LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » francesca mazzucato http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/10/11/cronache-di-inizio-millennio/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/10/11/cronache-di-inizio-millennio/#comments Tue, 11 Oct 2011 21:37:39 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3598 cronache-di-inizio-millennioChe cosa rimane del decennio che ci stiamo lasciando alle spalle?

Qual è l’evento “caratterizzante” degli anni 2001-2011?

Se vi venisse chiesto di redigere una classifica degli eventi più importanti che si sono avvicendanti in questi dieci anni… come la stilereste? (per ordine di importanza…)

Quali eventi, a vostro giudizio, sono rimasti “in sordina” e meriterebbero, viceversa, maggiore risalto nella nostra memoria?

E come si differenzia il decennio che si sta per concludere da quelli che lo hanno preceduto?

Vi invito a rispondere a queste domande, ispirate dalla recentissima pubblicazione del volume “Cronache di inizio millennio” (Historica, 2011) curato dal duo letterario Laura Costantini e Loredana Falcone. Si tratta di una antologia che ha come sottotitolo “32 autori italiani raccontano gli anni 2001/2011” a cui ho partecipato anch’io con grande piacere, invogliato dallo scopo benefico del progetto (come meglio precisato di seguito).
Dalla scheda del libro: “Dieci anni densi di avvenimenti, cambiamenti, cataclismi climatici, politici e sociali che vale la pena raccontare per lasciarne traccia e, senza avere la pretesa di un’interpretazione sociale e antropologica, poter restituire il sapore degli anni che ci siamo trovati a vivere”.
Dicono le curatrici: “Quello che abbiamo chiesto agli autori che hanno aderito (32 tra famosi ed esordienti) è di raccontare uno di questi anni, di questi avvenimenti. Dalle Torri Gemelle all’avvento di Facebook, dallo Tsunami ai Mondiali di calcio 2006, dal G8 di Genova al terremoto dell’Aquila. Sono solo esempi nella massa di stimoli che il decennio ha potuto fornire a tutti noi che scriviamo esercitando la passione della memoria e della parola.”

Il ricavato delle vendite verrà devoluto all’A.V.S.I. per il progetto “Al lavoro! Attività di formazione professionale e avvio al lavoro per i giovani di Rio de Janeiro”.
Mi piacerebbe che partecipassero al dibattito tutti gli autori coinvolti nel progetto (magari potrebbero raccontarci perché hanno scelto proprio quella data e quell’evento).

Laura Costantini mi aiuterà ad animare e a moderare la discussione.
Di seguito, l’elenco degli autori che hanno aderito al progetto e la bella prefazione firmata da Marino Sinibaldi.

(Inutile aggiungere che siete tutti invitati a rispondere alle domande del post).

Massimo Maugeri

Hanno scelto di raccontare le “Cronache di inizio millennio”:
Danilo Arona (23 settembre 2001) – Maria Silvia Avanzato (10 gennaio 2005) – Remo Bassini (16 marzo 2010) – Alessandro Berselli (1 agosto 2003) – Daniele Bonfanti (26 dicembre 2004) – Alessandro Cascio (25 giugno 2009) – Vincenzo Ciampi (14 febbraio 2004) – Fabio Ciriachi (10 aprile 2006) – Fabrizio Contardi (23 gennaio 2004) – Laura Costantini – Loredana Falcone (25 gennaio 2011) – Maurizio De Giovanni (30 gennaio 2002) – Francesco Dell’Olio (9 luglio 2006) - Francesco Di Domenico (21 maggio 2008) - Barbara Garlaschelli (22 luglio 2001) – Enrico Gregori (18 aprile 2002) – Maria Giovanna Luini (21 febbraio 2001) – Gordiano Lupi (11 giugno 2010) – Andrea Malabaila (10 settembre 2008) – Stefano Massaron (15 maggio 2011) – Massimo Maugeri (2 aprile 2005) – Francesca Mazzucato (2 febbraio 2008) – Paolo Melissi (estate 2003) – Enrico Miceli (10 luglio 2007) – Patrizia Mintz (6 aprile 2009) – Gianluca Morozzi (10 gennaio 2005) – Enrico Pandiani (11 settembre 2001) – Niccolo’ Pizzorno (2 maggio 2011) – Simonetta Santamaria (27 novembre 2010) – Pierpaolo Turitto (28 settembre 2003) – Floriana Tursi (28 gennaio 2011)

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LA PREFAZIONE DI MARINO SINIBALDI
Semmai i secoli nascessero innocenti, il nostro la sua purezza infantile l’ha persa subito e di colpo: due torri sbriciolate, “tremila persone vaporizzate” che aleggiano come una colpa o una maledizione non solo nei racconti di questo progetto che si misurano con l’anno fatale 2001 ma in tutti gli altri di questo originale diario di un decennio che fugge. Come in un diario vero e proprio, infatti, qui si ricordano momenti e luoghi sepolti nella memoria, si riscoprono eventi dimenticati, si rievocano emozioni lontane. E si finisce stupiti di fronte a coincidenze che non avremmo dovuto rimuovere: davvero il delitto di Novi Ligure –quel domestico ground zero di inspiegabile ferocia – anticipava di pochi mesi uno di ben altra scala? E abbiamo mai capito cose significasse quella sorta di replica farsesca che mandò a infrangere un Rockwell sul pacifico Pirellone? Sono le increspature e gli scarti della memoria, questa facoltà insonnolita che facciamo sempre più fatica a ridestare. Ma va detto subito che l’intelligenza della sfida e la qualità dei racconti che l’hanno raccolta hanno intanto questo merito: non lasciarci svicolare nel comodo rifugio dei “non ricordo”. Ognuno degli autori di questi racconti ha affrontato un momento e un anno, un evento e le figure che lo hanno animato o subito; e ce li scaglia contro, con precisione ed emozione, con rabbia, a volte, fino a lasciarceli definitivamente infissi nella memoria.
Che sensazioni ci restano, infine? Del trauma originario di questi anni si è già detto qui –e altrove anche troppo. E l’11 settembre del decennale ci sta già saturando con una implacabile macchina memoriale-spettacolare. Ma è come se quelle macerie fossero un segno distintivo dell’epoca, reiterato in luoghi e forme diverse ma tutte riconoscibili e dolorose, come le pietre mai più rialzate delle strade dell’Aquila, come “il largo solco simile a una trincea enorme” scavato da chi? E dove? Nei mari solcati da carrette omicide, nell’epicentro di qualche terremoto, nelle spiagge dello tsunami? (Tsunami, parola seminuova di un decennio che ne ha adottate molte, spesso cambiando senso: “il tuo profilo” non è una silhouette da evocare con nostalgia ma qualcosa da esibire nei social network). Come i rifiuti inamovibili di comunità urbane che sembrano aver consumato la loro parabola secolare. Come la macerie sempre meno metaforiche di una economia globale che appare preda di un delirio psichico, tecnicamente schizofrenica, prigioniera di un balletto simile a quello fantastico che intrecciano tra loro le tre lettere dell’austera sigla Fmi nella rivisitazione irriverente e salutare che non potrà che farvi amaramente sorridere. Sorridere appena, però. Perché non si può pensare al disastro finanziario e alle sue conseguenze infinite senza infinitamente ripetersi le verità urlate e ignorate nelle strade del G8 di Genova. Per questo il trauma originario del primo anno di vita del nostro secolo è così difficile da ignorare: non si manifestò solo nello spazio aereo di un mattino americano ma nelle lunghe, tragiche giornate (e notti) vigliaccamente insanguinate di una nostra amata città. (Solo così il 2001 è davvero l’anno fatale che è stato: se alla memoria globale e imperiale delle Torri Gemelle si affianca la nostra colpa –e magari la nostra giustizia).
Ma questi anni sembrano non emettere sentenze davvero definitive. Sono anni incerti, inconclusi. Come nel topos immortale della tragedia greca, in queste pagine troverete salme insepolte, cadaveri senza pace: provengono dal dramma enorme che preme sulle nostre coste ma anche, più banalmente, da una grottesca vicenda funerario-televisiva. Appaiono comunque il segno di qualcosa che non è finito ancora, non è definito, non può essere sistemato. Segna i nostri tempi come un buco, un vuoto (eccolo lì lo spazio mai colmato di Ground Zero che ritorna come un mantra visivo). E non genera mai sentimenti facili: di gioia ce n’è poca, quasi niente. Nessun autore, mi sembra, ha scelto uno di quegli eventi brillanti che regalano ricordi smaltati anche agli anni più oscuri. Persino i mondiali di calcio, persino la vittoria che a volte inaspettatamente ci arride non può essere goduta in santa pace. E’ destino che un intralcio, una grande o piccola maledizione lo impedisca.
E’ così, un po’ a brandelli e nelle forme diverse che la diversità degli autori coinvolti felicemente implica, che leggendo questi racconti un’idea degli anni alle nostre spalle si fa progressivamente largo. Sono anni difficili perfino da siglare: “anni zero” forse, non solo per pedanteria aritmetica ma perché un senso di azzeramento politico, economico, mentale sembra intimamente segnarli. Ma il numero nullo implica inevitabilmente qualcosa da costruire o ricostruire. Imprese assai difficile da immaginare, anche uscendo dal recinto di queste brevi narrazioni. Sembra piuttosto di intravedere la paradossale coda lunga di un secolo breve. “Fine secolo” , con una formula inventata da Adriano Sofri, si intitolava un’impresa editoriale che alla vigilia del decennio precedente (i terminali anni Novanta) giocava con l’idea che qualcosa –i rifiuti ideologici del Novecento, per esempio- stesse per abbandonarci. Mi è capitato di lavorare a quell’impresa e di portare in eredità quel titolo a una trasmissione radiofonica che Radio3 ospitò dal 1992. Altro che fine, però: mentre lo sguardo superficiale dei contemporanei sembrava fisso su ciò che stava terminando, ci capitò di incontrare eventi del tutto nuovi, e giganteschi: le migrazioni mondiali, per esempio, e la nuova, altrettanto globale, economia –e il tramonto dell’illusione energetica, e la fine del lavoro, e i nuovi fanatismi paranoici e parareligiosi eccetera eccetera. Gli anni sono così, scivolano uno dentro l’altro, confondono eredità e tradizioni, appaiono immobili e mutano catastroficamente. Sono difficili da fissare. Con punti di vista diversi gli autori di questi diversi racconti ci hanno provato. E sfidano noi lettori sollecitando la nostra facoltà più addormentata e quella più atrofizzata: la memoria e l’immaginazione.
Marino Sinibaldi

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NAPOLI E L’IRPINIA TRA I LIBRI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/25/napoli-e-l%e2%80%99irpinia-tra-i-libri/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/25/napoli-e-l%e2%80%99irpinia-tra-i-libri/#comments Wed, 24 Mar 2010 23:06:42 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1835 Sono molto lieto di avviare questa discussione incentrata su Napoli e l’Irpinia, luoghi entrati nell’immaginario di molti di noi (ma anche luoghi dove sono nati e vivono parecchi amici di questo blog).
Nel farlo tenterò di coinvolgere alcuni scrittori che, attraverso i loro libri, hanno raccontato di queste terre e di tutto ciò che – nel bene e nel male – gravitano attorno a esse.
Credo sia superfluo premettere che la produzione di libri (di narrativa e non) dedicati, in un modo o nell’altro, a Napoli e all’Irpinia (a partire dall’ormai celeberrimo Gomorra di Saviano) è piuttosto cospicua. Per cui, i libri che segnalo in questo post sono solo una piccola rappresentanza della folta schiera disponibile.
Di seguito, come sempre, porrò qualche domanda al fine di agevolare la discussione. Ma prima ci tengo a presentare scrittori e libri coinvolti (li elenco per ordine alfabetico di cognome degli autori e curatori):
- “L’INFANZIA DELLE COSE” di Alessio Arena (Manni)
- “UNA TERRA SPACCATA” di Emilia Bersabea Cirillo (San Paolo)
- “L’IMBROGLIO NEL LENZUOLO” di Francesco Costa (Salani)
- “SCUORNO (Vergogna)” di Francesco Durante (Mondadori)
- “NAPOLI PER LE STRADE“, racconti a cura di Massimiliano Palmese (Azimut)
- “LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia” racconti a cura di Generoso Picone (Mephite edizioni)

Mi permetto di ricordare, tra gli altri, “Napoli sul mare luccica” di Antonella Cilento (Laterza) di cui avevamo parlato qui. E, per quanto riguarda l’Irpinia, i libri di Franco Arminio.

Gli autori dei suddetti libri, i curatori delle raccolte e gli autori dei racconti, gli amici irpini e napoletani e voi tutti… siete invitati a partecipare al dibattito.

Francesca Giulia Marone e Emilia Cirillo mi daranno un mano a moderare e a coordinare la discussione.

E ora… le domande del post:

1. Che differenza c’è tra Napoli e l’Irpinia (in cosa differiscono due città come Napoli e Avellino)?

2. Quali sono i “tratti” in comune?

3. Come è cambiata (se è cambiata) la Napoli di oggi rispetto a quella di venti, trenta, quarant’anni fa?
E l’Irpinia?

4. Che rapporto c’è tra Napoli, l’Irpinia e il cinema? Come sono state rappresentate nel grande schermo? Tali rappresentazioni sono sempre state aderenti alla realtà?

5. Se doveste scegliere, con riferimento all’intera storia della letteratura, il libro che meglio rappresenta Napoli… quale scegliereste? E perché?

6. E quale libro scegliereste in rappresentanza dell’Irpinia?

Di seguito, un po’ di notizie sui libri sopraccitati (ne approfitto per ringraziare gli autori delle recensioni).
Massimo Maugeri

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L’INFANZIA DELLE COSE di Alessio Arena
Manni, 2009 – pagg. 280 – euro 17

di Francesca Mazzucato: da Books and other sorrows

L’infanzia delle cose di Alessio Arena ( Manni, 2009) è un romanzo di stupori. E’ una storia vagabonda, anarchica, smembrata, pornografica, impazzita, politica e favolistica, folle e slabbrata, adatta a chi sa mettersi a sentire il brusio delle cose, la loro voce, un’eco diseguale: chi lo sa fare arriva a captare la loro infanzia, la loro dimensione di innocenza. Che si perde presto. E poi si ritrova. In un visionario e immaginifico stratificarsi di luoghi fisici ed emotivi, Il quartiere di Madrid di Lavapiés, il Rione Sanità di Napoli, piccoli e grandi malavitosi, ristoratori collusi, figure di donne stupende, che ti rimangono anche se non le capisci del tutto perché sono fatte della materia del sogno, del prisma, del gioco di luci: Erika , Amparo, la madre del protagonista, la madre di Amparo che le cose le raccoglie.

“…Non vuole fare morire le cose
-Le cose? Quali cose?
-Tutte quelle che ci stanno, tutte quelle che trova, lei se le porta dove sta lei, perché non devono morire, non si devono buttare.
Mi è venuto da dire maronna mia però non ho detto niente. L’ho guardata soltanto e all’improvviso ho avuto come la sensazione che da quel momento potevo contare su Amparo per qualsiasi cosa..”

Cose che si ammucchiano, che cambiano perché cambiano i modi per definirle e così si trasformano, nomi che sono tronchi, inventati, irriverenti, impastati di napoletano che diventa spagnolo che diventa italiano bislacco, dove ci si fa gioco della sintassi perché il background è solidissimo e lo permette. Una partita a carte con tutte le convenzioni, i contesti facili della parola scritta. Non sarà tutto semplice in ogni pagina, a volte sarà un percorso tortuoso, vi avverto, ma ne vale la pena. Fare fatica per leggere è vitale. Non si può rinunciare prima, è la resa definitiva, e il nostro paese se si arrende sui libri, sulle letture, se sceglie definitivamente il lamento televsivo, gli aggiornamenti calcistici, le ” convention” plaudenti alle storie, se preferisce per sempre tutto il ciarpame del nulla alla carta, alla vita dei personaggi da far proseguire nella testa e nel cuore rischia il ripiegamento definiivo, la perdita della dignità. Difendersi è vitale.
Ecco, Arena ha scritto un romanzo popolato di personaggi folli, increduli e devastati, ma pieni di una loro magnificenza. Di dignità antica. Una storia così contemporanea e così densa.

“Ci ho pensato e mi è venuto da pensare che io mi metto paura di una cosa che sta in tutte le cose e che pure se non la vedi sai che ci potrebbe stare”

Non l’ho letto per forza, non è stato un colpo di fulmine, ma un lento avvicinamento circolare. Quando leggo “realismo magico” sulla quarta di copertina di un libro sono sempre sospettosa, penso che non mi riguardi, che il contenuto non possa che fare il verso al realismo poetico francese, quello dei film che amo tanto, o che sia una frase fatta per definire ”una cosa a metà strada fra la fantasia e l’improbabile, un pasticcio” : ero un po’ sospettosa quando ho iniziato quindi, procedevo adagio coi piedi di piombo, poi qualcosa mi ha tirato i capelli, infilato nelle pagine e non ne sono più uscita.
Non è tutto perfetto questo libro di Alessio Arena. Proprio per niente. A volte si arranca leggendo, a volte la storia si incaglia, si perde il filo. Accade. Ma si deve leggere sapendo che è uno di quei libri dei quali non si devono macinare righe e parole nell’attesa di arrivare alla fine. La fine c’è già, viene ribaltata, cambiata, rotolata, è all’inizio, poi ci sono intermezzi e divagazioni. Occorre soffermarsi sulle singole pagine, respirarne i colori, il vociare, gli odori e le evocazioni musicali della lingua che lo scrittore inventa. Perfettamente adatta a cogliere quel magico bisbiglio. Quello delle cose innocenti nonostante la camorra, la morte, l’esilio, la paura, gli incendi. Le persone muoiono- anche se non del tutto- le cose restano innocenti ed eloquenti, e Arena ce le fa sapere decodificandole e, facendolo, regala momenti di commozione, attimi luminosissimi quando la storia perfora il cuore e pensi”caspita”, e resti inebetito e vai avanti e poi ritorni qualche pagina indietro e intanto il napo-latino si è esibito in altre pirotecnie. Veri fuochi d’artificio. Li puoi vedere. Se il montaggio non è perfettamente calibrato si può perdonare e capire.
In questo suo primo romanzo Alessio Arena ricrea il mondo. Un mondo caleidoscopico, dove ci sono De Sica, Almodovar, Pasolini tutti insieme. Un mondo-mondo, mai asfittico ma che si apre come la corolla di un fiore di carnevale. Non addomestica la sua urgenza narrativa, l’autore. E la lettura è bella e strana, un’esperienza differente da tante letture anemiche, precise, puntuali, adatte ma banali. Alla fine de L’infanzia delle cose l’ imperfezione diventa parte dell’incanto.

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UNA TERRA SPACCATA di Emilia Bersabea Cirillo

San Paolo edizioni, 2010 – pagg. 240 – euro 14,50

Una Napoli soffocata dalla spazzatura ma che ancora riluce della sua antica bellezza – come quella delle architetture realizzate da Lamont Young – accoglie il corpo di Filippo Ghirelli, morto durante una manifestazione di protesta contro la costruzione di una discarica al Formicoso, in provincia di Avellino.
È questa la vicenda di apertura di Una terra spaccata, che vede protagonista la geologa Gregoriana De Felice, chiamata a riconoscere il cadavere dell’amico, proprietario di un elegante albergo napoletano.
Come in un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio della propria memoria la donna rivive le fasi dell’incontro con l’uomo che le ha cambiato la vita, dal riconoscimento di intime affinità (la scoperta della bellezza di un luogo interno del Sud, la musica del silenzio, la ricerca della verità) alla condivisione di un atteggiamento di netto rifiuto verso la costruzione della discarica.
Incaricata di effettuare i saggi del terreno a essa destinata, poi blandita e infine minacciata dall’ingegnere Misuraca, direttore dell’azienda per cui lavora, al fine di redigere una relazione che testimoni la “idoneità del terreno alla costruzione della discarica” Gregoriana impara la ribellione amando Filippo e la sua malinconica ricerca di un luogo in cui vivere, di una casa dell’anima.

Filippo camminava davanti a me. Visto di schiena sembrava più giovane, la testa eretta, le spalle dritte, il corpo piccolo e muscoloso.
- Ci sono luoghi che si infilano dentro di noi. E non se ne vanno più. Li accogliamo per come sono dimenticati, splendenti, sconosciuti. Riescono a entrare nelle crepe, nelle nostre ombre, inconsolabili come siamo. Trovano rifugio perché abbiamo bisogno di loro. Un mutuo compenso. Quanto più è intricata la nostra oscurità, tanto più permangono, mia cara. Fino a convertirci. Fino a modificarci. Penso che questo ti sia capitato con il luogo dello scavo. Per forza che devi difenderlo. Fa parte di te -

La donna infatti denuncerà l’operazione pubblicamente, durante un’apparizione televisiva, poi rassegnerà le dimissioni per “amore della verità”.
Due personaggi scheggiati: lei con un padre lontano, una madre assente e malata, un compagno già sposato che in quei giorni si trova a Gerusalemme, in missione diplomatica .
Lui senza più una madre, senza una patria, senza un vero affetto, così sospetta Gregoriana, che non sia quello pagato per una notte.
Dal confronto con la comunità del Formicoso, composta da emigranti di ritorno ma anche da giovani che sono decisi a restare e a impegnarsi per i loro paesi, Filippo e Gregoriana finiranno per condividerne, ciascuno per suo conto, memoria e destino, lottando per la difesa di un luogo lucente e ventoso, fatto di terra, acqua e silenzio.

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L’IMBROGLIO NEL LENZUOLO di Francesco Costa
Salani, 2010 – pagg. 266 – euro 14,50

1905. Il cinematografo conquista Napoli Ma che cos’è questa invenzione che crea dal nulla movimenti e colori, e che fissa la stessa azione, la stessa immagine in eterno, uccidendo la morte e donando l’eterna giovinezza? Ai paesani del circondario pare una diavoleria che chiamano « o ’mbruoglie dint’o lenzuolo »: per loro è una nuova forma di magia, da guardare con sospetto e diffidenza. Così è per l’ingenua Marianna, erbivendola analfabeta, che scopre di essere attrice suo malgrado di La casta Susanna, una pellicola di sei minuti in cui incanta (o scandalizza) folle di spettatori bagnandosi nuda nel lago d’Averno. La bella bagnante che tanto le somiglia è veramente lei o una sosia che le vuol male? E perché ripete sempre gli stessi gesti, senza sgarrare di un secondo? La verità la sa Federico, realizzatore del film, ma intende ricostruirla anche colei alla quale era stato inizialmente offerto il ruolo, Beatrice, autrice torinese giunta in città per scrivere il romanzo a puntate Eunice, l’orfana tisica

Generoso Picone parla di questo libro così: “Francesco Costa, adoperando una lingua a cui l’uso del dialetto o di brani della parlata popolare dà ritmo ed esplicitezza, risolve l’intreccio in una soluzione che diventa un’ode all’eterno valore del cinema: imbrigliare la bellezza da cui si è ossessionati, renderla eterna oltre i giorni che si possono vivere, donarle la seduzione che può trasmetterla ai giorni che verranno.”

Un brano del libro: “Ecco il lago d’Averno incorniciato di felci che si piegavano al vento, così lievi da parere finte, e dal fondo, ignara, magnifica, si faceva avanti la sua Susanna, i capelli neri e arruffati… Giunta a un accenno di spiaggia si toglieva i vestiti e guardava il sole che sorgeva dalla parte in cui, lontano, il mare univa quella terra a paesi di cui neanche sapeva i nomi.
Un attimo ancora, e si sarebbe gettata nel lago tutta nuda, ma prima, per chissà quale incontenibile impulso che lui mai avrebbe benedetto abbastanza, avrebbe fatto una piroetta, un passo di danza o qualcosa di simile…
Si sarebbe tolta i vestiti in eterno, e avrebbe ripetuto la sua piroetta per sempre, incarcerata nel suo raggio di luce, era sua, l’aveva catturata e anche tra un secolo, o perfino tra due, sarebbe stata costretta a ripetere i suoi gesti per un pubblico incuriosito o stralunato. Era la sua prigioniera…
La luce era al suo servizio, proprio così, e ai napoletani in vena di spassi rendeva visibile su quel grande lenzuolo bianco tutto ciò che aveva sognato, inseguito, desiderato.”

Francesco Costa è nato a Napoli. Già sceneggiatore cinematografico e televisivo, ha esordito con il romanzo La volpe a tre zampe, cui si ispira l’omonimo film di Sandro Dionisio con Miranda Otto e Angela Luce. Sono seguiti Non vedrò mai Calcutta, Se piango picchiami, Il dovere dell’ospitalità e, per Salani, Presto ti sveglierai. I suoi libri sono tradotti in Germania, Giappone, Spagna e Grecia. Da L’imbroglio nel lenzuolo è stato tratto il film di Alfonso Arau, illuminato da Vittorio Storaro e interpretato da Maria Grazia Cucinotta, Anne Parillaud e Geraldine Chaplin.

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“L’imboglio del lenzuolo” di Francesco Costa
La recensione di Maria Lucia Riccioli

Napoli, 1905.
L’Unità d’Italia è una realtà da più di trent’anni, ma per Federico Bory, “cinematografaro” ante litteram, non è più che un cambio di nome per la Via Toledo. O forse è la possibilità d’incantare la gente come un apprendista stregone: «Non poteva comandare, va da sé, tutta la luce che inonda la terra, ne aveva asservito solo un fascio, però era già più di quanto capitasse di norma, e quel fascio di luce andava a buttarsi tutte le volte che lui voleva dentro un lenzuolo da cui tirava fuori cose mai viste, una magnifica femmina e paesaggi d’incanto voi vi chiederete che diavoleria è mai questa, e io che non voglio tirarla in lungo, vi rispondo che faccio il cinematografo, voi saprete di che sto parlando, sì, sono un direttore di scena, ho realizzato una film e ho venticinque anni appena finiti».
E cos’è per Beatrice Sismondi, torinese inquieta, l’Unità d’Italia? Il sentirsi attratta e respinta assieme da Napoli, il sogno realizzato di scrivere sul Mattino come l’ormai leggendaria Serao, di pubblicare a puntate Eunice, l’orfana tisica, improbabile feuilleton strappafazzoletti.
Marianna Mazzolati, bellissima e analfabeta, taglia corto. Chi è del Nord viene «dall’altra Italia», quella in cui si parla una lingua sconosciuta, quella che ti strappa il tuo uomo, Giocondo Gaudio o Gaudio Giocondo – valli a capire i misteri dell’anagrafe del Continente – per farlo soldato a forza.
E chi è la casta Susanna che s’immerge come una ninfa antica nelle acque del lago d’Averno e danza nuda, immortalata su una pellicola?
Cafè chantant, esilaranti produttori cinematografici, amori e passioni in una Napoli smagliante e chiassosa, incantata dal cinema, “l’imbroglio nel lenzuolo”, che fa spavento e attrae dando corpo ai sogni e scrivendoli con la luce.
E poi c’è il fascino della Napoli sotterranea, dell’Averno e del Lucrino, con la grotta della Sibilla e i suoi misteriosi sussurri, il paesaggio affatturato di ginestre e indorato di sole in cui si mescolano profumi e colori, le piante che Marianna raccoglie e impiastriccia per le sue incantagioni curative.
Francesco Costa è un giocoliere di parole e di luce, quella luce mediterranea e partenopea in particolare che fa pazziare i suoi personaggi e che forse li farà rinsavire.
“L’imbroglio nel lenzuolo” è una girandola di situazioni e di trovate, un flusso di narrazione in cui i personaggi principali si rimpallano la storia e se la rigirano a proprio modo. Al lettore il compito di sbrogliare il lenzuolo, di sorridere indulgente ai propri sogni e a quelli usciti dalla penna di Francesco Costa.

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SCUORNO (Vergogna) di Francesco Durante
Mondadori, 2008 – pagg, 208 – euro 17,50

di Francesca Giulia Marone

Giorni fa leggevo un articolo di Marco Belpoliti su Panorama che trattava del sentimento della vergogna, o meglio della mancanza di tale sentimento nella società attuale. Il senso del pudore pare essere scomparso – ed io concordo con quanto scritto nell’articolo – non solo a livello personale ma anche a livello sociale.
La comunità ha abbassato la soglia del pudore, sia che si parli di pudore come concetto legato al sesso, sia che riguardi i sentimenti e le emozioni più intime. Tutto è “spudoratamente” mostrato e nel suo mostrarsi perde di significato, rende tutti uguali, tratta le nostre emozioni come merci e nessuno più abbassa gli occhi di fronte ad uno sguardo di giudizio interiore o esteriore che sia. Nessuno prova più vergogna.
Per tale motivo il libro “Scuorno” di Francesco Durante si inserisce come una lettura oltre che piacevole, necessaria, magari come uno stimolo in più per ritrovare quel sentimento a livello personale e sociale nella città di Napoli. Ma attenzione, lo scuorno è molto più della vergogna, è la vergogna della vergogna. Da questo sentimento, di cruciale importanza per un vivere civile e consapevole, Napoli potrebbe ripartire riscattando un’immagine che negli ultimi tempi è stata sommersa dalla “munnezza”, la camorra, la miseria e un’attenzione mediatica concentrata sui mali endemici. Difficile compito – per lo scrittore nato ad Anacapri, allontanatosi da Napoli per diversi anni e poi tornato – “parlare” della città senza cadere nelle trappole degli stereotipi e del già detto (difficile inserirsi nel solco del dopo Gomorra di Saviano); ma Francesco Durante riesce in pieno nell’intento e ci consegna un libro stimolante, scritto con agilità e grazia, che sa cogliere la malìa seduttiva della città con ironia intelligente senza risparmiare peraltro le giuste critiche. “Scuorno” è un libro che brilla per l’originalità della visione, è colto senza annoiare, è a tratti intimo come le pagine di un diario personale, è interessante quando tratta il percorso storico del passato di Napoli capitale e del significato delle tante dominazioni straniere, è ironico quando dipinge quadretti di vita dei quartieri, puntuale e divertente quando dedica un intero capitolo ai santi patroni della città dispiegandone tutti i tratti caratteristici al lettore. Non mancano i riferimenti alla politica e una certa simpatia indulgente per personaggi della scena politica napoletana degli ultimi anni, affondanti le riflessioni sulla lingua e sui termini che tracciano una linea di contiguità fra le classi sociali, il libro si snoda apparentemente in maniera disordinata da un tema all’altro con abile maestria da narratore, affrontando diversi registri, disegnando un prodotto finale che risulta essere profondamente diverso dalla moltitudine dei testi fioriti nell’ultimo periodo sulla città di Napoli. Non c’è soltanto accusa, non esiste soltanto un dito che gira nelle piaghe dei mali endemici della città. Nelle pagine di “Scuorno” c’è amore, c’è nostalgia per un’atmosfera napoletana unica e irripetibile in altri contesti. Lo si legge chiaramente anche dalle parole che lo scrittore riporta di Valeria Parrella – altra scrittrice napoletana rimasta fisicamente e spiritualmente legata alla sua città – : “Napoli ha un microclima esistenziale che non trovi da altre parti”. Tutto questo, che probabilmente è parte dell’intimo pensiero dell’autore, viene consegnato al lettore con leggerezza, con sguardo ironico e sapiente che lascia intravedere un’altra prospettiva, un’altra strada per Napoli che attraverso lo scuorno possa riscoprire un orgoglio nuovo che superi l’avvilimento e dia slancio per recuperare l’immagine migliore di sé. In fondo potrebbe essere sufficiente, per riacquistare un peso di consapevolezza felice, un piccolo oggetto-simbolo come la statuina di pulcinella mandata nello spazio per vincere un lack of mass (come dicono gli esperti del Mars), un carico più leggero del previsto che crea problemi nel decollo spaziale – un’immagine simbolo beneaugurante affinché la città possa ritrovare la sua natura oggi svilita. Sono state diverse le letture di questo libro, al di là della indiscutibile bravura e preparazione dell’autore, alcune letture scure e pessimistiche lo interpretano come un quadro di una città senza speranza, che dietro le facce dello scuorno ha solo ignoranza e fallimento. Mi piacerebbe, oltre lo sguardo doloroso e acuto dell’autore, vedere segni di speranza e di ripresa, attraverso le sue parole talvolta delicate e ricche di sentimento per Napoli, ma senza cadere mai nel vittimismo, ed immaginare con lui e i lettori di “Scuorno” tanti pulcinella liberi nell’etere che raccontino ancora della bellezza antica della mia città come qualcosa di possibile.

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NAPOLI PER LE STRADE racconti a cura di Massimiliano Palmese
Azimut, 2009 – pagg. 200 – euro 12

da Napoli.com

Racconti di: Alessio Arena, Stella Cervasio, Luigi Romolo Carrino, Fabrizio Coscia, Carla D’Alessio, Maurizio de Giovanni, Luca De Pasquale, Peppe Fiore, Francesco Forlani, Antonio Iorio, Simone Laudiero, Marilena Lucente, Giusi Marchetta, Marco Marsullo, Paolo Mastroianni, Rossella Milone, Davide Morganti, Marco Palasciano, Massimiliano Palmese, Angelo Petrella, Massimiliano Virgilio.

Dopo Gomorra molti altri libri tra fiction e giornalismo hanno avuto Napoli come oggetto d’indagine. La vocazione di Napoli per le strade – parte di un progetto benefico più ampio, Città per le strade – è del tutto differente: più che un’inchiesta sulla città, è un’inchiesta sullo stato di salute della sua letteratura. Infatti, se il giornalismo dipinge il ritratto di una città malata e sofferente, le narrazioni degli scrittori fanno emergere con forza le istanze di una città reattiva e “resistente”.
Può sembrare ambiziosa la sfida di presentare in un’unica raccolta ventuno scrittori da Napoli e dintorni, eppure si deve pensare che il volume non raccoglie una sola generazione ma almeno tre, e provare a immaginare questi scrittori come le molte e differenti voci di una città che, tirata in ballo dalla cronaca (quella nera della camorra e quella grigia della politica), decida di voler intervenire personalmente nel dibattito, e raccontarsi.
E così, dalle antiche cime di Pizzofalcone alla borghese Chiaia, dalla collina “snob” del Vomero alle zone popolari di Vasto, Duchesca e Sanità, da “giù Napoli” alle alture dei Camaldoli e Capodimonte, dalle periferie di Chiaiano fin dentro al cuore pulsante del Centro Storico, ventuno luoghi di Napoli vanno a comporre la cartografia di una città troppo vasta e troppo ricca di energie contrastanti per essere definita con un unico nome, o soprannome.
”Napoli per le strade” ha un incipit colto, col racconto di un poeta e studioso (Palasciano), quindi salda subito il suo debito con la nostalgia di chi è partito, ma una nostalgia senza rimpianto (Forlani, Fiore); chi invece è rimasto in città, la vive in uno stato di attesa (Marchetta, D’Alessio) o di combattimento perenne, quasi di guerriglia psicologica (Palmese, Laudiero, Virgilio); una città dove alte sono le temperature dell’eros (Carrino, Petrella) e dalla passione al delitto il passo è breve (Arena, Marsullo, Iorio, Mastroianni, Morganti); dove il presente per la sua complessità è difficile da decifrare o addirittura enigmatico (Coscia, De Pasquale, Lucente), mentre il futuro per qualcuno potrebbe essere già scritto (Cervasio, de Giovanni, Milone).
Autori nuovi, che hanno esordito negli ultimi due o tre anni (Carrino, Coscia, De Pasquale, Fiore, Forlani, de Giovanni, Laudiero, Mastroianni, Morganti, Palmese, Petrella, Virgilio), diverse e interessanti voci di donne (Cervasio, D’Alessio, Lucente, Marchetta, Milone), i giovanissimi (Arena, Iorio, Marsullo), un poeta (Palasciano): ventuno scrittori per un progetto benefico, ventuno storie da una grande metropoli.

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LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia a cura di Generoso Picone
Mephite edizioni, 2010 – euro 12

di Antonella Cilento (da IL MATTINO del 19/01/2010)

È un fatto che le aree geografiche, le province, le pianure, i golfi o le montagne vadano raccontate: non c’è forse narrazione più vitale, in questo momento storico, di quella che parte dai luoghi e che si assume la responsabilità di rappresentarli in rivolta contro il silenzio assoluto imposto dal vocìo globale che racconta macro-aree, non-luoghi, metropoli tentacolari, poli magnetici e direzioni (storia del Nord, del Sud, dell’Est, dell’Ovest) piuttosto che terre e persone. E se in Italia gli scorsi decenni hanno identificato con chiarezza aree della provincia raccontate con vigore dagli scrittori locali, dall’Emilia al Nord-Est, è giunta senz’altro l’ora dell’Irpinia, riposto interno della Campania, oscurata dal sole (luminoso o buio) napoletano, regione nella regione, a scavalco dell’Appenino, rivolta verso l’Oriente ma con un piede nell’Occidente, luogo dell’osso, come tante volte si è detto. I narratori raccolti ne «Le frane ferme» (Mephite edizioni) da Generoso Picone sono in effetti scrittori, almeno in parte, imparentati con i narratori delle pianure di Gianni Celati, con l’Emilia padana che negli anni Settanta e Ottanta raccoglieva la tradizione di Antonio Delfini e di altri narratori extra-ordinari, malinconici, provinciali nel senso ideale della parola e non solo locale, che dei movimenti dell’animo del territorio, delle variazioni di luce, dei sentimenti minori, della quotidianità facevano racconto. Una tradizione che si sarebbe tradotta in Pier Vittorio Tondelli e che ancora s’intravede, ad esempio, nei bei racconti di Davide Bregola o in alcune storie di Guido Conti. Una continuità non solo ideale ma concreta c’è nelle storie letterarie di Franco Arminio e Emilia Bersabea Cirillo, legati in anni trascorsi alle riviste o agli ambiti di Gianni Celati, e nel racconto di Marco Ciriello con un protagonista e un tema ispirato al meraviglioso «Casa d’altri», massimo approdo narrativo di un altro eclettico emiliano, Silvio D’Arzo: ne «La piega» Ciriello infatti sceglie per protagonista un prete e come tema una difficile confessione, identica traccia di D’Arzo, e lo chiama Ezio, che era il vero nome di D’Arzo, all’anagrafe Ezio Comparoni. E se in Ciriello si declina quindi il tema darziano della solitudine montagnosa, del panorama che wertherianamente rispecchia il sentimento di solitudine e abbandono, l’Irpinia di Franco Arminio cerca una sua specifica autonomia, declinata non in forma prettamente narrativa ma sotto forma di reportage o di comizio narrativo. Sottile ma continua la presenza di certa passata politica: il nome di De Mita appare inevitabile in ogni racconto a punteggiare situazioni o discorsi di diversa natura. Così come appare limpida l’Irpinia delle case vecchie, del terremoto dell’Ottanta che fa da spartiacque fra scelte e destini, letterari e no, e l’Irpinia delle case nuove, degli Zio Paperone della Campania, della nuova borghesia che affluisce in palazzine e villette, di quest’immensa periferia dell’anima, ancora contadina eppure fin troppo urbanizzata, con troppi Suv e scarpe costose ma con ancor più grandi melanconie, infelicità e incapacità di trasformazione. Ad esempio, scrive Arminio nel suo «Il circo dell’indifferenza»: «Abbiamo belle case, abbiamo un’aria decente, abbiamo belle macchine, abbiamo ottimo cibo, abbiamo gli stessi telefonini, gli stessi computer che hanno a Tokyo e a Francoforte. Quello che ci manca è il coraggio di giocarci la partita, preferiamo dire che il campo è impraticabile o che l’arbitro è sempre contro di noi». Ma è nel racconto di Emilia Bersabea Cirillo, «Gli infiniti possibili», impietosa e commossa narrazione alla Joyce Carol Oates (la provincia americana o del Nord Europa qui aleggia, distante sorella), che si spiegano gli eventi recenti di un territorio, il fallimento di una generazione – o il sentimento di questo fallimento: sospesa nell’apprendimento di un tuffo nella piscina comunale di Avellino, la protagonista osserva la sua città immobile nelle abitudini e nel consolidamento di un quotidiano senza slanci, rievocando le lotte giovanili per far accadere eventi importanti e di spessore culturale. Compare così sullo sfondo un profetico Luigi Nono, la musica sperimentale del secondo Novecento, una stagione che, oltre la politica, ha cercato di modificare la formazione degli irpini. Come nel delicato racconto di Franco Festa, «La ragazza della sala 4», l’amore muore, assassinato, incompreso, silenzioso: e così si asciugano anche le narrazioni a volte grottesche ma più spesso cariche di fading degli scrittori irpini d’oggi. Quattro racconti per quattro stili, quattro generi letterari e quattro generazioni differenti, raccolte dalla lucidissima introduzione di Generoso Picone che fa il punto sul valore della parola, invalidata, abbandonata, amata in solitudine, ma, in fondo, pur sempre salvifica, per «ormesi» o omeopatia, o forse osmosi. Ed è con l’autoritratto geografico di Vinicio Capossela, irpino Dop, che si deve concludere questo ritratto dell’Irpinia: «Sono nato tra i Kuta Kuta appartengo al ramo dei Pacchi Pacchi, che sono i più lunatici e fissati.(…) Dagli altipiani di Lacedonia sono arrivati fino ai bassopiani del Chiavicone. Nelle nebbie dove osano soltanto le anatre mute e le donne in segno di ammiccamento si lisciano il mustacchio». Lunatici, autoironici, ipocondriaci, solitari, attaccati al territorio, legati ma distanti, in fuga ma stanziali, questi narratori irpini bisognerà, prima o poi, ricollegarli in una futura geografia post-dionisottiana, ai loro parenti dell’Appennino del Nord, senza dimenticare i narratori dell’interno di altri Sud, dalla Calabria alla Sicilia degli altopiani.

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GENERAZIONE MC DONALD’S di Francesca Mazzucato http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/12/generazione-mc-donalds-di-francesca-mazzucato/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/12/generazione-mc-donalds-di-francesca-mazzucato/#comments Thu, 12 Feb 2009 17:30:44 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/02/12/generazione-mc-donalds-di-francesca-mazzucato/

Francesca Mazzucato torna in libreria con un romanzo di formazione ambientato nel mondo del fast food. Il libro, intitolato Generazione Mc Donald’s (Marlin, 2008, euro 13,50), mette in evidenza le abitudini, le regole, i retroscena, ma anche chi sono i lavoratori di queste catene. Sullo sfondo del romanzo, ispirato a una storia vera, c’è il simbolo internazionale del fast food: la grande emme gialla di McDonald’s. L’autrice ci fa riflettere, senza quasi mai scriverlo apertamente, su come questo marchio – così contestato ma, allo stesso tempo, così amato – sia entrato nella vita e nell’immaginario di tutti.

Il protagonista della storia – Marcello -, giovane studente e figlio di genitori piuttosto eccentrici, risponde a un’offerta di lavoro della McDonald’s. Viene così a contatto con le abitudini e le regole che governano queste catene di fast food e con coloro che vi operano, acquisendo maggiore consapevolezza di sé, delle proprie capacità e delle proprie aspirazioni. Nel corso di questa esperienza ha modo di chiarire a se stesso il rapporto con i genitori e con gli amici e, soprattutto, il legame ambiguo con Cate, un’ex compagna di scuola, ragazza determinata e affascinante, della quale è timidamente innamorato. A supporto della trama ci sono elementi forti e universali: l’amicizia, l’amore, la ricerca della felicità, il tradimento, l’abbandono, la sconfitta, la difficoltà di accettare se stessi.

E ora un po’ di dati sul vero protagonista del libro…

Nel 1985 McDonald’s arriva in Italia con il suo primo punto vendita a Bolzano. Da allora c’è una crescita vertiginosa come dimostrano i dati del 2008: 380 punti vendita (Burger King, il suo concorrente più grande, ne ha solo 41; l’altra catena concorrente, la Burghy, è stata acquisita dalla McDonald’s), 12.000 dipendenti, 180 milioni di clienti serviti all’anno – circa 600.000 al giorno -, 678 milioni di euro di fatturato nel 2007 (+9,1% rispetto al 2005). La crescita esponenziale denota un fenomeno che ha fatto tendenza nel mondo del fast food, pur sollevando polemiche riguardo alla genuinità del cibo, le norme igieniche, le politiche di direzione del personale.

Vi chiedo…

Che rapporti avete con le catene di fast food e con Mc Donald’s in particolare?
Quali sono, a vostro avviso, i vantaggi e gli svantaggi? Sono più i “pro” o i “contro”?
Se vostro figlio/a, nipote, fratello/sorella decidesse di andare a lavorare per una di queste catene di fast food… che consigli gli dareste?

Vi invito a rispondere alle suddette domande e a discutere di questo libro insieme all’autrice, che parteciperà al dibattito.
Ospite speciale, l’editore Sante Avagliano… che invito a partecipare alla discussione, a parlarci di questo libro e a dirci qualcosa sul progetto editoriale della Marlin.
Inoltre non è escluso che possa partecipare al dibattito anche qualche responsabile (o manager) di uno dei punti della Mc Donald’s Italia. Lo scrittore Paolo Mascheri, invece, mi darà una mano a moderare il dibattito (a partire da domani sera).

Di seguito potrete leggere la recensione di Matteo Tacconi, apparsa sul quotidiano Europa del 4 dicembre 2008. Per approfondimenti sul libro vi invito a cliccare qui, mentre qui troverete un’interessante intervista rilasciata dall’autrice..

Massimo Maugeri

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Sul quotidiano Europa del 4 dicembre 2008 Matteo Tacconi, in un lungo articolo intitolato L’unhappy meal di McDonald’s, recensisce il romanzo “Generazione McDonald’s”.

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LETTERATURA E OBESITA’: KADDISH di Francesca Mazzucato http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/05/letteratura-e-obesita-kaddish-di-francesca-mazzucato/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/05/letteratura-e-obesita-kaddish-di-francesca-mazzucato/#comments Mon, 05 May 2008 13:22:17 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/05/05/letteratura-e-obesita-kaddish-di-francesca-mazzucato/ La letteratura, soprattutto la letteratura recente, ha affrontato più volte il problema dell’anoressia. Un po’ meno quello dell’obesità.

Eppure l’obesità è un fattore di rischio per la salute. E quando diviene eccessiva può essere causa o aggravante di malattie: tra cui disfunzioni cardiocircolatorie, diabete, problemi alle articolazioni, sindrome da apnea notturna.

Recenti studi hanno dimostrato l’esistenza di predisposizioni genetiche. Ma le cause “vere” sono più che note: alimentazione disordinata (e eccessiva) e stili di vita sbagliati.

Negli Stati Uniti il “problema” si percepisce un po’ più che da noi. Nei giorni scorsi ho appreso, per esempio, che grazie a una decisione della corte federale, per i fast food di New York sarà obbligatorio informare i propri clienti sull’apporto nutrizionale di ogni singolo piatto. Un decisione che non stupisce più di tanto, giacché l’obesità colpisce oltre il 30 per cento degli americani.

Nel 2015, secondo uno studio pubblicato in agosto dalla John Hopkins University, le persone sovrappeso saliranno al 75 per cento, mentre gli obesi rappresenteranno il 41 per cento della popolazione statunitense.

Queste le previsioni negli Stati Uniti.

E da noi?

Certo, il regno della pastasciutta e della pizza è un po’ meno “grasso” di quello delle patatine fritte e degli hot dog. Ma la sensazione è che ci stiamo uniformando anche in questo.

La letteratura recente, scrivevo in premessa, non credo abbia affrontato adeguatamente la questione dell’obesità. Lo ha fatto, invece, Francesca Mazzucato (mia collega e “dirimpettaia” di blog d’autore del Gruppo L’Espresso) con la pubblicazione del suo nuovo romanzo per i tipi della giovane casa editrice romana Azimut.

Il romanzo s’intitola Kaddish profano per il corpo perduto (Azimut, 2008, euro 12,50, pagg. 200). Un romanzo che affronta – appunto –  il tema dell’obesità (la protagonista è una scrittrice obesa), che parla di Budapest e che è in parte ispirato dal premio Nobel per la letteratura Imre Kertész.

Di seguito avrete la possibilità di leggere una nota sul libro e le prime pagine, gentilmente offerte dall’autrice e dalla casa editrice Azimut (che ringrazio).

Organizzerei questo post nel modo seguente. Chiedendovi di:

1. Interagire con Francesca Mazzucato, che parteciperà al dibattito (ponetele domande sul libro)

2. Discutere della piaga dell’obesità (cosa ne pensate? Siete d’accordo sul fatto che qui in Italia non si presta la dovuta attenzione a questo problema?)

3. Budapest (la conoscete? Ci siete mai stati? Provate a verificare se le vostre impressioni su questa città combaciano con quelle della Mazzucato e della protagonista del libro.)

4. Imre Kertész, premio Nobel per la letteratura 2002 (lo conoscete? Lo avete mai letto?)

A voi…

Massimo Maugeri


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Questo romanzo parla di un corpo.
Il corpo di una donna obesa. Di una scrittrice obesa.
Ogni corpo ha una storia e ha una voce. Ma, raramente, hanno una voce i corpi obesi.
E gli scrittori grassi, poi, sono impresentabili.

Con implacabile precisione, con una scrittura potente, Francesca Mazzucato ci porta fra le pieghe di questo corpo perduto, debordante, di questa carne socialmente inaccettabile.
Ci porta fra i suoi desideri, i bisogni, le memorie, gli amanti, e un’assenza mai dimenticata.
Questo romanzo parla anche di Budapest: città sinfonica, lisergica, forse irreale, città dove la protagonista compie il suo necessario viaggio per capirsi meglio, per avvicinarsi ad antiche ferite, a tremendi e sepolti dolori.

***

Budapest è una musica tzigana, una messinscena, un fondale da teatro. Budapest è una città lisergica e cangiante, è splendore e grumi di rabbia. Budapest brilla, ipnotizza e trabocca di incontri, di visi, di storie. Soprattutto quelle. Lei è una scrittrice, una donna realizzata, benestante, occidentale, colta, che ha vissuto con furia, passione e fretta. Troppa fretta. A Budapest ci è andata per caso con un ex amante rimastole amico negli anni. È partita in un agosto troppo caldo per restare in città.A Budapest le accade qualcosa. A Budapest lei si ferma. Si ferma sul serio, capisce, si arrabbia. A Budapest fa i conti con cose che aveva lasciato in sospeso, e soprattutto col suo corpo.

È obesa. Lei è una donna obesa di mezza età. La vita le sta scorrendo come sabbia fra le dita, il tempo si accorcia. Lo capisce lì, lo dice, lo ripete, lo urla. Il suo corpo adesso pretende di essere visto, la mistificazione è finita. Il riflesso sulle vetrine la imbarazza, il riflesso è quello di un corpo spento, ingombrante, un corpo perduto, grasso, diverso, infelice.Ha 42 anni e per tanto tempo ha portato maschere e offerto la sua carne. Si è sentita protetta da quei chili, da quella pancia, da quel seno enorme che ha usato per sedurre e catturare uomini. Uno dietro l’’altro, l’’aiutavano il tempo di una brutta notte in un motel. Adesso riconosce quel disagio remoto che arriva dall’’infanzia e da ricordi sofferenti e rassegnati. Una donna, un corpo grasso e diverso, una città traboccante di nuove e vecchie seduzioni, un possibile amore che torna, o che definitivamente va via.Con un debito e un omaggio al premio Nobel Imre Kertész, questo romanzo è un kaddish (una delle più antiche preghiere ebraiche) carnale e dolente, un indecente ed eccitante viaggio fra luoghi, seduzioni, amori e antichi dolori seppelliti con violenza nel corpo, tanto da permetterne la perdita. Chissà dove, chissà come.

Francesca Mazzucato
scrittrice, giornalista free-lance e traduttrice, è editor e consulente di case editrici.
Ha scritto per il teatro e tiene corsi di scrittura creativa.
Ha pubblicato tra gli altri: Hot Line (Einaudi 1996), Relazioni scandalosamente pure (Marsilio 1998), Amore a Marsiglia (Marsilio 1999), Diario di una blogger (Marsilio 2003), Enigma veneziano (Borelli 2004), L’’Anarchiste (Aliberti 2005), Confessioni d’’un alcolista (Giraldi 2007), Magnificat Marsigliese (Creativa 2007).
Ha vinto il premio Fiuggi. Fa parte del Who’’s Who Italy 2007.
È tradotta in Francia, Germania, Grecia e Spagna.
Sulla sua opera sono state scritte alcune tesi di laurea.

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Le prime pagine del romanzo

 

ORLO

Le mie labbra danzano un twist inutile e ripetitivo, bisbigliano e ritmano frasi, incastrano ritornelli, parole dette così, per riempire.

Parlare a vanvera serve da doppiaggio per i movimenti sgraziati della mia ondeggiante impalcatura. Verso me stessa vivo un’odissea di avversione.

Mattine in cui maledico la mia immagine prima ancora di lavarmi il viso. Giorni così.

Cosa resta a parte il disagio di questo corpo trascurato e straniero?

Poco. Sdraiata sul tappeto guardo le stelle adesive che formano una costellazione sul soffitto. Mi abbandono a emozioni depravate e inquiete.

Mi rimane questa esagerazione fisica che pare cemento. Vertigine di ciccia. Piramide di adipe smagliato. Vergognosa, patetica fisionomia in controluce che tutto ha perduto tranne vaghi filamenti, un brandello in più del niente.

I rumori del nulla, dentro. Che angosciano, stridono, segnano; per questo parlo da sola, avanti la tiritera. Sono un enorme involucro che contiene un cratere. Negli interni ripeto parole infantili, catechesi filastrocche rimbrotti, rime e quant’altro per celare la mia paura, il terrore di percepire la pena degli occhi che guardano il grasso debordante, che osservano i fianchi e il doppio mento, che pesano e provano schifo: ripeto, a memoria, a manovella, storpio mezze frasi, le rimo, le lancio come stelle filanti. Affogata di grasso, soffocata di inerzia e paura, non bella, non leggera. Parlo per confondere e divagare e lascio che la mia vita sia tutta testa, tutta cervello, tutta mistificazione e finzione, seppellisco il cuore, magari in giardino.

Vorrei urlare il mio disagio che sale come un calore inatteso e poi invade la casa, le cose, le mie tracce, le impronte che lascio, le azioni maldestre composte di gesti inadatti, voraci e sconvolti: urlando svuoterei di ben poco questo contenitore che si riempie adagio preparandosi a debordare, a raggiungere l’orlo. Ci sono sull’orlo? Ci sono vicino, arrampicata a cavalcioni pronta per la discesa? Non lo so.

La mia vita? Una questione gonfia e sbalorditiva. Una cosa tipo schiuma. Realtà capovolta, crepe, sfilacciature. Cerco di riparare, di aggiustare, di mimare una soddisfazione che non esiste, una felicità che non conosco. Posso farlo. I grassi devono: irritano, disturbano ma all’occorrenza mostrano buona volontà, imbottiscono, agiscono.

Tirano fuori l’energia possente del loro BMI esagerato. È nemesi e dovere. FINE

* * *

Rileggo.

Un altro racconto per mistificare e scompaginare le cose. Se fossi capace di mettermi a nudo, se fossi in grado di non nascondermi dietro la sintassi artefatta, se sapessi rendere la verità con le parole, dovrei raccontare della prima volta che li vidi. Quei dadi di carne rosea e gigante. Ero in bagno, lasciai scivolare la schiuma e mi feci avvolgere dall’accappatoio morbido e profumato: ogni cosa era coperta dal vapore, non volevo guardare ma lo feci. Sapevo che non erano come quelli delle mie amiche, come quelli intravisti sui giornali. Piccoli e uniformi puntini rosei piacevoli al tatto e allo sguardo. Capezzoli perfetti. O almeno giusti, proporzionati. Nel mio caso tutto era molle e cadente, tutto era striato e deforme e loro erano smisurate forme con escrescenze laterali. Anormali, troppo evidenti.

Non ce la faccio a scriverlo, ci provo da tanto, ho detto e non detto, e questa volta mi sono nascosta come al solito. Ripasso la scritta fine in grassetto. Allego il racconto alla mail e invio alla rivista letteraria che lo attende. Mi hanno commissionato una storia da far uscire il prossimo mese e da scrivere in tempi rapidi. Pagata pochissimo. Il solito niente che non riesce più a diventare lusinga, a farmi sentire appagata, a proiettarmi scenari futuri di riconoscimenti creativi. Tutta carta destinata a logorarsi e ingiallire. Polvere e ancora polvere.

Me ne frego.

* * *

Scrivere e tradurre sono attività ingrate e in fondo ingiuste.

Siamo tarlati e maldestri noi che lo facciamo, che l’abbiamo creduta una sfida possibile, spendibile ed esplorabile. Che continuiamo a farlo nella fatica e nell’oblio dei più, tranne quei pochi fortunati che aggrappano ribalte di prestigio e le mantengono.

Avremmo dovuto correre altrove fino a far esplodere i polmoni e ridimensionare le speranze, noi che con pervicacia scriviamo dopo anni di parole che hanno conosciuto fortune migliori, fortune mediocri e sfortune neanche troppo tragiche.

Siamo incerti e squilibrati. Lo squilibrio è evidente nel decidere comunque, al di là di ogni coraggio e ragionevolezza, di ricominciare ogni mattina oppure ogni notte, di chinarsi a riempire pagine e far stare in piedi le storie (quando non sono racconti inediti dove si utilizzano lemmi in equilibrio rapsodico per stupire i redattori più giovani di una rivista che paga poco e di scarsa diffusione).

Siamo, noi che scriviamo, va detto, malati. Lo siamo tutti in qualche forma, se la patologia non si trova sui manuali, occorrerà segnalarlo anche se una diagnosi precoce non porterebbe nessun vantaggio. Alle nostre paure improvvise, all’insicurezza e allo sbandamento siamo affezionati, attaccati, quasi incollati.

Non abbandoneremmo i sintomi, il malessere e la fatica per nessuna terapia di provata efficacia, consapevoli che curerebbe e cancellerebbe anche la manifestazione del nostro problema, la scrittura, come si fa con le pustole della varicella, con lo sfogo di una dermatite. E senza scrittura non potremmo vivere e lo sappiamo. Sappiamo che è così e basta.

Nel mio caso poi. La malattia è doppia e ambigua. Con un corpo che deborda da tutti gli schemi, tre cifre sulla bilancia, che non mutano, che non fluttuano, non oscillano, tre cifre

grosse e grasse che sanciscono una condanna emarginante.

* * *

Io sono malata a prescindere, la parola che mi definisce ha tante vocali ed è grassa anch’essa, nominandola sgocciola unto come quando si mangia un kebab. Obesa. Credere di poter essere una scrittrice obesa e continuare a farlo è stata una folle rapina a tutte le scrittrici magre capaci di scivolare leggere nel mondo patinato che circonda e seduce, che si inchina e che per qualche manciata di istanti promette e concede una notorietà da raccontare al vicinato e, più tardi, ai nipoti. Le pattinatrici scrittrici magre e adatte boicottano le scrittrici obese in appositi forum carichi di veleno dove, nascoste da nickname riconoscibili, esprimono forte il loro disgusto partendo dal corpo e sul corpo, non lesinano nomi e cognomi e sottolineano implacabili che una grassa è anche brutta e pesante e noiosa ed inutile, facendo combaciare i lembi dilatati del corpo obeso con le copertine dei libri, con le pagine scritte. Qualcuna afferma che una grassa dovrebbe occuparsi della sua sciatteria evidente e disturbante invece di fare critica letteraria e addirittura scrivere romanzi. Ma guarda che audacia, che imperdonabile errore.

Mi sconcertano. Non ho un complesso di persecuzione, non mi sento lapidata dalle parole degli altri quando già ci pensa il mio corpo a lapidarmi, ogni chilo una pietra, ogni sbirciata allo specchio una frustata che lascia la pelle segnata di rosso.

Eppure il rispetto non è un’opzione variabile anche se lo sembra, a volte. Tanto che importa, a chi frega? Il tempo dei magri e lindi, dei platinati e perfetti, dei denti impiantati, della vecchiaia sparita, delle rughe riempite di cerone, delle labbra giganti e dei ventri piatti come il marmo, dei corpi di cellophane, dei capelli estesi, delle pelli tirate e della perfezione ostentata dà ragione a loro e forse ce l’hanno, chissà.

Ho avuto momenti di visibilità esagerata alternati a momenti più calmi e il tutto ha seguito le fluttuazioni della bilancia. Mi hanno invitato a trasmissioni di prima serata, ho esibito scollature per mostrare la cosa migliore di questo corpo budinoso e massiccio, la parte voluttuosa, inattaccabile e persino invidiabile, il seno così felliniano, gigantesco e materno: ho sedotto e mi sono lasciata sedurre sentendomi viva. Ho il ricordo di stanze d’albergo dove spargevo tracce per sentirmi a casa, dell’attrito violento di corpi ansiosi di ritornare bambini baloccandosi con queste mie tette smisurate e invitanti. Durante questi amplessi rapidi e affamati pensavo ai libri che avevo tenuto in mano e mostrato alla telecamera. Oggetti, di carne o di carta, che permettevano di dimenticarmi, di sorvolare sulle mie scontentezze, sulle insicurezze, sul veloce oblio in cui finiva ogni riconoscimento, ogni soddisfazione. Avevo dieci anni di meno. Se sei abbondante, grossa e formosa, il tempo che scorre gioca a tuo sfavore con violenza inaudita, ti travolge e ti sfregia con intensità potenziata.

Adesso ho 42 anni. La tv tentenna nei miei confronti, la capacità dialettica è stata importante all’inizio ma l’obesità ha battuto la buona volontà dei miei argomenti dieci a zero: a volte mi invitano ancora a talk show stantii non certo in prima serata, spese non rimborsate, niente trucco, studi introvabili alla periferia di Milano, o in qualche quartiere di Roma affogato nel cemento. Studi da raggiungere con ascensori simili a tombe dove mi attendono prime assistenti platinate e distratte, alle quali per un tempo lunghissimo non risulta il mio cognome (e adesso che fanno, chiamano la sicurezza?) e, infine, lo trovano e con un sospiro e un dito laccato mi indicano l’angolo dove mi sistemo, seduta accanto a vecchie cantanti con la permanente color topo che adesso reclamizzano padelle e paiono davvero passarsela alla grande. Non sono obese ma grassocce e a volte il presentatore, frustrato dall’audience minore di quando televendeva doghe in legno su una qualsiasi delle tivù generaliste, tenta qualche battuta del tipo: vi piace, eh, mangiare?

Sono televisioni locali, Abbiategrasso TV, Badia Polesine TV, posti così. Probabilmente non le guarda nessuno se non qualche anziano con l’artrite e il telecomando puntato come una pistola, casalinghe stanche pronte a cambiare canale o qualche studente svogliato: penso alla fatica di questo lavoro ingrato, alla popolarità in caduta libera, non trattenibile ma così facilmente modificabile mentre un po’ cupa scendo dal treno e cerco la metropolitana. Tutto fa, ti dici quando accetti, e poi ti penti se alla battuta maldestra non puoi alzare il tuo pur voluminoso culo e lasciare il palcoscenico alla ex cantante rotonda e appagata fra le sue padelle che risponde di sì con foga, che dice di essere davvero felice del fatto di non negarsi niente, del fatto di mangiare bene e di cuocere tutto nelle sue superfonde in acciaio inox.

Ci resto e annuisco sembrando sostenuta e un po’ snob in un ambiente dove essere snob è letale, risulta patetico e assurdo, imperdonabile a livello di immagine.

Un tempo, diciamo cinque anni fa, durante le notti solitarie negli alberghi, fra una trasferta e l’altra, riuscivo a rilassarmi, a toccarmi e a provare un piacere solitario e potente accompagnandomi a fantasie reali, rammentando episodi vissuti in quelle escursioni nei salotti veri, le ospitate per presentare i libri in quel breve periodo di visibilità nazionale. Adesso ho poche cose su cui fissare le mie fantasie: invento e fatico ad arrivare all’orgasmo. Resto ferma. Assaporo l’odore di pulito delle lenzuola.

Il corpo è distante, pare volare via. Aspetto. Cos’altro puoi fare in certi casi? La vita si trasforma in una interminabile attesa. Aspetti fatti reali su cui fantasticare. Aspetti una mail

da qualcuno che ti ha cancellato dai suoi contatti. Aspetti un bonifico che tarda e che devi sollecitare. Aspetti chiamate di altro genere per rinverdire una fama che tende a sbiadire come lenzuola troppo colorate dopo tanti lavaggi. La tv nazionale però latita. Chiama scrittrici fotogeniche e snelle che inquadrate risultano adatte, più credibili, più belle e quindi comprabili. È successo questo ai miei libri? Sono diventati come me, un affare in perdita? Un mucchio di cocci poco attraenti? No, quelli si vendono a prescindere. Non tanto ma abbastanza, più di altri, meno di certi volumi massicci e ambiziosi che affollano classifiche e scaffali di ipermercati: i miei libri hanno una loro considerazione e un loro posto, fluttuante, certo, in quel gioco di pesi e misure che appartiene alla vita e ai suoi rischi. Li vedo nelle librerie, li sfioro, mi si stringe il cuore un istante immaginandoli perduti in un territorio così affollato poi non li prendo neanche in mano ed esco ma i rendiconti parlano (se la loro parola è sincera, o se lo è fino a un certo punto). Ho lettori che scindono il prodotto dall’autore. Rari e preziosi, in un tempo che invece li vuole uniti, autore e prodotto, incollati, in un tempo in cui spesso si compra l’autore mentre il prodotto rimane indietro, obliquo. Guscio vuoto di un niente abusato, etilico, strangolato.

Funzionano certe tipologie. L’autore o l’autrice quasi mai over 30 coi capelli lunghi e luminosi, una taglia XS, abbigliamento da copertina di Vanity Fair, linguaggio da Rolling Stone mischiato alle Invasioni barbariche con qualche voluta e sapiente puntata nel kitsch dei reality e dei grandi fratelli per essere subito cool. Un passato di mediattivismo o di selezionate collaborazioni con prestigiose riviste. Pochissimi racconti in quelle antologie da recensioni a grappoli, tutte positive.

Perfetti esempi di cacciatori alla ribalta. Sono tanti, autori o autrici con l’agente giusto e i giusti interessamenti di chi poi farà il film o la fiction e darà lustro al prodotto e moltissimo

lustro splendente al conto corrente non più in caduta libera (il loro, non certo il mio).

Io somiglio al mio estratto conto ridicolo e sussultorio come un rivelatore di terremoti impazzito. Io non sono comprabile, non sono plausibile, come si fa nel 2008 a essere grassi, enormi, giganteschi ammassi di adipe non solo trascurato ma anche alimentato con carboidrati dopo cena, con pane, toast e schiacciatine?

Me li infilo letteralmente in bocca aiutata dal dito e morbidamente si disfano in un istante.

Il racconto per la rivista non è perfetto. Non ho altro da fare e rileggo. Rileggo ad alta voce, mi fisso su ogni dettaglio. Non mollo la presa anche se potrei. Lasciare che le cose siano pasticciate, sciatte. Nessuno ci farebbe caso. Adesso riscrivo dicendo che devo cambiare, ho trovato un refuso causato dalla fretta.

Vado sempre di fretta, una fretta impetuosa, come se rincorressi qualcosa che non c’è, che non c’è ora e non c’è mai stato, ma io rincorro smarrendo lucidità a ogni passo, contraendo le labbra per lo sforzo, io dietro al nulla piena di patetiche speranze e aspettative, sudando e seminando una scia di qualcosa che non somiglia a sudore normale ma a un rivolo purulento.

Forse lo producono solo gli obesi ed ancora da studiare e analizzare, tanto la ricerca se ne frega.

Quanti libri sull’anoressia. Vanno per la maggiore. Ragazze anemiche e bianche, magrissime e infelici. Quell’infelicità è rappresentabile. Si trova su cartelloni e sulle passerelle di moda. Per questo si può definire infelicità modello. Giovinette che piangono all’improvviso, compatite e compatibili, piccole principesse con corpicini tutti ossa e maglie che a stento coprono i fianchi. Attillate nella mente e nel look. Perseguono un controllo totale, un preciso svuotamento, incolpano società e famiglia, narrano il loro raro piacere enfatizzando il pathos della loro scarna narrazione, indugiano sulle ossa sottili, quella

pelle talmente priva di grassi che quasi combacia, che le rende bambole di plastica intercambiabili, asessuate e inconsapevoli.

Si sono messe a scrivere tutte insieme, i loro libri hanno creato un filone privo di contrappasso, agli obesi niente. Non c’è traccia di parola data. Di narrazione diventata moda.

L’obesità è l’assedio ai codici a barre della forma perfetta.

L’obesità è circondata da un simbolico fosco e colpevole. Anzi, raccontarla, persino se ha radici ereditarie e quindi con una piccola attenuante generica, è un azzardo.

 

 

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