LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » fandango http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 JONATHAN BAZZI con “Febbre” (Fandango) in radio a LETTERATITUDINE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/06/25/jonathan-bazzi-con-febbre-fandango-in-radio-a-letteratitudine/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/06/25/jonathan-bazzi-con-febbre-fandango-in-radio-a-letteratitudine/#comments Thu, 25 Jun 2020 14:34:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8518 JONATHAN BAZZI con “Febbre” (Fandango), ospite del programma radiofonico Letteratitudine trasmesso su RADIO POLIS (la radio delle buone notizie)

In streaming e in podcast su RADIO POLIS

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e postproduzione: Federico Marin

* * *

PER ASCOLTARE LA PUNTATA CLICCA SUL PULSANTE “AUDIO MP3″ (in basso), O CLICCA QUI

* * *

Ospite della puntata: Jonathan Bazzi con cui abbiamo discusso del suo romanzo “Febbre” (Fandango). Finalista al Premio Strega 2020 – Finalista al Premio Giuseppe Berto 2019 – Vincitore del Premio Libro dell’anno 2019 di Fahrenheit Radio Rai Tre – Vincitore del Premio Bagutta Opera prima.

Caro Jonathan, come hai vissuto l’esperienza delle frasi preliminari del Premio Strega? Come nasce “Febbre“? Come commenteresti le citazioni di Elsa Morante e Ingeborg Bachmann inserite in epigrafe del libro? Che tipo di persona è il Jonathan personaggio di “Febbre”? Cosa accade a Jonathan nel momento in cui scopre di essere sieropositivo? Cosa puoi dirci sul luogo in cui Jonathan è cresciuto? E in che modo il luogo influisce sulla sua vita? Cosa puoi dirci invece sul tuo rapporto con la scrittura e sul linguaggio adottato nel romanzo? “Febbre” diventerà un film?

Questo e tanto altro abbiamo chiesto a Jonathan Bazzi nel corso della puntata.

* * *

La scheda del libro: “Febbre” di Jonathan Bazzi (Fandango)

Jonathan ha 31 anni nel 2016, un giorno qualsiasi di gennaio gli viene la febbre e non va più via, una febbretta, costante, spossante, che lo ghiaccia quando esce, lo fa sudare di notte quasi nelle vene avesse acqua invece che sangue. Aspetta un mese, due, cerca di capire, fa analisi, ha pronta grazie alla rete un’infinità di autodiagnosi, pensa di avere una malattia incurabile, mortale, pensa di essere all’ultimo stadio. La sua paranoia continua fino al giorno in cui non arriva il test dell’HIV e la realtà si rivela: Jonathan è sieropositivo, non sta morendo, quasi è sollevato. A partire dal d-day che ha cambiato la sua vita con una diagnosi definitiva, l’autore ci accompagna indietro nel tempo, all’origine della sua storia, nella periferia in cui è cresciuto, Rozzano – o Rozzangeles –, il Bronx del Sud (di Milano), la terra di origine dei rapper, di Fedez e di Mahmood, il paese dei tossici, degli operai, delle famiglie venute dal Sud per lavori da poveri, dei tamarri, dei delinquenti, della gente seguita dagli assistenti sociali, dove le case sono alveari e gli affitti sono bassi, dove si parla un pidgin di milanese, siciliano e napoletano. Dai cui confini nessuno esce mai, nessuno studia, al massimo si fanno figli, si spaccia, si fa qualche furto e nel peggiore dei casi si muore. Figlio di genitori ragazzini che presto si separano, allevato da due coppie di nonni, cerca la sua personale via di salvezza e di riscatto, dalla predestinazione della periferia, dalla balbuzie, da tutte le cose sbagliate che incarna (colto, emotivo, omosessuale, ironico) e che lo rendono diverso.

* * *

Jonathan Bazzi è nato a Milano nel 1985. Cresciuto a Rozzano, estrema periferia sud della città, è laureato in Filosofia. Appassionato di tradizione letteraria femminile e questioni di genere, ha collaborato con varie testate e magazine, tra cui Gay.it, Vice, The Vision, Il Fatto.it. Alla fine del 2016 ha deciso di parlare pubblicamente della sua sieropositività con un articolo (“Ho l’HIV e per proteggermi vi racconterò tutto”) diffuso in occasione della Giornata Mondiale contro l’AIDS.

* * *

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e post produzione: Federico Marin

PER ASCOLTARE LA PUNTATA CLICCA SUL PULSANTE “AUDIO MP3″ (in basso), O CLICCA QUI

* * *

Colonna sonora della puntata: “Hyperballad” di Björk; “Ironic (live Londra 4 marzo 2020)” di Alanis Morissette; “Fever” di Peggy Lee.

* * *

È possibile ascoltare le precedenti puntate radiofoniche di Letteratitudine, cliccando qui.

* * *

© Letteratitudine – www.letteratitudine.it

LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo

Seguici su Facebook e su Twitter

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/06/25/jonathan-bazzi-con-febbre-fandango-in-radio-a-letteratitudine/feed/ 0
DAVID FOSTER WALLACE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/09/12/david-foster-wallace/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/09/12/david-foster-wallace/#comments Thu, 12 Sep 2013 17:50:50 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/14/la-fine-di-david-foster-wallace/ Il 12 settembre 2008 moriva lo scrittore statunitense David Foster Wallace (nato il 21 febbraio 1962), autore di opere importanti come “La scopa del sistema“, “La ragazza con i capelli strani“, “Infinite Jest” (giusto per citarne qualcuna).
A cinque anni dalla scomparsa, vorrei ricordarlo riproponendo questo post.
Ne approfitto per segnalare quest’altro post, in tema, pubblicato su LetteratitudineNews.
Massimo Maugeri

* * *

Post del 14 settembre 2008
Il 12 settembre si è suicidato lo scrittore americano David Foster Wallace.
Aveva 46 anni. Si è ucciso impiccandosi nella sua abitazione di Claremont, in California. Il cadavere è stato rinvenuto dalla moglie, Karen Green, alle ore 21.30.
Foster Wallace è diventato un autore di culto (anche se non mancano i detrattori), soprattutto in seguito alla pubblicazione dell’opera monumentale “Infinite Jest” (più di mille pagine… qui in Italia pubblicato prima da Fandango e poi da Einaudi).
Un altro scrittore che si aggiunge alla lista degli artisti della penna che hanno deciso di spegnere l’interruttore dell’esistenza (e potremmo anche discutere sul tema difficilissimo del suicidio).
Tempo fa lo stesso Wallace ebbe modo di sostenere: “Succedono cose davvero terribili. L’esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili” (da Brevi interviste con uomini schifosi).

Quella che segue, invece, è una citazione tratta da “Infinite Jest”:
La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.

Rattristato dalla notizia della morte mi piacerebbe ricordare David Foster Wallace, il suo talento letterario e la sua opera principale: “Infinite Jest“, appunto. Qualcuno di voi ha letto questo libro?

Di seguito potrete leggere l’estratto di un’intervista – pubblicata su Repubblica del 23 dicembre 2000 – che Foster Wallace rilasciò ad Antonio Monda.
Massimo Maugeri

____________

da Repubblica — 23 dicembre 2000
di Antonio Monda

La consacrazione culturale del grande talento di David Foster Wallace avvenne con un ritratto sul New York Times pubblicato in occasione dell’uscita negli Stati Uniti di Infinite Jest. La dimensione monumentale del libro aveva sorpreso chi si aspettava in piena epoca minimalista un nuovo capitolo irridente dell’affresco americano iniziato con The Broom of the system (La scopa del sistema) ma l’uso entusiasta del termine “genio” usato ripetutamente da Esquire e i paragoni con Joyce suggerito dalla Midwest Book Review e con Poe dal New York Times Book Review, aprirono le porte ad una celebrazione mediatica nella quale venne proclamata la nascita del «piu’ eccitante e interessante talento della sua generazione». Ad incontrarlo oggi, Wallace appare un ragazzo dallo sguardo ferito, che vive con sospetto lo straordinario successo critico e non nasconde le sbandate di una vita irregolare che sembra aver trovato un po’ di pace nel ritiro nel piccolo centro di Bloomington, nell’Illinois. La sua ironia cela sempre il dolore, il suo giudizio tagliente una malinconia venata di incertezza, il racconto affascinato di personaggi più grandi della vita una concezione dell’esistenza che ha ben poco di grande, e che trova nell’aurea mediocritas una possibile risposta al mistero del vivere. Ha deciso di non scrivere saggi e articoli per almeno due anni, ma rivela di sentirne già la mancanza…

Lei crede al potere di redenzione dell’arte?
«Certamente, ma esito sempre nell’identificare pubblicamente le opere che hanno avuto un tale effetto su di me. E’ una forma di pudore, ma anche una constatazione: esistono libri, quadri, brani musicali o film che riescono a svolgere un determinato ruolo soltanto in particolarissimi momenti».

Quali sono i libri che l’hanno influenzata come scrittore?
«La lista sarebbe lunghissima. Le cito due romanzi di Manuel Puig che hanno avuto un ruolo fondamentale: Il bacio della donna ragno e Il tradimento di Rita Hayworth».

Lei si e’ ritirato in un piccolo centro che è difficile non definire «in the middle of nowhere». In questo lei è simile a Salinger, De Lillo, Pynchon… Come mai molti dei piu’ importanti scrittori americani hanno deciso di vivere in un isolamento quasi assoluto?
«Ogni caso ovviamente e’ differente, ma la mia impressione è che ci sia una crescente cautela, e a volte una reazione netta, nei confronti dell’esposizione pubblicitaria. Sempre più spesso si rischia di cambiare geneticamente il senso ultimo di una scelta di vita artistica. Per uno scrittore l’espressione artistica è una necessità, e ciò che lui crea è un fine, non un mezzo. Ho l’impressione che questo fenomeno sia soprattutto statunitense perché l’America è il paese dove è più evidente la cultura della celebrità, e dove è più smaccata la confusione tra apparenza e sostanza. Io provo nei confronti degli eventi sociali lo stesso tipo di reazione che ho quando viene scattata una foto con il flash: non riesco a vedere bene, mentre gli altri mi vedono sotto una luce falsa».

Come mai mescola costantemente personaggi reali come il presidente Johnson ad altri puramente immaginari?
«Molti di questi personaggi nascono da una conoscenza televisiva, quindi indiretta, se non addirittura irreale. Ricordo ad esempio che da bambino vedevo Johnson in televisione: si trattava di una presenza costante, della quale conoscevo le espressioni, la cadenza, i modi di muoversi. Ero affascinato dalla sua personalità, tuttavia non potevo certo dire di conoscerlo. Ritengo che non sia possibile fare una vera e propria distinzione, ma nello stesso tempo ciò ci deve portare a riflettere su cosa consideriamo realtà, e su quello che ci viene propinata come tale. Sempre più spesso assistiamo ad azioni o dichiarazioni fatte ad uso e consumo dei media, che pretendono di acquistare la dignità della realtà».

Ritiene che il linguaggio televisivo sia dannoso anche per la letteratura?
«Terribilmente, ma si deve estendere il discorso anche a realtà più nuove come Internet. Io insegno letteratura inglese, ed è deprimente vedere come ogni anno si registri meno passione, meno cultura, e conseguentemente una minore qualità nella scrittura».

© Letteratitudine

LetteratitudineBlogLetteratitudineNewsLetteratitudineRadioLetteratitudineVideo

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/09/12/david-foster-wallace/feed/ 187
IL POSTO DI OGNUNO di Maurizio de Giovanni http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/16/il-posto-di-ognuno-di-maurizio-de-giovanni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/16/il-posto-di-ognuno-di-maurizio-de-giovanni/#comments Wed, 16 Sep 2009 18:17:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1085 In questi giorni sto leggendo “Il posto di ognuno” di Maurizio de Giovanni, il romanzo che ci presenta la nuova stagione letteraria del commissario Ricciardi. Avevamo già avuto modo di incontrare Ricciardi nelle altre due stagioni della sua vita libresca: l’inverno e la primavera.
Adesso, siamo in estate.

Ecco la scheda del libro:
“Napoli 1931. Le stagioni si susseguono incuranti del sangue e della morte e la città si prepara ad affrontare il caldo torrido dell’estate. Luigi Alfredo Ricciardi, commissario in forza alla Regia Questura di Napoli, affronta un nuovo caso di omicidio insieme all’inseparabile brigadiere Maione. Ricciardi è un commissario fuori dal comune, un solitario, uno che non ama eseguire gli ordini che gli vengono impartiti e di solito fa di testa sua. Non è ben visto dalla gerarchia fascista che lo controlla a distanza ma lo lascia lavorare, perché stranamente i casi li risolve tutti. In molti cominciano a sospettare che Ricciardi abbia un segreto, si dice parli direttamente con il Diavolo. In realtà Ricciardi si limita ad ascoltare le ultime parole dei morti: più che un dono, una condanna. L’estate del commissario Ricciardi vedrà la morte della bellissima duchessa di Camparino, una donna misteriosa dalla chiacchierata vita notturna. Anche stavolta saranno le ultime parole pronunciate dalla vittima a far partire l’indagine che condurrà il commissario, e noi lettori insieme a lui, a scoprire una Napoli riarsa e poco conosciuta, abitata da personaggi inquietanti che tenteranno di ostacolare il suo lavoro”.

Di seguito avrete la possibilità di leggere la recensione e l’intervista realizzate da Morena Fanti, che mi darà una mano ad animare e a moderare il dibattito.

Vi invito, come al solito, ad approfondire la conoscenza di questo libro approfittando della presenza dell’autore (che parteciperà alla discussione). Chi ha già letto il romanzo è, ovviamente, invitato a rilasciare il proprio parere.
Poi, come sempre, tenterò di avviare delle discussioni collaterali su alcuni dei temi affrontati dal libro; per farlo formulerò le mie solite domande. Le trovate di seguito.

[Domande ispirate dalla recensione]:
Per il commissario Ricciardi l’amore, quello vero, non vuole mai il male della persona amata: “(…) si dovrebbe riparare dal male l’oggetto del sentimento, anche se il male è proprio in chi si ama. Soprattutto se il male è in chi si ama. […] e quindi, nel suo caso, doveva mantenere Enrica lontana dalla sua maledizione, dal dolore selvaggio e terribile di cui era portatore”.
Cosa ne pensate? Siete d’accordo sul fatto che bisogna riparare dal male l’oggetto del sentimento, anche se il male è proprio in chi si ama?
E quando ciò non è possibile?
Bisognerebbe rinnegare l’amore, o continuare ad amare?

Che rapporto c’è tra amore e dolore? È un rapporto imprescindibile? Esiste amore senza dolore?

[Domande ispirate dall’intervista:]
Il duca di Camparino afferma che “Un uomo muore nel momento in cui non significa più niente per nessuno”.
È davvero così? Fino a che punto è vera questa frase? Fino a che punto è essenziale significare qualcosa per qualcuno?
E qual è il “posto di ognuno”?
Esiste “un posto”, per il quale siamo stati “predestinati” (e che magari ricerchiamo disperatamente)?
O è solo una pia illusione? Un luogo chimerico?

Di seguito, la recensione e l’intervista realizzate da Morena Fanti.
Massimo Maugeri

P.s. Se avete voglia di ascoltare la voce di Maurizio de Giovanni, vi consiglio di ascoltare l’intervista rilasciata a Fahrenheit (Radio Ra Tre).


—————-

Il posto di ognuno
L’estate del Commissario Ricciardi
di Maurizio de Giovanni

Fandango libri, 2009 – pp.416, euro 14,00

Recensione di Morena Fanti

Estate del 1931. A Napoli il caldo è insopportabile. L’indagine per la morte della bella duchessa Adriana Musso di Camparino vede di nuovo uniti il Commissario Ricciardi (nell’immagne a destra) e il suo aiutante, il brigadiere Maione. Il caso si presenta complesso e Ricciardi si trova di fronte sempre nuove difficoltà in quello che sembra un delitto d’amore e di gelosia. Il commissario è un solitario e non ama eseguire gli ordini, oggi lo definirebbero un “cane sciolto”, e non è ben visto dagli uomini del potere fascista perché ama fare di testa sua: “ … Mi costringete a indagare, lo sapete. Non sono il tipo che si fa mettere paura. Da niente”.
Nel romanzo, il terzo della serie, corrono due storie parallele: l’indagine dell’omicidio e la vita interiore di Ricciardi che si specchia e si fonde con i pensieri suscitati dalle indagini. Ogni nuova scoperta porta ad altre riflessioni, che non riguardano solo i gesti che hanno portato all’omicidio della duchessa, ma scendono nell’anima degli indagati e di riflesso in quella del commissario, portandolo ad una nuova conoscenza di se stesso e dei propri desideri.
L’autore ci accompagna nei vicoli di Napoli e all’interno delle anime con la stessa delicata sicurezza che guida e armonizza le sue parole. La scrittura di Maurizio de Giovanni ha un ritmo efficace e diretto ma mai troppo veloce. Ha una musicalità interna che si rivela nella sequenza, perfettamente eseguita, in cui le donne del romanzo si esibiscono nel taglio delle cipolle e successivo pianto. Questa sequenza è un vero canone musicale in cui le note [i gesti eseguiti] si susseguono da una cucina all’altra unendo le attività svolte e le mosse, forme esteriori, ai pensieri e ai desideri, forme interiori.
Il commissario Ricciardi deve convivere con un peso enorme, con “il Fatto”, come lui stesso definisce le visioni che lo costringono a sentire il dolore sospeso nell’aria dopo una morte violenta. Questo è il motivo che lo rende così deciso nel non permettere l’ingresso di qualcuno nella sua vita. Ricciardi intuisce che l’amore, quello vero, non vuole mai il male della persona amata: “Non sapeva nulla dell’amore. Ma se avesse dovuto parlarne, avrebbe detto che si dovrebbe riparare dal male l’oggetto del sentimento, anche se il male è proprio in chi si ama. Soprattutto se il male è in chi si ama. […] e quindi, nel suo caso, doveva mantenere Enrica lontana dalla sua maledizione, dal dolore selvaggio e terribile di cui era portatore”, perciò soffre guardando la ragazza che ricama alla finestra, e che per lui è solo un’immagine, come “un quadro di Vermeer”.
Quel suo essere così solitario e pensieroso lo rende anche molto misterioso e affascinante. Due donne cercano di entrare nella sua vita: Enrica Colombo, la stessa immagine nella finestra che ora sta diventando reale, e Livia Lucani, la bella vedova conosciuta in un’indagine precedente. Lui è interessato ad approfondire queste conoscenze, ma si dimostra molto indeciso tra le due donne.
Ma Rosa Vaglio, la tata che gli è accanto dalla nascita, intuisce molte cose e capisce ciò che turba il cuore del bel commissario. Rosa ha notato gli sguardi che Ricciardi lancia alla finestra di fronte e spera che agli sguardi segua presto una mossa: lei sa che “il ghiaccio si scioglie prima, se ci si accende sotto un bel fuoco”.
A chi andrà il cuore del bel commissario?
Lo sapremo nella quarta stagione, la nuova avventura che Maurizio de Giovanni ci starà già (ce lo auguriamo) preparando.

Morena Fanti

——————-

——————-

Uno scrittore [vero] per tutte le stagioni: un incontro con Maurizio de Giovanni
di Morena Fanti

Il commissario Ricciardi è un personaggio completo e profondo. Solo uno scrittore vero sa arrivare così dentro all’anima dei suoi personaggi e Maurizio de Giovanni (nella foto) lo ha fatto molto bene anche in questo terzo romanzo – e terza stagione della serie – (Il posto di ognuno – L’estate del commissario Ricciardi. Fandango libri, 2009) che vede protagonista il bel commissario dagli occhi verdi e dal cuore tormentato. Ma la sua scrittura non è solo tormento e introspezione: in alcuni suoi racconti in rete ho trovato un’anima ironica e leggera che non sbaglio se definisco umoristica. È sempre interessante scoprire uno scrittore che sa muoversi con grazia tra le righe e sa usare penne di tanti colori. La scrittura è un mezzo di comunicazione che diventa ancora più efficace con la voce ‘giusta’. De Giovanni è uno scrittore che non teme di farsi ascoltare, uno scrittore che si regala ai suoi lettori. Leggendo i suoi romanzi si ha l’impressione che le indagini, gli omicidi e gli altri fatti di sangue, siano solo la ‘scusa’ per accompagnare il commissario Ricciardi nella sua vita e nella sua crescita personale. La vera storia – in questi romanzi le storie sono sempre due e viaggiano parallele: le indagini per scoprire l’autore dell’omicidio da un lato e la vita di Luigi Alfredo dall’altro – è quella della solitudine dolorosa di Ricciardi e del suo desiderio per ora inascoltato da lui stesso di Amore, e gli eventi che lo circondano servono solo a contorno. Ecco il motivo per cui i suoi romanzi non sono ‘semplici’ gialli, ma romanzi pieni e densi in cui affondare e navigare in ogni direzione. Romanzi di crescita. Iniziamo proprio da qui questo incontro con lo scrittore Maurizio de Giovanni.

• Che ne pensi, Maurizio, di queste mie dissennate elucubrazioni?
Che sono perfettamente addentro e consone a Ricciardi e al suo mondo. Io racconto di un percorso, la strada di confine che Ricciardi crede essere parallela alla vita e che quindi con la vita non si incontrerà mai; e invece suo malgrado, lentamente e con grande sofferenza, lo porta sempre più vicino alla carne e al sangue, intossicandolo di vita. Le indagini che porta avanti per lavoro gli mostrano, nella corruzione dei sentimenti e delle passioni, come essere umani significhi essere capaci di amore e di delitto; e di quanto lui stesso, e Maione, ed Enrica, e Livia e tutti coloro che lo circondano siano profondamente umani. Nei quattro romanzi io spiego a Ricciardi, facendolo muovere attraverso il suo mondo, che non potrà fare a meno di essere un uomo, anche se è testimone forzato di tutto il dolore più aspro e putrescente che vede ogni giorno e a ogni angolo di strada.

• Le stagioni sono solo quattro e la prossima è l’autunno. Cosa accadrà al commissario Ricciardi dopo il quarto romanzo? Andrà in pensione anticipata? O inventerai per lui altre storie?
Dipende soprattutto dai lettori. Il contratto con Fandango Libri prevede quattro romanzi, per cui se il successo della serie manterrà gli attuali livelli, molto lusinghieri per la verità, è probabile che mi sarà richiesto di continuare. Il mondo di Ricciardi va prendendo forma e spessore libro dopo libro, per cui non avrei difficoltà a continuare a raccontarne la storia.

• Scrivere di uno stesso personaggio può essere confortante: lo si conosce sempre meglio e, anzi, ad ogni scrittura lo si approfondisce e gli si regala ancora più spessore finché ci sembra un amico, uno di famiglia. È anche vero, però, che scrivere di uno stesso personaggio potrebbe diventare un limite alla scrittura. Quale affermazione senti che ti appartenga di più?
Direi senz’altro la prima. Non pianifico molto la storia, quando comincio a scrivere, per cui sono il primo a godere la sorpresa di incontrare certi personaggi e vederne crescere pian piano caratteri e peculiarità. A me sembra di imbattermi in vecchi amici e credo che mi mancherebbero se non ne scrivessi più. Naturalmente però ho altre idee e non escludo di addentrarmi in altri mondi e in altre storie in futuro, anche per capire se sono capace di scrivere altro sempre nella forma del romanzo.

• Quanto ti piacerebbe, oppure no, che Ricciardi diventasse il personaggio di una serie tv?
Inutile negare che mi piacerebbe molto, sia per l’opportunità commerciale e di diffusione dei romanzi che questo comporterebbe sia per il divertimento di vedere in carne e ossa personaggi che finora abitano solo nella mia mente e in quella dei lettori. Trovo inoltre estremamente gratificante per uno scrittore che altri professionisti decidano di lavorare attorno a un’idea sua, per cui mi aggirerei soddisfatto e curioso sull’eventuale set come mi aggiro all’interno delle mie storie. Ammetto però anche un certo timore di vedere per esigenze di scena le storie di Ricciardi allontanarsi un po’ da come io le ho pensate, rischio inevitabile in queste circostanze.

• Come sapevi che nel 1931 si conoscevano già le emorragie petecchiali? Immagino che tu abbia fatto molte ricerche per scrivere con sicurezza di anni così lontani.
Tutto quello che scrivo con riferimento all’epoca è frutto di attente (e difficili) ricerche, effettuate con l’aiuto di amici esperti in vari campi. Nella fattispecie ho reperito trattati di medicina legale del periodo, dai quali prendo i riferimenti per il lavoro del dottor Modo. Fidati, le emorragie petecchiali erano già presenti nella letteratura medica dai primi del novecento.

• E questo pensiero mi porta anche a questa domanda: la scelta di ambientare le vicende di Ricciardi negli anni trenta è una scelta del personaggio –cioè, lui poteva essere ‘vero’ solo in quegli anni- oppure è una scelta dell’autore – per un tuo piacere di raccontarci quegli anni in particolare e combinare la storia di Luigi Alfredo con la storia dell’Italia negli anni del fascismo?
Le motivazioni della scelta degli anni trenta sono due, una occasionale e una, diciamo, funzionale. La prima deriva dal fatto che il racconto in cui nacque Ricciardi fu scritto durante un concorso al Gambrinus, caffè storico napoletano di ambientazione liberty, che vinsi e da cui deriva tutto quello che è successo dopo. L’altra motivazione è che non mi piace, nella narrativa gialla, l’eccessiva presenza delle indagini scientifiche. Mi interessa il viaggio all’interno di sentimenti, emozioni e passioni dell’investigatore tradizionale, quello che non può utilizzare analisi del DNA, raggi X, luminol e così via. A Napoli poi le scene del crimine, allora come ora, vengono immediatamente inquinate da curiosi e passanti, per cui sarebbe stato inutile riferirsi a questi strumenti.

• Un uomo muore nel momento in cui non significa più niente per nessuno, afferma il duca di Camparino. Quanto credi in questa frase?
Ci credo molto. Vedo persone che vivono in una progressiva terribile solitudine, diventando invisibili man mano che il contesto sociale se ne disinteressa, sopravvivendo in uno stato di abbandono che è peggio della morte. Ricciardi viaggia tra i morti e i vivi, spesso proprio tra questi ultimi vedendo i più soli e disperati.

• Che rapporto hai con la morte? Come credi sia possibile convivere con il dolore?
La morte è nella vita, ad essa strettamente connessa, irrinunciabile, visibile. L’impronta fisica di chi ci ha preceduti è nei nostri sensi, nei ricordi, nelle emozioni. Il dolore è un richiamo, un perenne souvenir che esiste perché è esistito l’amore. Non farei mai a meno del dolore, che è sintomo del vivere: una corazza ci eviterebbe le ferite, ma tanto varrebbe non essere mai nati. Ti dico che secondo me il dolore e la tenerezza sono le uniche due emozioni che vale la pena vivere. Non è la morte che dobbiamo temere, ma l’assenza: se facciamo in modo di non separarci mai dai ricordi, allora potremo dire di aver sconfitto la morte.

• Qual è il posto di ognuno? Ricciardi riuscirà a trovare il suo posto?
Il posto di ognuno non esiste, così come non esiste il senso del dolore o la condanna del sangue. Mi sono divertito a intitolare i tre romanzi, ed è la prima volta che lo rivelo, con tre strutture sociali che non hanno significato reale. Ognuno cerca disperatamente di procurarsi un posto diverso da quello in cui gli altri cercano di tenerlo, e per completare questo intento può anche arrivare al delitto. Relegare qualcuno in un posto è imprigionare, e nessuno può accettarlo passivamente. Ricciardi crede di vivere in un luogo intermedio tra la vita e la morte per la sua particolare condizione, e di fatto si imprigiona da solo impedendosi l’amore, l’amicizia e una vita normale; nel suo caso però sarà la vita stessa a determinare che il suo posto non è quello che lui crede.

• Il vicequestore Garzo pensa che “per comprendere i processi mentali di un delinquente bisogna, in qualche modo, pensare come lui; e quindi essere delinquenti, almeno un po’”. Ricciardi non la pensava così fino a che non ragiona sui nuovi eventi dell’indagine e su un aspetto umano che prima non conosceva. Quanto de Giovanni c’è in Ricciardi?
Secondo me c’è dell’autore in ogni personaggio. Un po’ del sottoscritto c’è in Ricciardi, sicuramente: la sensibilità al dolore, l’ironia che a volte sfocia nel sarcasmo, un po’ d’insofferenza nei confronti della burocrazia; ma anche la bonomia superficiale e pressappochista di Maione, la supponenza ribalda del dottor Modo, l’ottimismo testardo di don Pierino. Tutti figli miei, insomma, con pregi e difetti.

• Valerio Varesi afferma che il suo commissario Soneri è per lui un fratello e che gli fa combattere le battaglie in cui lui crede. Per te chi è Ricciardi?
Per me Ricciardi è un viaggiatore; una specie di ebreo errante o di olandese volante, un Ulisse senza Itaca costretto a percorrere eternamente una linea di confine senza entrare né il un luogo né nell’altro. La sua battaglia non prevede vincitori, è titolare di un mandato generato dal dolore della morte violenta, evitabile e quindi sempre inutile per lui, per tentare di mettere le cose a posto per quanto si possa. Provo per lui molta tenerezza per la condizione che vive, e vorrei che potesse trovare una pace che non può trovare.

• Quando Ricciardi termina un’indagine si deve confrontare con una sensazione mista tra nostalgia, delusione e rabbia. E quando lo scrittore Maurizio de Giovanni termina un romanzo con cosa si confronta?
Tiro un sospirone di sollievo. Quando scrivo una storia di Ricciardi, per tutto il periodo della scrittura, ne sono quasi ossessionato: pezzi di dialoghi, facce di personaggi, luoghi, perfino odori e sapori invadono la mia vita quotidiana e, credimi, non è facile conviverci. La fine di un romanzo è una liberazione, anche se dopo un po’ mi manca e comincio a riflettere su una nuova storia.

• Ho letto in rete alcuni tuoi racconti con una scrittura molto diversa dai tuoi romanzi. Racconti con un’anima più ironica. Forse la scrittura ‘leggera’ diventa un mezzo per rilassare la mente dagli impegni del romanzo?
La mia vera scrittura, quella che mi viene naturale, è quella leggera e ironica, al limite dell’umorismo. Sembra assurdo per chi legge Ricciardi, ma è quando scrivo di lui che la mia maniera di esprimermi cambia. Se avrò modo e tempo, prima o poi scriverò un romanzo (la cui storia ho già più o meno in mente) con quest’altra modalità, per vedere come viene.

• In questi anni proliferano siti e blog di scrittori. Sembra che chi non è presente in rete non sia ‘visibile’. Che rapporto hai tu con la rete? Come vivi internet e i rapporti che si creano sul web?
Internet mi diverte, la trovo un’enorme opportunità di studio, ricerca e contatto. Non appartengo però alla generazione per la quale la rete è imprescindibile, per cui riesco comodamente a farne a meno: per intenderci, non sono tra coloro che non vivono senza connettersi. Penso che tramite il web possano nascere meravigliose amicizie, contatti tra anime lontane; un’occasione di vicinanza, di contiguità che è diventata irrinunciabile. Di internet mi interessa questo.

• Leggendo il tuo romanzo ho pensato che due passaggi – quello delle cipolle, che chi ha letto il libro ha ben presente e chi non l’ha letto dovrebbe farlo subito, e l’altro in cui i personaggi provano fitte di gelosia che attribuiscono ad un mal di stomaco del tutto inventato – siano molto musicali. Il passaggio delle cipolle è un vero canone, con quel rincorrersi delle scene e ricominciare da capo e poi proseguire. Che rapporto hai con la musica? La senti anche tu nella tua scrittura o è una mia invenzione?
La scrittura come la musica è simmetria, ritmo, armonia; almeno, per me è così. Quindi mi capita di ritrovare momenti in cui i personaggi vengono uniti come le strofe di una canzone da un ritornello, un aspetto comune e unificante pur nella diversità delle storie di ciascuno. Mi piace scrivere in questo modo, perché la vita stessa si prende a volte la libertà di creare comuni denominatori e simili contesti, anche quando uno mai se lo aspetterebbe. Scrive una sua canzone, insomma: basta starla a sentire.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/16/il-posto-di-ognuno-di-maurizio-de-giovanni/feed/ 235
LA CONDANNA DEL SANGUE. La primavera del commissario Ricciardi, di Maurizio de Giovanni http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/30/la-condanna-del-sangue-la-primavera-del-commissario-ricciardi-di-maurizio-de-giovanni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/30/la-condanna-del-sangue-la-primavera-del-commissario-ricciardi-di-maurizio-de-giovanni/#comments Tue, 30 Sep 2008 07:09:58 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/30/la-condanna-del-sangue-la-primavera-del-commissario-ricciardi-di-maurizio-de-giovanni/ ricciardi.JPGLuigi Alfredo Ricciardi, nato a Napoli nel 1900, è il trentenne commissario di polizia ideato da Maurizio de Giovanni. Avevamo già avuto modo di presentarlo in concomitanza con il primo libro della serie di quattro (una per ogni stagione) a lui dedicata: “Il senso del dolore”.
Ora Ricciardi ritorna con “La condanna del sangue”.

Ci parleranno di questo nuovo romanzo Laura Costantini e Francesco Di Domenico.

Io ricordo solo la peculiarità di questo malinconico commissario che si trova a operare nella Napoli degli anni Trenta del secolo scorso: Ricciardi ha il dono – o la maledizione – di vedere l’immagine di chi muore di morte violenta, e ascoltarne le ultime parole pronunciate.

Il Fatto, lo chiamava. E il pensiero che la morte, nella sua partenza improvvisa, non aveva avuto il tempo di chiudere i conti, gli arrivava addosso, a chiedere vendetta. Chi se ne andava così, se ne andava con lo sguardo rivolto all’indietro. E lasciava un messaggio che Ricciardi raccoglieva, ascoltando quell’ultimo pensiero ossessivamente ripetuto.” (da “La condanna del sangue”, pag. 21).
Ospite di questo post sarà l’autore del romanzo: Maurizio de Giovanni.
Ma non solo…
Avrete la possibilità di interloquire direttamente con il commissario Ricciardi.
Ponetegli domande, mi raccomando…
Vi offro uno spunto.
Ricciardi sostiene che i moventi che stanno alla base di ogni delitto sono fondamentalmente due: la fame e l’amore.
Siete d’accordo?
Naturalmente tutti coloro che hanno già letto il libro sono invitati a dire la loro.
Massimo Maugeri

Intervista a Maurizio de Giovanni
di Laura Costantini

maurizio-de-giovanni.JPGCi sono personaggi nati dalla fantasia di uno scrittore destinati a vivere di vita propria. Il commissario Luigi Ricciardi, protagonista dei romanzi Il senso del dolore e La condanna del sangue, editi da Fandango, è uno di questi. Ma ci sono anche scrittori che assurgono facilmente al ruolo di personaggi essi stessi, e Maurizio de Giovanni (nella foto) è uno di quegli scrittori. Alto quasi due metri, di sicuro questo bancario partenopeo non ha il phisique-du-rôle dell’Alice piombata nel paese delle meraviglie. Ma è esattamente così che si sente da quando, auspici un corso di calcetto per i suoi due figli e un laboratorio di letteratura umoristica, è incappato nella scrittura.
“Non te la faccio lunga: grazie a un elaborato di otto righe scritto durante il laboratorio, mi iscrivono a un concorso. In giuria gente tipo Carofiglio e Lucarelli, presidente Daniele Protti (direttore dell’Europeo, n.d.r.). Non volevo andarci, non mi ritenevo all’altezza. Avevo già 47 anni, ero fuori tempo massimo. Il tema del concorso era un delitto famoso, io non sapevo cosa scrivere. Avevamo una quindicina di ore di tempo. Io ho pensato che avrei fissato il foglio per un’oretta, poi me ne sarei andato.”
Ma non l’hai fatto.
“No. Eravamo all’interno del caffè Gambrinus, a Napoli. Ho visto passare oltre le vetrate una bambina. Aveva un’espressione truce, era triste. Mi sono chiesto come sarebbe se uno potesse vedere il dolore degli altri, l’emozione nuda, senza alcuna mediazione.”
Quella bambina la ritroviamo ne Il senso del dolore, giusto?
“Giusto. Insomma, ho vinto il concorso. Il racconto I vivi e i morti venne pubblicato sull’Europeo nel 2005. Una grossa soddisfazione, ma pensavo fosse finita lì.”
Invece?
“Invece mi chiama un’agente letterario. Voleva un romanzo con il commissario Ricciardi protagonista. Non ce l’avevo. Mi sono preso due settimane di ferie, quindici giorni a scrivere come un pazzo, a tappo dentro casa.”
E hai scritto Il senso del dolore.
“Sì, anche se ancora non era quello il titolo. Io l’avevo intitolato Le lacrime del pagliaccio, poi la Fandango ha deciso diversamente.”
Il dolente commissario Ricciardi è un successo inaspettato. Come te lo spieghi?
“Me lo spiego cosi’: ho la fortuna di non saper scrivere. La mia scrittura non prevale come succede a colleghi molto più bravi di me. Loro si ascoltano scrivere, gli piace il gusto delle parole e la gente non ci si riconosce. A me non succede così. Sarà stata la fretta, ma io mi sono limitato a raccontare una storia. Ho mandato il manoscritto all’agente letterario, le piacque, ma voleva amore, qualche scena di sesso.”
E tu?
“Io non lo sapevo fare. A me quel romanzo mi era uscito così, come un circuito stampato. Chiesi consiglio al direttore editoriale di una casa editrice di Napoli. Mi chiama la mattina dopo: lo pubblichiamo noi.”
Le lacrime del pagliaccio vende 2000 copie in due mesi.
“E calcola che era distribuito solo a Napoli. Pensavo che fosse finita lì, mi ero tolto lo sfizio ma i colpi di… posso dirlo? Di culo non erano ancora finiti. Te la faccio breve, prometto. Il direttore del centro di produzione Rai di Napoli si ruppe una caviglia. Per passare il tempo leggeva. Gli capitò il mio libro, mi cercò, me ne chiese tre copie per sottoporle a tre nomi del settore editoriale. Il primo a muoversi fu Domenico Procacci, di Fandango. Mi diede appuntamento a Roma.”
E, come si dice, il resto è storia. Il senso del dolore e La condanna del sangue sono i primi due di quattro episodi, uno per ciascuna stagione dell’anno.
Sì. Procacci pensava che li avessi già pronti. Mi è toccato scrivere a tempo di record il secondo (La condanna del sangue – la primavera del commissario Ricciardi, nelle librerie dallo scorso 26 giugno). Sto lavorando al terzo e per il quarto sono ancora in alto mare. La mia fortuna, una delle mie molte fortune, è Paola, la mia compagna, che ha la pazienza di rileggermi e farmi l’editing. Io non rileggo mai quello che scrivo, mi annoia perché so già come va a finire.”
Il senso del dolore è uscito in sordina, eppure è nella classifica dei 100 più venduti da ottobre. I diritti sono stati acquistati all’estero, in Francia e Germania. Si comincia a parlare di una trasposizione televisiva. Ti aspettavi tutto questo?
“Ma quando mai? Mi viene da ridere quando la gente mi tratta come fossi uno scrittore vero, sai quelli con i capelli lunghi, il dolcevita nero e l’aria tormentata. Io sono solo… lo posso dire? Un coglione strafelice che ha avuto una bella idea. E basta.”
Nessun talento?
“No. Tutti abbiamo dentro delle belle storie. Ci vuole solo la faccia tosta di raccontarle. E io la faccia tosta ce l’ho.”

———

Recensione a La condanna del sangue – la primavera del commissario Ricciardi (di Laura Costantini)

Faccia tosta o talento che sia, Maurizio de Giovanni è riuscito a mantenere ciò che aveva promesso nel suo romanzo di esordio. E non era facile, vista la perfezione di stile, di emozioni, di equilibrio che Il senso del dolore sapeva trasmettere. Diciamo subito che La condanna del sangue è romanzo molto più corposo e articolato. Se nel primo l’autore aveva tenuto strette le redini della propria creatività, con La condanna del sangue si è lasciato andare al piacere di un acquerello che alle tinte leggere e trasparenti della primavera in corsa nei vicoli di questa Napoli 1931, aggiunge pennellate vivide e gocciolanti che non possono che essere rosso sangue. Al centro di tutto, ancora, il nostro amico Ricciardi, con i suoi occhi verdi trasparenti come vetro, ma profondi e insondabili almeno quanto quel Fatto che è dono e maledizione. E se ci era apparso personaggio degno di restare ben presente nella memoria del lettore alla sua prima apparizione, qui il commissario acquista spessore e umanità, rivelando fragilità che fanno sorridere. E innamorare. Intorno a lui si muove Napoli e una piccola folla di personaggi guidati all’azione dal vento leggero e profumato della primavera, dal rimescolarsi dei sentimenti e degli ormoni, dalla cattiveria, dall’avidità, ma anche e soprattutto dall’amore. L’omicidio cruento di una vecchia cartomante è il filo conduttore e l’indagine principale, ma le pennellate si espandono intorno, comprendendo una donna troppo povera e sola per permettersi di essere la più bella di tutta Napoli, un pizzaiolo indebitato e disposto a morire per tutelare l’onore della sua famiglia, una ragazzina abusata dal padre vedovo, un attore bello e rampante, una nobildonna annoiata e in cerca della scossa della passione, una bambina ritardata che condivide con Ricciardi il dono di vedere i trapassati. Tirare le fila di tutto questo, e molto altro, non deve essere stato facile eppure de Giovanni, che per scrivere romanzi prende due settimane di ferie e si chiude a tappo in casa, ci è riuscito con la maestria di un grande pittore. Quello che ci troviamo davanti è un affresco tenero ed epico insieme, arricchito da maschere profondamente umane. Come quella del brigadiere Raffaele Maione, indispensabile spalla di Ricciardi, uomo tutto d’un pezzo ma vero nelle sue incertezze, nella sofferenza per il figlio perduto, nella rabbia per un matrimonio che rischia il naufragio, nella fragilità davanti alla possibilità di un altro amore, un’altra donna. Saranno la sua profonda onestà, la saggezza di un femminiello e la forza tutta femminile di sua moglie Lucia, a riportarlo in carreggiata, a rimetterlo al posto che gli spetta nell’affresco. Un affresco che si accende anche di rosa nella nuova chance che riporta speranza per il timidissimo commissario Ricciardi e per la sua Enrica, silenziosa ricamatrice mancina alla finestra. La primavera ce li mostra così i personaggi partoriti dal talento di Maurizio de Giovanni, incasellati in una storia che odora di vicoli, di rifiuti, di mare, di vento fresco, di fiori appena sbocciati. E su tutto domina l’aroma ferroso e feroce del sangue. La ferita che attraversa il volto perfetto di Filomena così come quello di Napoli. Uno sfregio che non ne spegne la bellezza. Anzi, la esalta.
Laura Costantini

__________

Recensione di Francesco Di Domenico

Uno poi sta lì ad aspettare.
Il lettore è una carogna, aspetta la seconda opera, come diceva il principe: “Vediamo ‘sto stupido dove vuole arrivare”; il critico, quasi sempre un’infame sprovveduto e insulso mancato scrittore; l’amico scrittore, una gelida bestia arsa dal livore per il successo del compagno.
Maurizio de Giovanni esce con il secondo “Ricciardi” e sgomenta un po’ tutti.
Li stende. Ma non credo ne avesse voglia, de Giovanni semplicemente tira fuori da sé quello che la sua incredibile fantasia ha accumulato in quasi 50 anni di letture e vita vissuta, con semplicità disarmante. Quando gli chiedevano, alla presentazione del “Senso del dolore”: – “Maurì, e adesso? Come sarà il prossimo? Che scriverai?” Lui rispondeva, con quel sorriso umile, dolce, come sanno essere dolci i veri amici, e anche un po’ sulla difensiva: “Perdonatemi, ma l’ho già scritto!” Tornano, con questo secondo libro, di una promessa quadrilogia delle stagioni, i personaggi che ci avevano già convinto nel primo tomo: il brigadiere Raffaele Maione, ombra massiccia e sussiegosa; la giovane e delicata Enrica, amore di sguardi tra finestre e Luigi Alfredo Ricciardi, gli occhi verdi all’altro capo dell’altra finestra. Messa così sembra un romanzo d’appendice: tutt’altro.
“La condanna del sangue” è la primavera di questo giovane commissario trentenne, nel ‘30 del ‘900. Tutto ribolle nella stagione della rinascenza, a cominciare dal sangue.
Tra i vicoli dei quartieri poveri della città che si affacciano nell’antica via Toledo, la “Via Nova” – come ancora oggi, a 400 anni di distanza la chiamano gli abitanti dei “Quartieri Spagnoli – Il commissario Ricciardi vive, cammina e sopravvive a se stesso e ad un soprannaturale dolore che si porta dentro. La strada, sotto il fascismo si chiama via Roma, ed è ancora una violenta coltellata seicentesca nel cuore della sirena partenope, che scendendo dalla Reggia estiva di Capodimonte arriva direttamente all’altra reggia di piazza del Plebiscito,  e al mare, cercando di dividere i ricchi dai poveri, il mare dalla collina; i vivi dai morti.
In questa città non si sono ancora prodotti i distacchi netti del dopoguerra tra ceti; non c’è ancora l’odore della morte e della sopraffazione che avrebbe ereditato dalla tragedia del ’43. Il fascismo è raccontato in modo distaccato, come “un altro da sé”, quasi separato dalla vita viva della gente, con ironia storica. Anche il mare, che dovrebbe essere il contenitore vivido di questa città, è trattato come una delicata cornice, una nuance.
Il melange tra classi è una risulta culturale della Napoli ancora borbonica; ricchi che frequentano i poveri per servirsene, per comprare soldi a usura o speranze da cartomanti. La stessa miscela, sapientemente raccontata nel capolavoro eduardiano “Napoli Milionaria”. Nel mezzo delitti, a volte quasi casuali, raramente premeditati. Croci continue sulle spalle di un uomo autocondannatosi alla scoperta della verità, legato a quel mistero soprannaturale , “Il Fatto”, che gli fa udire le ultime parole che il morto pronuncia o pensa, per dare sepoltura a quelle parole e alle anime, più che ai corpi.
L’autore afferma che “I genitori di ogni delitto sono, per Ricciardi, la Fame e l’Amore; l’una ottusa, cieca e violenta, l’altro illusorio, falso ed egoista. Il Potere, l’ansia del quale procura pure crimini orribili, è di fatto una via di mezzo. Potremmo dire che tutti e tre esauriscono le motivazioni di questi crimini.”
Il percorso adottato dall’autore è lastricato di piccole e grandi passioni incastrate come i lastroni di pietra lavica che pavimentano la città, e di miseria, quella che una volta era fisica e oggi è puramente morale.
La narrazione, intrisa di particolari spietati e lucidi sembra quasi precedere lo straordinario “Il Mare non bagna Napoli” di A. M. Ortese . Alcuni passaggi hanno la stessa tensione di amore/odio della grande scrittrice che nel ’53 scriveva: “Qui, il mare non bagnava Napoli. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco dell’amore, sotto il cielo nero del sovrannaturale.”
Napoli aveva proprio bisogno di un altro scrittore.
Francesco Di Domenico

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/30/la-condanna-del-sangue-la-primavera-del-commissario-ricciardi-di-maurizio-de-giovanni/feed/ 163