LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » eo http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 LIA LEVI con “Ognuno accanto alla sua notte” (E/O) in radio a LETTERATITUDINE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/27/lia-levi-con-ognuno-accanto-alla-sua-notte-eo-in-radio-a-letteratitudine/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/27/lia-levi-con-ognuno-accanto-alla-sua-notte-eo-in-radio-a-letteratitudine/#comments Wed, 27 Jan 2021 15:00:11 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8697 LIA LEVI con “Ognuno accanto alla sua notte” (E/O), ospite del programma radiofonico Letteratitudine trasmesso su RADIO POLIS (la radio delle buone notizie).

In streaming e in podcast su RADIO POLIS

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia, postproduzione e consulenza musicale: Federico Marin

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Ospite della puntata: la scrittrice Lia Levi con cui abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato “Ognuno accanto alla sua notte” (E/O).

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La scheda del libro: “Ognuno accanto alla sua notte” di Lia Levi (E/O)

Roma nel periodo delle leggi razziali. Come è possibile che Giulio Limentani, commediografo di successo, si trovi a seguire un proprio lavoro di scena in un teatro, nascosto in incognito in un angolo del loggione?
E come riusciranno a vivere il loro amore i due quindicenni Colomba e Ferruccio, lei ebrea e lui figlio di un gerarca fascista?
Infine un tragico dilemma: la classe dirigente ebraica di quegli anni è forse colpevole di aver sottovalutato il pericolo? E se è un figlio ad accusare di questa inadeguatezza il proprio padre?…
Tre vicende diverse se pur collegate in cui Storia e Destino intrecciano il loro enigmatico gioco.

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Lia Levi, di famiglia piemontese, vive a Roma, dove ha diretto per trent’anni il mensile ebraico Shalom. Per le nostre edizioni ha pubblicato: Una bambina e basta (Premio Elsa Morante Opera Prima), Quasi un’estate, L’Albergo della Magnolia (Premio Moravia), Tutti i giorni di tua vita, Il mondo è cominciato da un pezzo, L’amore mio non può, La sposa gentile (Premio Alghero Donna e Premio Via Po), La notte dell’oblio, Il braccialetto (Premio Rapallo) e Questa sera è già domani, vincitore del Premio Strega Giovani 2018. Nel 2012 le è stato conferito il Premio Pardès per la Letteratura Ebraica.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia, post produzione e consulenza musicale: Federico Marin

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È possibile ascoltare le precedenti puntate radiofoniche di Letteratitudine, cliccando qui.

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La colonna musicale della puntata (a cura di Federico Marin): brani in ordine di ascolto

sigla: Jason Shaw – BACK TO THE WOODS
licenza: https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/us/

Canzoniere Grecanico Salentino – Nenia Grika
licenza: https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/

The Jack Maybe Project – Death of Reason (The Jack Maybe Project-Nov 2017-LIVE)
licenza: https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/

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SIMONA LO IACONO con “Le streghe di Lenzavacche” a Letteratitudine in Fm http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/03/23/in-radio-con-simona-lo-iacono-2/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/03/23/in-radio-con-simona-lo-iacono-2/#comments Wed, 23 Mar 2016 17:04:26 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7092 SIMONA LO IACONO con “Le streghe di Lenzavacche” a Letteratitudine in Fm di lunedì 21 marzo 2016 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino).


In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

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Simona Lo Iacono è stata ospite della puntata di “Letteratitudine in Fm” di lunedì 21 marzo 2016.

Con Simona Lo Iacono abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato “ Le streghe di Lenzavacche” (Edizioni E/O).

Le prime pagine del romanzo sono disponibili qui.

Di seguito, la scheda del libro e il booktrailer.

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Le streghe di Lenzavacche” di Simona Lo Iacono (Edizioni E/O
È il 1938. Ululano le sirene che inneggiano al fascio. A Lenzavacche, minuscolo paese della Sicilia, vivono Felice, un bimbo disabile ma vivacissimo, la madre Rosalba e la nonna Tilde. Una famiglia stranissima, di sole donne, frutto di una misteriosa discendenza da streghe perseguitate nel 1600. Felice – che è il frutto di un amore appassionato della madre con un arrotino di passaggio, il Santo – grazie all’estro e alla originalità dei famigliari, riesce a vivere in pienezza nonostante i disagi fisici e l’emarginazione, in un periodo – come quello fascista – in cui è sommamente esaltato il valore della perfezione fisica. Si muovono accanto a lui i personaggi dell’intero paese, primo fra tutti il farmacista Mussumeli, donnaiolo incallito ma protettore degli ultimi, ridanciano e umilissimo nella sua veste di benigno tutore della famiglia. E poi nonna Tilde, zelante sostenitrice del potere benevolo delle streghe, delle quali si dichiara orgogliosa discendente e a cui si ispira costantemente per offrire al nipote disabile rimedi portentosi e anticipatori del futuro. Mentre il piccolo Felice compie progressi e i suoi cari s’ingegnano ad escogitare metodi che possano regalargli movimento, parola, indipendenza, arriva a Lenzavacche un nuovo maestro elementare. Giovane e innamorato della cultura, fantasioso ma dominato da un dolore lontano, questo maestro, in aperto contrasto con il regime dell’epoca, non accetta i luoghi comuni sull’insegnamento, è un assertore convinto del valore spirituale dei libri, scrive lunghe lettere a una misteriosa zia, a cui narra le difficoltà di inserimento nel paese.
In una Sicilia viziosa, ma pronta a giudicare, carnale e insofferente alla diversità, religiosa e pagana, Felice, sua madre e il maestro Mancuso, amanti della fantasia e dei libri, finiscono per diventare i simboli di una controtendenza dirompente, quella che decide di andare al di là delle apparenze e di scommettere sul valore della pietà umana. La loro parabola finisce allora per somigliare proprio a quella delle streghe, un gruppo di donne vissute a Lenzavacche nel 1600 che decise di vivere in castità e in obbedienza e di riunirsi   per fronteggiare eventi difficili della vita, affratellandosi in un vincolo di solidarietà umana. Mogli abbandonate, spose gravide, figlie reiette o semplicemente sfuggite a situazioni di emarginazione, si riunirono infatti in un casaleno ai margini dell’abitato e iniziarono a condividere una vera esperienza comunitaria e anche letteraria. Furono però fraintese, bollate come folli, viste come corruttrici e istigatrici del demonio. Finirono per essere ricordate come “Le streghe”…ma – ciò nonostante – sia Felice che il maestro Mancuso sperimenteranno, sotto gli occhi compiaciuti di Tilde, la forza della loro portentosa vitalità. Metafora del coraggio, della fantasia, della seconda opportunità di vita che la narrazione e la compassione offrono all’uomo, le streghe assurgono allora a simbolo di quella che la società bolla e perseguita come diversità, perdendo così l’occasione di amarla e riconoscerla come possibilità di crescita interiore e morale.

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Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970. Magistrato, presta servizio presso il tribunale di Catania. Ha pubblicato diversi racconti e vinto concorsi letterari di poesia e narrativa. Sul blog letterario Letteratitudine di Massimo Maugeri cura una rubrica che coniuga norma e parola, letteratura e diritto, dal nome “Letteratura è diritto, letteratura è vita”. Il suo primo romanzo, Tu non dici parole (Perrone 2008), ha vinto il premio Vittorini Opera prima. Nel 2010 le sono stati conferiti il Premio Internazionale Sicilia “Il Paladino” per la narrativa e il Premio Festival del talento città di Siracusa. Nel 2011 ha pubblicato Stasera Anna dorme presto (Cavallo di Ferro), con cui ha vinto il premio Ninfa Galatea ed è stata finalista al Premio Città di Viagrande. Nel 2013, sempre per Cavallo di Ferro, ha pubblicato il romanzo Effatà, vincitore del Premio Martoglio e del premio Donna siciliana 2014 per la letteratura. Attualmente conduce sul digitale terrestre un format letterario dal nome BUC, trasmissione che mescola al libro varie discipline artistiche, e cura sulla pagina culturale della Sicilia la rubrica letteraria “Scrittori allo specchio”. Presta inoltre servizio presso il carcere di Brucoli come volontaria, tenendo corsi di letteratura, scrittura e teatro, tutti mezzi artistici con i quali intende attuare il principio rieducativo della pena sancito dall’art 27 della Costituzione.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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La colonna sonora della puntata è composta dai seguenti brani musicali: “Beethoven Silencio” di Julio Cortazar (parte I); Carl Orff – O Fortuna ~ Carmina Burana; “Beethoven’s Silencio” di Julio Cortazar (parte II)

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

È possibile ascoltare le puntate precedenti, cliccando qui.


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SETTANTA ACRILICO, TRENTA LANA: Viola di Grado http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/05/29/settanta-acrilico-trenta-lana/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/05/29/settanta-acrilico-trenta-lana/#comments Sun, 29 May 2011 21:25:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2992 Aggiorno questo post giusto per congratularmi con Viola Di Grado. In questi mesi “Settanta acrilico, trenta lana” ha fatto incetta di premi importanti. Su tutti (notizia di ieri), la vincita del Premio Campiello opera prima 2011.
Brava, Viola! Complimenti a te e al tuo talento.
Massimo Maugeri

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Post del 7 febbraio 2011

settanta-acrilico-trenta-lana1L’ho capito sin dalle prime pagine che questo romanzo d’esordio di Viola Di Grado (Settanta acrilico, trenta lana – edizioni E/O – 2011) aveva le carte in regola per lasciare il segno. Se n’è accorto anche Giovanni Pacchiano che, sulle pagine di Domenica de Il Sole 24 Ore del 6 febbraio, scrive: “È un libro fatto di segni del destino il notevolissimo romanzo d’esordio di Viola Di Grado, Settanta acrilico trenta lana. In quest’inizio d’anno, mentre gli editori puntano molto sugli esordienti, ingolositi dai grandi slam di Giordano e della Avallone, lei, i romanzi dei suoi concorrenti, li eclissa. Se c’è giustizia al mondo, farà piazza pulita ai premi“.

Nella scheda del libro, Viola (che ho il piacere di conoscere personalmente già da prima della pubblicazione di questo libro) è definita “dark come Amélie Nothomb e letteraria come Elena Ferrante“. Io dico, molto più semplicemente, sebbene questo sia il suo primo libro, che Viola Di Grado è Viola Di Grado. E il segno che questo romanzo lascia (perché lo lascia: leggere per credere!) discende direttamente dalla sua scrittura: originale, mai banale, immaginifica, a tratti cinematografica, graffiante e cinica, ma con punte di lirismo. Una scrittura che procede per simboli e metafore, che cattura e spiazza al tempo stesso… capace di scuoterti, ma anche di farti sorridere. Insomma, sin da questo primo libro Viola Di Grado dimostra di possedere una cifra letteraria del tutto personale che le fornisce un’identità autoriale ben precisa… al di là dell’esordio.

E a proposito della scrittura di Viola, mi piace evidenziare l’opinione della brava Sandra Bardotti di Wuz (la riporto di seguito):
viola_di_gradoLaureata in lingue orientali a Torino, Viola Di Grado (nella foto) ha fatto l’Erasmus a Leeds, poi ha viaggiato in Giappone e in Cina, e ora si sta specializzando in filosofia cinese a Londra. Questo romanzo lo ha finito di scrivere due anni fa, quando di anni ne aveva ventuno. Eppure Settanta acrilico trenta lana dimostra una originalità e maturità di lingua e contenuti davvero rara per una scrittrice della sua età. Definita “dark come Amélie Nothomb e letteraria come Elena Ferrante”, Viola Di Grado costruisce il suo romanzo sulla lingua, attraverso iperboli, sinestesie, allitterazioni, parole che dipingono una natura al neon, di plastica, – acrilica, appunto -, sezionando lo spazio ovattato di questa Leeds letteraria come un bisturi. Una lingua che taglia e squarcia la pagina, come se fosse un fiore o vestito. Parole che coniugano esperienza corporea ed estetica, che si collocano esattamente sulla pagina come ideogrammi inscritti nel loro quadrato ideale. Parole che contraddicono la sterilità dell’esperienza depressiva, debordano fuori dal tracciato, si scompongono, si mescolano, si uniscono: chiavi di volta, parole che si fanno carne e riempono lo spazio, parole che significano sempre qualcosa di più della loro forma. Una lingua cesellata come una porcellana orientale eppure sfrontata e insolente come quella che solo a vent’anni si può avere.
Settanta acrilico trenta lana è il romanzo di una bellezza straziata, di una vita persa, ritrovata, persa di nuovo – ciclica, come un buco -, di una vita che muore ogni giorno e ogni giorno risorge, per lanciare una provocazione alle nostre candide esistenze“.
Ecco, mi sembra che le parole di Sandra rendano giustizia alla bella scrittura di Viola.

Addentriamoci nel libro, che ha per protagonista la giovane Camelia (figlia di padre italiano e di madre inglese).
Ecco la scheda che ne riassume la trama: Camelia vive con la madre a Leeds, una città in cui «l’inverno è cominciato da tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima», in una casa assediata dalla muffa accanto al cimitero. Traduce manuali di istruzioni per lavatrici, mentre la madre fotografa ossessivamente buchi di ogni tipo. Entrambe segnate da un trauma, comunicano con un alfabeto fatto di sguardi. Un giorno però Camelia incontra Wen, un ragazzo cinese che lavora in un negozio di vestiti e che le insegna la sua lingua. Saranno proprio gli ideogrammi ad aprire un varco di bellezza e mistero nella vita di Camelia, attribuendo nuovi significati alle cose. Camelia si innamora di Wen, ma lui la respinge nascondendogliene il motivo. E c’è anche il bizzarro fratello di lui, ossessionato dall’oscura morte di Lily, un’altra studentessa di Wen…

Sono tanti i temi affrontati da questo romanzo. Ne evidenzio alcuni:
- il rapporto con la città (e con i luoghi) in cui si vive
- il rapporto con il “diverso”, con l’altro da sé, simboleggiato anche dal desiderio di studiare una lingua straniera
- il linguaggio degli sguardi come alternativa a quello delle parole
- il rapporto con se stessi e la crisi esistenziale (simboleggiata dal “buco”, metafora di una mancanza e di qualcosa che “inghiotte”: il fosso che causa la morte del padre di Camelia, l’oblò delle lavatrici, i buchi fotografati ossessivamente dalla madre della ragazza).

Faccio sin da subito i complimenti a Viola, per questo folgorante romanzo d’esordio. Avremo modo di approfondire la conoscenza di Settanta acrilico, trenta lana approfittando della sua presenza. Contestualmente, come sempre, vi invito a discutere delle tematiche “collaterali” che – in un modo o nell’altro – sono trattate nel libro. Seguono alcune domande volte a favorire la discussione…

1. Fino a che punto il grigiore o la luminosità delle città in cui viviamo può influenzare il nostro umore e le nostre vite?

2. Imparare una lingua straniera può aiutare a conoscere meglio il popolo che parla e scrive quella lingua? E fino a che punto?

3. Il linguaggio degli sguardi, può essere alternativo a quello delle parole?

4. Quali rimedi proporreste contro i buchi neri dell’esistenza?

Vi ringrazio anticipatamente per la partecipazione.

Massimo Maugeri

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LA SPOSA GENTILE, di Lia Levi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/04/27/la-sposa-gentile-di-lia-levi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/04/27/la-sposa-gentile-di-lia-levi/#comments Tue, 27 Apr 2010 20:49:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1998 Un banchiere ebreo, sposa una contadina cristiana…
Questa stringatissima frase, riportata quasi come una notizia, potrebbe rappresentare  il “nocciolo fondante” del nuovo ottimo romanzo di Lia Levi: “La sposa gentile” (edizioni e/o, 2010).
Naturalmente c’è molto altro…

Siamo agli inizi del Novecento e Amos, giovane banchiere ebreo di una cittadina piemontese, avverte l’esigenza di crearsi una solida famiglia su cui investire la propria esistenza. I suoi parenti, soprattutto le donne della famiglia, lo indirizzano verso alcune giovani che farebbero al caso suo. Ma i sentimenti non possono essere pilotati. Così, quando Amos incontra la bella Teresa decide di amarla senza tener conto delle differenze sociali e dell’appartenenza a religioni diverse. Perché Teresa – e torniamo alla frase iniziale del post – è una contadina cristiana.
Può, però, una famiglia ebraica, rispettabile, bene in vista… consentire a un proprio figlio di condividere la vita con una “sposa gentile”?
Il termine «gentile» ha, nella fattispecie, un duplice significato: il primo fa riferimento alla docilità della giovane – alla sua capacità di adattamento alle circostanze della vita – ; il secondo, nell’accezione ebraica, indica qualcuno che «appartiene a un altro popolo» (derivazione dal latino gens: «gente», «genti»).
Il termine «gentile», dunque, si «sposa» perfettamente con il personaggio Teresa, poiché la giovane contadina cristiana è dotata di una mitezza tale da indurla a “rinunciare” al proprio credo e ad abbracciare quello del suo uomo (proprio per evitare che questi subisca l’inevitabile ostracismo della comunità ebraica della famiglia di appartenenza). E nel farlo si allontanerà anche dai propri cari (Teresa non è solo cristiana: è anche una contadina… una ragazza dalle umili origini, dunque).
Ma fino a che punto è possibile scrollarsi di dosso le proprie origini? Fino a che punto la propria fede può essere addomesticata per assecondare le esigenze della persona con cui si è deciso di vivere?
Con la scrittura cristallina e suggestiva a cui ci ha abituati, Lia Levi tratteggia una storia famigliare che incrocia quella della prima parte del Novecento, rivelando alcune peculiarità del popolo ebraico e fermandosi alle soglie del 1938: l’anno delle leggi razziali fasciste.

Vorrei discutere con voi di questo nuovo libro di Lia Levi.

Ecco alcune domande, finalizzate ad avviare il dibattito…

Fino a che punto è possibile scrollarsi di dosso le proprie origini?

Fino a che punto la propria fede può essere addomesticata per assecondare le esigenze della persona con cui si è deciso di vivere? Ed è giusto farlo? È giusto rinunciare al proprio credo religioso (o metterlo da parte) per uniformarsi a quello dell’amato/a? E compiere tale rinuncia, è più un atto di debolezza o di coraggio?

E d’altra parte, l’appartenenza a religioni differenti può essere un ostacolo nello sviluppo del rapporto d’amore tra un uomo e una donna?

E l’eventuale nascita di figli? Che tipo di educazione bisognerebbe assicurare loro in casi del genere? Educazione laica? Educazione religiosa? E se sì, quale? Lasciare che crescano e scelgano da soli? E nel frattempo?

Quand’è che l’appartenenza a religioni differenti – in situazioni del genere – può essere occasione di crescita, anche collettiva?
O è solo causa di difficoltà?

L’appartenenza a “ceti sociali” diversi può essere ancora oggi causa di conflitti nella gestione di un rapporto amoroso? Oppure è un problema del tutto superato?

Il non sentirsi accettati dalla propria famiglia d’origine, è un “ostacolo” superabile o, viceversa, incide inevitabilmente nella vita di chi subisce tale situazione?

Di seguito, potrete leggere la bella recensione di Luigi La Rosa.

Ospite speciale del post: Zauberei (capirete perché). In coda, invece, troverete un video dove Lia Levi presenta il suo precedente romanzo, “L’amore mio non può” (e racconta qualcosa di lei e della sua vita).

Massimo Maugeri

Ne approfitto per segnalare che, giovedì 29 aprile, alle ore 17,30 – presso la libreria Cavallotto di Catania, sita in Corso Sicilia – Luigi La Rosa e io avremo il piacere di presentare il libro di Lia Levi protagonista di questo post. Parteciperà all’incontro, anche l’autrice. L’attrice Egle Doria leggerà alcuni brani del romanzo.


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Quella sposa “gentile” in cuore e in spirito
di Luigi La Rosa

[3.jpg] Sempre più il nostro difficile tempo tradisce l’arte e la letteratura. Sempre più è difficile scovare tra le novità editoriali opere felici, degne di attenzione e interesse. E sempre più fuggiamo dalla lettura per rifugiarci in altro, dimenticandoci di noi stessi e del nostro spazio interiore. Eppure, ci sono eccezioni magnifiche, isole di straordinario splendore, dov’è possibile ritrovarsi, raccapezzarsi nel vasto mar del vuoto dilagante. E quando alcune di queste eccezioni vengono alla ribalta bisogna parlarne a gran voce, dando spazio al talento, alla grazia, all’efficacia creativa.
E’ il caso del nuovo splendido romanzo di Lia Levi, “La sposa gentile”, che i tipi delle Edizioni E/O (sua storica casa editrice) mandano in questi giorni in libreria, opera balzata in poche settimane tra gli indici delle classifiche dei più venduti.
Mi avvicino al libro di Lia Levi con la stessa curiosità suscitata in me da ogni sua nuova uscita: ho sempre apprezzato moltissimo questa scrittura piana, accarezzata da una solare ironia, attenta al particolare dei sentimenti e agli abissi dell’animo umano, ricca di colore metaforico senza tuttavia scadere in alcun punto nell’abuso della retorica e nel compiacimento dello stile. Una scrittura che rifugge dalle forzature, che nomina le cose col proprio nome – esatta, minuziosa, misurata, leggera secondo l’imprescindibile canone tanto caro ad Italo Calvino.
Fantastica l’epigrafe di Federico Garcìa Lorca in apertura, di quelle che non si dimenticano: “Per il tuo amore mi duole l’aria / il cuore / e il cappello”. Un proclama di dedizione che si stende come un’aura sul magnifico esordio del romanzo: “Quando l’anno 1900 arrivò trionfalmente a inaugurare il nuovo secolo fra luminarie e simboliche danze, Amos Segre si trovò a fare una solenne promessa a se stesso. Al compimento dei trent’anni, non un minuto dopo, avrebbe dovuto assolutamente vedere già realizzati due sogni fondamentali. Primo, una ricchezza solida e riconoscibile. Secondo, una moglie con cui dividere una dimora degna di tanta conquista.”
Proponimento in qualche misura epico, emblematico, che ci trascina già tenacemente dentro le pulsazioni emotive del racconto. La vicenda che Lia Levi ritrae con l’allegro brio di un minuetto mozartiano è profondamente legata alla volontà risoluta di questo giovane uomo, alla sua forza di resistere agli eventi avversi, agli urti capricciosi della fortuna, alle incomprensioni famigliari, alle imposizioni sottintese della comunità. Un giovane mosso da sogni necessari: la costruzione di una famiglia e l’esigenza assoluta di affermarsi davanti agli occhi del contesto di provenienza.
Tuttavia questo desiderio inoppugnabile sembra minacciato dalla medesima particolarità della sua scelta: Teresa, la ragazza di cui s’innamora, è contadina e “gentile”, tanto nei modi del cuore quanto rispetto alla religione ebraica del futuro marito. Amos si tramuta pertanto in puro sguardo, uno sguardo che cesella, che cerca la luce dorata dei dettagli, perché Teresa è bella, sicura di sé, e ferma quanto una rivelazione, un’epifania per gli occhi innamorati: “Prigionieri, prigionieri sono quei capelli che le forcine tengono così forzati… Le forcine sono le guardie di un paese nemico. Bisogna fare la guerra contro di loro. E’ lui è arrivato lì per questo, è solo questo il suo compito di cavaliere armato.”
Bisogna addentrarsi nel paese di lei, delle sue forme. Nel paese della sua anima misteriosa. Amos è sicuro di riuscirci. Amos vive per questo. Sebbene, l’amore per la florida contadina lo esilierà quasi certamente dalla sua famiglia e dalla stessa comunità nella quale è cresciuto e s’è fatto uomo. La sposa gentile si offre al lettore come una sinfonia gradevolissima degli affetti, una partitura piena di colpi di scena e di aneddoti vitali, che impenna sotto il fluire degli eventi, ma che accompagna con pacata scioltezza il lento, ammirevole evolversi del controverso amore della coppia. Il suo fuggire dai luoghi comuni delle convenzioni. Il sacrificio in nome dell’altro. La fatica di riedificare, passo passo, in una solitudine scelta, un’immagine di sé agli occhi perfidi del mondo.
Teresa comprende una verità fondamentale: che l’amore richiede delle scelte. E’ questa la sua toccante formazione alla maturità, questo apprendere le regole non scritte della vita e decidere di aderirvi in maniera responsabile, etica, consapevole. Per amore di Amos Teresa ritesse intorno a sé le algebre filiformi di un universo che non le appartiene, e che in parte ha sentito ostile. Accetta che i figli nati dall’unione col Segre portino il sigillo dell’antica religione ebraica. Accetta di adeguarsi a rituali estranei, che ridefiniscano tuttavia una presenza e un’identità all’interno dell’essere comunitario. Accetta che Amos senta di riconquistare il posto che gli spettava di diritto nell’ambito della sua famiglia, all’interno dello stesso contesto che sul principio l’aveva emarginato.
La narrazione si tramuta presto in una meravigliosa saga familiare, all’interno della quale uomini e donne si muovono alla ricerca di qualcosa: chi di un posto, di un riconoscimento, chi di un valore seppure effimero da salvaguardare al correre dei tempi. Lia Levi asseconda l’avanzare degli anni con magistrale perspicacia descrittiva: tra le pagine cresciamo insieme ai suoi personaggi, ci moltiplichiamo dietro le loro ombre, partecipiamo delle delusioni e delle rivalse che la fortuna di tanto in tanto dissemina sul laborioso cammino degli umani.
Sulla coralità sfumata dei tanti personaggi emerge, a tratti nitidi e vincenti, la figura di Teresa, vera grande protagonista del romanzo. L’impronta nella quale il suo perimetro è scolpito è forte, matura, responsabile: Teresa è una donna che sa scegliere, che sa portare fino in fondo le conseguenze del proprio coraggio, che non si piega davanti a niente e a nessuno, tranne che agli impeti della passione che ha animato e anima ancora la sua esistenza. E’ una creatura ricca di una sua intima luminosità, dotata di una fibra vincente, moderna sotto tutti i punti di vista. Impossibile non innamorarsene, come non aderire alla sua voglia di libertà, al suo bisogno di indipendenza e di riscatto.
La sposa gentile si legge in un soffio, e fugge via con la celerità degli attimi che tra le pagine si consumano in una danza inesorabile e vorticosa. Tutto fugge via per sempre: la vita dei personaggi, i loro amori, le loro storie, le loro inquietudini. Fuggono i tempi, le stagioni, la giovinezza e fugge il secolo passato, lasciando ricadere sul nuovo ipotesi e tradimenti. Ma fugge soprattutto la serenità che per un certo tempo sembrava aleggiare sui destini rappresentati, mentre si affaccia sull’orizzonte la nuvola nera di un’epoca di profonda afflizione: il racconto si chiude infatti sul 1938, anno delle Leggi Razziali, che la scrittrice rievoca per pennellati veloci, lasciandoci la sensazione di un’ulteriore apertura.
Incontro Lia Levi in un fredda mattina trasteverina. Sediamo a chiacchierare nel brusio già primaverile di un giorno di sole miracolosamente strappato a questo fitto inverno. I gabbiani stridono tra le fessure dei tetti. C’è la bella luce di Roma, intorno. Nelle parole dell’autrice mi sembra di percepire la stessa vibrante emozione dei suoi personaggi, di Amos, padre e marito amorevole, di Teresa, donna forte e innamorata, e di un mondo famigliare pieno di risonanze e di contraddizioni che costruisce e devasta se stesso, giorno per giorno, pagina dopo pagina, assumendo la forza di un vero e proprio affresco emotivo e sentimentale.

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IL SUCCESSO DEL RICCIO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/09/il-successo-del-riccio/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/09/il-successo-del-riccio/#comments Sun, 08 Jun 2008 22:51:56 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/09/il-successo-del-riccio/ L’abbiamo detto altre volte. Costruire un best seller a tavolino è cosa assai difficile, praticamente impossibile. È più agevole ragionare in direzione opposta, con il “senno di poi”. Partire, cioè, da un caso di successo, magari inatteso, e interrogarsi sui motivi che tale successo, in un modo o nell’altro, l’hanno determinato.

In Francia, per esempio, c’è stato un libro che sul campo si è guadagnato il titolo di caso letterario del 2007 vendendo centinaia di migliaia di copie grazie a un impressionante passaparola. Il libro ha poi vinto il Premio dei Librai assegnato dalle librerie.

Il suddetto successo è stato sostanzialmente replicato anche qui in Italia.

Mi riferisco a L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, tuttora in top ten, e che qualche settimana fa ha raggiunto la cima delle nostre classifiche dei libri più venduti segnando il più importante successo editoriale nella storia della casa editrice romana e/o (che al libro ha anche dedicato un apposito forum).

Vi propongo: un articolo di Daria Bignardi, la recensione della “nostra” Simona Lo Iacono (che mi darà una mano a moderare il post) e l’opinione di Giovanna Bentivoglio (editor e/o per la letteratura italiana).

A voi domando:

Cosa pensate del libro in questione? Vi ha sorpreso? Vi ha deluso? Vi aspettavate di più? Di meno? (Mi rivolgo, chiaramente, a chi ha letto il libro).

Quali sono le ragioni di tanto successo?

E poi… chiudersi a riccio, nascondersi, nascondere i propri sogni, le passioni, le aspirazioni, e coltivarle in segreto… è giusto o sbagliato? È bene o male?

Quali sono i pro e i contro?

Massimo Maugeri

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L’articolo di Daria Bignardi

L’eleganza del riccio di Muriel Barbery è in classifica da parecchio, in Francia è stato il successo dell’anno scorso e sta diventando un caso anche qui: mentre scrivo è al primo posto della narrativa straniera. L’ho letto a Natale e non mi ha deluso, era dai tempi di Quella sera dorata di Peter Cameron che non m’imbattevo in un romanzo tanto romantico. In Internet se ne discute con foga: chi lo trova un romanzetto pretenzioso pieno di difetti, chi un libro delizioso. Io sono d’accordo con entrambe le curve, anche se, dovendo votare col maggioritario, do il mio voto al partito del delizioso. Voglio dire che L’eleganza del riccio non è certo un grande romanzo contemporaneo come, che so, La versione di Barney di Mordecai Richler, ma è un libro piacevolissimo che induce sane riflessioni. Riflessioni e ricordi: di quando da ragazzi si viveva d’arte e d’amore, letteralmente, e si pensava che sarebbe stato così per sempre. Chi prima e chi dopo, quasi tutti a un certo punto abbiamo scoperto quanto i bei libri, il buon cinema, l’arte possano dare piacere.Noi l’abbiamo scoperto alle superiori, o giù di lì; la portiera Renée, il Riccio, l’ha intuito addirittura da bambina, poi però la sua vita è andata in un modo che non prevedeva scuole né teatri né biblioteche. Ma il germe di quel piacere Renée l’ha coltivato da sola, di nascosto. Il motivo per cui decide di nascondere a tutti le sue buone letture, camuffandosi da persona ignorante, è uno dei limiti del romanzo: non molto credibile e un po’ di maniera.
Ma se l’artificio letterario non è riuscitissimo, lo è invece il suo personaggio: tutti ci nascondiamo. O, almeno, tutti crediamo di farlo. I più sensibili e irrisolti di noi si sentono sempre in incognito, come Renée, e passano la vita a cercare di non farsi notare mentre coltivano in segreto passioni, speranze, sogni. Renée non spera, ma in segreto coltiva il Bello. Finge di cucinare piatti grevi che dà al suo gatto (che si chiama Lev come Tolstoj) mentre lei si nutre di piatti semplici ma raffinati, finge di guardare programmi stupidi in Tv ma in segreto studia l’anti-cinema di Ozu, legge solo classici e saggi, ascolta Mahler.
Tutto questo mentre lavora per gli inquilini ricchi di un palazzo parigino di rue de Grenelle, uno più stupido e superficiale dell’altro tranne Paloma, figlia dodicenne di un deputato, così lucida e disperata che ha deciso di uccidersi il giorno del suo compleanno. Sarebbe la coprotagonista del romanzo, ma, per quanto simpatica, scompare di fronte alla forza del personaggio del riccio Renée.Quando in rue de Grenelle 7 trasloca un ricco ma sensibile vedovo giapponese, la storia prende un ritmo cinematografico incalzante e, improvvisamente, la cultura giapponese diventa la personificazione del Bello assoluto. Non è difficile capire che sia così anche per l’autrice e lo diventa immediatamente anche per il lettore: come non averlo capito prima? È bello tornare ragazzi e credere al potere salvifico dell’arte e dell’amore: deve essere questo il motivo del successo dell’Eleganza del riccio di Muriel Barbery, insegnante di filosofia.

Daria Bignardi

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La recensione di Simona Lo Iacono

simona_lo_iacono.JPGUn condominio. Una portinaia. La vita che s’innesta su ritmi lenti, scrutati da una guardiola. E uno sfilare innanzi a essa distratto, veloce, già preso dal pensiero del  dopo, delle scale che si abbarbicano su,  o dell’ascensore lussuoso che svetterà fino all’attico di rue de Grenelle numero 7.

Da questo andirivieni che la sfiora soltanto, che a stento la lambisce come onda che rallenti sulla schiena di un pesce, la portinaia è separata da un cortile, da piante curate con concimi e spray, da pochi passi scalpiccianti su un marmo levigato, incerato di fresco.Eppure è come se in questo brevissimo spazio si dilatassero terre e continenti. Come se Renée – anni 54, vedova, pantofole ciabattanti nel sottoscala – per gli abitanti di rue de Grenelle  non esistesse.Sarà perché è mattina di afa. E sudori svaporano dai seni delle signore imbellettate. Sarà perché nell’aria naviga l’odore acre di un profumo costoso e cani di razza ticchettano per i corridoi.Renée osserva dalla guardiola. Torna a lucidare gli ottoni delle maniglie. Di nuovo solleva lo sguardo. Alle sue spalle, l’ultimo libro letto pare occhieggiarla e sussurrarle un invito. Dopo, pensa, dopo.

E dopo, quando la guardiola serra gli usci, quando  lo scuro prende ad assediare l’atrio, le vetrate, le porte su cui splendono le targhette degli interni, Renée esiste. Esiste nelle speculazioni filosofiche che le balenano in testa con raffinata spavalderia. Nella lettura di  Tolstoj. Nell’assetata conoscenza della musica classica, dell’arte contemporanea, dei film d’autore.Allora è come se da un fodero consunto guizzasse fuori una lama d’argento.  Come se dal guscio di un riccio venisse allo scoperto un corpo elegante. Come se la portinaia svaporasse dal grembiule che la  cinge ai fianchi  e intonasse un canto.Un canto ironico, colto, contemplativo. Quello che la sua autrice – Muriel Barbery (“L’eleganza del riccio” ed. e/o) – le affida impavidamente, rompendo gli schemi dell’apparenza. Quello che stranamente si incrocia – in ondeggiante riflesso – a un altro canto.

Paloma. Figlia di un ministro. Disincantata abitante  del condominio. Contestatrice silenziosa delle amicizie che contano, della lingerie di lusso, dei cibi dell’aute cousine rosolati in essenze orientali. Paloma che scrive un diario. Che tesse riflessioni e poesie. Che programma di dar fuoco alle vacuità del suo mondo in un rogo infestante.

Paloma. Che ha 12 anni e che vuole morire.Una morte di cui riempie le pagine. Di cui organizza i particolari. Di cui  recita la parte con distacco, fingendosene disinteressata. Attendendo – disperatamente attendendo  – che qualcuno  la salvi.

Ecco. E’ forse in questa inconsapevole attesa della  salvezza che le due voci si somigliano. In questa sospensione senza dolore, senza speranze. Nell’immobilità che precede lo scroscio di un acquazzone, il saettare di un fulmine, il rombare di un tuono.Questa salvezza, Renèe e Paloma non sanno neanche di vagheggiarla. Di desiderarla. Di lambirla in notti stanche, cullate dal ronfare di un gatto o dal cicaleccio della  tv. Non sanno che è prefigurazione di un viaggio. E che è anche paura di essere salvate.

Quando questa salvezza irromperà nelle loro vite – e avrà volto di uomo e di poeta – forse al lettore sembrerà tardi. Forse penserà che il destino riscuote troppi interessi e che  Renée meritava più tempo. Penserà: non ora. Non ancora.

Ma non è beffa. Né malasorte. Tu, lector, ricorda che la rivincita sta nel far affiorare assonanze. Nel lasciare che il battito del cuore illanguidisca, che il respiro si riappropri di uno spazio, che qualcuno ci sradichi dalla guardiola. Dopo, sarà come andare – finalmente andare –  a fiato pieno. Allungare  il ricordo  sul passato. Tornare a ripercorrerlo, il passato, a farne un polverio da sfarinare, ormai, tra le dita.

Simona Lo Iacono

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L’opinione di Giovanna Bentivoglio 

Il romanzo di Barbery è sicuramente un caso letterario interessante da analizzare e a parer mio verte sulla straordinaria coincidenza di una mutazione nel comune sentire di una società, quella francese, che ha comportato la rottura di luoghi comuni con la conseguente insofferenza per quello che era ritenuto il politicamente corretto corrente, e il “tempismo” dell’autrice nel coglierne e rappresentare in un romanzo la mutata sensibilità. La scrittrice ne ha avvertito i segnali e li ha trasposti in una storia abitata da uno spirito sarcastico pungente, da un’ansia di riscatto per coloro che – per una ragione o per l’altra – restano emarginati o schiacciati e dall’insofferenza per una certa casta dominante ma in rovinoso declino politico sociale (quella della cosiddetta “gauche caviar”). Il grande successo registrato anche in Italia è a mio avviso il sintomo che, al di là del valore letterario specifico del romanzo (che pure c’è), esso corrisponda a una stessa mutazione nella sensibilità comune, una stessa insofferenza nei riguardi di una rappresentanza politica e culturale che ha durevolmente detenuto il primato dell’egemonia culturale ed etica e che, come si è visto, non corrisponde più a un sistema di valori e a una identità sentita e condivisa.

Giovanna Bentivoglio

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