LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » fazi http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 DRIEU LA ROCHELLE, grande scrittore, grande canaglia http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/05/31/drieu-la-rochelle-grande-scrittore-grande-canaglia/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/05/31/drieu-la-rochelle-grande-scrittore-grande-canaglia/#comments Sat, 31 May 2014 09:16:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6167 La nuova puntata de “Il sottosuolo”di Ferdinando Camon è dedicata al volume La commedia di Charleroi di Pierre Drieu La Rochelle (Fazi editore).

“Sono partito, non sono più ritornato, questa volta”. Così chiude l’ultimo racconto di questa raccolta, scritta nel 1934, che ci svela il senso della guerra per Drieu La Rochelle: l’impossibilità di fare ritorno alle commedie della vita civile dopo aver provato il disgusto e l’ebbrezza del grande conflitto del ‘14-’18, che la tecnica ha reso ancor più disumano. Eroismo e viltà, esaltazione e disincanto, ideologia e cinismo si confondono nei personaggi della “Commedia, che narrano la loro esperienza sapendo di non poter essere creduti da chi nella pace è ansioso di ritrovare soprattutto le proprie illusioni. Come la signora Pragen, la borghese arricchita del primo racconto, che cerca le tracce del figlio sul campo di Charleroi, ma fugge la realtà di una guerra che, nei massacri di massa, ha perso anche le sue retoriche e le sue finzioni romantiche. E gli uomini che hanno vissuto il furore delle trincee sono già quelli che, incapaci di abbracciare una condizione diversa dallo stato d’eccezione, andranno a popolare le grandi mobilitazioni totalitarie del Novecento. In questo senso “La commedia di Charleroi”, con la sua lingua intensa, oscillante tra lucidità e follia, è emblematica di uno scrittore che, al di là di ogni etichetta politica, ha fatto della propria opera e della propria sofferenza la testimonianza tragica del disagio di un’intera generazione. Introduzione di Attilio Scarpellini.

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ferdinando-camonDRIEU LA ROCHELLE, grande scrittore, grande canaglia

di Ferdinando Camon

Ora che l’ho letto, il libro è zeppo di note a matita, a bordo pagina, che dicono: “Acuto”, “Sincero”, ma anche: “Canaglia”, con riferimento all’autore. Chi mi legge vorrà sapere subito quand’è che dico “canaglia”. Beh, spesso. Questo è un libro sulla guerra, la prima guerra mondiale, testimonianze, rievocazioni, ragionamenti. Le testimonianze sono grandiose e inobliabili: l’autore è un testimone personale, ha visto tutto, a Charleroi, in Belgio, quando noi italiani non eravamo ancora entrati in guerra, e a Verdun, che sta alla prima guerra mondiale come Stalingrado sta alla seconda. Ha visto le carneficine preannunciate dai colpi di obice, poi meticolosamente realizzate quando i reparti andavano all’assalto scoperti e venivano centrati dalle due armi-regine: i cannoni e le mitragliatrici. Ha camminato sulle trincee coperte di pezzi di soldati, braccia, gambe, teste. Dunque, “sa” cos’è la guerra. Non la guerra teorizzata dagli Alti Comandi sulle carte topografiche, o quella sterile e asettica dei bollettini: no, lui sa, per averla vista e toccata, cos’è la guerra di prima linea, lo sbranamento dei reparti, il vegliare-dormire-morire con l’incubo di non sapere mai in quale dei tre stadi ti trovi. E allora dà ribrezzo sentirlo dire che lui “ama la guerra”, che “l’uomo è fatto per la guerra”, che “l’uomo ha bisogno della guerra come di una donna”, “l’uomo non può fare a meno della guerra, più di quanto possa fare a meno dell’amore”, “una persona civile mostra il suo amore per la civiltà aderendo a tutto il contenuto di questa espressione, aderendo allo stato di guerra permanente, se si accetta la patria si accetta la guerra, chi ama la patria ama la guerra”. È vero, c’è guerra e guerra. L’autore ama la guerra, ma non quella che sta combattendo, e quella che sarebbe venuta dopo. Non ama le guerre “meccaniche”, dove la vittoria non dipende dai soldati e dalla loro volontà di andare fino in fondo, ma dalle industrie e dalla loro capacità si sfornare cannoni e mitragliatrici. Ama la guerra degli eroi, non la guerra delle economie. Ma c’è qualcosa di fascista, in questo amore. Qualcosa di nazista. Molto più tardi, come tutti sapete, finita la seconda guerra mondiale, l’autore morirà suicida, mentre si preparavano a processarlo per adesione al nazismo. Ma il suicidio era una subliminale tentazione perenne in lui. È suo Fuoco fatuo, racconto di un suicidio come gesto che dà un senso retroattivo alla vita, libro-capolavoro da cui Luis Malle trasse il film-capolavoro omonimo.
Questa Commedia di Charleroi ci ricorda molte cose che non sapevamo. Credevamo di saper tutto, della prima guerra mondiale, ma abbiano perduto la cosa più importante: il clima, l’atmosfera, le ideologie, le motivazioni culturali, morali, spirituali, filosofiche che la sostenevano. Anche quel clima la rendeva inevitabile. La Rochelle ci fa capire non “perché quella guerra è scoppiata” (questo ce lo dicono gli storici), ma “perché non poteva non scoppiare, e, una volta scoppiata, non poteva non durare a lungo”. La vecchia Europa era un corpaccio pieno di sangue marcio, doveva dissanguarsi fino all’ultima goccia, perché nelle sue vene s’immettesse sangue nuovo. La struttura a cui La Rochelle appende i suoi ragionamenti è elementare. Il libro è tutto in prima persona. Comincia con l’io narrante che accompagna come segretario sui campi di battaglia di Charleroi una madre, la signora Pragen,  che vi ha perduto il figlio, Claude, e vuol ritrovare il suo corpo. Prosegue rievocando altri incontri e dialoghi, tra cui memorabile quello con un disertore, esatto opposto di La Rochelle, in quanto sostiene che bisogna scappare dai luoghi dove si muore, non c’è niente per cui valga la pena di morire. Quando il narratore rievoca le battaglie e le stragi, quella di Charleroi e quella di Verdun, non si capisce mai se in quelle battaglie ci sono colpe o errori. Forse, e questo a tratti è anche il pensiero di La Rochelle, colpa o errore è la battaglia in sé. Noi italiani, quando pensiamo ad attacchi assurdi dal punto di vista militare e criminosi dal punto di vista giuridico, pensiamo agli attacchi “da sotto in su” ordinati da Cadorna, petti nudi contro le mitragliatrici: condanne a morte di interi reparti. Drieu La Rochelle ha qualcosa di analogo da testimoniare, ed è “la testuggine”. Ascoltatelo: “I nostri favolosi generali avevano escogitato una stupefacente buffonata: la testuggine. Quell’invenzione costituiva il singolare tentativo di difendersi dai flagelli moderni con i metodi dell’antica Roma. Ci si stringeva gli uni agli altri, in quaranta o cinquanta (mia nota: un plotone), inarcando le schiene. E tutti i nostri zaini, fianco a fianco, creavano una sorta di pavimentazione a prova di scheggia. Ma non di granata. Con questo sistema, i tedeschi potevano fare quaranta o cinquanta vittime con un colpo solo”. No, non c’è niente da salvare, in questa guerra. Bravo, acuto, sincero Drieu La Rochelle. Ma, con la sua snobistica esaltazione del “male”, che canaglia!

(“La Stampa-Tuttolibri” – 24 maggio 2014)

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FILIPPO LA PORTA ospite di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 21 marzo 2014 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/03/21/in-radio-con-filippo-la-porta/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/03/21/in-radio-con-filippo-la-porta/#comments Fri, 21 Mar 2014 19:25:01 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6002 filippo-la-porta-poesia-come-esperienzaFILIPPO LA PORTA ospite di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 21 marzo 2014

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

LA PUNTATA È ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

In occasione della GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA 2014 (celebrata e patrocinata dall’Unesco ogni 21 marzo), l’ospite della puntata di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 21 marzo 2014 è stato il saggista e critico letterario Filippo La Porta.

Con Filippo La Porta abbiamo discusso di poesia prendendo spunto dal suo recente saggio intitolato “Poesia come esperienza. Una formazione nei versi” (edito da Fazi).

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

LA PUNTATA È  ASCOLTABILE ONLINE, CLICCANDO SUL PULSANTE AUDIO

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il venerdì mattina (h.13 circa) e – in replica – il mercoledì mattina (h. 11,00). Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

È possibile ascoltare le puntate precedenti, cliccando qui.

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IL FUTURO DELLA NARRATIVA E LA FAME DI REALTÀ: il caso di David Shields http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/10/25/il-futuro-della-narrativa-e-la-fame-di-realta-il-caso-di-david-shields/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/10/25/il-futuro-della-narrativa-e-la-fame-di-realta-il-caso-di-david-shields/#comments Sun, 24 Oct 2010 23:30:14 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2604 fame-di-realta-2Cos’è il romanzo oggi? Quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà? Quali sono o saranno le forme espressive dominanti del XXI secolo? Dov’è il limite tra citazione e plagio? Chi stabilisce se un autore, appropriandosi di una parte dell’opera altrui, sta costruendo un nuovo orizzonte di senso o sta solo copiando?
Queste sono alcune delle domande che pone e si pone David Shields: autore di opere narrative e saggistiche di successo, tra cui “Black Planet” (finalista al National Book Critics Circle Award), tradotte in dodici lingue, e di racconti e saggi brevi su varie testate (come, ad esempio, «New York Times Magazine», «Harper’s Magazine», «The Village Voice», «McSweeney’s» e «The Believer»).
Shields, per la verità, è andato oltre. Non si è limitato a porre (più o meno implicitamente) domande, ma ha pubblicato un libro (in Italia è stato appena pubblicato dalla Fazi) intitolato “Fame di realtà. Un manifesto”, dove – tra le altre cose – contesta l’utilità del genere romanzo così come è classicamente inteso. Per Shield (trascrivo dalla scheda del libro) “il romanzo del Terzo Millennio deve nascere dalla rifusione di vecchi materiali letterari, mescolati fino a perdere le tracce della fonte originaria e a fondersi in una forma ibrida tra saggistica e narrativa”. D’altra parte il testo che propone in “Fame di realtà” è composto da 618 citazioni suddivise in capitoli e riportate in una sequenza ordinata e sistematizzata secondo certi criteri che lui stesso ha prescelto, ma… senza indicare l’autore e la fonte (alla fine del libro l’editore, per evitare possibili ritorsioni legali riguardanti la violazione del diritto d’autore, ha imposto l’inserimento di una scheda con l’indicazione degli autori delle citazioni utilizzate).
Ecco cosa scrive Shield (qui nella foto) alla fine del volume, come appendice.
David ShieldsQuesto libro contiene centinaia di citazioni delle quali nel corpo del testo non viene menzionata la fonte. Sto cercando di rivendicare una libertà che gli scrittori da Montaigne a Burroughs davano per scontata e che noi abbiamo perso. La vostra incertezza sugli autori delle parole che avete appena letto non è un difetto ma una virtù.
Uno dei temi centrali di “Fame di realtà” è il furto e il plagio e cosa queste parole vogliano dire. Non sarei riuscito ad affrontare l’argomento senza lasciarmi invischiare. Sarebbe come scrivere un libro sulla menzogna e non poter mentire. Oppure scrivere un libro su come abbattere il capitalismo ma sentirsi rispondere che non verrà pubblicato perché potrebbe danneggiare l’industria editoriale.
Tuttavia l’ufficio legale di Random House ha deciso che fosse meglio allegare un elenco completo delle citazioni (…). Se volete ripristinare la forma originaria in cui il libro andava letto, vi basta prendere un paio di forbici o una lametta o un taglierino e staccare le pagine che vanno dalla 248 alla 262 tagliando lungo la linea tratteggiata.
Di chi sono le parole? Di chi è la musica e tutto il resto della nostra cultura? È nostra, di tutti, anche se per ora non tutti lo sanno. Non si può imporre un diritto d’autore alla realtà
.”
Questo libro ha scatenato un ricco e articolato dibattito negli States e in altri paesi, anche perché tra i sostenitori del volume – e delle tesi di Shields – figura il Premio Nobel per la Letteratura 2003 J. M. Coetzee, il quale ha dichiarato quanto segue: “Fame di realtà è un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo, un assalto frontale a tutte le convenzioni, particolarmente a quelle che definiscono il romanzo perfetto. David Shields ci conduce in un viaggio intellettuale affascinante ed esilarante”.
Un’opinione di peso, quella di Coetzee… a cui hanno fatto seguito quelle di Jonathan Safran FoerFame di realtà non è soltanto un libro che fa riflettere, ma è anche uno dei più belli che abbia letto da molto tempo a questa parte»] e Jonathan Lethem [«Ho appena finito di leggere Fame di realtà e mi ha illuminato, intossicato, entusiasmato, sopraffatto. È un vetro attraverso cui guardare il mondo (come lo mostrano letteratura, musica, video), e allo stesso tempo uno specchio in cui vederci riflessi, là in mezzo. Un libro urgente, oltraggioso, e anche un'opera che si compone leggendola»].
Mentre Zadie Smith ha affermato: è «intrigante da leggere, anche se disapprovo la maggior parte di quello che dice».
Non mancano i pareri favorevoli di quotidiani di grido come il New York Times («Il libro di Shields stabilisce i canoni dominanti dell’arte degli anni e dei decenni a venire». The New York Times Book Review) e The Guardian («Intelligente, stimolante e aforistico. Un manifesto provocatorio e divertente»).

Il dibattito si sta diffondendo un po’ ovunque tra gli appassionati di letteratura e ha raggiunto anche il nostro paese. Di questo libro ne hanno già parlato Matteo Sacchi (su Il Giornale), Alfonso Berardinelli (su Il Corriere della Sera), Mariarosa Mancuso (su Il Foglio), Stefano Salis – che ha anche firmato la prefazione del libro – e Nicola Lagioia (sulle pagine culturali de Il Sole24Ore).
Di seguito potrete leggere la prefazione di Salis (ringrazio sia Stefano, sia la Fazi per avermi autorizzato a pubblicarla). Nei prossimi giorni metterò a vostra disposizione altri contributi.

I giudizi di Sacchi, Mancuso e Berardinelli non sono molto favorevoli all’operazione.
Alfonso Berardinelli nel suo articolo sul Corriere scrive – con severità – “Se c’è qualcuno che non si perdona, è proprio chi dice qualcosa che abbiamo pensato e scritto per anni, ma lo dice male, noiosamente e nel tono sbagliato. Mi capita questo leggendo il libro di David Shields “Fame di realtà. Un manifesto” (Fazi) nel quale si annuncia dagli Stati Uniti, patria, fabbrica e paradiso del bestseller programmato, che in verità il romanzo è un genere fuorviante, abusato, quasi sempre un po’ fasullo; e che invece l’ aforisma, il saggio, le scritture fuori genere, gli zibaldoni di pensieri e i diari sono molto meglio: sono più onesti, più appassionanti, dicono cose più vere di quante ne dice un romanzo normale e «ben fatto». Condivido molto di ciò che Shields dice nel suo libro. Ma non riesco a condividere né l’entusiasmo del prefatore, Stefano Salis, né tantomeno le solenni affermazioni di J. M. Coetzee, secondo il quale Fame di realtà sarebbe «un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo…».
Mi preme, poi, evidenziare questo passaggio del pensiero di Berardinelli (spiegherò il perché): “L’aforisma 538 suona così: «Mi ritrovo a dire, succintamente e prosaicamente, che è molto più importante essere se stessi che chiunque altro». Dalle note in fondo al libro si viene a sapere che una tale stupidaggine l’ha scritta Virginia Woolf nel suo famoso saggio “Una stanza tutta per sé”. Che cosa è avvenuto? La frase, che nel suo contesto era al posto giusto, è stata trasformata da Shields in una comica sciocchezza, che starebbe benissimo e sarebbe una cosa seria nel diario di un adolescente, ma nel manifesto estetico di un cinquantenne colto e ambizioso fa cascare le braccia”.
È probabile che Berardinelli abbia ragione, ma – a mio avviso – è proprio questa considerazione che contiene, al suo interno, un aspetto cruciale della questione. Quella frase è stata trasformata. Non è più quella originaria. O meglio, ha perso il suo senso originario per acquisirne uno nuovo (migliore o peggiore che sia). E il suo nuovo senso dipende dal contesto inedito in cui la frase stessa è inserita e dalla sequenza delle altre citazioni in cui è stata incastonata. Credo che questo aspetto della questione sia “centrale” rispetto al tema del futuro della tutela del diritto d’autore.
Ora, la domanda è: prendere una frase, estrapolandola dal contesto originario, per inserirla in un contesto nuovo, inedito, frutto di un insieme sistematizzato e pensato di citazioni, può essere considerato un atto creativo (e, in quanto tale, innovativo e autonomo), oppure si tratta di una semplice e banale operazione di copia-incolla?
È possibile paragonare tale operazione
(per tentare un parallelismo con l’arte figurativa) a quelle che compiva Andy Warhol (penso alle note icone di Marilyn Monroe, Mao, Che Guevara)?
E fino a che punto si tratta di qualcosa di innovativo? Può essere considerata innovativa l’idea di rinunciare a indicare gli autori delle “frasi originarie” partendo da una ri-considerazione del diritto d’autore?

Ciò premesso (senza soffermarmi su avanguardie, neo-avanguardie e/o sperimentalismi del passato) questo libro di Shields, a caldo, mi ha evocato due pensieri (o meglio, “suggestioni”):
1. Un vecchio racconto di Roald Dahl, pubblicato la prima volta – se non erro – nel 1953, intitolato “Lo Scrittore automatico” (titolo originale: “The Great Automatic Grammatisator”). È la storia di un giovane aspirante scrittore che inventa una strana macchina in grado di produrre romanzi in quantità industriale rimescolando e ricomponendo un’accozzaglia di racconti, frasi, testi, attraverso una combinazione artificiale (basta premere leve e pulsanti) di trama, stile, linguaggio e genere. Questo racconto lo trovate sia in questo volume, che in quest’altro.
2. Le pillole Bur curate dall’amico Luigi La Rosa. Un insieme di citazioni estrapolate dai contesti originari e sistematizzate – sulla base di un tema prescelto – in capitoli “sotto-tematici”. Qui su Letteratitudine abbiamo avuto modo di discutere de “L’alfabeto dell’amore”, ma ricordo anche Pensieri erotici e Pensieri di Natale. In questo caso, però, a differenza di Shields (e il discrimine vero è proprio qui) alla fine di ogni citazione venivano riportati il nome dell’autore e il titolo dell’opera da cui il testo era stato estrapolato.

Mi fermo qui e passo la parola a voi, ri-proponendovi le domande:

1. Cos’è il romanzo oggi?
2. Quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà?
3. Quali sono o saranno le forme espressive dominanti del XXI secolo?
4. Dov’è il limite tra citazione e plagio?
5. Chi stabilisce se un autore, appropriandosi di una parte dell’opera altrui, sta costruendo un nuovo orizzonte di senso o sta solo copiando?
6. Ovvero… prendere una frase, estrapolandola dal contesto originario, per inserirla in un contesto nuovo, inedito, frutto di un insieme sistematizzato e pensato di citazioni, può essere considerato un atto creativo, oppure si tratta di una semplice e banale operazione di copia-incolla?
7. È possibile paragonare tale operazione (per tentare un parallelismo con l’arte figurativa) a quelle che compiva Andy Warhol (penso alle note icone di Marilyn Monroe, Mao, Che Guevara)?
8. E fino a che punto si tratta di qualcosa di innovativo?
9. Può essere considerata innovativa l’idea di rinunciare a indicare gli autori delle “frasi originarie” partendo da una ri-considerazione del diritto d’autore?

Provate a fornire la vostra risposta (se non a tutte le domande, a quelle che vi interessano di più).

Di seguito, la prefazione di Stefano Salis.

Massimo Maugeri

P.s. Di questo libro ne sta parlando anche Loredana Lipperini su Lipperatura

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PREFAZIONE

di Stefano Salis (nella foto in basso)

La letteratura al tempo del copia e incolla.
La cultura al tempo del remix

stefano-salisComplimenti per la scelta! Avete appena comprato (bravi) o vi siete fatti prestare (avete buoni amici), l’avete cominciata a sbirciare prendendola dallo scaffale in libreria (ottimo giudizio) o, chissà, magari l’avete anche rubata (questo no, però, non si fa!), una copia di una delle opere più importanti di teoria letteraria pubblicate negli ultimi anni. Uno di quei libri destinati a germogliare, con frutti imprevisti e imprevedibili, con influenze più o meno sostanziali sugli autori più diversi, con conferme delle idee che circolano in altri libri, altre opere di altri scrittori, alcuni dei quali non avreste sospettato minimamente che potessero essere d’accordo con simile roba. Perfino qualche Nobel passato, di sicuro qualche Nobel futuro.
Bene. Ora che vi accingete a leggerlo, qualche semplice istruzione per l’uso del libro, forse, vi tornerà utile.
Prima di tutto: l’opera che leggerete è di David Shields, nella sua interezza.
Che novità! E ci mancherebbe pure, direte. E che bisogno c’è di ribadirlo?
C’è. L’opera, infatti, è di Shields, le idee quasi tutte, molte delle parole che utilizza per farle venire fuori, no. L’assemblaggio, però, lo ha fatto lui, e le suggestioni che vengono fuori dal testo provengono dal suo modo di ragionare. E questo, in definitiva, è quello che più conta.
Fame di realtà è un manifesto, una dichiarazione di poetica, un quadro dello status quo narrativo, certo. Ma è anche un’esemplificazione concreta di ciò che tale manifesto vorrebbe prospettare per la letteratura degli anni a venire. La stessa struttura autoriale classica è messa in discussione: un volume costruito con altri libri, ma senza note, senza rimandi espliciti, senza interruzioni di lettura. Un frullato di parole altrui, insomma, che genera, però, un distillato del tutto nuovo.
Il libro è fatto di 618 frammenti, a volte brevissimi, a volte più lunghi e meditati. I pezzi sono selezionati e collocati all’interno di un alfabeto che descrive – con altissima percentuale di arbitrarietà – altrettante parole-chiave, funzionali, ciascuna, allo svolgimento del discorso nel suo complesso. Centinaia sono le citazioni, a volte letterali, a volte interpolate dalla voce dell’autore (di nuovo: concretamente Shields ci fa vedere come dovrebbe agire il manifesto che propugna…), di altri scrittori: opere letterarie, articoli di giornale, saggi, dichiarazioni, opere non ancora pubblicate, interviste e articoli reperibili sul web, persino chiacchierate private con scrittori e intellettuali. E persino (capita in almeno un caso, con Dave Eggers, uno dei numi tutelari di questo libro) dichiarazioni di autori, in seguito dagli stessi autori ritrattate, ma perfette – le dichiarazioni precedenti, diciamo, le idee, come dire… originarie – per ciò di cui si va discutendo. Né ci si ferma solo alla letteratura: jazz, arte, mercato, TV, cinema. Qualunque argomento è buono per supportare la tesi.
David Shields – americano, cinquantaquattro anni, nove libri prima di questo, tra i quali The Thing About Life Is That One Day You’ll Be Dead (Knopf, 2008), che riuscì a entrare nella classifica dei bestseller del «New York Times», romanziere ora chiaramente stufatosi del genere – dichiara esplicitamente, alla fine del volume, che il libro dovrebbe essere letto dal fruitore senza avvertimenti e senza consapevolezza della miriade di citazioni che contiene. I legali della casa editrice americana, la prestigiosa e potente Random House, che per prima ha pubblicato l’opera, hanno sconsigliato l’autore dall’omettere totalmente le fonti, e per di più in questa enorme quantità. E dunque potrete controllare quando volete “chi ha detto cosa”; ma, vedrete, non vi servirà più di tanto. «Se volete ripristinare la forma originaria in cui il libro andava letto, vi basta prendere un paio di forbici o una lametta o un taglierino e staccare le pagine che vanno dalla 248 alla 262 tagliando lungo la linea tratteggiata», scrive Shields in chiusura.
Il gioco del “chi l’ha detto?”, il piccolo Trivial di Fame di realtà, lo dichiariamo in partenza, non vale la candela. Non è un’opera da leggere andando continuamente a verificare a chi appartiene la citazione tal dei tali. Dopo un po’ ne avrete abbastanza (anzi, si perde la cosa più importante di questo libro: condividere o confutare le idee che vi sono esposte) e l’esperimento, per di più, funziona poco, almeno per noi italiani, perché la stragrande maggioranza dei citati sono autori ben poco noti da queste parti; per lo più saggisti, giornalisti, scrittori che hanno riflettuto e stanno riflettendo su come si è modificata la letteratura negli ultimi anni. Autori di una certa area culturale anglosassone che potremmo individuare, grosso modo, in quel gruppo eterogeneo di scrittori e saggisti stanchi dei moduli tradizionali della narrativa e della saggistica, che utilizzano le nuove tecnologie e sperimentano, con risultati alterni, gli esiti di una ricerca complicata e delicata. E, in più, l’incertezza sulle parole degli autori che leggete è, come dice Shields, un pregio, non un difetto del libro.
«Uno dei temi centrali di Fame di realtà è il furto e il plagio e cosa vogliono dire queste parole. Non sarei riuscito ad affrontare l’argomento senza lasciarmi invischiare», spiega Shields, sempre nell’Appendice. «Sarebbe come scrivere un libro su come abbattere il capitalismo ma sentirsi rispondere che non verrà pubblicato perché potrebbe danneggiare l’industria editoriale». Magari questo vi sembra un sofisma, e va bene: almeno spiega, però, il modo in cui il testo è stato scritto e perché. Per entrare nello spirito del libro, è forse questa la frase (che Shields usa per chiudere) più appropriata: «Di chi sono le parole? Di chi è la musica e tutto il resto della nostra cultura? È nostra, di tutti, anche se per ora non tutti lo sanno. Non si può imporre un diritto d’autore alla realtà».
Va da sé che il tema del diritto d’autore sarà sempre più centrale negli anni a venire, quando il concetto stesso tenderà a sfumarsi (insieme a quello di plagio) in nome del remix, anche grazie (o per colpa di, a seconda dei punti di vista) alla enorme quantità di materiale disponibile simultaneamente, utilizzabile prontamente e visibile gratuitamente che le nuove tecnologie (Internet in testa) ci garantiscono. Non è questa, ovviamente, la sede per approfondire il complesso soggetto del cambiamento del concetto di diritto d’autore, ma lo sfondo culturale sul quale si adagia il libro di Shields è esattamente questo.
La tecnologia, inoltre, opera sulle idee: un fenomeno, questo, che spesso gli intellettuali e i critici letterari faticano ad accettare, eludendolo a bella posta e a priori, ma che si rivela difficile da aggirare. Basta guardarsi intorno, e basta avere un minimo di nozione di storia della cultura per vederlo in atto.
Per esempio: viviamo in un mondo assai diverso da quello in cui è nata e si è sviluppata la forma narrativa “romanzo”, quella che maggiormente le prende nel libro di Shields. Perché mai dovremmo pensare che questa non si debba evolvere per stare al passo coi tempi? O che magari, invece, sia diventata inservibile per essere rappresentativa della cultura e della nozione contemporanea di letteratura?
Ecco: forse è questo, ancora più del plagio (ma è evidente che sono temi connessi), il nocciolo del manifesto di Shields.
Se ne sono accorti in parecchi, del resto. A lettura finita, o mentre ancora leggete, vi renderete conto che Fame di realtà centra direttamente l’oggetto sul quale da anni molti critici letterari stanno riflettendo. Ecco perché l’impulso a rileggere queste pagine, a coglierne sempre nuovi spunti (o a controbattere, ancora con più violenza), sarà, lo garantiamo da prefatori entusiasti, irresistibile.
Molti scrittori americani, dal canto loro, ammettono che questo libro rimarrà a lungo sul loro comodino. Già, perché l’opera di Shields è finita nelle mani giuste. Ancora prima di uscire (la prima edizione americana data febbraio 2010), è stata letta e commentata in bozze. Appena pubblicata (con i commenti pre-lettura nei risguardi di copertina) ha subito scatenato un dibattito in America e in Inghilterra come non se ne vedeva da tempo, soprattutto sulla critica letteraria. Dibattito che nelle comunità internettiane e, soprattutto, tra gli scrittori di narrativa ha spopolato. E che non era, si badi, il trito dibattito su “il romanzo è morto?” (tipico tema balneare per stanche redazioni culturali dei giornali nostrani) ma, ben più sostanzialmente, su quale forma di letteratura ci dovremo aspettare per il futuro, quali modelli narrativi, quali suggestioni arrivano dalla realtà che ci circonda e che viviamo tutti i giorni.
I colleghi scrittori di lingua inglese hanno fatto a gara per recensire, lodare o anche (come ha fatto Zadie Smith in un articolo che diventerà forse libro, verosimilmente un contro-manifesto rispetto a questo che state per leggere) per contrastare il libro di Shields: da Geoff Dyer a Dave Eggers, da Tim Parks a Jonathan Lethem a Phillip Lopate, finissimo saggista e uno degli autori più citati e tenuti in considerazione da Shields.
Non abbiamo intenzione di riassumere le idee di Shields, banalizzandole. A grandi linee si può dire che la tesi è che il romanzo – inteso come costruzione di una storia fatta di sola immaginazione, con personaggi, trama, punti di vista – sia atrofizzato o siano atrofizzati gli autori. Tanto che gli scrittori letterari più interessanti, forse spiazzati da un mondo sempre più artificiale, continuano a mescolare la “propria” vita (o quella di altri) per «desiderio di realtà», per poter narrare: vi bastino i nomi di Zadie Smith, sebbene ostile a Shields, di J.M. Coetzee (tre romanzi simil-autobiografici), ma anche James Frey, al centro di un eclatante caso letterario qualche anno fa per il memoir A Million Little Pieces rivelatosi poi troppo inventato (e Shields ritorna moltissimo su questa vicenda, per il valore di paradigma che assume), o Dave Eggers che ha scritto almeno due «docuromanzi».
E se è vero che la cultura che ci circonda è piena di frammenti di realtà, simulata o meno (esempio: il successo dei reality show, dei film che “fingono” il documentario, alla Borat), forse l’arte, che dovrebbe imitarla (?), secondo i precetti classici, vive un’impasse o un ripensamento. O, semplicemente, sta cambiando pelle. E l’obbligo è interrogarsi su come realtà e finzione debbano confrontarsi sul terreno della pagina scritta. Inserire pezzi di realtà, fare collage delle proprie esperienze, manifestare al lettore i movimenti del cervello dello scrittore: ecco alcune delle suggestioni che Shields provocatoriamente espone. La realtà irrompe nella scena letteraria, travolge le distinzioni fiction/non-fiction, viene digerita e remixata e restituita sotto forme ambigue, dal personal essay al saggio lirico, dalla sghemba natura del memoir, con ampia facoltà di invenzione, all’autobiografismo con licenza d’immaginazione.
Tutte questioni messe in campo, con forzature, talvolta, anche decise. Citazione 307: «Fiction e non-fiction non esistono più: esiste solo la narrativa (O forse non esiste nemmeno questa?)». Citazione 311: «Le forme si adeguano alla cultura: quando muoiono, lo fanno per una buona ragione. Vuol dire che non incarnano più il senso della vita. Se i reality riescono a trasmettere qualcosa che uno spettacolo più palesemente scritto o lavorato non riesce ormai a fare, questo per uno scrittore dev’essere più una sfida che un oltraggio». Con tanti saluti allo snobismo intellettuale di questa metà del mondo.
Ecco una citazione decisiva delle argomentazioni di Shields, quasi simbolicamente posta al centro esatto del libro: «Amo la letteratura, ma non perché ami le storie in sé. Trovo quasi tutte le mosse del romanzo tradizionale incredibilmente prevedibili, fiacche, improbabili ed essenzialmente inutili. Non ricordo mai i nomi dei personaggi, gli snodi della trama, i dialoghi, i dettagli dell’ambientazione. Non mi è chiaro cosa dovrebbero rivelare sulla condizione umana narrazioni simili. Invece sono attratto dalla letteratura come forma di pensiero, di coscienza, di sapienza. Mi piacciono le opere che mettono a fuoco non solo pagina dopo pagina ma riga dopo riga quello che importa veramente allo scrittore, invece di sperare che tutto questo emerga chissà come misteriosamente dalle crepe della narrazione, che è quello che oggi accade in quasi tutti i racconti e i romanzi. Le opere-collage parlano quasi sempre di “quello di cui parlano” – che potrà sembrare un tantino tautologico – ma quando leggo un libro che mi piace davvero, sono emozionato perché sento l’emozione dello scrittore che in ogni paragrafo sta palesemente esplorando il suo soggetto».
A un certo punto del libro, negli ultimi capitoli – fondamentali per capire il manifesto – Shields se la prende con Jonathan Franzen, il cui romanzo, Le correzioni, è stato probabilmente il simbolo narrativo dei primi dieci anni del XXI secolo. Non è utile soffermarsi su questo singolo caso: è il contesto generale che ci obbliga a ripensare cosa sarà della prosa nei prossimi decenni. «Al centro della “cultura letteraria” si trova il romanzo supervenduto di scrittori che non sono né carne né pesce, il solito monnezzone di quattrocento pagine. Incredibile, la gente continua a sciropparsi roba simile». «C’è inevitabilmente qualcosa di terribilmente artificioso nel romanzo tradizionale: riesci sempre a sentire le ruote dell’ingranaggio che girano». «Se scrivi un romanzo, ti siedi e fili un po’ di narrazione. Se sei uno scrittore romantico, scrivi romanzi su uomini e donne che si innamorano, guarnisci con un po’ di narrativa ecc. E va bene, ma non conta niente. Il romanzo in quanto romanzo è una forma di nostalgia». «I romanzi che mi piacciono sono quelli che non hanno l’aria di esserlo». Si potrebbe continuare a lungo, ma crediamo che sia sufficiente.
Shields contesta il romanzo, la sua forma, il suo status presente. È in buona compagnia, e forse non è nemmeno una novità. Ed è persino ovvio ripetere che continueranno a essere scritti ottimi, eccellenti romanzi-romanzi nei decenni a venire.
Ma come non c’è niente di male a guardare e produrre anche oggi un bel film in bianco e nero, è certo che dopo l’introduzione del colore le cose, per il cinema, sono cambiate radicalmente.
Così, alla base di questo volume, che coglie come pochi altri lo spirito del tempo (quello che chi vuole fare bella figura chiama Zeitgeist) c’è la possibilità (il dovere) di uscire dagli schemi ai quali siamo abituati.
Basta con le etichette formali nelle quali incasellare la narrativa (di comodo uso giornalistico, senza dubbio), basta con l’idea dell’originalità a tutti i costi (nell’arte succede già, da secoli: il dipinto di Bacon che riprende Velázquez è citazione, deformazione, originalità, tutti riconoscono la provenienza, nessuno si scandalizza, nessuno pensa ad appropriazione indebita), basta con il ricorso alla sola forma narrazione di una storia.
Se la letteratura è un oggetto che prima di tutto ha a che fare con l’uso della lingua – cosa che molti scrittori tendono a dimenticare – c’è bisogno di una nuova consapevolezza su come si scriveranno i “romanzi” (meglio: le opere che saranno giudicate come letteratura) nel prossimo, anzi nell’immediato, futuro.
Nel quale, non dimentichiamolo, persino la parola sarà uno strumento che non basterà più. Di nuovo, le tecnologie, la possibilità di inserire suoni, immagini e chissà cos’altro (oltre che il tempo che ci vorrà ad abituarci, all’idea e al fatto) sbaraglieranno le nozioni che abbiamo avuto finora.
Dunque copiate, remixate, frullate, ragionate, contestate, accettate, rifiutate e, se siete scrittori, producete: questa sfida è soltanto all’inizio. Il dibattito comincia a partire da questo libro. E continuerà, a lungo, nei libri, nelle discussioni on-line e su carta, nel modo nuovo di pensare all’arte.
La parola a ciascuno di noi. Ora basta, avete perso anche troppo tempo su questa introduzione. Iniziate a leggere e meditare. Ci farà bene, a tutti noi innamorati della letteratura.

Milano, settembre 2010

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AGGIORNAMENTO DEL 28 OTTOBRE 2010
Pubblico l’articolo firmato da Nicola Lagioia, pubblicato sull’allegato “Domenica” de “Il Sole24Ore” di domenica scorsa (24 ottobre), con riferimento a questo libro di Shields e alle tematiche da esso trattate.
Ringrazio Nicola e la redazione di Domenica per aver messo a disposizione di Letteratitudine il suddetto contributo.
Massimo Maugeri

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LETTERATURA E NUOVE TECNOLOGIE di Nicola Lagioia
(da “Domenica de “Il Sole24Ore” del 24 ottobre 2010)

Letteratura e nuove tecnologie I
Interrogarsi su come la rivoluzione digitale inciderà sulla letteratura è un buon punto di avvio. Ma un’altra valida domanda è: come la letteratura rivoluzionerà la rivoluzione digitale a proprio uso e consumo?
Tolstoj si è servito delle novità tecnologiche della sua epoca per far morire Anna Karenina sotto un treno. Se dai mezzi di trasporto passiamo ai mezzi di comunicazione, la musica non cambia: Thomas Pynchon usa il sistema postale per raccontare la paranoia post-moderna nell’ “Incanto del Lotto 49”; per non parlare della corrispondenza di Goethe e di Laclos.
Simulazioni di realtà, modelli di menti interconnesse: gli eredi di Philip Dick sono pregati di riscuotere alla cassa.

Letteratura e nuove tecnologie II
Chiedersi cosa ne sarà della letteratura con il cambiamento del supporto di cui ci serviremo per leggere – dalla carta all’e-book, al web – è invece un falso problema. Si tratta di un falso problema perché non sono carta, e-book, web il vero supporto della letteratura, bensì il cervello umano. La letteratura è fatta di linguaggio e il linguaggio è la forma di comunicazione più astratta e sofisticata a disposizione perché è l’unica che per esistere non necessita di un supporto che sia fuori di noi.
Siamo in una stanza vuota, insieme a un amico. Pur essendo dei ballerini di danza classica, non riusciremo a riprodurre a beneficio del nostro spettatore un celebre “Lago dei cigni” eseguito da Nureyev con il Royal Ballet nel 1962. Potremo raccontargli “Apocalypse Now” ma non farglielo vedere. Potremo cantargli “My Way” o disegnargli (la stanza non era completamente vuota) “Le muse inquietanti” di De Chirico, ma per fargli fare effettiva esperienza di tutto questo ci sarà bisogno del supporto: cd, dvd, quadro, catalogo d’arte, Nureyev in carne e ossa. Invece, proviamo a sussurrare all’orecchio del nostro amico: “Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo” e – traduzione a parte – avremo riprodotto perfettamente l’incipit di “Anna Karenina”. Stessa cosa se, rimasti soli nella stessa stanza vuota, l’incipit in questione ci limitiamo a pensarlo: ” “.
La letteratura è da sempre al di qua e al di là della riproducibilità tecnica. Il papiro, la pietra, la carta, lo schermo… sono semplici stampelle dell’unico hardware di cui il linguaggio necessiti: un cervello di sapiens sapiens. La letteratura è l’opera d’arte nel regno della sua riproducibilità biologica.

Sulla presunta marginalità della letteratura
I romanzi di Dickens dettavano l’agenda dell’intrattenimento pubblico. Oggi il pubblico della letteratura è minoritario rispetto a quello della tv. Ma perché lagnarsene, dal momento che la letteratura è la vera eminenza grigia celata dietro le forme più popolari di rappresentazione? Prendiamo le serie americane: hanno tutte una matrice balzachiana “sporcata” da un po’ di sano realismo tardo novecentesco (“Mad Men” deve tutto a Balzac, deve tutto a “Pastorale americana” di Roth, deve in fondo tutto anche a “Libra” di DeLillo). Il debito dei “Simpson” o di “South Park” verso scrittori come Pynchon è dichiarato, e – letteratura a parte – i reality show hanno il proprio momento di singolarità nelle performance di artisti elitari come Sophie Calle.
Allora: chi vogliamo diventare? Ci accontentiamo di adattare alle esigenze del mercato una delle tante applicazioni della meccanica quantistica o aspiriamo a essere Niels Bohr?

Dittatura della trama
Oggi può suonare ridicolo l’uno due di agnizione e morte che tocca in “Guerra e pace” al principe Andrej. Ma l’obsolescenza di alcune trame significa l’obsolescenza della trama tout court? Non sarà che – già da tempo – la trama non è più un cavallo di Troia del pensiero, ma una sua particolare forma d’organizzazione?
Esempio: è stato detto che la “Recherche” sarebbe un’opera di saggistica letteraria sostanzialmente priva di trama. Ritengo infatti che pochi saggi indaghino i meccanismi della gelosia amorosa come fa Proust nel suo romanzo. Ma per farlo con quella profondità e quella perizia (e quell’economia: in venti pagine di Proust sono racchiusi alcuni volumi di psicologia comportamentale) non servono forse due personaggi come Charles e Odette, due personaggi come Marcel e Albertine, una città come Parigi? E non è questa una trama? Non è l’insostenibile leggerezza di questi dettagli a separare fiction da non fiction?

Fame di realtà
I media utilizzano la realtà per produrre narrazioni a ciclo continuo. Gli episodi di cronaca nera vengono smontati e rimontati in tv con una foga che farebbe sorridere il Queneau di “Esercizi di stile”. Questa continua produzione di narrazioni è, oggi, la lingua del potere, cioè l’antitesi di quella letteraria. L’una è bidimensionale, l’altra restituisce una complessità. La lingua letteraria esercita sulla lingua del potere una funzione di verità: svela cosa c’è dietro. La guerra ai tempi di Tolstoj è diversa dalla guerra ai tempi di Beckett. L’amore ai tempi di Saffo è diverso dall’amore ai tempi di Amici di Maria De Filippi. Non tutte le storie sono state già scritte.

Più reale del re
Non c’è realtà che non affascini un artista. Non c’è realtà che un artista non possa digerire. Chi è mimetico rispetto a chi? I fratelli Wachowski chiesero al filosofo francese Jean Baudrillard una consulenza per il seguito di “Matrix”. Baudrillard declinò l’invito: “non voglio collaborare a un film sulla matrice che la matrice stessa avrebbe potuto realizzare”.
Nicola Lagioia

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AGGIORNAMENTO DEL 2 NOVEMBRE 2010
Aggiorno il post inserendo una lezione di David Shields tenuta nel mese di marzo presso l’Università di Richmond.

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/10/25/il-futuro-della-narrativa-e-la-fame-di-realta-il-caso-di-david-shields/feed/ 567
DIBATTITO SUL ROMANZO STORICO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/13/dibattito-sul-romanzo-storico/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/13/dibattito-sul-romanzo-storico/#comments Sun, 13 Dec 2009 18:15:58 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=985 dibattito-sul-romanzo-storicoImmagine 30 StoriaQuesto post, già avviato a partire dall’estate del 2009, si è progressivamente trasformato in un dibattito permanente sul romanzo storico.
Fino a questo momento hanno partecipato alla discussione i seguenti scrittori (li cito in ordine alfabetico): Andrea Ballarini, Rino Cammilleri, Giulio Castelli, Rita Charbonnier, Alfredo Colitto, Nicole Fabre, Andrea Frediani, Giulio Leoni, Giorgia Lepore, Simona Lo Iacono, Leda Melluso, Adriano Petta, Marco Salvador, Cinzia Tani, Jasmina Tešanović, Filippo Tuena.
Altri autori di romanzi storici, nel tempo, saranno invitati a partecipare.
Le domande poste per favorire la discussione sono le seguenti…

1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?

5. E nel resto del mondo?

6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

La seconda parte del dibattito sul romanzo storico si è svolta in questo post.

Massimo Maugeri

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(Seguono il post del 26 luglio 2009 e i successivi aggiornamenti)
romanzo-storico-letteratitudineA partire da oggi, e per i prossimi giorni, qui su Letteratitudine proverò a condurre un dibattito sul romanzo storico. Per l’occasione ho invitato quattro protagonisti del settore: due scrittrici e due scrittori. Scrivo i loro nomi in rigoroso ordine alfabetico: Andrea Ballarini (foto in alto a sinistra, nel quadrante), Rita Charbonnier (in alto a destra), Marco Salvador (in basso a sinistra), Cinzia Tani (in basso a destra).
L’occasione è ghiotta. Discuteremo, con i quattro ospiti, del romanzo storico in generale e delle loro opere più recenti (nel farlo mi avvarrò anche dei contributi di Salvo Zappulla e Renzo Montagnoli).
Provo a porre alcune domande per favorire la discussione…

1. Quali caratteristiche dovrebbe necessariamente possedere il romanzo storico?

2. Quale dovrebbe essere la sua funzione?

3. Che cosa – viceversa – dovrebbe evitare?

4. Qual è, a vostro giudizio, lo stato di salute del romanzo storico, oggi, in Italia?

5. E nel resto del mondo?

6. Domanda-sondaggio: qual è il più grande romanzo storico di tutti tempi (quello che potrebbe essere eletto come “rappresentativo” del genere)?

Provate a rispondere alle domande!
L’invito è rivolto a tutti… e, in particolare, ai protagonisti di questo post (che invito a interagire tra loro).
Sono certo che ne verrà fuori una discussione molto interessante.
Di seguito, gli articoli sulle più recenti opere di Andrea Ballarini, Rita Charbonnier, Marco Salvador, Cinzia Tani.
Massimo Maugeri

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IL TRIONFO DELL’ASINO di Andrea Ballarini
Del Vecchio editore, pagg. 488, euro 17,50

articolo di Massimo Maugeri

Ho avuto il piacere di presentare Andrea Ballarini al Salone del libro di Torino insieme a Rita Charbonnier. Con il romanzo storico, “Il trionfo dell’asino”, ha aperto una nuova collana di narrativa dell’editore Del Vecchio.
Siamo nell’ultimo quarto del XVII secolo. Il protagonista del libro – e voce narrante della storia – è Giacomo Crivelli, figlio del Provveditore Generale di un Duca. Un giovane con una famiglia importante alle spalle, ma che è mosso da una passione che non viene compresa – o quanto meno assecondata – dai suoi familiari. Giacomo Crivelli ama il teatro. Incondizionatamente. Al punto da contravvenire agli indirizzi paterni su quello che dovrebbe essere il suo futuro e di unirsi a una compagnia di teatranti.
Nel corso del suo girovagare con l’Illustre Compagnia dei Comici Entusiasti, Crivelli incontra un uomo avanti negli anni e dal passato misterioso: Aristotele Cereri, (che viene assunto come scenotecnico all’interno della Compagnia). L’uomo rivela a Giacomo che la sua vita è votata a recuperare un tesoro molto particolare… e che questo compito gli è stato lasciato in eredità dal suo antico maestro: un filosofo nato a Roma nel 1583.
In seguito Aristotele rivela che il tesoro consiste in uno scritto… e che, secondo il suo maestro, nello scritto si cela un segreto, forse un diabolico incantesimo, in grado di sconvolgere l’ordinamento del mondo quale lo si conosce. Estremamente scettico, Giacomo – almeno all’inizio – non dà molto seguito a queste rivelazioni, sempre più determinato, invece, a perseguire la sua passione per il teatro e le teatranti. Perché – tra le altre cose – il protagonista del libro è… come dire… molto “sensibile” alle grazie femminili.
La compagnia però si sfascia e Giacomo si trova, giocoforza, costretto a seguire Aristotele nella sua ricerca (che li porterà in Francia, alla corte del Re Sole, e poi di nuovo in Italia, frequentando tanto salotti raffinati quanto umide e poco accoglienti stamberghe). Il tutto si complica per l’interesse che il manoscritto (un’antica commedia) suscita in più personaggi, anch’essi desiderosi di carpirne i contenuti che, se divenissero di pubblico dominio, potrebbero cambiare radicalmente le sorti del mondo. Insomma, a mano a mano che si procede nella lettura, il mistero si infittisce.
Questo romanzo è strettamente connesso al teatro per una serie di motivi: a) racconta le vicende di un gruppo di teatranti; b) il cuore del libro ha per oggetto la ricerca di un’antica commedia; c) il testo del romanzo offre, di tanto in tanto, stralci di commedia. In tal senso questo libro è un testo dotato di un’altissima valenza metaletteraria: un romanzo che guarda al teatro… che si rifà al teatro.
E Ballarini è bravo a mettere “in scena” (in questo caso il termine è azzeccatissimo) una storia ricca, complessa, con molti personaggi. Una storia lunga, ben gestita dall’inizio alla fine… nonostante la dimensione considerevole del testo. E lo fa con una scrittura sicura, efficace. Una prosa elegante, mai autoreferenziale.
Un libro che offre un piacevole e avventuroso viaggio tra i teatranti dell’Italia di fine 1600 e che – garantito! – consentirà al lettore di trovarsi in… buona compagnia.

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LA STRANA GIORNATA DI ALEXANDRE DUMAS di Rita Charbonnier
Edizioni Piemme, pagg. 374, euro 18,50

articolo di Salvo Zappulla

Rita Charbonnier è una di quelle donne predestinate al successo, ha nel sangue il dono dell’Arte e lo manifesta attraverso una personalità poliedrica ed esuberante, quale sia essa l’attività in cui si cimenta: il teatro, il cinema, la letteratura. Dopo il successo riportato con il romanzo “La sorella di Mozart” edito nel 2006 da Corbaccio, tradotto in ben dodici Paesi, si ripresenta con questo secondo avvincente romanzo (“La strana giornata di Alexandre Dumas“, Edizioni Piemme, pagg. 374, €18,50). Ancora una storia di donne strappate all’oblio e riconsegnate alla loro verità storica. Quasi un atto di giustizia sociale quello di Rita per ridare identità attraverso le sue opere letterarie a personaggi tenuti ingiustamente ai margini. Una storia scabrosa, un baratto di neonati per questioni di interessi che rischia di suscitare un terremoto nella Francia di fine Ottocento. Maria Stella Chiappini, la protagonista di questo romanzo, sembra permeata da un alone di magia, scaturita da una fiaba, o dalle radici del mondo; incanta con la sua eloquenza, incanta e seduce con la forza evocatrice delle parole. Incanta Alexandre Dumas che rimane ad ascoltare la sua straordinaria vicenda completamente rapito. Il grande scrittore trascorrerà con lei forse la giornata più intensa della sua vita. La stessa forza di narratrice che Rita Charbonnier trasmette al lettore, con una meticolosa descrizione dei costumi dell’epoca, il rapporto tra nobili e popolani, con particolare attenzione per il percorso psicologico e le azioni che danno slancio alla vicenda narrata. I suoi dialoghi, ora delicatamente ironici, ora drammaticamente lirici, affabulatori, nostalgici, malinconici. Le pagine dedicate all’incontro tra Maria Stella e la madre adottiva in punto di morte sono tra le più affascinanti, intense, coinvolgenti del romanzo. Così come anche le altre donne hanno un ruolo non indifferente nell’economia della storia, predominante rispetto agli uomini. Donne dotate di grande saggezza, un po’ compresse nel ruolo di semplici consorti, straripanti di personalità, desiderose di affermare la propria esistenza.

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LA PALUDE DEGLI EROI di Marco Salvador
Edizioni Piemme, pagg. 501, euro 20

articolo di Renzo Montagnoli

Avete presente quegli affreschi che nelle chiese si trovano nell’abside, che partono a sinistra dell’altare e in una serie di quadri successivi gli girano dietro per concludersi alla sua destra? Ecco, La palude degli eroi è strutturato così, come se Salvador fosse il pittore chiamato a celebrare la vita di un santo. E’ quindi tutta una serie di quadri, legati l’uno all’altro e che danno vita a un affresco di grande bellezza.
Se gli inglesi hanno avuto in Walter Scott con il suo Ivanohe il cantore del loro medioevo, mi sento tranquillamente di indicare l’autore pordenonese come il suo equivalente nel nostro paese.
In questo romanzo ci parla dei da Romano, quella famiglia che raggiunse l’apice della sua fama e fortuna con il condottiero Ezzelino, validamente coadiuvato dal fratello Alberico, ma la figura di questo personaggio, conosciuto, a torto o a ragione, come un sanguinario scompare quasi subito nella narrazione, poiché muore dopo la sconfitta subita a Cassano d’Adda per le gravi ferite riportate. Il fulcro invece di tutta la narrazione è costituito da uno straordinario personaggio, Guido da Romano, figlio adottivo di Alberico e figlio naturale di Ezzelino.
Non intendo raccontare la trama, che presenta in 501 pagine tanti fatti e accadimenti, una vera “summa” di questo protagonista, ultimo rimasto dei da Romano dopo la crudele esecuzione da parte dei papisti di Alberico e dell’intera sua famiglia. Non ci sarebbe infatti abbastanza spazio per una sintesi logica, né è mia intenzione privare il lettore di scoprire pagina dopo pagina il succedersi degli eventi.
Preferisco quindi scrivere di quello che ha suscitato in me questo romanzo, delle impressioni che ne ho ritratto, dell’emozione di cui è riuscito a pervadermi.
Ci troviamo davanti a una vera e propria opera d’arte, abbastanza fedele storicamente, e con tutta una serie di ceselli, che vanno dalla descrizione dei costumi per arrivare perfino alle abitudini alimentari, inseriti con abilità in modo non solo da soddisfare la curiosità, ma da consentire al lettore di immergersi progressivamente in un’epoca.
Fra l’altro, questo risultato è ottenuto in modo mai greve, tanto che il romanzo, se non fosse per la sua notevole lunghezza, si leggerebbe tutto d’un fiato.
Avevo già notato questa capacità di Salvador di avvincere in occasione della lettura del suo ciclo sui longobardi, ma in questo lavoro si è veramente superato, al punto che si ha l’impressione di essere presenti nella vicenda, come spettatori estasiati di un torneo o pavidi testimoni di una battaglia, di cui si ode lo scontro delle armi, si avverte il senso di paura e di follia che anima i contendenti e, perfino, sembra di fiutare l’odore dolciastro del sangue che inzuppa il terreno.
Ma questo, che pur è molto, non è nulla in confronto con la capacità di Salvador di rendere dinamiche le scene, così che si vedono i cavalli galoppare, giungere a contatto con quelli degli avversari, con campi lunghi e altri più ristretti, cogliendo particolari essenziali, proprio come in una pellicola cinematografica.
Adesso, quindi, potete capire il perché questo romanzo risulti particolarmente avvincente e il coinvolgimento è totale, nel senso che ci si dimentica di stare comodamente seduti su una poltrona, ma ci si vede accanto a Guido a duellare, oppure ad ascoltarlo quando si dichiara alla bella e umile Aurora. E questo alternarsi di scene cruente, di supplizi dolorosi, con immagini elegiache della campagna trevigiana, con stacchi incisivi su personaggi minori, che però sono funzionali al racconto, consente di trarre respiro, permette al lettore di abbassare il ritmo, pause indispensabili in una trama che galoppa come un cavallo selvaggio.
Non posso anche dimenticare l’abile caratterizzazione dei protagonisti, nessuno tutto buono o tutto cattivo, ma uomini con pregi e difetti, sia fra gli alleati di Guido che fra i suoi nemici. Se la figura di Ezzelino da Romano viene un po’ rivalutata, nel senso che la sua ferocia non era dissimile da quella dei potenti della sua epoca, un trattamento particolare viene riservato alla Chiesa di Roma, intrigante, superba, prepotente e sempre pronta a incrementare i suoi possedimenti. Per fortuna, però, esistono anche umili preti, che con il loro esempio, la loro fede e umanità consentono che una religione non venga identificata con la sua struttura politico-amministrativa; nel romanzo ne troviamo, ancore di salvezza in un mondo di lupi che si sbranano e in cui i potenti, come oggi, decidono delle sorti degli altri uomini.
Non mancano quindi anche motivi di riflessione che finiranno con l’emergere una volta ultimata la lettura, toccando argomenti che credevamo antichi e che invece sono ancora del tutto in corso. Questo è un altro dei pregi di questo lavoro ed è giusto sottolinearlo, perché la narrazione non è fine a se stessa e così riesce a coniugare la spettacolarità con la sostanza, compito questo in cui mi sembra che Salvador sia riuscito assai bene.
La palude degli eroi è un’opera d’arte, un romanzo di rara grande bellezza che vi consiglio di leggere, sicuro che alla fine rimarrete stupiti e soddisfatti.

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LO STUPORE DEL MONDO di Cinzia Tani
Mondadori, pagg. 319, euro 19

articolo di Massimo Maugeri

Cinzia Tani non ha bisogno di presentazioni: giornalista e scrittrice, autrice e conduttrice di programmi televisivi e radiofonici. Ha pubblicato diversi volumi, tra romanzi e saggi, aggiudicandosi svariati premi.
L’otto marzo 2004 il Presidente della Repubblica Ciampi ha scelto Cinzia Tani insieme ad altre undici donne per conferirle l’onorificenza di Cavaliere dell’ordine “Al merito della Repubblica Italiana”. Il precedente romanzo “Sole e ombra” (Mondadori, oggi disponibile nella collana Oscar besteller) ha vinto il Premio selezione Campiello 2008.
Di recente è uscito un nuovo romanzo storico, sempre edito da Mondadori, ambientato a Roma nel 1201: “Lo stupore del mondo”, da dove emerge la figura di Federico II.
Ecco la trama…
Il piccolo Pietro si è appena abbandonato all’abbraccio della levatrice, quando un tuono improvviso irrompe su palazzo Graziani, la balia perde la presa e il primo dei due gemelli appena venuti alla luce le scivola dalle mani. In quel tuono inspiegabile, a ciel sereno, è racchiuso il cattivo presagio che condiziona il destino di Pietro: nel suo volto, irrimediabilmente deturpato dalla caduta, molti leggono un segno del demonio, gli altri vengono respinti dalla sua deformità. Con il tempo l’isolamento rende il ragazzo diffidente, cupo e determinato, almeno quanto suo fratello Matteo cresce fiducioso e remissivo, ben voluto da tutti. Solamente il sogno di diventare cavaliere sembra accomunarli, ma ciascuno per realizzarlo seguirà il proprio temperamento e i propri ideali, che li porteranno inevitabilmente a combattere su fronti opposti.
Lontano da Roma, dalle rovine dell’antico impero e dai rigori della Santa Sede, vivono invece gli altri protagonisti del romanzo, la bella Flora dagli occhi immensi, curiosa e indipendente, e il suo amato e sfuggente Rashid, il ragazzino arabo che sa parlare agli uccelli. Separati dai conflitti religiosi di una Sicilia assolata e rigogliosa, i due si ritroveranno nuovamente insieme, adulti, nella reggia pugliese dell’imperatore, a Foggia. Ed è proprio Federico II, lo svevo dai capelli fulvi e lo sguardo acuto, il poeta con la passione per le arti e le scienze naturali, l’uomo potente impegnato nei continui conflitti con il Papato e la Lega Lombarda, a muovere Pietro, Matteo, Flora, Rashid e tutti gli altri personaggi, a spingerli a congiungersi o scontrarsi seguendo l’amore e la gelosia, il tradimento e la vendetta. Fino al rogo della città di Victoria, alle porte di Parma, dove l’imperatore ha trasferito il tesoro, l’harem, i serragli con gli animali esotici e il suo prezioso trattato sulla caccia con il falcone. E dove ogni destino troverà compimento
.
Per Francesco Fantasia Lo stupore del mondo (cfr. “Il Messaggero” pag. 21 dell’11-5-09), “è il romanzo più maturo di Cinzia Tani, che mette adesso il suo talento narrativo al servizio di una storia traboccante di calore e colore, ambientata in un Medioevo distante dai diffusi stereotipi. C’è sentimento, avventura, mistero, in questo libro corale in cui si incrociano i destini di una folla di personaggi che si amano, si odiano, si combattono, in una altalena di passioni e tradimenti che durerà mezzo secolo. (…) Cinzia Tani si immerge senza reticenze nei meandri della Storia, fa i conti con le debolezze e le ambiguità dell’umana natura. E quando si finisce di leggere il suo romanzo, non si vorrebbe ancora uscire da questo XIII secolo ricco di passioni e di miti religiosi: un mondo pullulante di vita che ci appare a tutta prima irrimediabilmente lontano e che scopriamo invece straordinariamente vicino”.
Motivo in più, quello evidenziato sopra, per immergersi nelle pagine di questo ottimo libro.

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AGGIORNAMENTO DEL 27 LUGLIO 2009

Aggiorno il post con questo video dove Cinzia Tani, Rita Charbonnier e Leda Melluso discutono del rinnovato interesse per il romanzo storico. Conduce l’intervista Elisabetta Bucciarelli. Il video è stato registrato il 16 maggio 2009 per Booksweb.tv in uno studio all’interno della XXII Fiera Internazionale del Libro di Torino.

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AGGIORNAMENTO DEL 31 LUGLIO 2009

Aggiorno il post per presentare e invitare due nuovi autori di romanzi storici. Premetto che nel corso della discussione è intervenuto lo scrittore Filippo Tuena – firma autorevole – che è già stato ospite di Letteratitudine in altre circostanza (qui e qui).

In questo momento trovate in libreria “I diari del Polo”, volume curato – appunto – da Filippo Tuena.

Adesso ho il piacere di presentarvi due scrittori che pubblicano con la Newton Compton: Andrea Frediani e Giulio Castelli.

Andrea Frediani vive e lavora a Roma, dove è nato nel 1963. Laureato in Storia medievale, pubblicista, è stato collaboratore di numerose riviste di carattere storico, tra cui «Storia e Dossier», «Medioevo» e «Focus Storia». Tra i suoi libri ricordiamo: “Il sacco di Roma”, “Costantinopoli, l’ultimo assedio e Attila”. Con la Newton Compton ha pubblicato “Gli assedi di Roma”, vincitore nel 1998 del premio «Orient Express» quale miglior opera di Romanistica, “Le guerre dell’Italia unita”, “Gli ultimi condottieri di Roma”, “Le grandi battaglie di Roma antica”, “Le grandi battaglie di Napoleone”, “Guerre e battaglie del Medioriente nel xx secolo”, “I grandi generali di Roma antica”, “Le grandi battaglie di Giulio Cesare”, “Le grandi battaglie di Alessandro Magno”, “Le grandi battaglie dell’antica Grecia”, “I grandi condottieri che hanno cambiato la storia”, “Le grandi battaglie del Medioevo” e i due romanzi di grande successo “300 guerrieri” e “Jerusalem”. (Ulteriori informazioni, qui).

Giulio Castelli, romano, narratore e saggista, è cultore e studioso di storia medievale e tardoantica. Giornalista professionista, ha coordinato i servizi culturali di due quotidiani e ha condotto trasmissioni radiofoniche. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il romanzo “Il fascisti bile” e il pamphlet “Il leviatano negligente”. (Ulteriori informazioni qui)

A settembre usciranno due loro nuovi libri: “I 101 segreti che hanno fatto grande l’impero romano” di Andrea Frediani e “Gli ultimi fuochi dell’impero romano” di Giulio Castelli (trovate le immagini di copertina in basso).
Avremo modo di parlare dei suddetti libri nel corso della discussione.

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AGGIORNAMENTO DEL 24 AGOSTO 2009
Aggiorno il post segnalando la partecipazione al dibattito di due ulteriori scrittori di romanzi storici: Giorgia Lepore (autrice della Fazi editore) e Rino Cammilleri (autore Rizzoli).

giorgia-leporeGiorgia Lepore (nella foto) vive in Puglia, a Martina Franca. E’ archeologa e insegnante di storia dell’arte nelle scuole superiori. Dopo la laurea di Lettere con tesi in Archeologia Cristiana presso La Sapienza, ha conseguito presso la stessa sede il dottorato di ricerca in Archeologia e Antichità postclassiche, la specializzazione in Archeologia Medievale, e infine è stata assegnista di ricerca presso l’Università di Bari, nell’ambito del progetto di ricerca “L’insediamento medievale di Lama d’Antico a Fasano: l’abitato e la chiesa in grotta. Rapporti con altri insediamenti rupestri del territorio e con il sopraterra”. Ha insegnato presso la sede di Taranto del corso di Laurea in Beni culturali e collabora con la cattedra di Archeologia e Storia dell’Arte Paleocristiana e Altomedievale presso l’Università di Bari.
Ha al suo attivo varie coordinazioni di scavi in siti archeologici di tutta Italia e pubblicazioni in riviste specializzate e atti di convegni. Le sue attività di ricerca si incentrano soprattutto sull’altomedioevo italiano, specie pugliese e meridionale; sull’archeologia degli elevati e sullo studio delle strutture murarie; negli ultimi anni ha portato avanti e pubblicato vari lavori sugli insediamenti rupestri e sull’assetto del territorio nel medioevo.
L’abitudine al sangue” è il suo primo romanzo:
“II tuo futuro non è oggetto di discussione, né ora né mai. Il mese prossimo verrai avviato alla carriera militare”: crollano così i sogni di Giuliano, figlio dell’imperatore di Bisanzio, posto dal padre a capo dell’esercito. Il giovane, incapace di sopportare la perdita di vite umane, la vista e l’odore del sangue, grazie anche all’amore della prostituta Eucheria troverà il coraggio di ribellarsi al ruolo impostogli. La vendetta paterna sarà feroce: Giuliano, ridotto a schiavo e torturato fin quasi alla morte, è rinnegato e rinchiuso in un monastero. Da qui ha inizio il lento percorso interiore del protagonista, il suo confronto con il dolore per la perdita della donna amata e l’abbandono da parte di Dio e del padre, fino al raggiungimento della pace nell’epilogo del romanzo.

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Rino Cammilleri (nella foto) è nato a Cianciana (Ag) il 2.11.1950, dopo il liceo ad Agrigento si è laureato in Scienze Politiche a Pisa. Ha esordito come assistente di Diritto Diplomatico e Consolare nella stessa facoltà per poi dirottarsi sull’insegnamento di materie giuridiche ed economiche nelle scuole secondarie. Dopo aver lasciato il mondo della scuola, oggi fa esclusivamente lo scrittore, l’editorialista e il conferenziere. Attualmente collabora con varie testate nazionali. Come romanziere Cammilleri predilige il giallo storico, nel quale si è più volte cimentato (vedi la sezione sui libri). Non solo. Un altro dei suoi campi di attività è il fumetto: per le Edizioni ReNoir ha ideato una serie che si intitola «Gli Sconfitti». Il suo nuovo romanzo si intitola “Il crocifisso del samurai“:
1637: GIAPPONE
La grande rivolta dei samurai cristiani.

È l’alba quando la giovane Yumiko viene prelevata dalle guardie dello Shogun e torturata pubblicamente. La sua unica colpa è essere figlia di Kayata, samurai cattolico che non ha potuto pagare le tasse alle autorità, i cui uomini ormai da anni umiliano i cristiani di Shimabara con una violenza cieca e annientatrice. Ma nonostante la miseria e il sangue fatto scorrere per fiaccare la loro volontà, gli abitanti del villaggio si raccolgono attorno al simbolo di cui nessuno può privarli: il crocifisso di Cristo. Lo stesso al quale i primi cristiani giapponesi venivano inchiodati dalle guardie dello Shogun. La violenza su Yumiko è la scintilla che spinge uomini e donne alla ribellione estrema: rifugiati nel castello di Hara si oppongono al giogo persecutorio e a un destino ineluttabile. L’assedio da parte degli uomini dello Shogun dura cinque interminabili mesi, senza cibo e possibilità di scampo, ma quel “branco di contadini”, guidati dall’Inviato del Cielo, da Kayata e dal suo discepolo Kato, resistono, aggrappandosi alla speranza incrollabile nella resurrezione. Perché solo la fede può superare ogni sopraffazione e dare linfa vitale a un popolo in lotta.
Il crocifisso del samurai, l’opera forse più ambiziosa di un autore che ha trascorso la vita a indagare la storia della cristianità, è uno struggente romanzo storico capace di toccare le corde più profonde dell’anima esplorando le radici del concetto stesso di fede. L’epica ribellione dei samurai cristiani di Shimabara nel 1637 – dopo la quale per due secoli il Giappone si chiuse a ogni contatto con l’esterno – rivive in un affresco crudo e realistico, denso di azione e di colpi di scena, che testimonia l’eroismo di chi è morto per non rinnegare il proprio credo.

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13 dicembre 2009

AdrianoPetta.gifAdriano Petta - amico di Letteratitudine di antica data - è nato a Carpinone (IS) nel 1945. Romanziere, studioso di storia della scienza e medievalista, ha dedicato parte degli ultimi vent’anni alle ricerche per i suoi romanzi storici. Nel 1995 ha tradotto dal castigliano il racconto di Clarín La duchessa del trionfo (EDIS, La Collanina-Classici in breve, 1995), facendolo precedere da un piccolo saggio sull’Arte del romanzo («Nel rogo del calamaio»). Oltre alla produzione di romanzi, negli ultimi anni è stato collaboratore del quotidiano Il Manifesto con articoli d’interesse storico legati soprattutto al Medioevo e all’Inquisizione. Collabora con l’inserto letterario del settimanale Rinascita. Suoi racconti ed interventi di carattere storico sono stati pubblicati su svariate riviste e webzine (Carmilla-on-line etc.)
Tra i suoi romanzi pubblicati, ricordiamo: Ipazia, vita e sogni – di una scienziata del IV secolo (La Lepre Edizione, ottobre 2009); Assiotea – la donna che sfidò Platone e l’Accademia (Stampa Alternativa, novembre 2009); Eresia pura: dissidenza e sterminio dei catari (Stampa Alternativa, Viterbo, 2001), romanzo storico.

La sua pubblicazione più recente è “Assiotea – la donna che sfidò Platone e l’Accademia”: Fliunte, Ellade, 350 a.c. – un misterioso assassino uccide per impossessarsi di un antico codice. Forse nel grande ordinamento di Leucippo si nasconde un terribile segreto. E mentre nelle miniere d’oro della Tracia gli schiavi rinvengono statuette dal bel volto di fanciulla che elevano a simbolo di libertà, nell’accademia platonica di Atene, l’astronomo Eudosso di Cnido con quelle statuine sta costruendo una strana mappa. Assiotea, inconsapevole eroina, si ritrova al centro di un intrico che farà di lei la prima donna ammessa all’accademia. Aiutata da personaggi eccezionali come Iperide, Diogene e Focione e avversata da giganti come Aristotele e Platone, lotta per far abolire la schiavitù e mutare la disumana condizione della donna, e nello stesso tempo per svelare il mistero delle statuine e dell’antico codice di Leucippo. Ma un implacabile guardiano vigila affinché il segreto non venga svelato, uccidendo chiunque si avvicini troppo all’arcano della casa del cielo.
Ho invitato Adriano Petta a discutere con noi di questo suo nuovo libro e del romanzo storico in generale.

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AGGIORNAMENTO del 17 febbraio 2010

Aggiorno il post introducendo altri tre scrittori di romanzi storici: Giulio Leoni, Alfredo Colitto e Jasmina Tešanović.
Ne approfitterò per discutere dei loro nuovi romanzi e invitare gli autori a partecipare al dibattito.

Giulio Leoni (Roma, 12 agosto 1951), narratore e autore di testi poetici e critici, si laurea in Lettere Moderne con tesi sui linguaggi della poesia visiva. Oltre a collaborare con saggi e testi creativi alle maggiori pubblicazioni specializzate, negli anni ‘80 fonda e dirige la rivista Symbola, dedicata all’analisi della poesia e della letteratura sperimentali. Attualmente insegna Teoria e tecniche della scrittura creativa presso la Sapienza di Roma. A questa sua attività si accompagna nel tempo un crescente interesse per la narrativa, cui si dedica realizzando una serie di romanzi e racconti del mistero per lo più ambientati in epoche passate e basati su suggestivi enigmi storici, come nel ciclo dedicato alle avventure investigative di Dante Alighieri.
In altri scritti affronta poi temi più decisamente legati al giallo, l’avventura, la fantascienza e l’orrore, esplorando pressoché tutto il campo del fantastico. Tra gli autori italiani di genere più conosciuti all’estero (sue opere sono state tradotte in una quarantina di paesi), alla produzione maggiore affianca una serie di romanzi per ragazzi in cui rielabora i suoi temi in forme adatte a un lettore giovanile. Collabora inoltre con Il Falcone Maltese, rivista dedicata al noir, dove cura la rubrica dedicata ai prodromi della narrativa poliziesca.
Nel 2000 vince il Premio Tedeschi per il romanzo “Dante Alighieri e i delitti della Medusa”, e nel 2006 il Premio Lunigiana per la narrativa giovanile. Con lo pseudonimo di J.P. Rylan ha scritto alcuni romanzi fantasy.

Il nuovo romanzo di Giulio Leoni si intitola “La regola delle ombre” (Mondadori, 2009, pagg. 415, euro 19).
Un incendio illumina la sera invernale di Firenze, devastando la prima stamperia a caratteri mobili della città. Con la vita del tipografo, le fiamme cancellano anche l’opera promessa a Lorenzo de’ Medici: un libro segreto e meraviglioso, impresso con il “carattere perfetto”. Accorsi sul posto, il Magnifico e l’amico Pico della Mirandola si rendono conto che non si tratta di un incidente: il corpo del tipografo pende dalla macchina per la stampa, la testa imprigionata nel torchio. A complicare il quadro del delitto, l’apparizione nei paraggi di una donna misteriosa che sembra essere la bellissima Simonetta Vespucci, morta anni prima nel fiore dell’età. Chi mai potrebbe averla richiamata tra i vivi? Pico è scettico. Si chiede se l’opera distrutta non sia l’oscura Regola delle Ombre, come sembra credere Lorenzo de’ Medici: l’antichissimo rituale che dischiude i cancelli del sepolcro. Un manoscritto passato per le mani di Leon Battista Alberti e scomparso dopo la sua morte. C’è un solo modo per scoprirlo: indagare a Roma sulle tracce lasciate dal grande architetto. Su incarico di Lorenzo, Pico parte per la città eterna deciso a servirsi del suo acume e della sua prodigiosa memoria per trovare una spiegazione razionale a delitti e apparizioni.
Ho invitato Giulio Leoni a intervenire in questa discussione sul romanzo storico.

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Alfredo Colitto scrive e traduce, soprattutto thriller, per alcune delle maggiori case editrici italiane. Il thriller storico Cuore di Ferro, primo volume di una trilogia ambientata nel XIV secolo, è uscito per Piemme a febbraio 2009 ed è stato venduto anche in Spagna e in Germania. Nel 2009 ho pubblicato anche Il candidato, noir di ecomafia per la collana Verdenero (Edizioni Ambiente). Altri suoi romanzi sono: Aritmia Letale (incluso nel Giallo Mondadori n. 2977 con il titolo Medicina Oscura), Duri di Cuore (Perdisa), Café Nopal (alacrán) e Bodhi Tree (Crisalide).
Ho partecipato a numerose antologie di racconti, tra cui: Killers & Co. (Sonzogno), Fez, struzzi e manganelli (Sonzogno), Il ritorno del Duca (Garzanti), History & Mystery (Piemme), Anime Nere Reloaded (Mondadori).
Insegna scrittura creativa presso la scuola “Zanna Bianca” di Bologna.

È appena uscito il suo nuovo romanzo: “I discepoli del fuoco” (Piemme, 2010, pagg. 429, euro 20).

Bologna, autunno 1312. Mondino de’ Liuzzi, medico anatomista, viene incaricato dal podestà di far luce su una morte strana e orribile: un membro del Consiglio degli Anziani è stato ritrovato carbonizzato in casa sua, eppure nella stanza nulla fa pensare a un incendio. Perfino la poltrona su cui l’uomo era seduto è rimasta quasi integra, mentre il corpo è bruciato in modo irregolare. I piedi sono illesi, un braccio è interamente ustionato, tutto il resto è ridotto in cenere. Mondino fa trasportare il cadavere nel suo studio per esaminarlo. Non riesce a svelare come è morto, ma sollevando con il coltello da dissezione la pelle bruciata del braccio scopre i resti di un tatuaggio: un mostro alato, con la testa di leone e il corpo avvolto nelle spire di un serpente. La mattina seguente il cadavere scompare. Qualche tempo dopo, un frate francescano viene ritrovato morto nel quartiere dei bordelli. In tasca ha un disegno molto simile al tatuaggio scoperto da Mondino. L’indagine sui due morti rivela l’esistenza di una setta di adoratori di Mithra, dio persiano del sole e del fuoco, adorato anche dai romani sotto il nome di Sol Invictus. Con l’aiuto di Gerardo da Castelbretone, un ex templare con cui ha stretto amicizia, Mondino viene a sapere che la setta si propone di salvare l’intera città per mezzo del fuoco purificatore: un grande incendio rituale in cui le anime di quelli che moriranno si riuniranno con Mithra.

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Jasmina Tešanović (Cirillico: Јасмина Тешановић) è una scrittrice, giornalista, traduttrice e regista serba. È l’autrice di “Normalità. Operetta morale di un’idiota politica“, un diario di guerra scritto durante il conflitto del 1999 in Kosovo. Da allora ha pubblicato tutti i suoi lavori, diari, racconti e documentari su blog e altri media, sempre legati ad Internet.

Di recente Jasmina Tešanović ha pubblicato il romanzo “Nefertiti. L’amore di una regina eretica nell’antico Egitto” (Stampa alternativa, 2009, euro 13, pagg. 125)

Nasce da un’ossessione questa rievocazione di un’antica regina egiziana. L’ossessione per un’eresia fallita, quella di Nefertiti che vuole abbattere la tradizione usando la bellezza, il rispetto e l’arte. Ma un’altra eresia fallita è quella vissuta dall’autrice: yugoslava prima di essere serba, ha respirato l’esaltazione e poi la caduta di un movimento che non voleva allinearsi al blocco sovietico né farsi colonizzare dall’Occidente. Così Nefertiti, condannata lei stessa come eretica, diventa il simbolo di un mondo ancestrale più che mai attuale caratterizzato da lotte di potere, invidie, donne sottomesse all’oligarchia patriarcale ed emarginazione. Questo romanzo sfonda la barriera del tempo per restituirci una sovrana tanto lontana quanto moderna. Perché “Nefertiti è qui”. (Prefazione di Bruce Sterling)

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AGGIORNAMENTO del 26 marzo 2010

La ragazza dal volto d’ambradi Leda Melluso
Piemme, 2009 – pagg. 364 – euro

Palermo, 1221. La Sala Verde, con le sue danze voluttuose, la musica e le conversazioni filosofiche, è l’unico luogo in cui Federico II di Svevia ami stare. Negli ultimi tempi, infatti, pare che fuori da quelle quattro mura gli sia impossibile trovare pace. Ci sono le richieste insistenti del Papa che necessita del suo aiuto e delle sue truppe per una nuova crociata in Terra Santa, la misteriosa scomparsa del suo medico e consigliere, Andrea Filangieri, morto probabilmente per avvelenamento, e lo strano comportamento di alcuni dei suoi uomini più fidati.
Quella sera, però, alla debole luce delle candele, Federico è riuscito a dimenticare gli oneri del sovrano e si è lasciato sedurre dai movimenti lenti e sinuosi di una delle danzatrici. È splendida. E a un tratto ha osato avvicinarsi con un’audacia che lui aveva visto solo in battaglia, e gli ha parlato.

L’imperatore non può rimanere indifferente di fronte a una sfida così allettante e vuole con sé la donna, nella propria stanza, stregato da tanta temerarietà. Ma la mattina seguente, dopo averla cercata invano a palazzo, Federico scopre la vera identità della sua amante: è Amina, la figlia del più acerrimo dei suoi nemici, l’emiro Muhammad ibn ‘Abbad, e molto probabilmente è una spia.
Capirà che la donna è solo un’esca e che a minare il suo potere è un segreto che viene tenuto nascosto dal giorno della sua nascita, un segreto torbido e spaventoso che qualcuno vuole usare per ucciderlo.

Leda MellusoLeda Melluso è nata nel 1947 ad Arezzo, ma vive a Palermo, dove ha insegnato letteratura italiana e latina nei licei. È autrice di testi scolastici per la scuola media superiore e di numerosi saggi sulla storia della Sicilia. La ragazza dal volto d’ambra è il suo primo romanzo.

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