LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Fabrizio Coscia http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 DIPINGERE L’INVISIBILE nelle PAROLE DELL’ARTE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/06/18/dipingere-linvisibile-nelle-parole-dellarte/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/06/18/dipingere-linvisibile-nelle-parole-dellarte/#comments Mon, 18 Jun 2018 17:24:45 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7832 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Dipingere l’invisibile. Sulle tracce di Francis Bacon di Fabrizio Coscia (Sillabe).
Ne approfittiamo contestualmente per aprire una finestra dedicata alla collana di Sillabe, che ospita il libro di Coscia: si  chiama «Parole dell’Arte» ed è diretta da Antonio Celano.

Qui di seguito diamo la parola all’autore del libro e al curatore della collana.

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DIPINGERE L’INVISIBILE. Sulle tracce di Francis Bacon

Il testo di Fabrizio Coscia è un originale «reportage interiore», dove vita e opere sono sempre reciprocamente illuminanti. Ad emergere sono aspetti inediti dell’arte di Bacon, accompagnati dalle analisi di singoli quadri e dalle dichiarazioni rilasciate dal pittore nelle sue celebri interviste.

È sulla figura umana, e in particolare sul corpo, che Bacon concentra tutta la sua attenzione, con amore e disperazione, con sadica aggressività e inattesa tenerezza. Corpi che vengono deformati, scorticati, rotti, spaccati, torturati, aperti, per attingere all’essenza emotiva, demonica, arcana della condizione umana. Artista della passione e del desiderio, della memoria e del dolore, del sesso e della morte, ovvero di tutte quelle forze invisibili e inconsce che dominano e regolano la nostra esistenza, Bacon diviene, inaspettatamente, campo di indagine anche per chi (come l’autore di questo libro) lavora con le parole e s’interroga su ciò che esse evocano, cercano, chiedono.

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«Ho scritto un libro su Francis Bacon, ma pensando alla memoria involontaria di Proust, ai saggi di Georges Didi-Huberman e agli scritti di Lacan», ci ha spiegato Fabrizio Coscia. «Ho cercato insomma di ragionare attorno all’idea dell’immagine, a che cosa si nasconde dietro e oltre l’immagine e soprattutto al rapporto che ha uno scrittore con l’Immaginario. Il libro inizia infatti con un interrogativo: esiste una memoria di ciò che non è mai stato? È un modo per interrogarsi su ciò che teniamo sepolto dentro di noi e che prima o poi abbiamo il compito di scandagliare. E finisce con un ricordo d’infanzia personale che forse non è mai esistito. A fare da filo conduttore, un quadro di Bacon rimosso, un’immagine cancellata, dunque. Per questo il sottotitolo del libro è: sulle tracce di Francis Bacon. Perché è più che altro un pedinamento, un inseguimento. Ho cercato infatti di cogliere Bacon da una prospettiva molto personale, quella cioè di un critico, di uno scrittore che lavora con le parole e si confronta con un grande artista che lavora con le immagini.
Risultati immagini per fabrizio coscia letteratitudineQuello che mi ha sempre colpito in questo senso di Bacon è il suo rifiuto sia dell’illustrativo che dell’astratto, e dunque la sua ricerca di un modo diverso di rappresentare l’uomo e il corpo umano, con un linguaggio che elabora la lezione picassiana e cubista per proseguire in un modo personalissimo, che gli consente di far emergere tutte quelle forze, “energie”, che si nascondono dentro di noi e che tuttavia agiscono orientando la nostra vita: il desiderio, l’aggressività, l’eros, il dolore, le pulsioni di morte. In altre parole: le forze inconsce. Ora, che cosa ha a che vedere tutto questo con la scrittura? Parlando dei suoi trittici, Bacon disse: «Uno dei problemi è che appena metti più figure sulla stessa tela si sviluppa un racconto. E in quell’istante stesso, ecco la noia. Il racconto parla più forte della pittura». Si potrebbe affermare, allora, con altrettanta chiarezza, che il racconto parla più forte della letteratura? La letteratura dovrebbe avere allora il compito di smontare le storie, di deformarle, assemblarle, aprirle, scorticarle, per mostrare ciò che vi si nasconde dietro, per rendere visibile l’invisibile, proprio come Bacon faceva con l’illustrativo quando ritraeva la figura umana. Ecco, allora, che scrivere di Bacon è stato anche un modo, per me, di sfuggire alla dittatura del significato e della «storia», nel tentativo di attingere direttamente all’essenza dell’essere umano
».

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Ma come nasce la collana «Parole dell’Arte»? E quali sono i suoi obiettivi?

«“Parole dell’Arte” nasce dall’esigenza – pienamente condivisa da Maddalena Winspeare, direttore editoriale della casa editrice Sillabe – di riportare in scaffale, attraverso un curatissimo formato tascabile e un prezzo più che abbordabile, l’arte contemporanea italiana e internazionale», ci ha spiegato Antonio Celano. «In altre parole, l’idea della collana prende il suo avvio dalla constatazione che l’Italia, nonostante una sua precisa tradizione in tal senso, attualmente manchi di una serie monografica autoriale sugli artisti contemporanei, vale a dire quelli che più hanno segnato, con la loro sensibilità, il secondo Novecento e questi due decenni del nuovo Millennio.
L’obiettivo è, dunque, quello di proporre – per un pubblico colto, ma molto ampio – una formula di reportage critico di impostazione giornalistica e letteraria capace di tradursi in un corpo a corpo tra l’autore e l’artista. Incontro che, come in un acceleratore di fasci di particelle, ci offra qualcosa di diverso sull’esperienza di un artista direttamente frequentato, amato o con cui si è potuto misurare lo scrittore/giornalista con lo stile e la sensibilità che gli sono propri.
Per sperare questo, a differenza di altri esperimenti editoriali, “Parole dell’Arte” lascia necessariamente più sullo sfondo le tecniche artistiche, così come lo sviluppo storico di correnti o gruppi, tentando di evitare, per altri versi, di ricadere nel solco di certa critica pittorica accademica o didascalica. In definitiva, privilegiando il ritratto vivo e la guida esperienziale e umana al pittore, la collana, nel suo insieme, vuole offrire, di volta in volta, la sorpresa dei risultati di ogni scelta combinatoria; scelta che, se disperde il dato enciclopedico di raccolta, ne esalta il momento collezionistico o di singola “chicca” preziosa da non perdere.
È toccato a Fabrizio Coscia inaugurare la collana mettendosi con il suo “Dipingere l’invisibile” – come recita il resto del titolo del suo lavoro – “sulle tracce di Francis Bacon” (80 pp., 10 €). A questo seguiranno, a stretto giro, i volumi dedicati ad Alexander Calder e a Giosetta Fioroni, rispettivamente firmati da Alessandro Zaccuri e Sandra Petrignani. E le sorprese non finiscono qui…»

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Fabrizio Coscia (Napoli, 1967) è scrittore, docente, critico letterario e teatrale. Collabora al quotidiano «Il Mattino» e alla rivista «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato il romanzo Notte abissina (Avagliano, 2006), la raccolta di saggi narrativi Soli eravamo e altre storie (ad est dell’equatore, 2015, tradotto in tedesco) e La bellezza che resta (Melville Edizioni, 2017, finalista al Premio Brancati 2017). È stato definito «uno dei critici e saggisti letterari più affascinanti di questi ultimi anni» (Massimo Onofri, «L’Avvenire»).

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LA BELLEZZA CHE RESTA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/05/13/la-bellezza-che-resta/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/05/13/la-bellezza-che-resta/#comments Sat, 13 May 2017 08:55:46 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7499 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato alla nuova opera di Fabrizio Coscia intitolata “La bellezza che resta” (Melville)

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di Massimo Maugeri

Fabrizio Coscia (Napoli, 1967), scrittore, docente, critico letterario e teatrale è già stato ospite di questa rubrica con il volume SOLI ERAVAMO e altre storie (ad est dell’equatore). Torno ad ospitarlo con grande piacere per discutere della sua nuova opera intitolata “La bellezza che resta“, pubblicata da Melville edizioni nella collana Gli impossibili diretta da Andrea Caterini (anche lui, di recente, nostro gradito ospite con “La preghiera della letteratura“, edito da Fazi). In fondo alla pagina potrete leggere il testo della bandella del libro firmata dallo stesso Caterini. Qui di seguito, invece, vi propongo questa “chiacchierata online” con l’autore…

- Caro Fabrizio, partiamo dall’inizio… ovvero dalla genesi di questa tua opera. Nei “ringraziamenti” scrivi: “Questo libro non sarebbe mai stato scritto se Andrea Caterini non mi avesse proposto di lavorare a un saggio su Tolstoj“.
Come si è sviluppato il passaggio dalla elaborazione di questo saggio su Tolstoj al concepimento di “La bellezza che resta”?
«In effetti all’inizio la prospettiva di scrivere un saggio su Tolstoj, come mi aveva chiesto Andrea Caterini, mi ha affascinato ma anche terrorizzato non poco. Ho scelto allora di concentrarmi sull’ultimo Tolstoj, e in maniera ancora più circoscritta sul suo ultimo romanzo, uno dei suoi capolavori meno conosciuti, che è Chadži-Murat. Pensavo, cioè, che restringere il campo d’indagine potesse aiutarmi a non perdermi del tutto. Ma poi, come mi capita spesso, mi sono lasciato cogliere dal «demone dell’analogia» e dalla mia passione per le divagazioni, e così ho cominciato a riflettere sulle “opere ultime” dei grandi artisti, e su quale fosse il significato più profondo di un libro, un quadro, una musica, un’opera teatrale composti in prossimità della morte e nella consapevolezza di questa prossimità. Ho cercato, cioè, di penetrare nel significato di alcuni grandi capolavori, ma con molta umiltà, quasi in punta di piedi, per così dire. Così il mio saggio su Tolstoj è diventato alla fine qualcosa di molto diverso, e allora ho capito che era proprio questo “qualcosa di molto diverso” che mi era stato chiesto fin dall’inizio».

- Come epigrafe del libro hai scelto questa citazione di Joyce “sul padre” (da Finnegans Wake). La riporto di seguito. «I go back to you, my cold father, my cold mad father, my cold mad feary father».
Perché questa scelta? E perché hai voluto riportare la frase in originale (senza la traduzione in italiano)?
«È un brevissimo frammento ripreso dal monologo finale di Anna Livia Plurabelle, che è una delle cose più belle che Joyce abbia scritto. L’ho scelto come epigrafe perché si accenna a un desiderio di ricongiungimento con un padre morto. È un sentimento molto forte, straziante direi, che mi è capitato di provare. Mi è parso, in realtà, che la frase rendesse bene il senso più intimo del mio libro, dal momento che il suo nucleo narrativo è proprio la morte di mio padre e il mio ritorno a lui, la mia riconciliazione tardiva. La scelta di lasciare la citazione in originale è dovuta semplicemente al fatto che non volevo tradirne la bellezza musicale, che come capita spesso in Joyce è prosa che si trasforma in pura poesia».

- Proviamo a scorrere insieme le pagine di “La bellezza che resta” senza rivelare troppo, ma cercando di offrire qualche suggestione capace di incuriosire i lettori di questa intervista. Partiamo dal già citato Chadži-Murat. Cosa puoi dirci su questo libro e sull’ultimo Tolstoj?
«È un romanzo breve di rara potenza. È un libro omerico e shakespeariano insieme, con il quale il vecchio Tolstoj tacitava, in un ultimo empito creativo vitalissimo, tutte le sue teorie religiose e predicatorie sull’arte che andava formulando in quegli anni. Era il suo genio, il suo daimon che si ribellava al moralista che era diventato. La vera tragedia della vita di Tolstoj è stata proprio questa: il fatto che negli ultimi anni il vecchio conte avesse rinnegato la sua arte in nome di un Bene astratto: una conversione religiosa che io nel libro interpreto come una vera e propria forma di nevrosi, una scissione quasi schizofrenica, che condurrà Tolstoj alla drammatica fuga finale, per finire i suoi giorni nella piccola stazione ferroviaria di Astapovo. Il tema della fuga, del resto, percorre tutta l’opera di Tolstoj e soprattutto Chadži-Murat il cui protagonista è davvero una figura inafferrabile. La prima volta che mi sono imbattuto nel titolo di questo libro fu in un articolo di Evgenij Evtušenko su «La Repubblica», intitolato Il perdono è impossibile, che parlava della terribile strage di Beslan, che nel settembre del 2004 costò la vita a 334 persone, tra cui 186 bambini. Il poeta russo scriveva una frase che colpì la mia attenzione: «Se il presidente Eltsin avesse letto Chadži-Murat di Tolstoj è assai improbabile che si sarebbe imbarcato in un conflitto coi ceceni». Quel libro io non lo avevo letto, così feci una rapida ricerca e scoprii che Tolstoj lo aveva scritto negli ultimi anni della sua vita, e che era stato pubblicato postumo, nel 1912. E scoprii anche che il protagonista era un guerrigliero àvaro, un eroe della resistenza antirussa durante la guerra nel Caucaso, uno dei personaggi più seducenti che Tolstoj abbia mai creato. Ma la domanda che ho continuato a pormi durante la lettura del libro, riandando alla frase di Evtušenko, era questa: un libro, un’opera d’arte in generale, per quanto grande e importante, può mai davvero mutare il corso della Storia, evitarne il Male? Ed è anche una delle tante domande che percorrono il mio libro, che inizia proprio dalla strage di Beslan e dalla mia scoperta del romanzo di Tolstoj».

- Le bagnanti è il titolo dell’ultimo quadro di Renoir. L’artista lo dipinge con le mani devastate dall’artrite. Particolare, questo, particolarmente suggestivo e commovente…
http://i.ytimg.com/vi/w9LsHDqQg-w/hqdefault.jpg«Commovente, davvero. Renoir acquistò una tenuta a Cagnes-sur-Mer, in Provenza, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, intento a dipingere fino all’ultimo giorno. La sua vecchiaia si consumò tra l’eden del suo giardino di ulivi e l’inferno della malattia, che però non riuscì mai a domare l’istinto vitale dell’artista. Come racconto nel mio libro, aveva le mani rattrappite e la pelle così sensibile che il minimo contatto del legno del pennello gli procurava ferite. Per evitare questo inconveniente si faceva fasciare la mano con un pezzo di tela sottile e abbrancava il pennello con le sue dita deformate, tra il pollice e l’indice. Fu in queste condizioni che tra il 1918 e il 1919 il pittore quasi ottantenne, vedovo, immobilizzato e tormentato dai dolori, realizzò il suo capolavoro, Le bagnanti, spinto dalla folgorazione amorosa per una giovane modella di sedici anni, Andrée Heuschling. Ogni mattino, alle nove, Renoir già fremeva d’impazienza al pensiero di Andrée che lo stava aspettando, pronta a mettersi nuda in mezzo all’erba dai mille colori, e rimproverava Louise, la fedele governante, perché ci impiegava troppo tempo a medicargli e fasciargli le piaghe che aveva alle mani e sul corpo. Si creò, così, una sorprendente complicità tra il paesaggio, la ragazza e il pittore, una sorta di ebbrezza erotica e panica. Quando Henri Matisse, una volta gli chiese perché si ostinasse a dipingere quel quadro nonostante le sofferenze fisiche che gli procurava, Renoir rispose: «Perché il dolore passa, ma la bellezza resta»

- Cosa puoi rivelarci, invece, in merito alle tue riflessioni sull’ultimo lavoro di  Sigmund Freud (L’uomo Mosè, 1938) scritto dal padre della psicoanalisi mentre deve fare i conti con gli esiti del cancro?
«È un’opera fondamentale, anomala, unica nel suo genere. Non c’è dubbio che Freud l’abbia scritta come un testamento. Ha, in effetti, la libertà e la sfrontatezza di un’opera estrema, che non fa nulla per nascondere le proprie contraddizioni. Freud stesso paragonò la sua scrittura a «una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». Ed anche quest’opera, come Le bagnanti, fu elaborata in una condizione di sofferenza fisica intollerabile. Freud vi riprende la tesi, diffusa alla fine del XVIII secolo, che Mosè non fosse ebreo, ma un nobile egiziano, un dignitario del faraone Ameno IV e seguace della sua religione monoteista votata al culto del dio Atòn, che spinse gli ebrei a liberarsi dalla prigionia egiziana e a convertirsi a questa nuova religione. Gli stessi ebrei, poi, avrebbero rifiutato il suo rigido monoteismo, e per questo uccisero Mosè. Freud ripropone dunque il tema del parricidio collettivo che aveva già affrontato in Totem e tabù, ma quello che mi ha colpito è l’analogia con il Chadži-Murat di Tolstoj: sono due romanzi storici, perché in effetti così stranamente Freud definisce il suo saggio, e in entrambi i casi il protagonista è uno straniero che si mette al servizio di un popolo nemico, che finirà poi per ammazzarlo. Perché i due grandi vecchi, poco prima di morire, dedicano gli ultimi anni della loro vita a scrivere il racconto di un eroe straniero vittima di un omicidio collettivo? Forse ci volevano suggerire un’ultima resa dei conti con il conflitto edipico, una proposta di tregua, di ricomposizione con la figura del Padre? Anche queste sono domande che percorrono il mio libro e alle quali cerco di dare una risposta».

-Ci offriresti qualche suggestione sugli altri artisti che hai tratteggiato tra le pagine di questo tuo libro: Leopardi, Simone Weil, Keats, Strauss, Frida Kahlo. C’è qualche elemento che accomuna queste opere, pur diverse, su cui hai avuto modo di riflettere tra le pagine di “La bellezza che resta”?
Sono tutti artisti che compongono le loro ultime opere assediati dalla sofferenza fisica, dalla malattia, dal dolore, e che tuttavia sono capaci di donarci la bellezza. Il tramonto della luna di Leopardi e quello del sole dell’ultimo Lied di Strauss hanno in comune il fatto che ci indicano entrambe una luce dopo il buio, il fatto cioè che per l’artista la morte non esiste se non in quanto trasfigurazione. Allo stesso modo Simone Weil, provata dalle innumerevoli e prolungate privazioni che si è imposta per essere vicina alle condizioni di vita dei derelitti, dal suo letto del sanatorio di Ashford, fuori Londra, prima di morire aveva scritto una lettera ai suoi genitori descrivendogli i ciliegi che vedeva attraverso i vetri della finestra con i frutti appena sbocciati sui rami, e invitandoli a non essere «ingrati verso le cose belle» e a pensare sempre che lei sarà dovunque ci sia una cosa bella. Frida Kahlo, col corpo martoriato dagli interventi chirurgici dipinge nel suo ultimo quadro uno squillante e colorato inno alla vita, ritraendo dei cocomeri rossi. E così via. Questo ci fa capire che esiste nell’arte una forza vitale, una tensione conoscitiva superiore. Certo, non tutta l’arte è consolatoria. Ci sono artisti che restano irriconciliati con la vita e il mondo anche nelle loro opere ultime. Penso agli ultimi quartetti d’archi di Beethoven, ad esempio, o all’ultimo spettacolo del regista polacco Tadeusz Kantor, di cui parlo nel mio libro. La verità è che l’arte è ferita o balsamo, e a volte entrambe le cose insieme.

- La bellezza e l’opera d’arte possono essere considerati alla stregua di “baluardi contro la morte”? Se sì, fino a che punto? E cosa è necessario che accada affinché questi “baluardi” possano essere particolarmente efficaci e resistenti (soprattutto contro l’erosione della memoria determinata dal tempo che passa)?
Non credo che si tratti di difendersi dalla morte con l’arte. Piuttosto direi che l’arte aiuta a «familiarizzarsi con la necessità di morire», come scrive Freud, suggerendoci la via per la «saggezza eterna». Inoltre bisogna intendersi bene anche sul concetto di bellezza. Prendiamo Dostoevskij, ad esempio. Per il principe Myskin la bellezza è un enigma, e nei Fratelli Karamazov viene definita addirittura «una cosa spaventosa e terribile». Niente a che vedere dunque con l’armonia, con l’estetica, né tanto meno con la nostra idea corrente di bellezza. È, piuttosto, qualcosa di apocalittico, nel senso etimologico del termine, inteso come «disvelamento»: mostra, cioè, quel che se ne sta nascosto, e può portare anche uno sconvolgimento, una tempesta. La bellezza in arte non è altro, allora, che quella identificazione platonica con la verità di cui parla anche Keats nella sua Ode su un’urna greca. Una verità che solo il genio artistico ci può rivelare. E se la bellezza è la verità non può temere il passare del tempo.

- Nel libro racconti anche gli ultimi giorni di vita di tuo padre. Cosa ha significato per te “cimentarti” con questa parte del libro?
È la parte in cui ho cercato di andare più a fondo nei miei sentimenti, di analizzarmi confrontandomi direttamente con «il fantasma irrequieto» che ogni tanto torna a visitarmi, proprio come lo spettro del padre di Amleto. Probabilmente ho scritto il libro solo per questo e per nessun altro altro motivo. Come mai, allora, ho scelto di parlare della morte di mio padre, associandola a questo percorso tra le opere ultime dei grandi artisti, come tutti quelli che abbiamo citato, ai quali dobbiamo aggiungere però anche il Sofocle dell’«Edipo a Colono», il Glenn Gould delle «Variazioni Goldberg», il Kavafis di «Miris», il Čechov del «Giardino dei ciliegi», e ancora Proust, Bergman, Wallace Stevens e altri ancora? Mio padre non è stato un artista, né un genio. Ha vissuto in maniera modesta una vita modesta da impiegato. E tuttavia, come ogni padre, nel bene o nel male, ha lasciato un’eredità d’affetti. In fondo il vero tema del mio libro è proprio questo: l’eredità, ovvero ciò che lasciamo agli altri quando ce ne andiamo, e quello che riceviamo dagli altri quando restiamo. Ecco, la sostanza etica de “La bellezza che resta” è tutta in questo interrogarmi sul passaggio tra chi se ne va e chi resta. Simone Weil dice che la morte «per chi ha vissuto come si conviene» è un momento di verità «pura». Ho cercato di capire allora che cosa voglia dire, per tutti noi, vivere come si conviene. Non so se sono riuscito a trovare una risposta, ma so che già porsi la domanda con serietà può rendere la nostra vita più degna di essere vissuta».

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La nota al libro (firmata da Andrea Caterini)

“‘La bellezza che resta’ è una riflessione sull’opera d’arte alla fine di una vita. Cosa esattamente rappresenta per un autore la sua ultima opera? Tolstoj scrive fino al termine dei suoi giorni un romanzo, Chadzi-Murat, ridando voce al suo talento artistico e creativo, nonostante ormai da anni rinnegasse il proprio genio a favore di una moralistica idea di bene. Un romanzo che il russo mai si decise a pubblicare e che uscì soltanto postumo. Tolstoj però, è solamente il primo di una serie di ritratti che definiscono il percorso e la visione che Fabrizio Coscia segue come rincorrendo un significato, una ragione, una luce difficilmente afferrabile ed esprimibile. Scopriamo l’ultimo quadro di Renoir, Le bagnanti, dipinto quando il maestro ha le mani rattrappite dall’artrite e che realizza come fosse l’estremo gesto di vitalità e adesione alla bellezza. È il libro testamentario del padre della psicanalisi, Sigmund Freud, che elabora, nel 1938, L’uomo Mose, che ha «la libertà, la sfrontatezza, la temerarietà di un’opera estrema», tornando a dare voce alla teoria del parricidio, ma affrontata qui in chiave religiosa, proprio quando il suo «vecchio caro cancro», come scrive egli stesso della propria malattia in una lettera, gli ha già assalito il corpo. Ma si potrebbero citare altri profili presenti nel libro: Leopardi nei suoi ultimi giorni napoletani; l’ultima lettera di Simone Weil ai genitori, nella quale li invita a vedere nelle cose belle del mondo anche il suo volto; la poesia Ode a un usignolo, in cui Keats «agogna la morte»; ancora l’ultima composizione di Richard Strauss, i Lieder; in ultimo, il definitivo quadro di Frida Kahlo, Viva la vida, forse il suo più originale autoritratto – una composizione vivacissima di angurie. Sono ritratti di artisti che, osservando la morte, non rinnegano ciò in cui fino a quel momento hanno creduto, restando fedeli a loro stessi, a ciò che è di loro stessi la parte più vera: la loro opera. Eppure, l’aspetto maggiormente significativo del libro è quello autobiografico. L’autore racconta gli ultimi giorni di suo padre, e sono pagine commoventi che restituiscono un senso non soltanto all’intero libro – evidenziandone la necessità che lo sottende -, ma a un’esistenza intera. Fabrizio Coscia, consapevole di quanto l’arte sia profondamente radicata nella nostra vita, ha scritto un libro che, proprio per la sua (mai esibita) intimità, riguarda noi tutti.”

(Andrea Caterini)

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SOLI ERAVAMO – di Fabrizio Coscia http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/04/14/soli-eravamo-di-fabrizio-coscia/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/04/14/soli-eravamo-di-fabrizio-coscia/#comments Tue, 14 Apr 2015 18:00:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6745 Nel nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” diamo spazio al volume SOLI ERAVAMO e altre storie (ad est dell’equatore) di Fabrizio Coscia.
Un libro, in questo caso, che non si occupa solo di letteratura, ma (più in generale) di arte… tornando, però, alla letteratura.

Possono un romanzo, una poesia, un quadro o una musica cambiare la nostra vita? Illuminarla di un significato che ci era stato nascosto fino a un attimo prima? Mostrarci una strada mai percorsa? Secondo l’autore di questo libro sì. A patto di lasciarci coinvolgere incondizionatamente dall’amore per l’arte.

Di seguito: un intervento dell’autore (predisposto in esclusiva per Letteratitudine,  in cui ci racconta qualcosa sul volume) e un estratto del libro.

Massimo Maugeri

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Fabrizio Coscia ci “racconta” SOLI ERAVAMO E ALTRE STORIE (ad est dell’equatore)

di Fabrizio Coscia

http://i.ytimg.com/vi/w9LsHDqQg-w/hqdefault.jpgHo scritto questo libro perché volevo guadagnarmi uno spazio di libertà, innanzitutto. Libertà dai generi, dai vincoli, dalle regole editoriali. E perché era da un po’ di tempo che provavo una certa stanchezza nei confronti della fiction, della terza persona, delle storie da inventare. Ho provato, allora, a mettermi nei panni del lettore, prima ancora che dello scrittore. E ho cercato una voce affidabile, credibile, da modulare. Sono nate così queste piccole storie che parlano di grandi scrittori, artisti, compositori, delle loro vicende biografiche e delle loro opere, raccontate da un personaggio-uomo (per usare una celebre definizione di Giacomo Debenedetti) che dice io, e che porta con sé tutto il suo carico di vissuto e tutta la sua esperienza di lettore emotivo: un lettore in carne e ossa e anima, che inframmezza i suoi ricordi, le sue sensazioni ai racconti degli episodi biografici. Ne è venuta fuori una sorta di romanzo di formazione, di autobiografia intellettuale, anche se in tono minore, qualcosa che però sfugge a una definizione univoca, perché, appunto, scritto in piena libertà di intenti. Si racconta, dunque, della tardiva e fatale fuga dall’oppressione matrimoniale di un Tolstoj ottantaduenne e di quella ribelle e adolescenziale di Rimbaud per l’Africa. Si racconta di un Kafka che s’improvvisa postino delle bambole per lenire il dolore di una bambina in un parco di Berlino; di un quadro di Edward Hopper che rimanda al finale di un racconto di Joyce, dell’incontro disastroso dello stesso Joyce con Proust, di un Leopardi ingordo di gelati, dei «suicidi imperfetti» di Virginia Woolf e Cesare Pavese, della fucilazione di Garcia Lorca e Isaak Babel’, dell’incontro probabilissimo tra il vecchio Casanova e il «Don Giovanni» di Mozart. E ancora: della vita e dell’arte votati consapevolmente al fallimento di Silvio D’Arzo e Robert Browning, della misteriosa vita erotico-sentimentale di Schubert e del «desiderio triangolare» che lega Brahms, Schumann e sua moglie Clara, della volontà di sparire completamente di Robert Walser, del doppio omicidio passionale di Carlo Gesualdo e di Gianciotto Malatesta.

E si racconta della vita e della musica di Bill Evans, sublime pianista jazz e martire dell’eroina, di una canzone dei Radiohead, dei quadri di Vermeer e Caravaggio e delle poesie d’amore di Keats, del mantello di Albertine, il personaggio della Recherche proustiana, e del canto ferito di Violeta Parra. E ciascuno di questi racconti è filtrato dalla sensibilità di un narratore che non esita a mostrarsi così com’è: non solo un decifratore di segni, un estensore di note, un compilatore di ecfrasi (ovvero quella descrizione di opere d’arte con cui da sempre – fin dai tempi di Omero – la prosa si cimenta, in una sorta di gara nel dire ciò che non può dire, nel raccontare le immagini, la musica o in generale l’altro da sé); ma anche e soprattutto una voce nuda, che si mostra così com’è, senza infingimenti. Tutti questi miei racconti rappresentano così altrettante tappe nel percorso di un viaggio interiore, al quale mi ha spinto da un lato la mia sconfinata ammirazione per questi artisti (esercizi di ammirazione, potrebbero, infatti, essere definiti), e dall’altro, forse, un presentimento di “fine dei tempi”, come se avessi voluto intonare un commosso, partecipato epicedio per un’idea di cultura che ha accompagnato la mia giovinezza e che vedo allontanarsi sempre di più dall’orizzonte formativo dei giovani con cui mi trovo ogni giorno, per il mio lavoro di insegnante, a parlare e a confrontarmi. Sarei felice, naturalmente, di sbagliarmi: mi piacerebbe addirittura che questo mio piccolo libro potesse invece risvegliare curiosità e nuovi ardori. In fondo, è semplicemente un libro che parla di altri libri, di quadri, di musiche, o delle vite di coloro che hanno scritto, dipinto, composto. Un tentativo di dimostrare quanto l’arte possa arricchire la nostra esistenza, ma anche lenire le sue ferite o illuminarla di significati nascosti e perfino mostrarci il suo lato meno addomesticabile e più insondabile. Un libro, dunque, che racconta la vita attraverso l’arte e l’arte attraverso la vita.

(Riproduzione riservata)

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da  SOLI ERAVAMO E ALTRE STORIE (ad est dell’equatore) di Fabrizio Coscia

KAFKA, IL POSTINO DELLE BAMBOLE

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b4/Kafka.jpgDi fronte al pianto disperato di mia figlia, alla quale avevo strappato via da mano, per punirla di un capriccio, il libro appena regalatole – quel pianto struggente, catastrofico, indifeso, che solo i bambini sono capaci di produrre, come se tutto il dolore del mondo sgorgasse dalle loro lacrime – mi tornò in mente una volta una delle storie più bizzarre e commoventi che conosca. La storia di un altro disperato pianto di bambina, nel quale s’imbatté per caso in un parco berlinese, nel 1923, Franz Kafka. Lo scrittore si era appena trasferito a Berlino, dove viveva con la giovane polacca Dora Diamant, ebrea come lui, conosciuta quell’estate in una stazione balneare sul Baltico. Con lei – forse il suo unico, vero amore – Kafka avrebbe trascorso, a quanto pare serenamente, l’ultimo anno della sua vita, facendo progetti comuni, come quello di emigrare insieme in Palestina e di aprire un ristorante (suppongo vegetariano) a Tel Aviv.
Anche quel giorno Kafka e Dora erano insieme, al parco di Steglitz, dove passeggiavano spesso, quando incontrarono la bambina che piangeva. I due le si accostarono e cominciarono a parlare con la piccola, cercando di rassicurarla. Lui le domandò cos’era che la faceva tanto soffrire, e se si fosse persa.
«Non io, la mia bambola si è persa», gli rispose lei, tra i singhiozzi.
Sorpreso dalla risposta, Kafka s’inventò lì per lì una scusa per spiegare quella sparizione e cercare di lenire il dolore della bambina.
«La tua bambola non si è persa – le disse – È solo partita per un viaggio».
La bambina lo guardò diffidente.
«E tu che ne sai?» gli chiese, smettendo di piangere.
«Lo so. Mi ha mandato una lettera», le rispose Kafka, fingendo di essere un postino delle bambole.
«Ce l’hai qui con te?» gli chiese ancora la piccola.
«No, mi dispiace, l’ho lasciata a casa. Però domani te la porterò».
Era bastata quella promessa a far dimenticare alla bambina il dolore della scomparsa. Incerta se credere o no a quel signore dal sorriso gentile, alto e snello, elegante e dalla pelle olivastra come quella di un principe indiano, e sempre più incuriosita, la bimba decise di fidarsi.
«Allora ti aspetto qui, domani».
Kafka tornò subito a casa e si mise a scrivere la lettera della bambola. Dora, che per fortuna ci ha raccontato nelle sue memorie questo stupefacente aneddoto, dirà che quel giorno lo vide entrare «nella stessa condizione di tensione in cui si trovava non appena si sedeva alla scrivania».
Il giorno dopo Kafka ritorna al parco con la lettera e trova la bambina che lo sta aspettando, seduta su una panchina. E lui, con voce serissima e mansueta, le legge il messaggio della bambola. È molto dispiaciuta di averla lasciata, le dice, ma aveva bisogno di cambiare aria, di conoscere il mondo. Non è che non vuole più bene alla bambina: ha solo voglia di viaggiare, incontrare altra gente, fare nuove esperienze. E a questo punto succede qualcosa di sensazionale: Kafka, l’autore di capolavori che hanno cambiato il nostro modo di vedere la realtà, l’uomo che già sapeva di avere i giorni contati perché ammalato – morirà di lì a poco di tisi in un sanatorio nei pressi di Vienna, a 41 anni – si impegna a scrivere ogni giorno una lettera alla bambina, per aggiornarla su come sta e su quello che sta facendo la sua bambola. Glielo fa promettere dalla bambola stessa, nella lettera, e manterrà la promessa per le successive tre settimane. Venti lettere per venti giorni, scritte con la massima dedizione, con ascetico impegno, al solo scopo di rendere accettabile per la bambina l’angoscia dell’abbandono, il trauma della separazione. Un gioco serissimo, spinto fino al limite del possibile. Ogni giorno Kafka si reca al parco, si siede sulla panchina accanto alla bambina e le legge una lettera. La bambola cresce, comincia ad andare a scuola, a fare nuove amicizie, continua a ripetere alla bambina che le vuole bene, ma ogni volta si frappone qualche ostacolo, qualche complicazione che non le permette di tornare. Kafka ritarda il momento dell’addio definitivo, costruisce divagazioni, sotterfugi, rallentamenti. Dora ricorda addirittura che aveva una «paura terribile» di non essere all’altezza di scrivere un finale autentico. In realtà ha paura che la scrittura possa non reggere l’urto della verità, che si riveli inefficace, incapace di creare un ordine che sostituisca «il disordine causato dalla perdita del giocattolo». Guarire il dolore della bambina è l’unico obiettivo che Kafka si pone in quei venti giorni, continuando a intrecciare quella implacabile, rigorosa menzogna che è la letteratura, nella quale il genio di Praga ha identificato tutto il suo essere e tutta la sua vita («Non posso né voglio essere altro che letteratura», scrisse nei suoi Diari). È come se di fronte a quel pianto di bambina – e alla possibile capacità di compensazione, di risanamento della parola – si giocasse la sua intera esistenza di scrittore.
Dopo molte riflessioni e incertezze, Kafka decise infine di far sposare la bambola. Nella sua ultima lettera descrisse il futuro marito, la festa di fidanzamento, i preparativi del matrimonio in tutti i dettagli, e perfino la casa dove i novelli sposi sarebbero andati a vivere. Alla fine, le ultime parole che la bambola scrive alla bambina sono queste: «Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro».

Quel che mi sorprende, in questa storia di Kafka e della bambina nel parco, è il fatto che non abbia in fondo proprio nulla di kafkiano. È una storia piena di tenerezza e di umanità, con tratti perfino patetici. Per non parlare del finale immaginato nelle lettere, così consolatorio e convenzionale, col matrimonio della bambola. Niente di più lontano dall’arcano e crudele mondo di Kafka, fatto di punizioni efferate e condanne inesplicabili, metamorfosi orrende e strani incroci, esecuzioni e macchine di torture, messaggi mai arrivati e divieti incomprensibili. Eppure, quanta profonda saggezza si nasconde in questo episodio di vita tardivo! Forse, a pensarci bene, l’aspetto più kafkiano dell’intera vicenda è proprio la sua imprevedibilità, e la capacità di rivelarci una verità nascosta, che il pianto disperato di mia figlia mi aveva fatto appena intravedere, tutta consegnata nell’ultima frase dell’ultima lettera scritta dalla bambola e portata dal postino Kafka: «Vedi tu stessa che dovremo rinunciare a rivederci in futuro».
Alla fine, dunque, il miracolo della scrittura si compie. I venti giorni non sono passati invano e le lettere – che la Gestapo sequestrerà a Dora Diamant, privandoci per sempre di un tesoro inestimabile – hanno adempiuto al loro scopo, preparando il distacco. La piccola, infatti, accetta finalmente la sparizione della bambola, la rinuncia. E accetta l’ineluttabile necessità che ci spinge avanti, ci provoca strappi, abbandoni, conflitti, paure.
Perché nel pianto della bambina nel parco che ha perso la sua bambola preferita – così come nel pianto di mia figlia che si è vista portar via da suo padre il libro illustrato che lui stesso le aveva appena donato – c’è in fondo l’infelicità di chi si affaccia alla vita. Un’infelicità che va presa molto sul serio, e che va condivisa, cercando un accomodamento, un varco, una transazione possibile: «Vedi tu stessa», scrive, non a caso, la bambola. Come a dire che non può esserci alternativa al riconoscimento della necessità del dolore. La bambola persa, il libro negato non sono infatti che le prime prefigurazioni di ciò che ci verrà tolto. È per questo che Franz Kafka, tra gli autori più impenetrabili della cultura occidentale, dedicò gli ultimi giorni della sua vita di scrittore a inventarsi semplici lettere di una immaginaria bambola per consolare una bimba sconosciuta. Perché sapeva che la scrittura nasce sempre da una perdita, da una complicazione del vivere e dal desiderio di compensare il dolore che essa provoca. E sapeva che quel dolore, quel vuoto, ci riguarda tutti. Ci interroga tutti.

(Riproduzione riservata)

© ad est dell’equatore

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Fabrizio Coscia, Napoli, 1967. È insegnante, scrittore e giornalista. Ha collaborato al quotidiano «Liberazione» e al settimanale «Il Diario». Scrive da anni sulle pagine culturali del quotidiano «Il Mattino». Ha pubblicato il romanzo Notte abissina (Avagliano, 2006) e il racconto «Dove finisce il dolore», nella raccolta antologica Napoli per le strade (Azimut, 2009, Premio Girulà 2009).

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© Letteratitudine

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NAPOLI E L’IRPINIA TRA I LIBRI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/25/napoli-e-l%e2%80%99irpinia-tra-i-libri/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/25/napoli-e-l%e2%80%99irpinia-tra-i-libri/#comments Wed, 24 Mar 2010 23:06:42 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1835 Sono molto lieto di avviare questa discussione incentrata su Napoli e l’Irpinia, luoghi entrati nell’immaginario di molti di noi (ma anche luoghi dove sono nati e vivono parecchi amici di questo blog).
Nel farlo tenterò di coinvolgere alcuni scrittori che, attraverso i loro libri, hanno raccontato di queste terre e di tutto ciò che – nel bene e nel male – gravitano attorno a esse.
Credo sia superfluo premettere che la produzione di libri (di narrativa e non) dedicati, in un modo o nell’altro, a Napoli e all’Irpinia (a partire dall’ormai celeberrimo Gomorra di Saviano) è piuttosto cospicua. Per cui, i libri che segnalo in questo post sono solo una piccola rappresentanza della folta schiera disponibile.
Di seguito, come sempre, porrò qualche domanda al fine di agevolare la discussione. Ma prima ci tengo a presentare scrittori e libri coinvolti (li elenco per ordine alfabetico di cognome degli autori e curatori):
- “L’INFANZIA DELLE COSE” di Alessio Arena (Manni)
- “UNA TERRA SPACCATA” di Emilia Bersabea Cirillo (San Paolo)
- “L’IMBROGLIO NEL LENZUOLO” di Francesco Costa (Salani)
- “SCUORNO (Vergogna)” di Francesco Durante (Mondadori)
- “NAPOLI PER LE STRADE“, racconti a cura di Massimiliano Palmese (Azimut)
- “LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia” racconti a cura di Generoso Picone (Mephite edizioni)

Mi permetto di ricordare, tra gli altri, “Napoli sul mare luccica” di Antonella Cilento (Laterza) di cui avevamo parlato qui. E, per quanto riguarda l’Irpinia, i libri di Franco Arminio.

Gli autori dei suddetti libri, i curatori delle raccolte e gli autori dei racconti, gli amici irpini e napoletani e voi tutti… siete invitati a partecipare al dibattito.

Francesca Giulia Marone e Emilia Cirillo mi daranno un mano a moderare e a coordinare la discussione.

E ora… le domande del post:

1. Che differenza c’è tra Napoli e l’Irpinia (in cosa differiscono due città come Napoli e Avellino)?

2. Quali sono i “tratti” in comune?

3. Come è cambiata (se è cambiata) la Napoli di oggi rispetto a quella di venti, trenta, quarant’anni fa?
E l’Irpinia?

4. Che rapporto c’è tra Napoli, l’Irpinia e il cinema? Come sono state rappresentate nel grande schermo? Tali rappresentazioni sono sempre state aderenti alla realtà?

5. Se doveste scegliere, con riferimento all’intera storia della letteratura, il libro che meglio rappresenta Napoli… quale scegliereste? E perché?

6. E quale libro scegliereste in rappresentanza dell’Irpinia?

Di seguito, un po’ di notizie sui libri sopraccitati (ne approfitto per ringraziare gli autori delle recensioni).
Massimo Maugeri

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L’INFANZIA DELLE COSE di Alessio Arena
Manni, 2009 – pagg. 280 – euro 17

di Francesca Mazzucato: da Books and other sorrows

L’infanzia delle cose di Alessio Arena ( Manni, 2009) è un romanzo di stupori. E’ una storia vagabonda, anarchica, smembrata, pornografica, impazzita, politica e favolistica, folle e slabbrata, adatta a chi sa mettersi a sentire il brusio delle cose, la loro voce, un’eco diseguale: chi lo sa fare arriva a captare la loro infanzia, la loro dimensione di innocenza. Che si perde presto. E poi si ritrova. In un visionario e immaginifico stratificarsi di luoghi fisici ed emotivi, Il quartiere di Madrid di Lavapiés, il Rione Sanità di Napoli, piccoli e grandi malavitosi, ristoratori collusi, figure di donne stupende, che ti rimangono anche se non le capisci del tutto perché sono fatte della materia del sogno, del prisma, del gioco di luci: Erika , Amparo, la madre del protagonista, la madre di Amparo che le cose le raccoglie.

“…Non vuole fare morire le cose
-Le cose? Quali cose?
-Tutte quelle che ci stanno, tutte quelle che trova, lei se le porta dove sta lei, perché non devono morire, non si devono buttare.
Mi è venuto da dire maronna mia però non ho detto niente. L’ho guardata soltanto e all’improvviso ho avuto come la sensazione che da quel momento potevo contare su Amparo per qualsiasi cosa..”

Cose che si ammucchiano, che cambiano perché cambiano i modi per definirle e così si trasformano, nomi che sono tronchi, inventati, irriverenti, impastati di napoletano che diventa spagnolo che diventa italiano bislacco, dove ci si fa gioco della sintassi perché il background è solidissimo e lo permette. Una partita a carte con tutte le convenzioni, i contesti facili della parola scritta. Non sarà tutto semplice in ogni pagina, a volte sarà un percorso tortuoso, vi avverto, ma ne vale la pena. Fare fatica per leggere è vitale. Non si può rinunciare prima, è la resa definitiva, e il nostro paese se si arrende sui libri, sulle letture, se sceglie definitivamente il lamento televsivo, gli aggiornamenti calcistici, le ” convention” plaudenti alle storie, se preferisce per sempre tutto il ciarpame del nulla alla carta, alla vita dei personaggi da far proseguire nella testa e nel cuore rischia il ripiegamento definiivo, la perdita della dignità. Difendersi è vitale.
Ecco, Arena ha scritto un romanzo popolato di personaggi folli, increduli e devastati, ma pieni di una loro magnificenza. Di dignità antica. Una storia così contemporanea e così densa.

“Ci ho pensato e mi è venuto da pensare che io mi metto paura di una cosa che sta in tutte le cose e che pure se non la vedi sai che ci potrebbe stare”

Non l’ho letto per forza, non è stato un colpo di fulmine, ma un lento avvicinamento circolare. Quando leggo “realismo magico” sulla quarta di copertina di un libro sono sempre sospettosa, penso che non mi riguardi, che il contenuto non possa che fare il verso al realismo poetico francese, quello dei film che amo tanto, o che sia una frase fatta per definire ”una cosa a metà strada fra la fantasia e l’improbabile, un pasticcio” : ero un po’ sospettosa quando ho iniziato quindi, procedevo adagio coi piedi di piombo, poi qualcosa mi ha tirato i capelli, infilato nelle pagine e non ne sono più uscita.
Non è tutto perfetto questo libro di Alessio Arena. Proprio per niente. A volte si arranca leggendo, a volte la storia si incaglia, si perde il filo. Accade. Ma si deve leggere sapendo che è uno di quei libri dei quali non si devono macinare righe e parole nell’attesa di arrivare alla fine. La fine c’è già, viene ribaltata, cambiata, rotolata, è all’inizio, poi ci sono intermezzi e divagazioni. Occorre soffermarsi sulle singole pagine, respirarne i colori, il vociare, gli odori e le evocazioni musicali della lingua che lo scrittore inventa. Perfettamente adatta a cogliere quel magico bisbiglio. Quello delle cose innocenti nonostante la camorra, la morte, l’esilio, la paura, gli incendi. Le persone muoiono- anche se non del tutto- le cose restano innocenti ed eloquenti, e Arena ce le fa sapere decodificandole e, facendolo, regala momenti di commozione, attimi luminosissimi quando la storia perfora il cuore e pensi”caspita”, e resti inebetito e vai avanti e poi ritorni qualche pagina indietro e intanto il napo-latino si è esibito in altre pirotecnie. Veri fuochi d’artificio. Li puoi vedere. Se il montaggio non è perfettamente calibrato si può perdonare e capire.
In questo suo primo romanzo Alessio Arena ricrea il mondo. Un mondo caleidoscopico, dove ci sono De Sica, Almodovar, Pasolini tutti insieme. Un mondo-mondo, mai asfittico ma che si apre come la corolla di un fiore di carnevale. Non addomestica la sua urgenza narrativa, l’autore. E la lettura è bella e strana, un’esperienza differente da tante letture anemiche, precise, puntuali, adatte ma banali. Alla fine de L’infanzia delle cose l’ imperfezione diventa parte dell’incanto.

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UNA TERRA SPACCATA di Emilia Bersabea Cirillo

San Paolo edizioni, 2010 – pagg. 240 – euro 14,50

Una Napoli soffocata dalla spazzatura ma che ancora riluce della sua antica bellezza – come quella delle architetture realizzate da Lamont Young – accoglie il corpo di Filippo Ghirelli, morto durante una manifestazione di protesta contro la costruzione di una discarica al Formicoso, in provincia di Avellino.
È questa la vicenda di apertura di Una terra spaccata, che vede protagonista la geologa Gregoriana De Felice, chiamata a riconoscere il cadavere dell’amico, proprietario di un elegante albergo napoletano.
Come in un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio della propria memoria la donna rivive le fasi dell’incontro con l’uomo che le ha cambiato la vita, dal riconoscimento di intime affinità (la scoperta della bellezza di un luogo interno del Sud, la musica del silenzio, la ricerca della verità) alla condivisione di un atteggiamento di netto rifiuto verso la costruzione della discarica.
Incaricata di effettuare i saggi del terreno a essa destinata, poi blandita e infine minacciata dall’ingegnere Misuraca, direttore dell’azienda per cui lavora, al fine di redigere una relazione che testimoni la “idoneità del terreno alla costruzione della discarica” Gregoriana impara la ribellione amando Filippo e la sua malinconica ricerca di un luogo in cui vivere, di una casa dell’anima.

Filippo camminava davanti a me. Visto di schiena sembrava più giovane, la testa eretta, le spalle dritte, il corpo piccolo e muscoloso.
- Ci sono luoghi che si infilano dentro di noi. E non se ne vanno più. Li accogliamo per come sono dimenticati, splendenti, sconosciuti. Riescono a entrare nelle crepe, nelle nostre ombre, inconsolabili come siamo. Trovano rifugio perché abbiamo bisogno di loro. Un mutuo compenso. Quanto più è intricata la nostra oscurità, tanto più permangono, mia cara. Fino a convertirci. Fino a modificarci. Penso che questo ti sia capitato con il luogo dello scavo. Per forza che devi difenderlo. Fa parte di te -

La donna infatti denuncerà l’operazione pubblicamente, durante un’apparizione televisiva, poi rassegnerà le dimissioni per “amore della verità”.
Due personaggi scheggiati: lei con un padre lontano, una madre assente e malata, un compagno già sposato che in quei giorni si trova a Gerusalemme, in missione diplomatica .
Lui senza più una madre, senza una patria, senza un vero affetto, così sospetta Gregoriana, che non sia quello pagato per una notte.
Dal confronto con la comunità del Formicoso, composta da emigranti di ritorno ma anche da giovani che sono decisi a restare e a impegnarsi per i loro paesi, Filippo e Gregoriana finiranno per condividerne, ciascuno per suo conto, memoria e destino, lottando per la difesa di un luogo lucente e ventoso, fatto di terra, acqua e silenzio.

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L’IMBROGLIO NEL LENZUOLO di Francesco Costa
Salani, 2010 – pagg. 266 – euro 14,50

1905. Il cinematografo conquista Napoli Ma che cos’è questa invenzione che crea dal nulla movimenti e colori, e che fissa la stessa azione, la stessa immagine in eterno, uccidendo la morte e donando l’eterna giovinezza? Ai paesani del circondario pare una diavoleria che chiamano « o ’mbruoglie dint’o lenzuolo »: per loro è una nuova forma di magia, da guardare con sospetto e diffidenza. Così è per l’ingenua Marianna, erbivendola analfabeta, che scopre di essere attrice suo malgrado di La casta Susanna, una pellicola di sei minuti in cui incanta (o scandalizza) folle di spettatori bagnandosi nuda nel lago d’Averno. La bella bagnante che tanto le somiglia è veramente lei o una sosia che le vuol male? E perché ripete sempre gli stessi gesti, senza sgarrare di un secondo? La verità la sa Federico, realizzatore del film, ma intende ricostruirla anche colei alla quale era stato inizialmente offerto il ruolo, Beatrice, autrice torinese giunta in città per scrivere il romanzo a puntate Eunice, l’orfana tisica

Generoso Picone parla di questo libro così: “Francesco Costa, adoperando una lingua a cui l’uso del dialetto o di brani della parlata popolare dà ritmo ed esplicitezza, risolve l’intreccio in una soluzione che diventa un’ode all’eterno valore del cinema: imbrigliare la bellezza da cui si è ossessionati, renderla eterna oltre i giorni che si possono vivere, donarle la seduzione che può trasmetterla ai giorni che verranno.”

Un brano del libro: “Ecco il lago d’Averno incorniciato di felci che si piegavano al vento, così lievi da parere finte, e dal fondo, ignara, magnifica, si faceva avanti la sua Susanna, i capelli neri e arruffati… Giunta a un accenno di spiaggia si toglieva i vestiti e guardava il sole che sorgeva dalla parte in cui, lontano, il mare univa quella terra a paesi di cui neanche sapeva i nomi.
Un attimo ancora, e si sarebbe gettata nel lago tutta nuda, ma prima, per chissà quale incontenibile impulso che lui mai avrebbe benedetto abbastanza, avrebbe fatto una piroetta, un passo di danza o qualcosa di simile…
Si sarebbe tolta i vestiti in eterno, e avrebbe ripetuto la sua piroetta per sempre, incarcerata nel suo raggio di luce, era sua, l’aveva catturata e anche tra un secolo, o perfino tra due, sarebbe stata costretta a ripetere i suoi gesti per un pubblico incuriosito o stralunato. Era la sua prigioniera…
La luce era al suo servizio, proprio così, e ai napoletani in vena di spassi rendeva visibile su quel grande lenzuolo bianco tutto ciò che aveva sognato, inseguito, desiderato.”

Francesco Costa è nato a Napoli. Già sceneggiatore cinematografico e televisivo, ha esordito con il romanzo La volpe a tre zampe, cui si ispira l’omonimo film di Sandro Dionisio con Miranda Otto e Angela Luce. Sono seguiti Non vedrò mai Calcutta, Se piango picchiami, Il dovere dell’ospitalità e, per Salani, Presto ti sveglierai. I suoi libri sono tradotti in Germania, Giappone, Spagna e Grecia. Da L’imbroglio nel lenzuolo è stato tratto il film di Alfonso Arau, illuminato da Vittorio Storaro e interpretato da Maria Grazia Cucinotta, Anne Parillaud e Geraldine Chaplin.

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“L’imboglio del lenzuolo” di Francesco Costa
La recensione di Maria Lucia Riccioli

Napoli, 1905.
L’Unità d’Italia è una realtà da più di trent’anni, ma per Federico Bory, “cinematografaro” ante litteram, non è più che un cambio di nome per la Via Toledo. O forse è la possibilità d’incantare la gente come un apprendista stregone: «Non poteva comandare, va da sé, tutta la luce che inonda la terra, ne aveva asservito solo un fascio, però era già più di quanto capitasse di norma, e quel fascio di luce andava a buttarsi tutte le volte che lui voleva dentro un lenzuolo da cui tirava fuori cose mai viste, una magnifica femmina e paesaggi d’incanto voi vi chiederete che diavoleria è mai questa, e io che non voglio tirarla in lungo, vi rispondo che faccio il cinematografo, voi saprete di che sto parlando, sì, sono un direttore di scena, ho realizzato una film e ho venticinque anni appena finiti».
E cos’è per Beatrice Sismondi, torinese inquieta, l’Unità d’Italia? Il sentirsi attratta e respinta assieme da Napoli, il sogno realizzato di scrivere sul Mattino come l’ormai leggendaria Serao, di pubblicare a puntate Eunice, l’orfana tisica, improbabile feuilleton strappafazzoletti.
Marianna Mazzolati, bellissima e analfabeta, taglia corto. Chi è del Nord viene «dall’altra Italia», quella in cui si parla una lingua sconosciuta, quella che ti strappa il tuo uomo, Giocondo Gaudio o Gaudio Giocondo – valli a capire i misteri dell’anagrafe del Continente – per farlo soldato a forza.
E chi è la casta Susanna che s’immerge come una ninfa antica nelle acque del lago d’Averno e danza nuda, immortalata su una pellicola?
Cafè chantant, esilaranti produttori cinematografici, amori e passioni in una Napoli smagliante e chiassosa, incantata dal cinema, “l’imbroglio nel lenzuolo”, che fa spavento e attrae dando corpo ai sogni e scrivendoli con la luce.
E poi c’è il fascino della Napoli sotterranea, dell’Averno e del Lucrino, con la grotta della Sibilla e i suoi misteriosi sussurri, il paesaggio affatturato di ginestre e indorato di sole in cui si mescolano profumi e colori, le piante che Marianna raccoglie e impiastriccia per le sue incantagioni curative.
Francesco Costa è un giocoliere di parole e di luce, quella luce mediterranea e partenopea in particolare che fa pazziare i suoi personaggi e che forse li farà rinsavire.
“L’imbroglio nel lenzuolo” è una girandola di situazioni e di trovate, un flusso di narrazione in cui i personaggi principali si rimpallano la storia e se la rigirano a proprio modo. Al lettore il compito di sbrogliare il lenzuolo, di sorridere indulgente ai propri sogni e a quelli usciti dalla penna di Francesco Costa.

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SCUORNO (Vergogna) di Francesco Durante
Mondadori, 2008 – pagg, 208 – euro 17,50

di Francesca Giulia Marone

Giorni fa leggevo un articolo di Marco Belpoliti su Panorama che trattava del sentimento della vergogna, o meglio della mancanza di tale sentimento nella società attuale. Il senso del pudore pare essere scomparso – ed io concordo con quanto scritto nell’articolo – non solo a livello personale ma anche a livello sociale.
La comunità ha abbassato la soglia del pudore, sia che si parli di pudore come concetto legato al sesso, sia che riguardi i sentimenti e le emozioni più intime. Tutto è “spudoratamente” mostrato e nel suo mostrarsi perde di significato, rende tutti uguali, tratta le nostre emozioni come merci e nessuno più abbassa gli occhi di fronte ad uno sguardo di giudizio interiore o esteriore che sia. Nessuno prova più vergogna.
Per tale motivo il libro “Scuorno” di Francesco Durante si inserisce come una lettura oltre che piacevole, necessaria, magari come uno stimolo in più per ritrovare quel sentimento a livello personale e sociale nella città di Napoli. Ma attenzione, lo scuorno è molto più della vergogna, è la vergogna della vergogna. Da questo sentimento, di cruciale importanza per un vivere civile e consapevole, Napoli potrebbe ripartire riscattando un’immagine che negli ultimi tempi è stata sommersa dalla “munnezza”, la camorra, la miseria e un’attenzione mediatica concentrata sui mali endemici. Difficile compito – per lo scrittore nato ad Anacapri, allontanatosi da Napoli per diversi anni e poi tornato – “parlare” della città senza cadere nelle trappole degli stereotipi e del già detto (difficile inserirsi nel solco del dopo Gomorra di Saviano); ma Francesco Durante riesce in pieno nell’intento e ci consegna un libro stimolante, scritto con agilità e grazia, che sa cogliere la malìa seduttiva della città con ironia intelligente senza risparmiare peraltro le giuste critiche. “Scuorno” è un libro che brilla per l’originalità della visione, è colto senza annoiare, è a tratti intimo come le pagine di un diario personale, è interessante quando tratta il percorso storico del passato di Napoli capitale e del significato delle tante dominazioni straniere, è ironico quando dipinge quadretti di vita dei quartieri, puntuale e divertente quando dedica un intero capitolo ai santi patroni della città dispiegandone tutti i tratti caratteristici al lettore. Non mancano i riferimenti alla politica e una certa simpatia indulgente per personaggi della scena politica napoletana degli ultimi anni, affondanti le riflessioni sulla lingua e sui termini che tracciano una linea di contiguità fra le classi sociali, il libro si snoda apparentemente in maniera disordinata da un tema all’altro con abile maestria da narratore, affrontando diversi registri, disegnando un prodotto finale che risulta essere profondamente diverso dalla moltitudine dei testi fioriti nell’ultimo periodo sulla città di Napoli. Non c’è soltanto accusa, non esiste soltanto un dito che gira nelle piaghe dei mali endemici della città. Nelle pagine di “Scuorno” c’è amore, c’è nostalgia per un’atmosfera napoletana unica e irripetibile in altri contesti. Lo si legge chiaramente anche dalle parole che lo scrittore riporta di Valeria Parrella – altra scrittrice napoletana rimasta fisicamente e spiritualmente legata alla sua città – : “Napoli ha un microclima esistenziale che non trovi da altre parti”. Tutto questo, che probabilmente è parte dell’intimo pensiero dell’autore, viene consegnato al lettore con leggerezza, con sguardo ironico e sapiente che lascia intravedere un’altra prospettiva, un’altra strada per Napoli che attraverso lo scuorno possa riscoprire un orgoglio nuovo che superi l’avvilimento e dia slancio per recuperare l’immagine migliore di sé. In fondo potrebbe essere sufficiente, per riacquistare un peso di consapevolezza felice, un piccolo oggetto-simbolo come la statuina di pulcinella mandata nello spazio per vincere un lack of mass (come dicono gli esperti del Mars), un carico più leggero del previsto che crea problemi nel decollo spaziale – un’immagine simbolo beneaugurante affinché la città possa ritrovare la sua natura oggi svilita. Sono state diverse le letture di questo libro, al di là della indiscutibile bravura e preparazione dell’autore, alcune letture scure e pessimistiche lo interpretano come un quadro di una città senza speranza, che dietro le facce dello scuorno ha solo ignoranza e fallimento. Mi piacerebbe, oltre lo sguardo doloroso e acuto dell’autore, vedere segni di speranza e di ripresa, attraverso le sue parole talvolta delicate e ricche di sentimento per Napoli, ma senza cadere mai nel vittimismo, ed immaginare con lui e i lettori di “Scuorno” tanti pulcinella liberi nell’etere che raccontino ancora della bellezza antica della mia città come qualcosa di possibile.

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NAPOLI PER LE STRADE racconti a cura di Massimiliano Palmese
Azimut, 2009 – pagg. 200 – euro 12

da Napoli.com

Racconti di: Alessio Arena, Stella Cervasio, Luigi Romolo Carrino, Fabrizio Coscia, Carla D’Alessio, Maurizio de Giovanni, Luca De Pasquale, Peppe Fiore, Francesco Forlani, Antonio Iorio, Simone Laudiero, Marilena Lucente, Giusi Marchetta, Marco Marsullo, Paolo Mastroianni, Rossella Milone, Davide Morganti, Marco Palasciano, Massimiliano Palmese, Angelo Petrella, Massimiliano Virgilio.

Dopo Gomorra molti altri libri tra fiction e giornalismo hanno avuto Napoli come oggetto d’indagine. La vocazione di Napoli per le strade – parte di un progetto benefico più ampio, Città per le strade – è del tutto differente: più che un’inchiesta sulla città, è un’inchiesta sullo stato di salute della sua letteratura. Infatti, se il giornalismo dipinge il ritratto di una città malata e sofferente, le narrazioni degli scrittori fanno emergere con forza le istanze di una città reattiva e “resistente”.
Può sembrare ambiziosa la sfida di presentare in un’unica raccolta ventuno scrittori da Napoli e dintorni, eppure si deve pensare che il volume non raccoglie una sola generazione ma almeno tre, e provare a immaginare questi scrittori come le molte e differenti voci di una città che, tirata in ballo dalla cronaca (quella nera della camorra e quella grigia della politica), decida di voler intervenire personalmente nel dibattito, e raccontarsi.
E così, dalle antiche cime di Pizzofalcone alla borghese Chiaia, dalla collina “snob” del Vomero alle zone popolari di Vasto, Duchesca e Sanità, da “giù Napoli” alle alture dei Camaldoli e Capodimonte, dalle periferie di Chiaiano fin dentro al cuore pulsante del Centro Storico, ventuno luoghi di Napoli vanno a comporre la cartografia di una città troppo vasta e troppo ricca di energie contrastanti per essere definita con un unico nome, o soprannome.
”Napoli per le strade” ha un incipit colto, col racconto di un poeta e studioso (Palasciano), quindi salda subito il suo debito con la nostalgia di chi è partito, ma una nostalgia senza rimpianto (Forlani, Fiore); chi invece è rimasto in città, la vive in uno stato di attesa (Marchetta, D’Alessio) o di combattimento perenne, quasi di guerriglia psicologica (Palmese, Laudiero, Virgilio); una città dove alte sono le temperature dell’eros (Carrino, Petrella) e dalla passione al delitto il passo è breve (Arena, Marsullo, Iorio, Mastroianni, Morganti); dove il presente per la sua complessità è difficile da decifrare o addirittura enigmatico (Coscia, De Pasquale, Lucente), mentre il futuro per qualcuno potrebbe essere già scritto (Cervasio, de Giovanni, Milone).
Autori nuovi, che hanno esordito negli ultimi due o tre anni (Carrino, Coscia, De Pasquale, Fiore, Forlani, de Giovanni, Laudiero, Mastroianni, Morganti, Palmese, Petrella, Virgilio), diverse e interessanti voci di donne (Cervasio, D’Alessio, Lucente, Marchetta, Milone), i giovanissimi (Arena, Iorio, Marsullo), un poeta (Palasciano): ventuno scrittori per un progetto benefico, ventuno storie da una grande metropoli.

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LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia a cura di Generoso Picone
Mephite edizioni, 2010 – euro 12

di Antonella Cilento (da IL MATTINO del 19/01/2010)

È un fatto che le aree geografiche, le province, le pianure, i golfi o le montagne vadano raccontate: non c’è forse narrazione più vitale, in questo momento storico, di quella che parte dai luoghi e che si assume la responsabilità di rappresentarli in rivolta contro il silenzio assoluto imposto dal vocìo globale che racconta macro-aree, non-luoghi, metropoli tentacolari, poli magnetici e direzioni (storia del Nord, del Sud, dell’Est, dell’Ovest) piuttosto che terre e persone. E se in Italia gli scorsi decenni hanno identificato con chiarezza aree della provincia raccontate con vigore dagli scrittori locali, dall’Emilia al Nord-Est, è giunta senz’altro l’ora dell’Irpinia, riposto interno della Campania, oscurata dal sole (luminoso o buio) napoletano, regione nella regione, a scavalco dell’Appenino, rivolta verso l’Oriente ma con un piede nell’Occidente, luogo dell’osso, come tante volte si è detto. I narratori raccolti ne «Le frane ferme» (Mephite edizioni) da Generoso Picone sono in effetti scrittori, almeno in parte, imparentati con i narratori delle pianure di Gianni Celati, con l’Emilia padana che negli anni Settanta e Ottanta raccoglieva la tradizione di Antonio Delfini e di altri narratori extra-ordinari, malinconici, provinciali nel senso ideale della parola e non solo locale, che dei movimenti dell’animo del territorio, delle variazioni di luce, dei sentimenti minori, della quotidianità facevano racconto. Una tradizione che si sarebbe tradotta in Pier Vittorio Tondelli e che ancora s’intravede, ad esempio, nei bei racconti di Davide Bregola o in alcune storie di Guido Conti. Una continuità non solo ideale ma concreta c’è nelle storie letterarie di Franco Arminio e Emilia Bersabea Cirillo, legati in anni trascorsi alle riviste o agli ambiti di Gianni Celati, e nel racconto di Marco Ciriello con un protagonista e un tema ispirato al meraviglioso «Casa d’altri», massimo approdo narrativo di un altro eclettico emiliano, Silvio D’Arzo: ne «La piega» Ciriello infatti sceglie per protagonista un prete e come tema una difficile confessione, identica traccia di D’Arzo, e lo chiama Ezio, che era il vero nome di D’Arzo, all’anagrafe Ezio Comparoni. E se in Ciriello si declina quindi il tema darziano della solitudine montagnosa, del panorama che wertherianamente rispecchia il sentimento di solitudine e abbandono, l’Irpinia di Franco Arminio cerca una sua specifica autonomia, declinata non in forma prettamente narrativa ma sotto forma di reportage o di comizio narrativo. Sottile ma continua la presenza di certa passata politica: il nome di De Mita appare inevitabile in ogni racconto a punteggiare situazioni o discorsi di diversa natura. Così come appare limpida l’Irpinia delle case vecchie, del terremoto dell’Ottanta che fa da spartiacque fra scelte e destini, letterari e no, e l’Irpinia delle case nuove, degli Zio Paperone della Campania, della nuova borghesia che affluisce in palazzine e villette, di quest’immensa periferia dell’anima, ancora contadina eppure fin troppo urbanizzata, con troppi Suv e scarpe costose ma con ancor più grandi melanconie, infelicità e incapacità di trasformazione. Ad esempio, scrive Arminio nel suo «Il circo dell’indifferenza»: «Abbiamo belle case, abbiamo un’aria decente, abbiamo belle macchine, abbiamo ottimo cibo, abbiamo gli stessi telefonini, gli stessi computer che hanno a Tokyo e a Francoforte. Quello che ci manca è il coraggio di giocarci la partita, preferiamo dire che il campo è impraticabile o che l’arbitro è sempre contro di noi». Ma è nel racconto di Emilia Bersabea Cirillo, «Gli infiniti possibili», impietosa e commossa narrazione alla Joyce Carol Oates (la provincia americana o del Nord Europa qui aleggia, distante sorella), che si spiegano gli eventi recenti di un territorio, il fallimento di una generazione – o il sentimento di questo fallimento: sospesa nell’apprendimento di un tuffo nella piscina comunale di Avellino, la protagonista osserva la sua città immobile nelle abitudini e nel consolidamento di un quotidiano senza slanci, rievocando le lotte giovanili per far accadere eventi importanti e di spessore culturale. Compare così sullo sfondo un profetico Luigi Nono, la musica sperimentale del secondo Novecento, una stagione che, oltre la politica, ha cercato di modificare la formazione degli irpini. Come nel delicato racconto di Franco Festa, «La ragazza della sala 4», l’amore muore, assassinato, incompreso, silenzioso: e così si asciugano anche le narrazioni a volte grottesche ma più spesso cariche di fading degli scrittori irpini d’oggi. Quattro racconti per quattro stili, quattro generi letterari e quattro generazioni differenti, raccolte dalla lucidissima introduzione di Generoso Picone che fa il punto sul valore della parola, invalidata, abbandonata, amata in solitudine, ma, in fondo, pur sempre salvifica, per «ormesi» o omeopatia, o forse osmosi. Ed è con l’autoritratto geografico di Vinicio Capossela, irpino Dop, che si deve concludere questo ritratto dell’Irpinia: «Sono nato tra i Kuta Kuta appartengo al ramo dei Pacchi Pacchi, che sono i più lunatici e fissati.(…) Dagli altipiani di Lacedonia sono arrivati fino ai bassopiani del Chiavicone. Nelle nebbie dove osano soltanto le anatre mute e le donne in segno di ammiccamento si lisciano il mustacchio». Lunatici, autoironici, ipocondriaci, solitari, attaccati al territorio, legati ma distanti, in fuga ma stanziali, questi narratori irpini bisognerà, prima o poi, ricollegarli in una futura geografia post-dionisottiana, ai loro parenti dell’Appennino del Nord, senza dimenticare i narratori dell’interno di altri Sud, dalla Calabria alla Sicilia degli altopiani.

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