche e dai primi studi evoluzionistici a firma di Erasmus Darwin, vede la luce nel 1817 il Frankestein di Mary Wollstonecraft Shelley, nel tentativo di spiegare un universo in pieno mutamento e di rappresentare la falsa onniscienza in cui l’uomo all’epoca si cullava, questo romanzo rappresenta la genesi del genere fantastico frutto di una perfetta fusione di elementi gotici e fantascientifici.
La scrittrice inglese nacque il 30 agosto 1797 in un ambiente ricco di stimoli culturali e di pensieri decisamente innovativi, da due genitori letterati ed intellettuali: il padre, William Godwin, fu filosofo, teorico, politico e scrittore appartenete al movimento del razionalismo anarchico, la madre Mary Wollstonecraft, scomparsa prematuramente, viene considerata l’antesignana di tute le femministe, tra le prime a promuovere i diritti della donna, scrisse una serie di testi sul femmismimo, fu attiva militante del movimento, decisamente progressista, fu la fondatrice di un circolo che per la prima volta accoglieva le donne di ogni ceto sociale, tra cui molte scrittrici. A lei si deve il primo manifesto femminista di tutti i tempi, tra l’altro pubblicato anche in Italia nei caldi anni ‘70.
La vita della madre di Mary Shelley fu per molti versi drammatica, e per alcuni aspetti simile e speculare a quella che ebbe poi la figlia, protagonista di una fuga d’amore e di una relazione clandestina dopo aver concepito una figlia fuori dal matrimonio, tentò il suicidio a seguito dell’abbandono dell’amante, e infine lo seguì fino in Scandinavia, scrivendo poi un romanzo su questo inseguimento d’amore, Travel, dove descrive se stessa come un’intellettuale alle prese con le difficile scelte di donna e di madre, nonchè di rivoluzionaria. Di lei ci restano le struggenti lettere d’amore al suo perduto amore, il diario di viaggio, e un successivo romanzo sempre autobiografico dal titolo Maria, or The Wrongs of a Woman pubblicato postumo dal vedovo, il padre di Mary, con cui aveva intrapreso una nuova relazione dopo la precedente drammatica esperienza amorosa, e che sposò solo dopo essere rimasta nuovamente incinta. Morì di febbre puerperali nel 1797 dopo aver dato alla luce Mary.
Mary, invece, sulle orme delle esperienze materne, a soli 16 anni incontra durante un soggiorno in Scozia il romantico, giovane e geniale poeta ribelle Percy Bysse Shelley, e lo segue in una romantica fuga d’amore fino in Svizzera, lo sposa solo nel 1816, dopo la morte per suicidio della prima moglie di lui, Harriet Westbrook, anch’essa giovanissima. Con il marito viaggia attraverso l’Europa in Francia, Germania ed Olanda, ed approda infine in Italia.
Come per le sorelle Bronte la sua vita fu improntata da una serie infausta di tragedie ed eventi lussuosi, succedutisi senza interruzione: nel 1822 muore il marito Percy per il naufragio del suo natante da diporto nelle acque tra Genova e La Spezia, i comuni amici Byron e Polidori muoiono anch’essi giovanissimi, Byron a Missolungi, Polidori suicida, la nipotina Allegra, figlia che la sorellastra Claire ebbe da Byron, fu da questi affidata a un Istituto dove morì di malattia in tenera età, come accadde anche ai figli di Mary e Percy, di cui solamente uno sopravvisse.
L’esistenza di Mary stessa si trascinò tormentata da scandali, amori non corrisposti, e aspre difficoltà economiche fino alla morte, probabilmente per un tumore al cervello, nel 1851.
Tuttavia nonostante le alterne vicende Mary Shelley, a quanto ci risulta,fu in assoluto la prima donna a vivere dei suoi proventi di scrittrice, nonostante fosse stata costretta a dare alle stampe le sue prime opere in forma anonima, o sotto pseudonimo maschile. E il suo romanzo, definitivamente consegnato al mito della storia della letteratura, essendo in assoluto il capolavoro che vanta in tutti i tempi il maggior numero di imitazioni, dimostra una struttura narrativa particolarmente ardita ed innovativa.
Come tutti sanno, la genesi di questo romanzo ebbe inizio durante un incontro, la cui storia appartiene ormai alla leggenda. Nell’estate del 1816 Lord Byron si trovava sul lago di Ginevra, in una suggestiva Villa, la Villa Diodati, che aveva preso in affitto per la stagione, e la sera per ingannare la noia di una lunga serie di giorni piovosi, davanti al caminetto gli ospiti eccellenti di quel soggiorno estivo, dopo aver narrato storie di fantasmi facendo a gara per raccontare la storia migliore, decidono di dar vita a una gara di scrittura, con l’idea di preparare ciascuno una storia attinente al genere gotico-orrorifico.
I presenti erano Lord Byron (padrone di casa), il poeta Percy Bysshe Shelley, accompagnato dalla sua giovanissima moglie Mary Wollstonecraft e il medico John Polidori, e quella fu una notte memorabile per la storia della letteratura.
Byron e Shelley composero due brevi racconti, The Burial e The Assassin, Polidori ideò un romanzo breve Il Vampiro, poi dato alle stampe nel 1819, anch’esso antesignano di uno specifico filone letterario di indiscussa fortuna, sopravvissuto fino ai nostri giorni, e Mary stese una novella ispirata al mito di Prometeo, dal titolo di Frankestein, pubblicata nel 1818 e destinata alla consacrazione eterna nella storia della letteratura.
Pur non essendosi mai cimentata con il genere, l’opera di Mary risultò talmente carica di orrore inespresso, che ella sentì il bisogno di celarsi dietro un immaginario sogno ” a occhi aperti” che, disse, le aveva ispirato il racconto, rivelandosi forse, la prima esperta di Marketing Letterario nella storia.
Difficilmente si riesce a immaginare una trama simile concepita da una mente femminile, ed era certo più semplice trovare riparo nel facile espediente di un evento onirico.
La novella iniziale era molto più breve, e furono necessari anni di rielaborazioni per portarla a compimento nella forma attuale. Sia la trama che la struttura narrativa sono ardite e ardimentose, prospettando dei modelli innovativi per l’epoca e dei contenuti che furono a suo tempo aspramente criticati. Negli anni a venire la critica letteraria ha creduto di rintracciare in quest’opera, dichiaratamente ispirata al mito di Prometeo, influssi e connotazioni comuni con le opere di Milton ne Il Paradiso Perduto, di Omero nell’Iliade e nelle Metamorfosi, di Shakespeare ne LaTempesta e nel Sogno di Una Notte di Mezza Estate, di Stevenson nel celeberrimo Dr. Jekyll and Mr Hyde, e di Oscar Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray.
Basterebbero da soli questi parallelismi così eccelsi e tanto complessi per proiettarci in quella che è la reale dimensione di questa opera fondamentale ed unica, anche al di fuori del suo genere.
“I am by birth a Genevese, and my family is one of the most distinguished of that republic. My ancestors had been for many years counsellors and syndics, and my father had filled several public situations with honour and reputation. He was respected by all who knew him for his integrity and indefatigable attention to public business. He passed his younger days perpetually occupied by the affairs of his country; a variety of circumstances had prevented his marrying early, nor was it until the decline of life that he became a husband and the father of a family.”
Questo il sommesso incipit, pur vigoroso, di un testo complesso, svolto su diversi piani temporali, che non predilige nessuna delle forme narrative consuete all’epoca, in questa partenza nulla ci anticipa, nulla ci prepara, nulla ci avvisa del sommesso fremito orrorifico che presto ci pervaderà, e già nella quarta delle lettere che ci introducono, riassumendo, in “media res” ci sentiamo chiedere dallo stesso co-protagonista della vicenda: “…..non senti anche tu ghiacciarti il sangue per l’orrore?…” e non possiamo non concordare con lui, perche’, pur sapendo poco o nulla della vicenda, tuttavia sentiamo serpeggiare nelle nostre vene un indiscusso, irrefrenabile e oscuro fremito di puro terrore.
Sarà l’ambientazione tra i ghiacci, sarà la sensazione che il co-protagonista non è altro in realtà che la “spalla” dell’orrida creatura, vera indiscussa e incontrastata stella dell’intera narrazione, sarà che la vicenda si snoda in una serie di falsi piani temporali e narrativi, ma la magia di questo testo difficlmente è riproducibile, ed effettivamente mai è stata riprodotta, neppure in parte, nelle centinaia di tentativi di imitazione che si sono succedute nei secoli a venire.
Ma vediamo per sommi capi la storia, ovviamente nota a tutti, e la trasposizione narrativa, esaminata nella sua complessa architettura strutturale.
Facendo una rapida sintassi, una specie di Bignami della trama, possiamo dire per sommi capi che si narra di uno studioso di medicina svizzero, che sperimentando tenta di creare la vita dal nulla ed assembla una creatura mostruosa usando pezzi trafugati dai cadaveri nel cimitero, riuscendo ad infondere in essa la vita, ma che poi, terrorizzato dal suo medesimo successo, fugge nell’attimo stesso del suo affacciarsi alla vita, lasciandola ad affrontare da sola le difficoltà della sua esistenza. La creatura orrorifica ed incompleta, dotata di un aspetto terrificante, abbandonata a se stessa tenta di trovare una sua via, ma viene rifiutata e perseguitata a causa del suo orrido aspetto, la sua bramosia di vita si ritorce in odio verso l’umanità in genere e verso il suo creatore in particolare.
Parte così una doppia caccia del mostro in cerca del suo creatore per vendicarsi e del creatore in in cerca del mostro per liberare l’umanità dalla sua fastidiosa presenza, in una rocambolesca fuga attraverso i ghiacci, in cui non si sa più chi sia preda e chi cacciatore, chi vincitore e chi vinto, chi il bene e chi il male.
Questo dualismo è in realtà il filo conduttore di tutta l’opera.
Il primo editore a cui si rivolse, facendo passare il suo manoscritto per quello di un giovane autore, rifiutò il libro, che venne poi pubblicato da Lackington, Allen and Company, nel marzo 1818, non conoscendo un successo immediato se non dopo innumerevoli discussioni e polemiche, che non fecero altro che alimentarne il mito, definitivamente consacrato con la realizzazione delle prime trasposizioni cinematografiche, almeno sei di cui l’ultima celeberrima, senza contare tutta la produzione minore.
Mary Shelly scrisse successivamente biografie, racconti di viaggio, storie della letteratura, articoli di giornali, romanzi futuristici e novelle, ma senza mai eguagliare la sua prima eccelsa opera, morì nel 1851, logorata da un lungo travaglio doloroso, probabilmente a causa di un tumore al cervello.
A tutti gli effetti la Shelly fu considerata la vera madre dell’intero filone fantascientifico e il suo Frankestein continua ad avere un grande successo, tanto che vanta il maggior numero di tentativi di imitazione, ristampe; e trasposizioni sia teatrali che cinematografiche.

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RECENSIONI INCROCIATE (di Enrico Gregori e Vito Ferro) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/26/recensioni-incrociate-di-enrico-gregori-e-vito-ferro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/26/recensioni-incrociate-di-enrico-gregori-e-vito-ferro/#comments Wed, 26 Sep 2007 21:35:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/26/recensioni-incrociate-di-enrico-gregori-e-vito-ferro/ Ho incontrato Enrico Gregori e Vito Ferro in maniera rocambolesca.

Stavo per eliminare le mail raccolte nella cartella spam del mio account quando, tra una promozione del viagra e una missiva in cui mi informavano che avrei vinto un milione di euro se (non ho continuato la lettura), scorgo – uno sull’altro – i messaggi di posta elettronica dei due suddetti individui.

Mi accorgo che le mail sono state inviate quasi contestualmente (a distanza di pochi minuti) e contengono informazioni sui libri di cui parleremo in questo post.

Dal breve scambio epistolare intuisco che Enrico e Vito sono accomunati, oltre che dall’essere riconosciuti come “spam” dal mio account di posta elettronica, da uno spiccato senso dell’umorismo.

Così ho pensato bene di metterli in contatto.

Volete che parli dei vostri libri? Facciamo così: spediteveli reciprocamente e recensitevi a vicenda.

Così ho detto, così hanno fatto.

Insomma, quelle che vi propongo sono recensioni incrociate. Vito recensisce il libro di Enrico e viceversa.

Saranno recensioni credibili? Si saranno messi d’accordo?

Leggete e giudicate.

E poi parlatene con gli interessati.

(Massimo Maugeri)

P.s. Guarda cosa si deve inventare uno per parlare di libri in maniera alternativa!

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Un tè prima di morire (di Enrico Gregori) – Editore Bietti, 2007, euro 10, pagg. 138

recensione di Vito Ferro

In un albergo americano che sarà la sede di un importante summit di potere e finanza, un probabile attentatore sanguinario è pronto a colpire il suo bersaglio, un uomo spregevolmente ricco, odiato da tutti. L’albergo, il prestigioso Manovar, diventa così una fortezza presidiata da poliziotti e cecchini, artificieri e agenti antiterrorismo. C’è tensione nell’aria e tutti gli ospiti dell’albergo, gli inservienti, gli abitanti della cittadina attendono un qualcosa che di tragico e devastante dovrà avvenire. E’ questo, in sintesi, l’incipit del bel romanzo di Enrico Gregori, giornalista e scrittore di Roma, che pubblica con Bietti (il libro è acquistabile tramite il sito della casa editrice www.bietti.it) questo avvincente noir (ma vedremo presto quanto l’etichetta stia stretta, molto stretta…) composto da ampie finestre narrative, squarci di vita narrati con lucidità, immediatezza, incisivo fervore. Il libro è, come dicevamo, difficilmente inscrivibile nel genere di thriller canonico: sembra anzi che la vicenda primaria della storia (l’attesa lunga della strage), sia quasi soltanto pretesto e stimolo per mostrarci, vivisezionata alla perfezione, l’esistenza delle singole persone che abitano l’albergo e le pagine del libro, tasselli e ingranaggi di un puzzle o di un meccanismo che mostra e scandisce il tempo verso l’ineluttabile (?), verso l’apoteosi. Si muovono come esseri umani veri, questi personaggi di carta, con le loro ansie, le loro paure, le gioie preservate nell’intimo e le loro missioni: ognuno di loro ha infatti una missione particolare, un senso da dare alla sua immediatezza, uno scopo profondo. C’è chi deve portare a compimento l’attentato, chi deve impedirlo, c’è chi è destinato a subirlo in quanto vittima sacrificale nel gioco dei poteri e della ricchezza, chi si trova nel luogo e sente di essere costretto a dovervi partecipare senza averne ragione o colpa. Dopo l’undici settembre, una vicenda come quella narrata da Gregori, acquista uno spessore e un valore di verità decisiva: figlia dei tempi ormai giunti, la paura e l’attesa (spesso risolta nel dramma, nel sangue) da Deserto dei Tartari, è l’aura che circonda la nostra consapevolezza, ormai certi di poter essere tutti bersaglio della follia terroristica e pagare colpe più grandi, avviluppati nella scacchiera sporca di una politica senza scrupoli, deviata e criminale. Ma il libro va oltre, e la metafora a cui rimanda è quella dell’eterno gioco tra la vita e la morte, la dinamica propria ad ogni esistente che cerca con il proprio particolare agire (e con la rimozione volontaria della consapevolezza che la fine di tutto sia in agguato, dietro l’angolo, dentro ogni passo, movimento, scelta), di scacciare il senso di inevitabile che ci condiziona e marchia tutti. Dentro l’albergo della storia quindi, soggiorniamo tutti noi. Chiunque di noi, che sia povero o ricco, abbia scopi nobili o perversi, provenga da un passato oscuro o abbia condotto la sua vita irreprensibilmente, che sia in fuga o in ricerca, è accumunato dall’avere una stanza nel Manovar (il nome del’albergo che ricorda l’espressione Man on War: uomo in guerra: uomo in guerra costante con se stesso e la vita). Lo scrittore riesce così, grazie ad un linguaggio diretto, franco, vivo, di mostrarci l’intima reazione di ognuno alla paura, a quella paura atavica che ci costringe a guardare al fondo di noi stessi e a fare i conti con una certezza che si preferisce evitare. Densi di un’umanità in affanno, capace di inventarsi manovre e speranze diverse, i personaggi del libro, ci sembrano così vicini, così veri: i poliziotti che maledicono il rischio che devono correre compiendo il loro dovere, l’uomo che sogna un amore e lo coltiva nel suo silenzio, la coppia adulterina sospesa tra desiderio e rimorso, il musicista che insegue la sua passione al di sopra di tutto, la poetessa in cerca del dialogo più intimo, più sincero, gli attori di teatro persi dentro la confusione di un ruolo, e ancora i magnati potenti invischiati nelle lotte per la supremazia disumana, il magnate, Colin Mallory, il bersaglio, lo spietato squalo che odiano tutti e che sembra destinato a scontare la pena accumulata in un vivere amorale, senza regole. E c’è anche, come personaggio aggiunto, il senso di pericolo incombente di cui si ignora quale faccia abbia, quale strategia. In un collage da reality veritiero sono i gesti, i tic, le ansie, le parole cariche di sospiro e trepidazione a connotare questi soggetti come ben altro da semplici comparse. Sono loro il libro, sono le loro interazioni, lo scorrere metodico di tante vicende che si accavallano, sino a sfumare e forse risolversi una volta finita la storia. Bene o male? Non lo dirò mai, ovviamente. Ma solo ricordo e ribadisco quanto il bene e il male, in questa vicenda, si smarriscano uno dentro l’altro, fino a perdere i netti contorti, fino a confondere alibi, ragioni, sentimenti, certezze. Proprio come nella vita di tutti i giorni, dove una colpa è spesso soltanto l’altra faccia di una ingenuità portata all’estremo. Ottima prova del Gregori, quindi, libro avvincente e tagliente, frutto di una capacità di resa narrativa che gli viene sicuramente dal suo lavoro di giornalista e dalla sua esperienza di conoscitore d’uomini. Ma sa anche giocare, e bene, Gregori con questa sua capacità, stravolgendo caratteri e cliché, infarcendoli di un ironia, a volte amara, a volte esilarante: crea un genere a sé che sta a metà strada tra la commedia umana e il noir più tradizionale. E questo grazie ad un linguaggio che non gira attorno alla sua materia in una costante rincorsa narcisistica, ma da essa proviene e ad essa si attiene: la materia dell’amore, del sesso, della morte, della ricerca, della violenza. Sono tutte con l’iniziale minuscola. Sono tutte le cose di cui ci circondiamo, e che, alla resa dei conti, abitano la nostra esistenza. E così come sono ce le presenta l’autore offrendoci questo Tè prima di morire.

Vito Ferro

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L’ho lasciata perché l’amavo troppo (di Vito ferro) – Coniglio Editore, 2007, euro 6,50, pagg. 93

recensione di Enrico Gregori

Un libro di circa 100 pagine pieno di pretesti per lasciare lei o per farsi da lei lasciare. Tale codardo volumetto non poteva che essere pubblicato dall’editore “Coniglio”(www.coniglioeditore.it). Sotterfugi, giustificazioni incredibili, situazioni paranormali. Tutto questo, forse, per non dirsi semplicemente “è finita”.

Vito Ferro ci regala questo manuale che, epidermicamente, pare un libro di barzellette sui carabinieri oppure un diario scolastico d’ultima generazione.

Io, ritenendo che la fantasia può rendere gradevole anche l’orario dei treni, dico che Vito di fantasia ne ha usata a profusione. Quindi, tra battute, monologhi, dialoghi e fandonie, “L’ho lasciata perché l’amavo troppo” è un esercizio cerebrale affrontato con cura e intelligenza. Volendo si ride, volendo si riflette.

Chi ne ha voglia potrebbe anche spulciare nelle psicologie, nelle timidezze, nei diversi approcci che maschietti e femminucce hanno nei confronti dell’abbandono. Io, esprimendo a Vito la mia ammirazione, vorrei semplicemente dire che non è facile, non è affatto facile costruire 100 pagine su un unico concetto.

Fantasia, dunque, e tanto di cappello al giovane autore. Anche con un pizzico di invidia perché se, ad esempio, avessi affontato io il medesimo cimento, avrei scritto un libro di tre sole righe.

Io: “Chi ha composto Eleonor Rigby”?

Lei: “George Michael?”

Io: “Vaffanculo!”

Enrico Gregori

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