LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » francesco di domenico http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 CRONACHE DI INIZIO MILLENNIO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/10/11/cronache-di-inizio-millennio/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/10/11/cronache-di-inizio-millennio/#comments Tue, 11 Oct 2011 21:37:39 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3598 cronache-di-inizio-millennioChe cosa rimane del decennio che ci stiamo lasciando alle spalle?

Qual è l’evento “caratterizzante” degli anni 2001-2011?

Se vi venisse chiesto di redigere una classifica degli eventi più importanti che si sono avvicendanti in questi dieci anni… come la stilereste? (per ordine di importanza…)

Quali eventi, a vostro giudizio, sono rimasti “in sordina” e meriterebbero, viceversa, maggiore risalto nella nostra memoria?

E come si differenzia il decennio che si sta per concludere da quelli che lo hanno preceduto?

Vi invito a rispondere a queste domande, ispirate dalla recentissima pubblicazione del volume “Cronache di inizio millennio” (Historica, 2011) curato dal duo letterario Laura Costantini e Loredana Falcone. Si tratta di una antologia che ha come sottotitolo “32 autori italiani raccontano gli anni 2001/2011” a cui ho partecipato anch’io con grande piacere, invogliato dallo scopo benefico del progetto (come meglio precisato di seguito).
Dalla scheda del libro: “Dieci anni densi di avvenimenti, cambiamenti, cataclismi climatici, politici e sociali che vale la pena raccontare per lasciarne traccia e, senza avere la pretesa di un’interpretazione sociale e antropologica, poter restituire il sapore degli anni che ci siamo trovati a vivere”.
Dicono le curatrici: “Quello che abbiamo chiesto agli autori che hanno aderito (32 tra famosi ed esordienti) è di raccontare uno di questi anni, di questi avvenimenti. Dalle Torri Gemelle all’avvento di Facebook, dallo Tsunami ai Mondiali di calcio 2006, dal G8 di Genova al terremoto dell’Aquila. Sono solo esempi nella massa di stimoli che il decennio ha potuto fornire a tutti noi che scriviamo esercitando la passione della memoria e della parola.”

Il ricavato delle vendite verrà devoluto all’A.V.S.I. per il progetto “Al lavoro! Attività di formazione professionale e avvio al lavoro per i giovani di Rio de Janeiro”.
Mi piacerebbe che partecipassero al dibattito tutti gli autori coinvolti nel progetto (magari potrebbero raccontarci perché hanno scelto proprio quella data e quell’evento).

Laura Costantini mi aiuterà ad animare e a moderare la discussione.
Di seguito, l’elenco degli autori che hanno aderito al progetto e la bella prefazione firmata da Marino Sinibaldi.

(Inutile aggiungere che siete tutti invitati a rispondere alle domande del post).

Massimo Maugeri

Hanno scelto di raccontare le “Cronache di inizio millennio”:
Danilo Arona (23 settembre 2001) – Maria Silvia Avanzato (10 gennaio 2005) – Remo Bassini (16 marzo 2010) – Alessandro Berselli (1 agosto 2003) – Daniele Bonfanti (26 dicembre 2004) – Alessandro Cascio (25 giugno 2009) – Vincenzo Ciampi (14 febbraio 2004) – Fabio Ciriachi (10 aprile 2006) – Fabrizio Contardi (23 gennaio 2004) – Laura Costantini – Loredana Falcone (25 gennaio 2011) – Maurizio De Giovanni (30 gennaio 2002) – Francesco Dell’Olio (9 luglio 2006) - Francesco Di Domenico (21 maggio 2008) - Barbara Garlaschelli (22 luglio 2001) – Enrico Gregori (18 aprile 2002) – Maria Giovanna Luini (21 febbraio 2001) – Gordiano Lupi (11 giugno 2010) – Andrea Malabaila (10 settembre 2008) – Stefano Massaron (15 maggio 2011) – Massimo Maugeri (2 aprile 2005) – Francesca Mazzucato (2 febbraio 2008) – Paolo Melissi (estate 2003) – Enrico Miceli (10 luglio 2007) – Patrizia Mintz (6 aprile 2009) – Gianluca Morozzi (10 gennaio 2005) – Enrico Pandiani (11 settembre 2001) – Niccolo’ Pizzorno (2 maggio 2011) – Simonetta Santamaria (27 novembre 2010) – Pierpaolo Turitto (28 settembre 2003) – Floriana Tursi (28 gennaio 2011)

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LA PREFAZIONE DI MARINO SINIBALDI
Semmai i secoli nascessero innocenti, il nostro la sua purezza infantile l’ha persa subito e di colpo: due torri sbriciolate, “tremila persone vaporizzate” che aleggiano come una colpa o una maledizione non solo nei racconti di questo progetto che si misurano con l’anno fatale 2001 ma in tutti gli altri di questo originale diario di un decennio che fugge. Come in un diario vero e proprio, infatti, qui si ricordano momenti e luoghi sepolti nella memoria, si riscoprono eventi dimenticati, si rievocano emozioni lontane. E si finisce stupiti di fronte a coincidenze che non avremmo dovuto rimuovere: davvero il delitto di Novi Ligure –quel domestico ground zero di inspiegabile ferocia – anticipava di pochi mesi uno di ben altra scala? E abbiamo mai capito cose significasse quella sorta di replica farsesca che mandò a infrangere un Rockwell sul pacifico Pirellone? Sono le increspature e gli scarti della memoria, questa facoltà insonnolita che facciamo sempre più fatica a ridestare. Ma va detto subito che l’intelligenza della sfida e la qualità dei racconti che l’hanno raccolta hanno intanto questo merito: non lasciarci svicolare nel comodo rifugio dei “non ricordo”. Ognuno degli autori di questi racconti ha affrontato un momento e un anno, un evento e le figure che lo hanno animato o subito; e ce li scaglia contro, con precisione ed emozione, con rabbia, a volte, fino a lasciarceli definitivamente infissi nella memoria.
Che sensazioni ci restano, infine? Del trauma originario di questi anni si è già detto qui –e altrove anche troppo. E l’11 settembre del decennale ci sta già saturando con una implacabile macchina memoriale-spettacolare. Ma è come se quelle macerie fossero un segno distintivo dell’epoca, reiterato in luoghi e forme diverse ma tutte riconoscibili e dolorose, come le pietre mai più rialzate delle strade dell’Aquila, come “il largo solco simile a una trincea enorme” scavato da chi? E dove? Nei mari solcati da carrette omicide, nell’epicentro di qualche terremoto, nelle spiagge dello tsunami? (Tsunami, parola seminuova di un decennio che ne ha adottate molte, spesso cambiando senso: “il tuo profilo” non è una silhouette da evocare con nostalgia ma qualcosa da esibire nei social network). Come i rifiuti inamovibili di comunità urbane che sembrano aver consumato la loro parabola secolare. Come la macerie sempre meno metaforiche di una economia globale che appare preda di un delirio psichico, tecnicamente schizofrenica, prigioniera di un balletto simile a quello fantastico che intrecciano tra loro le tre lettere dell’austera sigla Fmi nella rivisitazione irriverente e salutare che non potrà che farvi amaramente sorridere. Sorridere appena, però. Perché non si può pensare al disastro finanziario e alle sue conseguenze infinite senza infinitamente ripetersi le verità urlate e ignorate nelle strade del G8 di Genova. Per questo il trauma originario del primo anno di vita del nostro secolo è così difficile da ignorare: non si manifestò solo nello spazio aereo di un mattino americano ma nelle lunghe, tragiche giornate (e notti) vigliaccamente insanguinate di una nostra amata città. (Solo così il 2001 è davvero l’anno fatale che è stato: se alla memoria globale e imperiale delle Torri Gemelle si affianca la nostra colpa –e magari la nostra giustizia).
Ma questi anni sembrano non emettere sentenze davvero definitive. Sono anni incerti, inconclusi. Come nel topos immortale della tragedia greca, in queste pagine troverete salme insepolte, cadaveri senza pace: provengono dal dramma enorme che preme sulle nostre coste ma anche, più banalmente, da una grottesca vicenda funerario-televisiva. Appaiono comunque il segno di qualcosa che non è finito ancora, non è definito, non può essere sistemato. Segna i nostri tempi come un buco, un vuoto (eccolo lì lo spazio mai colmato di Ground Zero che ritorna come un mantra visivo). E non genera mai sentimenti facili: di gioia ce n’è poca, quasi niente. Nessun autore, mi sembra, ha scelto uno di quegli eventi brillanti che regalano ricordi smaltati anche agli anni più oscuri. Persino i mondiali di calcio, persino la vittoria che a volte inaspettatamente ci arride non può essere goduta in santa pace. E’ destino che un intralcio, una grande o piccola maledizione lo impedisca.
E’ così, un po’ a brandelli e nelle forme diverse che la diversità degli autori coinvolti felicemente implica, che leggendo questi racconti un’idea degli anni alle nostre spalle si fa progressivamente largo. Sono anni difficili perfino da siglare: “anni zero” forse, non solo per pedanteria aritmetica ma perché un senso di azzeramento politico, economico, mentale sembra intimamente segnarli. Ma il numero nullo implica inevitabilmente qualcosa da costruire o ricostruire. Imprese assai difficile da immaginare, anche uscendo dal recinto di queste brevi narrazioni. Sembra piuttosto di intravedere la paradossale coda lunga di un secolo breve. “Fine secolo” , con una formula inventata da Adriano Sofri, si intitolava un’impresa editoriale che alla vigilia del decennio precedente (i terminali anni Novanta) giocava con l’idea che qualcosa –i rifiuti ideologici del Novecento, per esempio- stesse per abbandonarci. Mi è capitato di lavorare a quell’impresa e di portare in eredità quel titolo a una trasmissione radiofonica che Radio3 ospitò dal 1992. Altro che fine, però: mentre lo sguardo superficiale dei contemporanei sembrava fisso su ciò che stava terminando, ci capitò di incontrare eventi del tutto nuovi, e giganteschi: le migrazioni mondiali, per esempio, e la nuova, altrettanto globale, economia –e il tramonto dell’illusione energetica, e la fine del lavoro, e i nuovi fanatismi paranoici e parareligiosi eccetera eccetera. Gli anni sono così, scivolano uno dentro l’altro, confondono eredità e tradizioni, appaiono immobili e mutano catastroficamente. Sono difficili da fissare. Con punti di vista diversi gli autori di questi diversi racconti ci hanno provato. E sfidano noi lettori sollecitando la nostra facoltà più addormentata e quella più atrofizzata: la memoria e l’immaginazione.
Marino Sinibaldi

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DIBATTITO SULLA LETTERATURA DEI VAMPIRI… E DI ALTRI ORRORI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/01/letteratura-dei-vampiri/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/01/letteratura-dei-vampiri/#comments Mon, 01 Mar 2010 15:21:10 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1755 Aggiorno questo post dedicato al dibattito sulla “letteratura dei vampiri” (che nel frattempo si è trasformato in dibattito sulla “letteratura dei vampiri… e di altri orrori“), inserendo il contributo alla discussione fornitomi da Sergio Altieri (in arte Alan D. Altieri): scrittore, traduttore e direttore editoriale delle collane Mondadori distribuite in edicola. Ne approfitto per ringraziarlo. Segue il post originario pubblicato il 1° marzo 2010.
Massimo Maugeri

* * *

Il (nuovo) giorno del vampiro
Alan D. Altieri

ovvero

Il fascino (indiscreto & eterno)
dell’immortalita’ malefica

* * *

sergio-altieriWhat the hell! Proprio quando ricominciavamo a sperare nella validità dei vecchi metodi. Ma sì, ya all know what I mean: anzitutto santo martello & saKro piKKetto. Più crocefissi assortiti, aglio a grappoli, acqua pura (really? we still got that?) a damigiane, specchi possibilmente non incrinati, etc etc etc. Insomma, tutta l’attrezzatura obbligata e obbligatoria del piccolo vampirista perfetto, tale da sbarazzarci di quegli invadenti salassatori.
Giusto?
Tutto sbagliato.
Guess what: della lista di cui sopra – e senza, almeno per ora, ricorrere agli strabilianti trucchetti post-techno degli ultimi tempi, tipo proiettili di luce & affini – non funziona più un accidenti di niente. Di certo non funziona più un accidenti di niente nel “nuovo giorno del vampiro”.
Difatti, chi non muore – e questi mai che tirino veramente cuoia – si rivede. Per cui una nuova, radiosa alba popolata da orde si sukkiasangue è sorta su questo nostro pianetucolo dolente in attesa del catartico, liberatorio 2012. E non è affatto detto che non siano proprio loro, i vampiri, a mettere la parola fine al nostro inquinato, sovrappopolato, tormentato destino di bipedi imperfetti ormai decisamente e miseramente slittati nell’(in)umano.
Discutibili facezie a parte – pressoché in ogni forma della comunicazione scritta e iconografica – l’intera mitologia vampirica sta vivendo una inedita (ennesima) eterna giovinezza.
Francamente, e passatemi la notazione personale, allo scrivente la cosa va alla grande. Leggendo da ragazzo l’immortale – in senso di capolavoro letterario – “Dracula” di Bram Stoker, nella fenomenale traduzione dell’ugualmente immortale Francesco Saba Sardi, mi schieravo tutto dalla parte del Principe delle Tenebre. Già eretico nell’adolescenza, quindi? Peggio: eretico, blasfemo, nonché politikamente scorrettissimo. E vi argomento anche perché:
- Dracula è solo, ma proprio solo, (R.M. Renfield non è nemmeno il suo garzone di bottega) in lotta per sopravvivere contro un intero universo: sopravvissuto suo malgrado a un passato di orrori, costretto a fare i conti con un amore disperato e impossibile, condannato a coesistere con la propria mostruosità endogena. Ditemi voi se non è questo IL vero eroe romantico di tutti i tempi, letteralmente…;
- gli avversari di Dracula sono l’orgia degli scornacchiati: abbiamo il moscio rimbecillito (Jonathan Harker), il mandriano da trivio (Quincey Morris), il demente tossico (Dr. Jack Seward), e, dulcis-in-fundo, il vittoriano scassapalle sessualmente frustrato (Abraham Van Helsing). Come on, guys, get a life… No, even better: get a death!;
- le ganze di Dracula sono il meglio sulla piazza: a partire dalle tre sexy vampirelle su nella nera fortezza dei Karpazi (okay, ladies, let’s rock!), per passare alla spumeggiante Lucy Westenra (ready to jugular, old boy!), chiudendo in bellezza con la delicata (ma non troppo) Mina Harker (just suck me dry, my Prince!).
Insomma, Dracula Forever.
A tutti gli effetti, il forever di cui sopra continua a funzionare. Ormai da quasi due secoli l’oscuro eppure tormentato, truculento eppure fascinoso, Conte Dracula – e pressoché tutte le sue incarnazioni/deviazioni/ rivisitazioni/approssimazioni successive – rimangono una dominante primaria dell’immaginario individuale e collettivo.
A parere dello scrivente, è il fascino inevitabile dell’immortalità.
Esatto: transitare attraverso lo spazio e il tempo senza tutte quelle menate mistico-messianiche stile Highlander, osservando e studiando, testimoni occulti dell’umana fallacità senza peraltro farne parte. Al di sopra di tutto e al di là di tutti. In sostanza, quanto di più vicino si riesca ad arrivare alla divinità. D’accordo, c’è un prezzo da pagare: no immagini riflesse, no luce del sole, no cenette gourmet (che non siano emoglobiniche), no un po’ di altre inutili frescacce della vita diurna. Ma in definitiva, what the hell, right?
Senza nemmeno osare di ripercorrere l’intera epopea dei vampiri dalla carta stampata, al grande & piccolo schermo, tutta la strada fino ai fumetti e ai videogame, lo scrivente si limiterà a tentare di analizzare i trend più recenti di un filone narrativo (inteso nel senso più lato possibile) che si è già guadagnato l’immortalità’:

vampiritrend #1) vampiri “classic”: non a volte ma sempre ritornano, un po’ come quel buon barolo invecchiato al punto giusto. Profetessa indiscussa di questa rivisitazione rimane la grande Ann Rice. Nei primi anni ’80, con il vampirismo erroneamente considerato materiale da biblioteca, il Lestat creato da Ann Rice – e la sua intera saga susseguente delle “Vampire Chronicles” – riporta in primo piano queste creature ambigue e minacciose, efemeriche e seducenti. In film, abbiamo la riuscita trasposizione di “Interview with the Vampire”, magistralmente diretta da Stephen Frears, seguita purtroppo della bufala – al di là della presenza della meravigliosa e compianta Aliyah – tratta da “Queen of the Damned”. In ogni caso, l’universo estetizzante e diabolico creato da Ann Rice rende tuttora in modo fenomenale. In questa direzione, il vampiro classico, non va dimenticata l’opera della valida narratrice Chelsea Quinn Yarbro con la sua saga del Conte Saint-Germain, pubblicata integralmente in Italia della eccellente casa editrice Gargoyle. Così come non va trascurata l’ultimissima incursione meta-vampirica a opera niente meno che del nipote del divino Bram. Ecco quindi “Dracula the Undead”, a firma Dacre Stoker & Jan Holt (Undead, gli Immortali, PiEmme, 2010), ottima resurrezione del “Divin Conte” quasi in salsa steampunk, con la partecipazione straordinaria di Jack the Ripper, la Contessa Batory e via smembrando.
Insomma, quei volti lividi e affilati, quelle marsine con svolazzante jabeau appena chiazzato di rosso, continuano a tirare al massimo dei giri… Oops, dei kanini;

trend #2) vampiri “stylè”: o anche “vampiri Prada”. Difatti: alti ma non eccessivi, belli ma non sbracati, palestrati ma non ipertrofici, eleganti ma non azzimati, seducenti ma non ambigui, insomma dalla loro le hanno proprio tutte, inclusa una millenaria società parallela nemmeno troppo sotterranea rispetto alla strafottuta società umana. Avete presente? Ma sì, sono loro: la gang cromaticamente virata all’azzurrino di “Underworld”. Ipnotico okkione glauco-livido modello Ice 9 (Kurt Vonnegut for President!), magnifici spolverini di cuoio liscio e abbastanza volume di fuoco full-automatic da livellare Manhattan.
Da un punto di vista visuale, quella del vampiro “stylè” è diventata una proposta dalla quale è ormai difficile discostarsi. Sarebbe un po’ come fare vedere astronavi a forma di sigaro con le grandi ali (pure pulp anni ’50) al posto delle maestosamente lente strutture ipercomplesse inaugurate da Stanley Kubruck (2001), portate poi all’estremo da Ridley Scott (Alien).
Dalla orgiastica e sanguinaria proposta botti & spari, sesso & krudeltà della serie “Anita Blake: Vampire Hunter” a firma della dura & pura Laurell Hamilton, passando per i new gothic “Southern Vampire Mysteries” di Sherrilyn Kanyon, fino alla primariamente romantica (addirittura “vegetariana”) ninna-nanna adolescenziale di “Twilight”, con l’abile Stephanie Mayer al timone, il vampiro “stylè” domina ampiamente la scena. Sarà quindi interessante osservare quale sarà la prossima evoluzione di questo trend. Come on, boys & girls, non potremo avere kanini in salsa Dolce&Gabbana e Moccia per sempre… o no?;

trend #3) vampiri “monstre”: qui si fa addirittura un passo evolutivo all’indietro rispetto a Dracula, eterno vate. Il vampiro mostruoso è solamente una belva infame assetata di sangue. Troppi dentoni e troppo poco cervello, brutto come una qualsiasi sessione parlamentare itaGLiana e aggressivo come l’ultimo cretino analfabeta appena espulso dalla casa/casino di “pikkolo fratello scemo”. Il vampiro “mostre” è buono per una sola cosa: essere fatto fuori, se possibile nel modo più orrido & splatter immaginabile.
Decisamente spostati sul “monstre” sono i puzzosi e fetidi vampiri di “Midnight Mass”, non indifferente ritorno letterario del sempre azzannante F. Paul (“The Keep”) Wilson, pubblicato in Italia parimenti da Gargoyle con il titolo di “Messa di mezzanotte”. Nella loro cannibalica invasione del mondo, i vampiri di Wilson sono molto più attirati dai sanguinacci trucidi che non dalle pulzelle. Beh, a opera degli umani che non mollano, mal gliene incoglierà: come get it, sucka!
Piccolo grande trionfo di come si affrontano i vampiri “mostre” rimane “30 days of night”, trasgressivo fumetto ideato da Steve Niles & Nigel Templesmith, diventato poi un inaspettato successo cinematografico da quasi ottanta milioni di dollari d’incassi diretto dall’abile David Slade. L’idea di base è tanto semplice quanto sinistra: Barrow, Alaska, l’ultimo avamposto civilizzato del Nord AmeriKa, è alle soglie di un intero mese di notte artica. Da chissà dove (citazione diretta della nave dei topi di Dracula) arriva un tetro cargo maledetto. Dal cargo maledetto sbarca l’orda dei vampiri “monstre”, a cui frega solamente di aprire carotidi. Welcome to Barrow, suckers! Mai realmente scadendo nel clichè ma dando ampio spazio al mattatoio, il lavoro di Slade è la quintessenza di tutti i claustrofobici film d’assedio, un “Precinct 13” con i sukkiasangue al posto dei gangstar (o degli sbirri marci). Eppure, c’è almeno un passaggio magistrale. Marlowe, un nome una garanzia letale – interpretato da un irriconoscibile Danny Houston, figlio del compianto maestro John Houston – sta per cibarsi dell’ennesima vittima implorante la grazia di dio. Quasi con rassegnata tristezza, Marlowe indica verso in cielo, scuote il capo: “No god”. Dopo di che, slurp! Insomma, finalmente anche all’inferno ci siamo accorti che dio è morto;

trend #4) vampiri “epidemic”: per i quali il vampirismo è generato da un virus (in senso lato). Tante zanne, ecchissenefrega delle ali da pipistrello, potenziale capacità di affrontare la luce solare. In sostanza, il “virus vampirico” muta, distorce e inghiotte l’umano.
Fino a oggi, un unico, straordinario precursore di questa inevitabile variazione sul tema: Richard Matheson con il suo capolavoro della SF apocalittica “I am legend”. Portato in film ben tre volte – “L’ultimo uomo della terra” (1964, diretto da Sidney Salkow) “The Omega Man” (1971, diretto da Boris Sagal), “I am Legend” (2008, diretto da Francis Lawrence) – “I am Legend” affronta con incredibile maestria tutte le paure dell’uomo: solitudine, vuoto, alienazione, distruzione, autodistruzione… Non una sola sfumatura dello spettro emotivo è lasciata fuori da questo prodigioso apologo del lato oscuro. Sono davvero vampiri, le creature di “I am Legend”, o sono forse la prossima evoluzione di una razza già estinta? Nel suo libro, Matheson si limita a suggerire una risposta, lasciando al lettore le scelta interpretativa cruciale.
Meno riusciti i film: troppo datato il primo, troppo patriottico il secondo, troppo incompiuto il terzo. Pur con il valido Will Smith protagonista in un inaspettato ruolo duramente drammatico, pur con una fenomenale prima metà nella New York svuotata e spettrale, il terzo “I am Legend” si affloscia nel finale, anzi nei due finali, area dove più la narrazione discosta dal testo di Matheson.
Per contro, quello dei vampiri “epidemic” è il trend che contende ai vampiri “stylè” la supremazia del genere. In questo senso, un contributo determinante – sia visuale che scritto – viene dal fuoriclasse Guillermo Del Toro, sceneggiatore e regista iberico ormai solidamente trapiantato a Holly-weird. Imbattibile artista delle creature insettiformi – straordinari gli effetti dal crepuscolare “Cronos” (1993) fino all’estetizzante “Il labirinto del fauno” (2006) passando per il feroce “Mimic” (1997) – Del Toro inserisce nel tema vampirico una sua personalissima svolta già in “Blade II” (2002). Sta sorgendo una razza di vampiri “infetti”, meglio sterminarli o… modificarli geneticamente in vista della irresistibile ascesa del prossimo vampire empire?
Temeraria tematica biochimica che Del Toro riprende letterariamente in “The Strain” – “La Progenie”, Mondadori, 2009 – primo volume di ambizioso progetto trilogico scritto a quattro mani con Chuck Hogan. Anche qui, il vampiro è l’untore principe di New York.
Per molti versi, il vampiro “epidemic” potrebbe essere la saldatura di contaminazione – oh, come on, THAT again? – con il genere zombi. Emblematici in questa sanguinaria terra di mezzo i due non indifferenti film “28”, giorni e settimane dopo. Quelle orde assatanate e urlanti sono zombi, sono vampiri, o sono qualcosa d’altro?

Well, qualsiasi cosa siano le creature di cui sopra, qualsiasi validità vogliate dare ai trend di cui sopra, almeno su un punto possiamo concordare. Eh, già, proprio come il rock & roll:

Vampire is here to stay, vampire will never die!

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Post del 1° marzo 2010

vampiroSono molto lieto di poter avviare questo dibattito sulla “letteratura dei vampiri”… [intendendo per letteratura dei vampiri quella che ha (e che ha avuto) come protagonisti il conte Dracula and friends...]
Per discutere di questo tema ho invitato alcuni ospiti speciali:
- Simonetta Santamaria (altresì nota con l’appellativo di Simonoir), scrittrice di romanzi horror, la quale ha di recente pubblicato un sanguigno saggio edito da Gremese e intitolato, appunto, “Vampiri. Da Dracula a Twilight
- Laura Costantini, scrittrice e giornalista, la quale ha dichiarato pubblicamente il suo amore per le storie di Stephanie Meyer
- Flavio Santi, autore del romanzo “L’ eterna notte dei Bosconero” (Rizzoli)
- Danilo Arona (autore, tra gli altri, del romanzo “L’estate di Montebuio”, nonché di un contributo sulla nuova edizione di “Io credo nei vampiri” di Emilio de’ Rossignoli), Gianfranco Manfredi (che – tra le altre cose – ha predisposto la bella antologia “Ultimi vampiri”) e Claudio Vergnani (autore di “Il diciottesimo vampiro”)… tutti e tre della scuderia Gargoyle.
Ho poi esteso l’invito a Paolo De Crescenzo (uno dei massimi conoscitori di cultura horror in Italia, nonché editore della Gargoyle), Franco Pezzini (uno dei più preparati tra gli intellettuali specializzati in “letteratura terrifica”).

Premesso che il dibattito è aperto a tutti… altri ospiti potranno essere “invitati” nel corso della discussione.

Di seguito leggerete: la recensione di Francesco Di Domenico al saggio “Vampiri” di Simonetta Santamaria, un articolo sul caso “Twilight” firmato da Laura Costantini, le schede dei libri di Flavio Santi, Danilo Arona, Gianfranco Manfredi e Claudio Vergnani, Franco Pezzini. Nel corso della discussione avrò modo di fornire ulteriori notizie sui suddetti romanzi e sugli ospiti invitati.

Per favorire la discussione ho pensato di porre le seguenti domande:

- Perché la figura del vampiro è così prepotentemente entrata a far parte nell’immaginario collettivo mondiale?

- Il sentimento suscitato dal vampiro è più vicino alla paura o al fascino? E perché?

- Che scarto esiste tra la figura storica del vampiro e quella “trasfigurata” nella fiction letteraria, cinematografica e fumettistica? L’esistenza di questo scarto (ammesso che ci sia) è nota? È importante che lo sia? Che percezione avete, in proposito?

- Cosa è cambiato nella “letteratura vampirica” (ammesso che qualcosa sia cambiato) da Bram Stoker a oggi?

- La letteratura italiana che si “occupa” dei vampiri è all’altezza di quella espressa in altre parti del mondo (quella anglosassone, per esempio)?

- C’è un pregiudizio, da parte dei lettori italiani, a favore dei romanzi sui vampiri di matrice angloamericana (e a svantaggio di quelli scritti in Italia)?

- Avete mai letto “Le notti di Salem” di Stephen King? Che posizione occupa, questo romanzo di King, nella storia della “letteratura vampirica”?

- A cosa è dovuto il successo planetario della saga Twilight della Meyer?

- Rispetto all’età dei lettori: il successo di Twilight è generalizzato o è più generazionale? Rispetto al sesso dei lettori: è un successo “di genere” o è indistinto? Che percezione avete, in proposito?

- In generale: l’horror può esercitare una funzione “esorcizzante” delle paure legate alla quotidianità e alla vita reale?

Altre domande potrebbero essere formulate nel corso della discussione che sarà più che mai improntata sullo scambio, sull’arricchimento reciproco e sulla interattività.

Massimo Maugeri


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Vampiri” – Simonetta Santamaria
Gremese Editore – € 19.50

recensione di Francesco Di Domenico

Quando si è eliminato tutto ciò che è impossibile, quello che rimane,
per quanto improbabile, deve essere la verità.
Sherlock Holmes, “Il vampiro del Sussex” (The Sussex Vampyre, 1927)

Un volo sulla orrifica leggenda dei vampiri – così definisce Simonetta Santamaria – il suo viaggio documentale nell’orrore, quando lo presenta nell’introduzione. Un volo a planare sul mistero che avvolge questa epopea nera degli esseri sanguinari per eccellenza. La promessa di un viaggio a “vol d’oiseau” – a volo di pipistrello, diremmo noi – dove si potranno incontrare le centinaia di sembianze che quest’essere magico assume, e la loro visione nell’immaginario collettivo.
In questa serissima ricerca storiografica – curata con scientifica precisione dalla regina delle scrittrici horror italiane – l’autrice ha percorso tutte le vicende che parlano del fenomeno, mettendole a confronto; e tutte le epoche, andando a ritroso, talmente tanto, che si è fermata solo davanti alla figura più antica di vampiro quella di Lilith, la prima compagna di Adamo, ripudiata in favore della “politically correct” Eva.
Il trattato, scritto con una lievità sorniona e un finto distacco da saggista, narra delle origini del mito attribuendolo ai Sumeri (e siamo al 3500 a.c.), passando per la Mesopotamia, fino a raggiungere la figura mediaticamente più conosciuta, quella del principe Vlad III di Valacchia: Dracula. Ma si scoprirà ben presto che “Vlad l’impalatore” gode di una fama sproporzionata rispetto al suo ruolo effettivo nella leggenda del sangue: ci sono signori della notte ben peggiori.
Girando le deliziose pagine patinate del testo – a cui hanno lavorato direttamente i due figli dell’autrice, l’uno come graphic designer, l’altro come illustratore – si scopre che le tipologie degli esseri della notte sono variabili e con specifiche peculiarità. Non tutti i Vampiri sarebbero ematofagi, alcuni si nutrirebbero di liquido seminale e altri ancora di energia psichica.
Il volo della Santamaria diventa navigazione quando percorre le strade della mitologia, della letteratura, del cinema e perfino delle citazioni dell’alta moda, ma è un viaggio polemico rispetto alla oleografia che ne fanno oggi i vari remake’s, per rivendicare il ruolo dell’orrore che i vampiri ricoprono in tutta la loro storia, che ha poco di edulcorato. La scrittrice, cerca fortemente un’operazione di restauro del mito, dà una chiave di lettura sarcastica delle new age (Twilight, etc.), confrontandole con la severità fantastica e aspra dei veri e spietati vampiri della tradizione.
Il libro è addirittura didattico quando passa all’enucleazione dei modi per sopprimere i non-morti, e persino graziosamente ironico quando fa scoprire che non sempre “il paletto di frassino”può uccidere un Vampiro, perché ci sono esseri che vanno eliminati con della terra di sepoltura nell’ombelico, o perché esistono vampiri con due cuori: e in quale dei due si ficca il paletto?
O ancora, come nel film di Roman Polanski, “Per favore, non mordermi sul collo”, dove ci sono vampiri ebrei, che non riconoscendo la croce e la paura di essa, sono praticamente invincibili.
È incredibile scoprire come, sfogliando l’opera, il mito del vampiro sia presente in tutto il globo terraqueo. L’indagine della Santamaria raggiunge luoghi inusitati e impensabili – come ad esempio le isole Banks, nella lontana Oceania, dove esiste il Talamaur, un vampiro psichico che si nutre dell’energia residuale dei moribondi – svelando che i “non-morti” non sono presenti soltanto in una tradizione letteraria occidentale, che avuto come pietra fondante il “Dracula” di Bram Stoker, ma sostanzialmente nell’immaginario di tutte le culture popolari mondiali.

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IL FENOMENO TWILIGHT
di Laura Costantini

“Zia, questo lo devi leggere!”
È iniziata così, con mia nipote di 14 anni che mi mette tra le mani un tomo rilegato in nero, con due braccia bianche che porgono una mela rossa quanto doveva esserlo quella per cui Adamo fece il casino che fece.
“È un taglio (traduzione: è bellissimo, fico, cool). Troppo bello!”
Leggo la quarta di copertina: vampiri. Mi piace il fantasy, sono un’ammiratrice di Ann Rice e del suo ciclo dedicato a Lestat. E poi a mia nipote glielo devo. Di solito sono io a consigliarle libri da leggere, quindi in base alla legge di reciprocità…
Twilight”, “New Moon”, “Eclipse”. Mi sono sparata la trilogia nel giro di una settimana scarsa, e sono tutti tomi da 500 pagine. Mi si è aperto un mondo e io, che sono ahimè distante dall’adolescenza anagrafica, mi sono riscoperta adolescente pronta a innamorarsi perdutamente di Edward Cullen, il vampiro protagonista della fortunatissima saga dell’americana Stephenie Meyer, portata in Italia nel 2006 da Fazi Editore e approdata, sull’onda di un semplice passaparola, a superare il mezzo milione di copie. Auspici anche i due film (Twilight e Twilight-Newmoon), l’uscita a fine 2008 del quarto libro “Breaking Dawn” che sancisce la fine dell’amore impossibile tra il vampiro Edward e la mortale Bella per come lo conoscevamo, e un sapiente merchandising.
Ha scritto Giorgia Grilli di TTL-La Stampa:
“In tempi di cinismo quale il nostro, questo è un libro sull’amore, e non un banale amore, ma una metafora potente che nasconde un messaggio atavico.”
Visto il lavoro che faccio, non me ne sono rimasta nei panni della lettrice costretta dalla penna della Meyer a sognare di incontrare un uomo bello e perfetto come Edward (che è bello e perfetto soprattutto perché NON è un uomo), ma ho voluto approfondire l’argomento sviluppando una piccola inchiesta nella community di lettori di aNobii.com. Mi sono inserita in un gruppo dal titolo evocativo: Edward e Bella, amore intramontabile! E ho aperto una discussione chiedendo in soldoni: Cosa vi piace della saga di Edward e Bella?
Quelle che vi riporto sono le risposte di alcuni tra i più di 300 membri del gruppo creato dalla twilighter TuCCia. Le età spaziano dai 15 ai 35 anni (ho scoperto di essere il membro anziano del gruppo e adesso tutti mi chiamano zietta): ci sono studenti, donne sposate che hanno coinvolto i mariti, persone adulte, professionisti e impiegati. Insomma, la dimostrazione che la comunità dei lettori si muove compatta e senza pregiudizi di fronte a pagine che sanno emozionare.

Blackrystal ha 16 anni e vive a Roma:
“Immagino che il segreto del successo di T. (sta per Twilight) come pure di Harry Potter sia perché aggiungono fascino e mistero alla vita normale.
Si tratta infatti di romanzi ambientati in luoghi reali, dove gente bizzarra/speciale si mischia con le persone di tutti i giorni. Gli elementi soprannaturali aiutano a colorire un po’ le nostre monotone esistenze.”

Salleggiola di anni ne ha 30 anni e più che all’elemento soprannaturale imputa il successo all’amore:
“Da come lo imposta la Meyer sembra un amore che nella realtà non esiste, un amore assoluto, il VERO amore che oggi noi tutti sogniamo, ma che in pochi trovano. Se lo trovano.”

Dello stesso parere è Singing Angel 23 anni, romana:
“Per me Twilight è stato un ritorno al passato, a quelle emozioni adolescenziali per le quali inizio a essere grandicella.
È stato bello leggere pagine che mi toglievano il fiato e ritrovarmi a fantasticare con gli occhi a cuoricino, cose che nella vita non capitano spesso e dopo una certa età ancora meno. Il tutto condito con quel tocco di soprannaturale che in generale mi affascina sempre e che aiutava a controbilanciare l’effetto a volte zuccheroso della storia d’amore.”

Luce di anni ne ha 20 anni e non è, per sua stessa dichiarazione, una tipa da romanzetto, eppure… “Twilight ha risvegliato quella romantica dolcezza spesso sopita. Non amo i libri il cui fulcro sono le storie d’amore, provo un inspiegabile misto di imbarazzo e fastidio. Ma Twilight non è mai forzato, sdolcinato. E’ avvincente, senza creare quel sentimento di diffidenza dato dalla consapevolezza di leggere una storia fantastica: ti trascina dentro.
Molti hanno storto il naso di fronte all’immagine di me con Twilight in mano. Tu sei quella dei grandi classici. E comunque troppo grande per le storie d’amore. Smentisco. Anche io avevo gli occhi a cuoricino. E me ne vanto.”

L’analisi di Giada, anche lei ventenne, è tanto circostanziata e pensata da sembrare professionale:
“Quando ho preso in mano il libro per la prima volta non mi sembrava un granché, però la novità letteraria che rappresentava per me la figura del vampiro (anche se non quello classico) mi ha incuriosita e ho continuato a leggerlo.
Adesso sono completamente andata. Mi ha lasciato qualcosa dentro, non saprei dire cosa ma quello che c’è nel libro ha saputo trasmettermi delle forti emozioni e ancora oggi non saprei dire se è solo merito della storia o anche della semplicità di questa ragazza che ne è l’autrice. Non che scriva divinamente, ma la passione che traspira dai fogli è reale, palpabile. I profumi, i colori, le immagini si formano nitide e chiare come se io fossi una terza partecipante della storia lì presente!
Rispetto a Rowling la Saga di T. non ha portato grandi novità. Harry Potter ha veramente sconvolto il nuovo modo di pensare la magia, il mondo che ha creato la scrittrice inglese è mille volte più complesso e affascinante ma resta comunque un libro per bambini. I sentimenti privilegiati restano l’amicizia, il coraggio, la fiducia, fondamentali d’accordo ma Twilight portando come tema principale l’amore batte Harry Potter. Non sarà letto da bambini (forse) ma il pubblico a cui si rivolge è maggiore. Un altro punto a favore di Twilight è che Meyer non inventerà assurdità per far tornare umano Edward. Prende i fatti così come sono, Edward ucciderà Bella, in tal modo i fan avranno il loro Happy Ending dove non sarà la vita a trionfare ma la morte.”

V. ha 32 anni e vive a Milano:
“Ho letto Twilight per caso, mi è piaciuta la copertina. Credo poi sia stata la magia delle parole a portarmi dentro la storia. Ho sentito il bisogno di entrarci, di esserci e di provare a vivermi quelle emozioni che nella vita vera purtroppo non ci sono. Mi piace quel mischiarsi di razze diverse, mi piace la sensazione di eternità che esce prepotente a ogni frase d’amore, mi piace quel sospiro di passione continuo, le difficoltà affrontate e le scoperte vissute in due. E’ un amore maturo nonostante siano due ragazzi e forse è questa la particolarità. Un amore VERO e SICURO che va oltre il tempo e lo spazio. Oltre la vita e la morte.”

TuCCia (la fondatrice del gruppo su anobii) ha 16 anni e riporta l’attenzione sulla vera essenza di Edward Cullen:
“Mi è piaciuto molto soprattutto l’inizio che vede il vampiro sotto una luce diversa, con dei punti deboli e combattuto interiormente. Un vampiro decisamente diverso dalla figura classica o dal ritratto che ne ha dato Ann Rice nei suoi libri. La natura di Edward ha creato una grande attrattiva e posto condizioni e restrizioni a una storia d’amore con una umana che difficilmente si sarebbero create in altre circostanze. Se avessi dovuto prendere in mano il libro sapendolo la solita storia d’amore tra ragazzi… probabilmente sarebbe ancora nella mia lista di libri da comprare.”

Celiane ha 19 anni ridimensiona l’aspetto strettamente vampiresco:
“Quello che mi ha colpito è stato la forza, l’assolutezza dell’amore tra Edward e Bella. Edward all’inizio è attratto da lei, ma rifiuta l’attrazione (e qui scatta la figura del vampiro dannato che cerca di essere diverso da ciò che la sua natura gli impone). Poi, però, non resiste, e si arrende a ciò che sente. Compare la forza, l’inevitabilità, del loro amore. Non è semplice amore adolescenziale, ma qualcosa di più forte, di incontrollabile. L’elemento soprannaturale è importante, ma non fondamentale. La scelta poi di raccontare la storia in prima persona, rende tutto coinvolgente. Ti sembra di essere tu stessa Bella.”

Seleya ha 36 anni e fornisce un punto di vista più adulto, ma altrettanto coinvolto:
“Non ho mai amato le storie d’amore o quelle di vampiri. Però adoro, la storia di Edward e Bella. Stephenie Meyer ha saputo ricostruire le ansie, i timori, le speranze e i vissuti dell’adolescenza: leggere Twilight (e successivi), ha permesso a persone un poco più stagionate come me di rivivere la purezza, l’innocenza, l’assolutezza e la follia del primo, unico e incondizionato amore. Ha creato un personaggio (Bella) che, come molte ragazze della sua età, crede di non essere nulla di speciale ma che nell’incontro con l’altro, il suo primo amore, scopre di essere interessante. Bella subisce il fascino del mistero e del pericolo, si sente predestinata ad amare questo essere così diverso, bellissimo e letale, che incredibilmente per lei la corrisponde.
Le pagine del libro ci rendono partecipi di un sogno che si realizza.
Meyer inoltre, nel disegnare il personaggio di Edward, ha creato questo essere tormentato, immortale e perfetto, che si strugge per la sua anima perduta, e che alla fine cede alla debolezza umana per eccellenza: l’amore.
E qui rivela la sua umanità: pur sapendo che è la scelta sbagliata, che mette a repentaglio la sua famiglia (per non parlare della vita di Bella), alla fine si arrende e non può far altro che amarla.”

Alessia ha 26 anni ed ha coinvolto nell’epidemia di Twilight anche il marito (28 anni) e due cugine. Tutti entusiasti, soprattutto del messaggio che i libri della Meyer divulgano:
“La storia non avrebbe senso se Edward avesse solo pregi e il fatto che sia un vampiro non è così fondamentale. Quello che conta è la scelta politicamente corretta che entrambi compiono. Potevano essere lei americana e lui iracheno o afgano (o altre centinaia di casi del genere). Importanti sono le differenze iniziali tra i due, quelle che sembrano insormontabili, i pregiudizi di base da entrambe le parti.
La morale (come nelle favole per bambini) è che non importa cosa è la persona che hai di fronte ma chi. Credo sia questo il messaggio da recepire.”

Lettori. Comuni lettori che hanno saputo andare oltre la suggestiva copertina, oltre la scarsa pubblicità. Lettori che si sono lasciati guidare dal passaparola, dal consiglio di un amico, dalle recensioni su Internet, scritte da gente come loro e non certo da critici letterari con il patentino. Lettori che sanno leggere ben oltre le semplici righe sulla pagina, che sanno riflettere su quel che leggono. Saranno forse ancora pochi i lettori italiani. Ma dopo averli ascoltati, interrogati, punzecchiati (e vi assicuro che le voci erano molte, ma molte di più) non avrò scoperto il segreto di Twilight ma credo di aver capito che la rinascita, quanto mai necessaria, dell’editoria italiana passa soprattutto attraverso loro: i lettori.

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L’eterna notte dei Bosconero di Flavio Santi (Rizzoli)

È notte. Siete in un paese straniero. Non siete nel vostro tempo. Un ambiguo personaggio vi avvicina in una locanda e inizia a raccontarvi una storia di indicibili orrori, di mefitici miasmi e di presenze demoniache. E, più di tutto, voi siete J.W. Goethe: l’autore che rivoluziona la letteratura mondiale, l’alchimista, lo scienziato – uno che dovrebbe sapere tutto. In quella misteriosa e appassionante vicenda di sangue sparso e teste mozzate tutto può essere vero e tutto può essere falso. Il racconto è talmente ipnotico che non riuscite più a sottrarvi, vi trascina in un viaggio iniziatico e terribile, in una storia che non può essere detta, per il terrore che irradia, se non quando tutto è finito. E infatti quello che vi apprestate a leggere è l’ultimo libro di Goethe, il suo più tremendo, il capitolo assente dal celeberrimo “Viaggio in Italia”. La vicenda dei nobili decaduti Bosconero ruota attorno alle sospette catatonie dell’erede Federigo, al parricidio che ha condotto in manicomio suo fratello, alle sparizioni improvvise del servo Barcellona e del precettore Blasco Telamonio, agli efferati delitti e agli sconvolgenti ritrovamenti di resti umani. Sullo sfondo, una Sicilia borbonica, pestilenziale, epica e fantastica, strapiena di personaggi che vanno dal grottesco all’inquietante.

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L’estate di Montebuio di Danilo Arona (Gargoyle)

Nei primi giorni di gennaio del 2008, dalle acque gelide di un torrente sulla cima del Monte Buio, presso l’Appennino ligure, emerge il cadavere mummificato di una ragazzina scomparsa da diversi decenni seminando sgomento tra i pochi abitanti rimasti a vivere nell’omonimo piccolo borgo, sito ai piedi del monte. Le indagini vengono affidate a un carabiniere e un anatomopatologo che, in breve tempo, collegano la raccapricciante scoperta al suicidio del famoso scrittore horror Morgan Perdinka, avvenuto un mese prima nel suo loft di Milano.
L’inchiesta procede a cerchi concentrici: all’infittirsi di inquietanti coincidenze e macabri delitti, si sovrappongono, sapientemente combinati, percorsi introspettivi affidati a più voci che trovano il proprio culmine in un inquietante evento avvenuto nel lontano 1963. Il Male irrompe tumultuoso da un passato lontano trasbordando tutta la sua antica energia. Assoggettate al suo inesauribile flusso umanità appartenenti a secoli diversi della storia, tutte parimenti irretite in un dramma collettivo che sembra destinato a ripetersi all’infinito.
Ma Morgan Perdinka voleva davvero morire? O il suo gesto è stato semplicemente funzionale alla scoperta di una verità che non poteva trovarsi se non approdando in un mondo altro?
Benvenuti nello spazio quantico dove il tempo non ha più alcuna importanza e il Male è più reale che mai…

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Io credo nei vampiri di Emilio De’ Rossignoli (Gargoyle)

La trama. Emilio de’ Rossignoli - intellettuale che non perse mai di vista l’importanza della radice popolare della cultura – è il brillante cicerone di un viaggio suggestivo dove sfilano vampiri, lemuri, incubi, succubi, golem, mummie, licantropi, zombie, fantasmi, e dove storia, mito e cronaca si intrecciano in un raffinato montaggio di argomenti e interpretazioni. Una storia organica del vampirismo dalle origini ai nostri giorni, dal trascinante furore enciclopedico. La prosa limpida e lo stile sapientemente ironico conferiscono al testo una solida tenuta narrativa così che, pur trattandosi di un saggio, Io credo nei vampiri si legge come un romanzo, e proprio le pagine che sembrerebbero datate sono tra le più interessanti per i corsi e ricorsi di cui la storia del costume nostrano sembra essere popolato .

Il libro. Pubblicata dall’editore Luciano Ferriani per la prima volta nel 1961 e da allora mai più ristampata, Io credo nei vampiri è un’opera eccezionale che è stata e resta tuttora tra i primi e rari contributi non accademici sul vampirismo, dove studio e intrattenimento si accordano felicemente. Fu sulla scia dell’enorme successo mondiale della pellicola Dracula di Terence Fisher (Horror of Dracula, 1958) - qualcosa di molto simile a quanto sta accadendo ora con il romanzo Twilight di Stephanie Meyer e con l’omonimo film – che ’de Rossignoli maturò l’idea di scrivere Io credo nei vampiri.
Nel suo saggio, l’autore si mette letteralmente al servizio di un tema che, nelle sue mani, diventa straordinariamente fertile, e scandaglia tutto lo scandagliabile attorno ai vampiri, che vengono analizzati da un punto di vista cinematografico, letterario, musicale, pittorico, religioso, psicopatologico, mitologico, politico, scientifico, biologico, botanico, giurisprudenziale e di costume attraverso un avido e ricercato saccheggio di aneddoti, dicerie, leggende, credenze, folclori locali, visioni, formule e maledizioni arcane, cronache, trattati, rapporti ufficiali, testimonianze, antichi dizionari, libri e giornali. Oltre a offrire un’occasione di conoscenza unica e dai risvolti inattesi, de’ Rossignoli mette i lettori davanti alla loro disponibilità a credere, a fidarsi, sfuggendo qualunque paura nei confronti del vampiro, una figura avvolta da pregiudizi solo in quanto diversa.
Autorevolmente e piacevolmente persuasivo, Io credo nei vampiri è un libro che dà molte risposte sul senso del terrore nell’arte e nella vita.

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Ultimi vampiri di Gianfranco Manfredi (Gargoyle)

Con l’antologia Ultimi vampiri, pubblicata da Feltrinelli nel 1987, Gianfranco Manfredi si impone definitivamente all’attenzione della critica, accrescendo il suo già fitto pubblico di lettori. Sfuggendo a ogni prevedibilità e cliché, in una trascinante tensione verso l’inatteso, Manfredi si mette dalla parte dei vampiri: specie vivente con la stessa dignità degli umani, che ha attraversato la Storia parallelamente ad essi. Anche in questa extended version, arricchita di nuovi contenuti sia di carattere narrativo - tra cui spicca il racconto lungo “Summer of Love” - sia saggistico, e di una vivace e acuta prefazione dello scrittore Tullio Avoledo, pulsa il “realismo visionario”che caratterizza tutta la letteratura di Manfredi: non c’è nulla di “dato” che non debba essere anche “immaginato”. L’autore si distanzia dalla sintesi operata da Bram Stoker con il personaggio di Dracula, concentrandosi sulle diverse specie di vampiri presenti nei folclori locali. Manfredi mette a confronto i vampiri delle leggende popolari con momenti cruciali della storia, rivelatisi inevitabilmente fasi violente di trasformazione che hanno segnato l’emarginazione e la sconfitta di una specie, spesso attraverso veri e propri genocidi. Discriminati, sradicati, apolidi, ribelli, isolati, irriducibili cospiratori, eretici redivivi, militi uccisi resuscitati sono questi i vampiri che Manfredi passa in rassegna, devianti di un ordine sociale che li ha sempre tenuti ai margini a causa della cecità del pregiudizio.
La sofisticata eterogeneità delle cifre stilistiche adottate poggia su una base ricchissima di riferimenti storici, filosofici (i Discorsi a tavola di Martin Lutero, il Dizionario filosofico di Voltaire), teologici (De Daemonialitate, et Incubis et Succubis di Ludovico Maria Sinistrari e le Dissertations sur les vampires di Domi Augustin Calmet), letterari (Don Chisciotte di Cervantes e Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki) e antropologici, oltre che su un originale uso delle cronache del tempo (per esempio i resoconti criminali della West Coast americana durante l’epoca hippie). Avventure, favole simboliche, resoconti storici, frammenti onirici, istantanee di umorismo nero si amalgamo in un ordito di grande potenza evocativa a dimostrazione delle infinità possibilità del narrare

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Il diciottesimo vampiro di Claudio Vergnani (Gargoyle)

A Modena uno squinternato gruppo di individui dai vissuti più diversi – body builder, operai, profughi, presunti agronomi, attori porno, giocatori di scacchi – viene assoldato da un’enigmatica donna, denominata “l’amica”, per uccidere vampiri. Se di giorno la situazione è sotto controllo perché i succhiasangue restano immobili, nascosti in ambienti degradati designati a covi – case abbandonate, cisterne, chiuse di fiume, palazzi fatiscenti –, di notte le orrende e feroci creature escono allo scoperto attaccando soprattutto soggetti indifesi come vagabondi, immigrati e persone sole. È allora che bisogna vigilare e agire.
Tra sinistri sopralluoghi, massacranti turni di guardia, visite a un’antica e misteriosa Rocca dove si compiono sconvolgenti rituali, suggestive visioni tra le acque di Venezia, la squadra di moderni Van Helsing fa la conoscenza di Grimjank, il 18° vampiro…

Pur raccontando una storia vampirica tout court, il testo ha un impianto di forte realismo hardboiled: Vergnani parla di vampiri in una maniera tale da persuaderci che questi potrebbero davvero entrare a far parte della nostra quotidianità: l’elemento sovrannaturale, infatti, si combina senza stridere con la routine di persone sui generis sì, ma comunque normali.
Dunque, come sarebbe se i vampiri fossero intorno a noi, nel pieno dell’attuale way of life tra telefoni cellulari, SMS, Internet? E come potrebbero venire contrastati dalla gente comune, che ha bisogno di dormire, mangiare, che ha il mal di testa, che talvolta alza un po’ il gomito o si scopre depressa?
È sullo sfondo di una plausibilissima precarietà postmoderna che Vergnani fa entrare in scena i suoi repellenti revenants: in un contesto già di per sé ansiogeno, i vampiri diventano un ulteriore motivo di malessere ma non l’unico né il più importante.
Più che i vampiri in sé, infatti, la storia raccontata da Vergnani è incentrata sulla loro caccia: elemento vitalistico e vivificante a un tempo nonché vera e propria modalità esistenziale. Deputato all’ingrato compito, un gruppo di scanzonati mercenari, disillusi ma non privi di senso etico.
Tra frammenti di horror crudo e momenti di incisiva introspezione, Vergnani ha scritto un intenso romanzo corale dove il valore rigenerante del gruppo torna a essere protagonista oltre ogni tentazione individualista.

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The dark screen. Il mito di Dracula sul grande e piccolo schermo” di Franco Pezzini e Angelica Tintori (Gargoyle)

Nessun personaggio, reale o di fantasia, ha conosciuto più trasposizioni sullo schermo – cinematografico o televisivo – del Conte Dracula. La creatura di Bram Stoker precede di gran lunga, in tale primato, Sherlock Holmes (insediato saldamente al secondo posto). Quali i motivi di un successo così clamoroso e longevo? Come si è evoluta la figura del Principe delle Tenebre dagli albori del cinema all’era degli effetti speciali? Qual è il filrouge che lega cineasti e interpreti tanto diversi tra loro, sconfinando nel musical, nel porno, nella pubblicità? The Dark Screen non è, attenzione, uno dei soliti libri di cinema, ricchi di foto e illustrazioni cucite insieme con un commento più o meno originale e corredate da un elenco di “schede” che oggi ogni fan può autonomamente (e gratuitamente) scaricarsi da Internet. Qui, il mito è analizzato nelle sue radici più remote e passato in rassegna in maniera completa e rigorosa, con competenza profonda e amore sviscerato, componendo un quadro di insieme probabilmente unico nell’ambito della saggistica su Dracula.

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Affettuosamente pungolato dagli amici dell’ufficio stampa della Newton Compton, inserisco questa nota sui «grandi libri» della casa editrice in questione e sulle connessioni con la figura “classica” del “vampiro”.
(Massimo Maugeri)

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I VAMPIRI SECONDO NEWTON COMPTON

Fondata a Roma nel 1969, la Newton Compton nasce con uno slogan destinato, negli anni a venire, a rappresentare, oltre che una linea editoriale, anche una filosofia aziendale: «I grandi libri dal piccolo prezzo».
I «grandi libri», questo è evidente, coincidono con quei testi – “i classici” – capaci di restare attuali con il passare del tempo; capolavori, all’interno dei quali, si fa immediatamente strada uno dei protagonisti assoluti dell’immaginario collettivo: il vampiro. Di quanto questo personaggio fantastico sia capace di catturare le angosce (ma anche i desideri) dei contemporanei, la Newton Compton se ne rende conto nel momento in cui, nel corso degli anni Settanta, dà alle stampe il capolavoro a cui, unanimamente, si riconosce il merito di aver fondato il genere: “Dracula” di Bram Stoker; creazione fortunata ma non esattamente isolata all’interno del panorama della letteratura vittoriana. Come dimenticare, infatti, che il libro di Stoker era stato preceduto dal “Vampiro” del medico italo-inglese John William Polidori, tutt’ora nel catalogo Newton all’interno della fortunata antologia “I grandi romanzi gotici”, curata da Riccardo Reim. E come dimenticarsi, restando sul terreno dei classici, del fondamentale “Carmilla” di Joseph Sheridan Le Fanu?
La celeberrima novella che lo scrittore di Dublino ha dedicato alla donna-vampiro è stata appena ripubblicata dalla Newton Compton a cura di Gianni Pilo, uno dei massimi esperti della narrativa fantastica e dell’orrore in Italia. È proprio a Gianni Pilo, d’altra parte, che si deve la traduzione di molti classici della letteratura sui vampiri. Un lavoro di ricerca che, nel 2000, ha prodotto, tra le altre cose, “Il grande libro di Dracula” (appena ripubblicato nella collana Nuova Narrativa): un’antologia che, al suo interno, spazia dall’immortale Bram Stoker fino all’importante scrittrice americana Nancy Kilpatrick. La Kilpatrick, nome di riferimento nella galassia dei romanzi sugli eredi del “conte pallido”, è presente nel catalogo Newton Compton (sempre nella collana Nuova Narrativa) con tre autentici best-seller: “La notte dei vampiri”, “La guerra dei vampiri” e “Gli amori del vampiro”; una trilogia capace di vendere oltre cinquantamila copie nel nostro paese, recuperando quell’elemento di sensualità e di erotismo che, da sempre, caratterizza le imprese dei discendenti di Dracula.
Nel segno del vampiro, la ricca produzione di antologie non può che confermare l’eccellente stato di salute dell’uomo-pipistrello. Tra le raccolte dedicate ai succhiatori di sangue, il catalogo Newton Compton comprende l’appassionante “Vampiri!”, curato dall’esperto inglese Stephen Jones che –ripensando la figura di Dracula – ha unito nelle stesse pagine la penna di un Edgard Allan Poe e l’inventiva di un Clive Baker. Nomi decisamente altisonanti, poi, sono quelli di Stephen King, Woody Allen e Anne Rice: soltanto alcuni degli autori raccolti nell’antologia “La maledizione del vampiro”, a cura dello storico inglese Peter Haining.
La lista dei vampiri, all’interno del catalogo Newton Compton, è lunga ma non si ferma qui! Nel 1997, la casa editrice romana pubblicava “Il patto con il vampiro” di Jeanne Kalogridis: la narrativa dell’autrice californiana conquistava immediatamente i lettori italiani che, nel giro di pochi mesi, fecero salire a quota ottantamila il numero di copie vendute. Un successo che decretava d’autorità il proseguimento della saga della Kalogridis portando in libreria anche “I figli del vampiro” e “Il signore dei vampiri”: due nuovi bestseller per una vendita complessiva superiore alle duecentocinquantamila copie!
Oggi la saga della Kalogridis è raccolto in un unico volume: “I diari della famiglia Dracula”; un vero e proprio punto di riferimento per tutti gli appassionati. Gli stessi lettori che, recentemente, hanno accolto con grande soddisfazione la pubblicazione di “Cacciatori di vampiri” di Colleen Gleason: una nuova serie che ha per protagonista una famiglia – i Gardella – votata al controllo degli esseri succhiasangue che infestano il pianeta. È stato pubblicato di recente – della Gleason – “Il bacio del vampiro” (2010).

Ambientati tra ragazzi adolescenti, invece, sono i libri della nuova stella del firmamento del new gotich, la statunitense Lisa J. Smith. La Smith ha firmato “Il diario del vampiro”, una serie davvero intrigante, iniziata con la pubblicazione del primo volume, “La lotta”, e, in attesa de “La messa nera”, atto conclusivo della saga, proseguito con “Il risveglio”. E poi… “La setta dei vampiri“…

Ma quali sono le ragioni del successo editoriale dei vampiri?
Le risposte date nel tempo a questa domanda sono le più svariate. C’è stato chi, osservando l’assetto geopolitico, ha creduto di scorgere delle analogie tra il sistema di produzione capitalistico e l’atto di succhiare il sangue. Ancora, rincorrendo il tema del sangue, c’è chi ha messo in rilievo l’analogia tra il liquido ematico e il sesso. Altri ancora, alla luce del polimorfismo del vampiro, si sono soffermati sull’endiadi vampiro/liberazione della donna o vampiro/identità adolescenziale. Mentre la discussione resta aperta, una cosa è sicura: dal punto di vista dei lettori, la “fame” di vampiri è davvero tanta… strano destino per creature venute al mondo per cibarsi di sangue!

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AGGIORNAMENTO DEL 24 LUGLIO 2010

massimo-maugeriPubblicai questo post il 1° marzo del 2010. Da allora la discussione non si è mai interrotta, grazie agli interventi di tanti esperti/appassionati di letteratura vampirica (e letteratura horror, in generale).

Il merito principale è senz’altro di Gianfranco Manfredi (nella foto in basso), vera e propria colonna della letteratura dei vampiri prodotta in Italia (e non solo).
Manfredi ha davvero preso a cuore questa discussione, e grazie ai suoi interventi e ai suoi stimoli questo post veleggia oltre quota 2.050 commenti e – adesso posso dirlo – è certo che un giorno diventerà un volume cartaceo (si è fatto avanti un piccolo editore siciliano).

Per ringraziare Gianfranco Manfredi metto in risalto il suo intervento odierno che, per certi versi, rilancia la discussione.
Massimo Maugeri

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LA LETTERATURA DEI VAMPIRI E DI ALTRI ORRORI POST-2000
di Gianfranco Manfredi

gianfranco-manfrediDato che in tutti i sensi siamo ormai post-2000, c’è una questione che vorrei sottoporre a tutti e di cui, mi pare, non si parla mai. Siamo tutti d’accordo sul fatto che al centro dell’horror c’è la creazione (anzitutto letteraria) del Mostro, della Creatura. Ogni grande epoca dell’horror si è caratterizzata dalla comparsa di nuove Creature. Quelle Innominabili di Lovecraft erano, all’epoca, e sono rimaste a lungo, un’innovazione assoluta. Poi abbiamo visto spuntare gli Alieni, dai marziani verdi fino ad Alien, gli androidi (dai primi robot-giocattolo ai Terminator) . Nell’horror, come si è detto, la zombie plaga è sicuramente un fenomeno nuovo (anche se permanente da quasi cinquant’anni) ed espressivo del clima della nostra epoca. I fantasmi tecnologici giapponesi avevano fatto ben sperare, ma l’iperproduzione li ha schiantati in fretta. I vermoni giganti di Tremors sono stati un cult , ma chiuso in sé, non letterario e inquadrabile nel seriale minore. Per il resto, a parte qualche affioramento piuttosto unico e difficilmente replicabile (IT di Stephen King) gli autori horror contemporanei sono rimasti, tutti, sui filoni classici e sulle classiche creature in infinite riproposizioni rimodulate : vampiri, nuovi mostri di frankenstein da biologia avanzata, dottori e/o scrittori schizzati dalla personalità multipla, maniaci seriali alla Psycho sempre più “realistici” e ispirati alla cronaca criminale o sempre più surreali come Jason, Freddy e company, uomini lupo tra il satirico e il fumettistico, e infine streghe da Carrie a Wither… Ora: cosa significa questo? Gli scrittori non sono più capaci di inventare Creature che corrispondano in modo del tutto inedito e nuovo alle paure contemporanee? Sentono il bisogno di rimeditare sulle fonti originali (è il mio caso, lo ammetto)? Oppure preferiscono appoggiarsi sulla tradizione perchè è più comodo, più facile, più abituale anche per il pubblico, e comunque la creazione di una figura di Mostro veramente mostruosa perché Inedita è qualcosa di superiore alle loro forze e alla loro capacità espressiva? Parlando di horror (che editorialmente, da anni, va alla grande) stiamo parlando di una letteratura ancora vitale e creativa, o possiamo considerarlo in qualche misura istituzionalizzato come il Rock Imperiale della nostra epoca , abissalmente lontano ormai, dalle sue origini “wild” e provocatorie? Queste sono tutte domande cui non ci piace rispondere… sia perchè la risposta è difficile, sia perchè ci interrogano sulla nostra reale capacità/volontà (di scrittori e di lettori) di affrontare temi che riescano a turbarci davvero, nel profondo. E non per semplice, quanto apprezzabile, spasso e divertimento.

Gianfranco Manfredi
24.07.2010

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AGGIORNAMENTO DEL 3 GENNAIO 2011

Ecco un nuovo tassello di questa discussione dedicata alla “letteratura dei vampiri e di altri orrori”: l’uscita del nuovo libro di Franco Pezzini e Angelica Tintori. Si intitola: “Peter & Chris – I Dioscuri della notte” (Gargoyle books, 2010). Segnalo, tra i commenti, gli ottimi interventi del solito Gianfranco Manfredi. Di seguito, la scheda del libro. La rassegna stampa la trovate cliccando qui.
Massimo Maugeri

Poche coppie dello schermo hanno influito tanto profondamente sull’immaginario collettivo quanto quella formata da Peter Cushing e Christopher Lee. Nel corso delle rispettive, lunghe carriere, i due attori si sono cimentati nei piu’ svariati tipi d’interpretazione, ma la consacrazione a icone internazionali e’ avvenuta sul terreno dell’horror. A partire dai primi e ormai leggendari film in coppia per la Hammer, The Curse of Frankenstein (1957) e Dracula (1958), e via via di pellicola in pellicola, Cushing che muore nel ‘94, e Lee ancora oggi attivissimo a quasi novant’anni hanno saputo intessere un rapporto professionale e personale di profonda amicizia. Caratterialmente dissimili ma complementari: dotato di straordinario calore umano Cushing, aristocraticamente burbero e affettuoso Lee. Diversi per vissuto e ambizioni, e tuttavia accomunati da una tenacia che affiora nei rispettivi personaggi. Capaci di esprimere una comune britannicita’ anche nei frequenti ruoli stranieri o esotici. Entrambi eclettici e ricchi di doti artistiche (Cushing modellista, pittore, ornitologo; Lee cultore di storia, golfista, viaggiatore), questi Dioscuri della notte in transito incessante sullo schermo tra castelli e sepolcri rappresentano una testimonianza dello spessore professionale e personale che puo’ star dietro a film etichettati come ‘popolari’. Mai consumate in stereotipi, le maschere offerte da Cushing & Lee hanno spalancato all’Occidente del secondo Novecento una rinnovata galleria di mostri gotici. Con loro si e’ affermato un sofisticato sistema simbolico di enorme impatto sul pubblico ancora nell’eta’ di Twilight, come del resto testimonia un diffuso e appassionato culto che corre tuttora sul web, a riconoscere nella storia di questo tandem un’appassionante epopea umana e cinematografica, ma insieme un capitolo fondamentale delle mitologie dell’uomo moderno.

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NON SONO MAI PARTITO, di Pietro Treccagnoli http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/04/24/non-sono-mai-partito-di-pietro-treccagnoli/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/04/24/non-sono-mai-partito-di-pietro-treccagnoli/#comments Fri, 24 Apr 2009 14:11:10 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/04/24/non-sono-mai-partito-di-pietro-treccagnoli/ Pietro Treccagnoli vive a Napoli e lavora a «Il Mattino». Ha scritto “Non lo chiamano veleno” (Avagliano, 2006). “Non sono mai partito” è il suo secondo romanzo (Cento Autori, pagg. 112, euro 10).
In questo nuovo libro Treccagnoli tratteggia un viaggio a cavallo tra i favolosi anni Sessanta e un ’77 troppo presto dimenticato, tra terroristi e figli dei fiori, tra un passato di rivoluzioni vere o sognate e un presente da reality show.

Su l’Indice dei libri del mese Vincenzo Aiello ne parla così:
«Dopo l’esordio narrativo del 2006 con Non lo chiamano veleno (Avagliano), dove la mafia dei Casalesi veniva vista – ante Gomorra – sotto la lente narrativa di un noir livido e ironico, con Non sono mai partito, Pietro Treccagnoli torna a parlarci, con la sua lingua saporitamente narrativa, di questo oggi fatto di reality finti e di finte realtà. L’autore fa questo ricorrendo a due registri narrativi. Il primo vede protagonista il commissario Ascione in pensione che cerca, su invito di un padre, il di lui figlio Serafino, un fricchettone del 1977, che al momento del rapimento Moro era sparito da Giugliano per andare a liberare lo statista democristiano. Nell’altro controcanto metaletterario si trova un cinquantenne che, dopo trent’anni da quegli avvenimenti, spinto da una figlia quindicenne, si spinge a ricordare i suoi sogni che diventarono presto bisogni”. (…) Il pastiche dialettale si sposa con un buon italiano, in un esperimento narrativo, che al di là dei fatti narrati, è la vera cifra di questo alfabeto giuglianese che sa di mele annurche e di scampie».

Ne parliamo in maniera approfondita con lo stesso autore e con Simonetta Santamaria e Francesco Di Domenico, che hanno recensito il libro e mi aiuteranno ad animare e moderare la discussione.

Vi propongo un paio di domande per avviare un dibattito collaterale sui temi affrontati dal libro:
Fino a che punto è possibile liberarsi dei fantasmi del proprio passato?
Ma poi è giusto tentare di liberarsene?
Non è meglio conviverci, correndo il rischio di dover ammettere a se stessi: non sono mai partito?

Di seguito, le recensioni della Santamaria e di Di Domenico.

Massimo Maugeri

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NON SONO MAI PARTITO
recensione di Francesco Di Domenico

Un pesante scarpone, che calpesta un pesante passato, fa’ da prima di copertina a questo viaggio in una valigia mai disfatta, di Pietro Treccagnoli.
Un libro a due voci narranti, che viaggiano parallelamente nel tempo di ieri, quello dei 50enni di oggi, a cui sembra mancare, paradossalmente, proprio il passato, quello prossimo.
Sono i 20enni del ’77, l’ultima generazione politica, una generazione fluida, di cerniera con quella sessantottina, e l’altra, dell’edonismo e del riflusso, quella della Milano da bere e della vita, “da bere”.
Le voci che si rincorrono e si accavallano sono, una: quella del Commissario Ascione, personaggio già usato nell’opera d’esordio del giornalista Treccagnoli (“Non lo chiamano veleno – Avagliano Editore”).
Un poliziotto in pensione, arido e cattivo, che per scacciare la noia del riposo forzato s’incammina svogliatamente in un’indagine non autorizzata, un’inchiesta che serve solo a se stesso per sentirsi vivo. Attraverso la ricerca di un uomo, scomparso 30 anni prima, “Ascione” scopre di essere sopravvissuto solo alla sua blanda vita.
L’altra voce narrante, che si va ad incastrare nell’inchiesta su di una scomparsa di un ragazzo, figura retorica di “quel tempo”, possiamo ben credere che sia quella dell’autore che entra nel passato per trovare risposte a domande mai poste su quella che è anche la sua generazione, scoprendo che, quelli dell’77, differentemente dai fratelli maggiori, nelle loro battaglie, tra goliardia e falso rivoluzionarismo, non rinnegavano il padre biologico, ma quello politico: il mastodonte Pci.
P.T. Cerca di penetrare nei meccanismi culturali che fecero di quella fascia giovanile, la prima delle “generazioni perdenti”. La ricerca della libertà culturale, senza la sofferenza della lotta, che era stata bandiera del ’68 (ce n’est q’un debut, continuon le combat…) fu uno dei pilastri della “generazione degli sballati”. Da Bologna a Roma, i ragazzi del ’77, inventarono forme di proteste a due dimensioni, o estremamente goliardiche, o fortemente violente, con la tragica deriva terroristica. Quello fu anche il confine tra la cosiddetta “violenza proletaria” e la neo “violenza tecnologica”, quando Toni Negri affermava: “…la geometrica bellezza del Sequestro Moro…”
“Non sono mai partito” è due cose, un amarcord personale e politico allo stesso tempo, con nessuna verosimiglianza con un concomitante libro uscito su Bologna di Brizzi.
Treccagnoli penetra in quel periodo con la cognizione di chi “c’era”, usando con orgoglio il linguaggio delle radici e il napoletano dell’interland, intercettando quello che si parla oggi nei suburbi partenopei, dove il rifiuto della lingua nazionale è anche sinonimo di rivolta, non politica, ma di contiguità con lo “stato che funziona”, quello del malaffare.
E’ un libro coraggioso dal punto di vista linguistico, vi si legge il frutto di una ricerca, ricca anche di memoria, sarà sicuramente comprensibile, come lo è stato il milanese di Dario Fò per noi del Sud e il linguaggio di Troisi per il Nord.
Francesco Di Domenico

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NON SONO MAI PARTITO
recensione di Simonetta Santamaria

Leggendo questo libro, per prima cosa mi sono detta: ma il passato non passa mai? Perché è così, gente: il passato è continuamente tra noi, rievocato, celebrato, spesso rimpianto. Eternato, si dovrebbe chiamare, in realtà.
Ed è proprio quella sensazione di un’immersione nel passato, anzi di una serie di immersioni, che ha regnato per tutta la durata di Non sono mai partito, il secondo romanzo del giornalista napoletano Pietro Treccagnoli. Un passato neppure troppo lontano, quello che appartiene agli anni ’70, almeno per noi che li abbiamo vissuti e che a dirlo, questo numero, ci pare ancora ieri. Tutti incentrati sull’omicidio di Aldo Moro, le Brigate Rosse, Autonomia Operaia, la Democrazia Cristiana, le radio libere, le canzoni alternative, gli spinelli. Gli Anni di Piombo. I giovani che non hanno vissuto il ’68 ci si sono potuti rifare; anche loro volevano cambiare il mondo, imporre i loro ideali, darsi alla politica sovversiva. In città come in provincia, alla periferia della Rivoluzione.
E tra questi c’era Serafino, il co-protagonista del romanzo che invece, in quel fatidico 1978, si mette in testa di sfidare le BR e liberare Aldo Moro. E sparisce. Considerato da tutti uno “fuori”, Serafino incarna il vero anticonformista di quell’epoca, il libero pensatore, quello che remava da solo col suo canottino nell’enorme mare delle convenzioni. E, a distanza di trent’anni, un padre che non si dà pace coinvolge in una sorta di ricerca postuma il sonnolento commissario Ascione che il suo mestiere l’ha fatto e ora vorrebbe godersi la pensione “senza fa’ ‘nu cazzo”. In realtà Ascione è un rozzo individuo asociale e omofobo che resta pur sempre un poliziotto, anche se in disarmo, e che attraverso Serafino rivive i suoi stessi ricordi di quel ’78 in cui sentiva anche lui di essere senza fili, avere il mondo in mano e l’eternità in tasca. Una gimcana tra l’America on the road e l’Italia dei rioni, Eric Clapton e Claudio Lolli, Oggi le Comiche e un reality dall’impronta politico-sociologica che vuole ispirarsi al rapimento di Moro per dare ai cinquantenni di oggi – quelli stravaccati sul divano in pantofole e telecomando – un po’ di come eravamo, una presa di amarcord che scuota i neuroni e riattivi le sinapsi e che serva a far a dire ai loro figli, non senza una punta di vanto: io c’ero.
Senza per questo volergli affibbiare delle etichette, definirei Non sono mai partito un noir partenopeo, con le sue incursioni marcate in un dialetto che sfocia spesso nello slang di periferia e che, se da un lato rischia di togliergli leggibilità se a leggerlo non è un napoletano, dall’altro lo inquadra con precisione fotografica. Un tocco molto apprezzato dalla sottoscritta, devo ammettere. Ho trovato nella genuinità di questo romanzo il suo punto di forza: quella dei suoi personaggi, del loro linguaggio, la scelta di ricorrere nelle giusti dosi anche al lessico grezzo che i ragazzi di ieri definivano semplicemente anticonformista. Niente è cambiato, se non dei numeri su una data.
E altrettanto apprezzata è stata la sorpresa della splendida playlist che compare a pagina 105: già pillole delle canzoni di quegli anni si spandono in tutto il testo miscelandosi ai dialoghi e alle descrizioni, a volte creando gustosi calembour del tipo “Santa voglia di vivere e dolce venere di rimmel. E rimmélle, rimmélle” (E dimmelo, dimmelo). Ma vederle tutte lì, in fila, ti fa davvero venire una attacco di senile tenerezza a ripensare a quel cantautore o a quel testo mai dimenticato ma magari solo riposto nello scantinato della memoria.
Perché il passato non passa mai davvero.
Simonetta Santamaria

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RECENSIONI INCROCIATE n. 5: Francesco Di Domenico e Enrico Gregori http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/03/recensioni-incrociate-n-5-francesco-di-domenico-e-enrico-gregori/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/03/recensioni-incrociate-n-5-francesco-di-domenico-e-enrico-gregori/#comments Fri, 02 Jan 2009 23:33:06 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/03/recensioni-incrociate-n-5-francesco-di-domenico-e-enrico-gregori/ Nuova puntata delle “recensioni incrociate”.

I due autori/recensori invitati sono Francesco Di Domenico e Enrico Gregori.

I libri oggetto delle recensioni sono “Storie brillanti di eroi scadenti” (di Francesco Di Domenico) e “Doppio Squeeze” (di Enrico Gregori).

Due libri diversi che ci vengono qui (reciprocamente) presentati da due scrittori che si conoscono bene e… si stimano? (lo vedremo).

Il libro di Di Domenico è composto da una serie di racconti umoristici alla Woody Allen/Groucho Marx, con prefazione curata da Maurizio de Giovanni. Il romanzo di Gregori è una spy story ambientata nella Roma di oggi; il titolo (doppio squeeze) si rifà a una manovra nel gioco del bridge nella quale un giocatore costringe gli avversari a disfarsi di carte vincenti.

Di seguito troverete la doppia recensione – a entrambi i libri – di Gea Polonio, che mi darà una mano a moderare il dibattito.

Invitati speciali: il già citato Maurizio de Giovanni e Simonetta Santamaria. Ma siete tutti invitati a dialogare con i due autori protagonisti di questo post.

Massimo Maugeri

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STORIE BRILLANTI DI EROI SCADENTI di Francesco Di Domenico – Cento Autori, 2008 – pagg. 160 – euro 12

recensione di Enrico Gregori

Volete ridere? Volete ridere e pensare? Volete, nel ridere, sentirvi anche un po’ intelligenti?
Sembra assurdo, conoscendolo, ma allora dovete affidarvi a Francesco (didò) Di Domenico e al suo “Storie brillanti di eroi scadenti” (Edizioni Cento Autori).
Immaginate gli interventi che Didò fa qui e nei vari blog. Ebbene, sono miccette. Il libro è il Capodanno a Piedigrotta: fuochi d’artificio che scoppiano e sbottano luci colorate in un susseguirsi di battute (anche amare) che sono un viaggio attraverso la geografia e la storia dell’Italia.
Nessuna lezione, vivaddio, ma una doccia di umorismo che affonda le sue radici nel “Travaso”, nel “Marc’Aurelio” e, via via, fino a “Il Male”.
Persino i nomi dei personaggi fanno ridere. E ci si diverte a vedere manie, difetti, tic e fuffa di una società che, nei suoi aspetti ridicoli, non è mai cambiata. Il tutto in una ventina di racconti che scorrono come un “fumetto”, ma di classe intendiamoci. Dalla politica al calcio, dall’amore al sesso, dall’arte alla cialtroneria. Una parata di parole e persone che fanno di “Storie brillanti di eroi scadenti” 158 pagine di penna al seltz.
Poteva scriverlo un non-napoletano? Ecco, questo (non per campanilismo d’accatto) è un bel quesito.
Certamente Di Domenico non è un fustigatore, né una sorta di serioso Cesare Baretti.
Lui, tutto sommato, è il primo a mettersi in gioco e a offrire la sua faccia e le sue strampalate idee al pubblico dei lettori.
Comica, infatti, persino la biografia dell’autore “dal 1975 pioniere delle radio libere napoletane”. E via, avanti, fino a pubblicazioni improbabili in occasioni altrettanto improbabili. Una lunga biografia, insomma, di uno che non ha mai combinato un cazzo. Vuoi mettere?

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DOPPIO SQUEEZE di Enrico Gregori – Bietti, 2008 – pagg. 212 – euro 15

recensione di Francesco Di Domenico

Laura è un cadavere che cammina.
Ha vent’anni, una vita (quasi) inutile, ai margini della società omologata, eppure è il trait d’union di una storia verosimile, di una formidabile spy story che Enrico Gregori disegna.
All’inizio non lo credi che il personaggio della ragazza, insignificante, tratteggiato crudamente come orpello di altre cose, possa essere utile alla storia e, alla fine, ci stai ancora pensando e devi chiudere il libro per comprenderlo, piacevolmente.
E difficile dire cose su un giallo che hai gradito senza scoprirne la trama, la voluttà di raccontarlo è grande, più dell’esegesi surreale a cui si è costretti dal dovere, per questo le recensioni dovrebbero scriverle i professionisti del superfluo, i famosi critici, che sono capaci solo di quello.
A cominciare dal prologo, il libro è un depistaggio continuo, un giocare al gatto e al topo col lettore. Senza inutili tentativi di ricerca di contaminazioni coi grandi del noir americano, io penso subito al numero uno: se è infetta questa storia, allora il contagio si chiama Hitchcock.
Alla stregua del maestro anglo-americano, lo scrittore usa inconsciamente una tecnica tutta hitchcockiana, il “McGuffin”, un espediente per dare importanza ad un oggetto o un personaggio che saranno o ininfluenti o lievemente complementari alla storia, e di McGuffin ne sono seminati a josa nei brani. La suspence c’è ma è morbida, rotonda come l’ambientazione in una Roma color seppia, la capitale barocca in un movie barocco, in una specie di mescolanza col moderno, ecco: un’atmosfera da Batman.
E’ la città che non conosci se non ci sei nato da generazioni. L’autore, scrive come un trucido coatto redento a Regina Coeli, nei tempi morti di un ergastolo, ricama; come se cucire organza e non rapinare banche fosse il suo mestiere e, nonostante questo, lo fa egregiamente. Il tratto surreale e ruvido di Gregori nel “The prima di morire”, era come una prova generale ad un gran premio di formula uno. Molti avevano pensato: “Okay Gregori è in pole-position, ma la corsa vera la vince un altro”, invece con questa seconda opera è tra i primi; se non un’assoluta novità nel giallo d’autore italiano.
Sembra anche un racconto “interno”, scritto da un vice-questore, tanta è la precisa descrizione dell’attività poliziesca; la rappresentazione simenoniana delle stanze dell’intelligence, dei metodi, ma conoscendo l’antica professione di “topo di questura” del grande redattore di “nera” possiamo agevolmente comprendere la sua navigazione sicura. Forse, di Simenon, usa lo stesso metro nella ricerca dei nomi, l’elenco del telefono per quelli italiani, i telefilm per quelli stranieri, ma la loro semplicità non è un limite, forse un valore aggiunto per non perdersi nella trama che si dipana nei vicoli di una Roma altra da come la conosciamo, una Roma romana.

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Doppio squeck sberequeck: le gea-recensioni
di Gea Polonio

Mica facile recensire ’sti libri, degna progenie di due ingombranti personalità, tanto diverse quanto unite dal comune denominatore dell’intelligente ironia.
In Enrico è lo sguardo, distaccato ma mai distante, sull’umanità con tutte le sue sfaccettature, con i suoi limiti, le sue ferite, le sue crudeltà più o meno innocenti a seconda.
In Didò prende la forma di un’esplosione di parole in libertà, una valanga di comicità: uno stand up comedian cresciuto ad avanspettacolo e woody allen.

”Doppio squeeze” è, rispetto al precedente ”Un tè prima di morire”, secondo me più maturo. Sia come scrittura che come sviluppo. La struttura è sempre quella, ormai marchio di fabbrica del Greg: i personaggi vengono seguiti singolarmente in un concatenarsi quasi cinematografico di scene, di momenti della loro vita che ce li fanno conoscere a fondo in poche righe.
Qui sta la mano felice di quest’uomo: nella capacità di rendere vivi e tangibili protagonisti e comprimari con poche pennellate, qualche dialogo, un’osservazione buttata là. Il tutto in una lingua scarna, dura quasi, ma mai povera.
Funziona, funziona bene. La proverbiale attenzione del Nostro per i dettagli delle tecniche investigative e per i meccanismi nascosti dei Servizi si sposa con un buon ritmo narrativo, il tutto a insaporire una trama decisamente avvincente.

”Storie brillanti di eroi scadenti” è Didò allo stato puro: fuochi d’artificio verbali al servizio di racconti assurdi nati da spunti di vita: storia, letteratura, sesso, emozioni; il tutto visto con gli occhi di un travolgente genio. Qualcosa che sta tra lo humour ebraico newyorkese e la grassa commedia popolare napoletana, situato in un luogo dello spirito da qualche parte tra Queens e Mergellina.
La sur-realtà di Francesco è fatta di citazioni, di ricordi, di invenzioni passate al setaccio di un cervello che ha delle ragioni che la ragione non conosce.
Maurizio de Giovanni, che non è un fesso, sostiene nella prefazione che l’uomo è folle, e a dimostrazione porta inoppugnabili pezze d’appoggio. Non me la sento di contestarlo, perchè gli voglio bene e Maurizio è un uomo d’onore (nel senso shakespeariano del termine, non vi venissero idee) e pure perchè oggettivamente non saprei come farlo.
È pazzo sì, probabilmente.
Ma è anche un genio.
E un poeta.

In conclusione, e da lettore con come unica referenza l’amore che ci metto e la voracità.
Questi energumeni hanno prodotto due libri molto belli, secondo me.
Semplicemente molto belli.

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(Marassi ritrae Francesco Di Domenico – 1988 – l’immagine è stata usata per la quarta di copertina del volume “‘Storie brillanti di eroi scadenti”)

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/03/recensioni-incrociate-n-5-francesco-di-domenico-e-enrico-gregori/feed/ 257
LA LETTERATURA DEL TERRORE E SIMONETTA SANTAMARIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/21/la-letteratura-del-terrore-e-simonetta-santamaria/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/21/la-letteratura-del-terrore-e-simonetta-santamaria/#comments Fri, 21 Nov 2008 16:53:07 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/21/la-letteratura-del-terrore-e-simonetta-santamaria/ Che rapporti avete con la letteratura del terrore?
Ne siete appassionati? Vi lascia indifferenti?
Vi disgusta?
In ogni caso essa vanta una storia piuttosto lunga, che coincide – più o meno – con la nascita del romanzo gotico classico; ovvero il 1764: anno di pubblicazione de “Il castello di Otranto” di Horace Walpole.
Poi si evolve con il “Dracula” di Bram Stoker, con il “Frankenstein” di Mary Shelley e con l’opera di Edgar Allan Poe. Senza dimenticare il celeberrimo “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Stevenson, che diventa pietra miliare anche del cosiddetto tema del doppio.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento bisogna ricordare H. P. Lovecraft (1890-1937), ma anche Gaston Leroux (autore de “Il Fantasma dell’Opera“).

Un filone particolare della letteratura gotica dà vita la cosiddetto genere horror diventato famoso anche grazie ai libri di autori come Stephen King e Peter Straub.

Ulteriori dettagli li potete trovare all’interno di quest’ottima rubrica tenuta da Sabina Marchesi, guida giallo e noir del portale supereva.it. 

In questo post, invece, nell’ambito dell’horror all’italiana presentiamo Simonetta Santamaria e il suo libro “Dove il silenzio muore” edito da Centoautori.

Lo introducono per noi Francesco Di Domenico e Enrico Gregori, che mi daranno una mano a moderare e animare la discussione.

Un post a due binari, dunque:
- la letteratura del terrore, in generale (nell’ambito della quale chiamo a intervenire la già citata Sabina Marchesi)
- e… Simonetta Santamaria (presentata da Francesco Di Domenico e Enrico Gregori)

Siete tutti invitati a partecipare.

Massimo Maugeri
P.s. Vi anticipo che a partire da domani e per tutta la prossima settimana sarò in viaggio di lavoro e mi sarà difficilissimo – se non impossibile – partecipare alle discussioni.

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“Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria – Centoautori – 2008 – euro 14 – pagg. 224

di Francesco Di Domenico

Simonetta Santamaria ha scritto il suo primo romanzo.
Non un racconto breve come una coltellata, a cui ci aveva abituato con i suoi corti surreali, ambientati in una Napoli attraversata dal mistero, ma un poderoso romanzo horror.
La Santamaria aveva già raggiunto vette altissime con i suoi racconti, fino ad arrivare ad essere incoronata regina italiana all’ XI premio Lovecraft, con “Quel giorno sul Vesuvio”, una narrazione metafisica che lasciava già intravedere un percorso di commistione con il noir. Ora ha meditato una storia lunga, intricata e appassionante.
La signora dell’horror italiano, Simonoir, stavolta ha scritto 211 pagine di non sola inquietudine.
L’undici sembra ritornare periodicamente nelle storie della Santamaria, coincidenza misteriosa o voluta: lei, Simonetta, non me l’ha mai spiegato.
L’11 è il numero atomico del sodio, il tenebroso sale e “Na” (guarda caso) è il suo nome scientifico.
Undici gli endecasillabi, come 11 i suoi racconti nel precedente libro “Donne in noir”.
“11 Parthenope” è il nome dell’asteroide che fu scoperto all’osservatorio di Napoli nel 1850.
Quindi ricorrenti, nelle storie della dark lady, ci sono questo numero misterioso e la sua città, oltremodo presenti. Di Napoli, si sente l’odore; di Napoli vi è raccontato il “come vorremmo che fosse”; la città è lambita dalla scena del libro a “vol d’oiseau ”. E’ la capitale del mezzogiorno che i Tg non rappresentano, ma che esiste, divisa come tanti atomi. E’ una città-libro Napoli, con tante pagine vere o immaginarie, e questa ne è una.
Il film di parole, perché di un autentico movie si tratta, si svolge in un ipotetico borgo, come ce ne sono tanti nascosti nella città della sirena, a Posillipo. Stavolta si evince uno scivolamento verso un horror più morbido, quasi noir, non ci sono mostri sanguinari e il sangue è più calibrato.
Il percorso di Simonoir sembra l’inverso di Dario Argento, che dai gialli sanguigni è sfociato nell’horror puro; la Santamaria, nel suo primo romanzo lungo sembra avere acquisito una cifra di narrazione trasversale tra orrore e noir puro.
E’ un libro d’amore, e come sempre, di lotta tra il bene e il male.
Quel “male” supremo, nascosto nelle pieghe dell’universo che riappare sempre sotto forme diverse.
L’intreccio è del miglior noir; sarebbe un vero e proprio giallo se l’idea di fondo non fosse autenticamente horror, con un antico mistero legato agli inizi della fede, quando tutto ricominciò, quando gli ebrei sbagliarono scommessa al totalizzatore della storia, e apparve il Messia e, in contemporanea, colui che per primo credette nella sua esistenza: il signore degli inferi.
Controindicazioni: da non leggere la sera in un parco, si affaticherebbero gli occhi, ma molto di più il cuore.

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“Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria – Centoautori – 2008 – euro 14 – pagg. 224

di Enrico Gregori

Horror è un genere che, come tanti altri, serve più che altro ai librai per ordinare gli scaffali.
Avete presente il pulp di Tarantino? O la kermesse vampiresca di “Dal tramonto all’alba”? Beh, dimenticate tutto ciò, perché questo nulla ha a che fare con “Dove il silenzio muore” di Simonetta Santamaria (nella foto, ndr).
Qui l’horror non è splatter, ma inquietudine. E siamo nel Napoletano, con personaggi che tocchiamo e conosciamo.
Certo, c’è una maledizione che viene da lontano; c’è un medaglione simbolico e dai poteri esoterici. Ma il romanzo di Simonetta è vita, passione, quotidianità di gente comune che si imbatte nel mistero.
Non vi aspettate scheletri che appaiono dal nulla, né pioggia di viscere di cadaveri esplosi all’improvviso.
Qui c’è il racconto, scritto alla grande, di persone come noi.
I personaggi, per fortuna non tanti ma definiti molto bene, ruotano tutti dentro una dimora affascinante e in un giardino che necessita di cure continue.
Non si va in cerca di soprannaturale. Anzi, semmai è proprio l’elemento esoterico che all’improvviso piomba a disturbare quella che dovrebbe essere la tranquilla e quasi monotona vita di un borgo.
Pescatori, muratori, intellettuali e fannulloni. Coppie che vanno e coppie che scoppiano. Tutte cose che vediamo per strada o nei palazzi nei quali abitiamo.
Come dire che l’horror può arrivare sempre e comunque.
Non vi aspettate effetti speciali, ma solo cose normali o quasi, alle quali si può credere.
Riporto e sottoscrivo un pensiero di Loredana Lipperini che, una sera, mi disse: “E’ molto difficile scrivere un buon horror perché si racconta di cose che non esistono. E quindi lo scrittore deve essere bravo nel crederci mentre scrive, altrimenti, se non ci crede lui, ancor meno ci crederà il lettore”.
Simonetta crede e spinge il lettore a credere. Ecco perché, il suo horror è venuto bene. Molto bene.

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Le recensioni di Sabina Marchesi: guida “giallo e noir” di supereva

L’Anima Nera di Oscar Wilde Il Grande Ingannatore (Il fantasma di Canterville)
Il personaggio più controverso di tutta la storia della letteratura, che ha saputo con il suo raffinato umorismo, il suo fine sarcasmo, la sua sottile sagacia, mettere alla berlina un’intera società, pur vivendoci dentro, sembra essere a tutti gli effetti, un sapiente bluff, come del resto tutte le sue opere dimostrano, un complicato castello di carte a più livelli, che gli rovinarono poi addosso quando osò troppo e fu abbandonato da tutti al suo destino amaro di outsider.

Difficile coniare una definizione calzante per le opere e l’essenza di Oscar Wilde, forse in assoluto il personaggio più controverso di tutta la storia della letteratura, in molti si sono provati a descrivere con una sola frase il tocco raffinato di questa penna imprevedibile, capace di colpire in poliedriche direzioni, mischiando la satira alle tinte fosche del dramma, nascondendo amabilmente feroci stilettate al cuore dell’aristocrazia e della buona società britannica dietro una prosa leggera e sarcastica, dove la buona letteratura si mescola con sofisticata eleganza alla parodia umoristica.&#nbsp; Innumerevoli descrizioni ci sono rimaste di quest’uomo affascinante, grande ed eccelso conversatore, mente splendida ed acuta, vissuto sempre sul filo del rasoio, in precario equilibrio tra l’acclamazione più sfrenata e il più terribile ostracismo, ma la maniera più calzante per descriverlo è forse quella di attingere ad alcuni dei suoi detti memorabili e immortali destinati ad essere ripetuti e rivissuti dai posteri, a suffragio perenne della sua memoria.
“La Vita Imita l’Arte più di quanto l’Arte non imiti la Vita; ed è proprio così che sono tutte le sue opere, un’imitazione continua di tutto ciò che esiste, o che noi crediamo esista, una rappresentazione speculare di tutte le umane debolezze, dove anche le grandiosità nascondono i dettagli più fragili dell’animo umano.
“Non ho nulla da dichiarare eccetto il mio Genio” che descrive perfettamente il suo intero modo di vivere, quello di un uomo che fece dell’eccentricità un pregio, di nascita Irlandese riuscì ad imporsi all’attenzione della buona società affascinandola con la sua irruente personalità e la brillante conversazione che dominava incontrastata con ingegno ed audacia i salotti londinesi.
“Riesco a resistere a tutto tranne che alle tentazioni” ed è il manifesto di “Dorian Gray”, dove la cultura estetica predomina su tutte le altre virtù, capolavoro assoluto ed unico suo romanzo, che lo consegna alla storia come L’Esteta dell’Arte, colui disposto a tutto sacrificare in nome dell’amore per il bello, portando la passione a dominare su tutto il resto, in bilico sopra un precipizio di insospettabili profondità, separando una volta per tutte l’etica&#nbsp; e la morale, dall’estetica, cosa che l’aristocrazia dell’epoca mai gli perdonò.
Laureato ad Oxford, di raffinata cultura, grande parlatore, fine umorista, Wilde condusse tutta la sua esistenza&#nbsp; al di sopra e al di là delle comuni convenzioni, ostentando uno stile di vita provocatorio e spericolato, amorale ed asociale, sfoggiando un’eleganza stravagante e bizzarra, e per questo fu amato ed odiato da tutta la società vittoriana, facilmente influenzabile dalle mode e dall’eccentricità, vanesia e superficiale, ma terribilmente pericolosa nei giudizi, che erano senza appello e che alla fine lo condussero alla rovina. Il debutto di ciascuna delle sue commedie, da “Il ventaglio di Lady Windermere” a “L’Importanza di chiamarsi Ernesto”, gettavano in subbuglio tutta l’alta società londinese che accorreva in massa, rendendosi poi conto, quando era forse troppo tardi, di essere essa stessa fatta oggetto dell’umorismo al vetriolo e della satira mordente dell’opera; rappresentata, che ne beffeggiava i vezzi e le abitudini.
Snob, narcisista, depravato, vizioso, abbietto, omosessuale, Oscar Wilde era semplicemente un giovane ben nato, dotato di una sottile intelligenza, dalla lingua sciolta, che amava assumere atteggiamenti demodé, ambizioso e narcisista, amante del bello e di se stesso, capace di una ironia caustica che non esitava a usare per il solo desiderio di stupire, e tanto spericolato da fare quello che prima non era mai stato fatto, o da dire quello che nessuno aveva mai osato dire, un eterno giovanottone che bamboleggiava in società, al solo scopo di appagare il suo senso di avventura e di ribellione. Si fece beffe per anni dei migliori salotti vittoriani, in cui però veniva sempre benevolmente accolto, fino a che questo precario equilibrio si spezzò, i suoi stessi vizi tanto ostentati, lo tradirono, e la bella società gli voltò le spalle condannandolo al pubblico ludibrio e a una fine ignominiosa.
Ma fu comunque in assoluto l’uomo con il più grande coraggio di vivere e di osare mai esistito sulla faccia della terra, un borghese che giocava a fare l’anticonformista, un tradizionalista che amava assumere atteggiamenti sconvenienti, un pigro intellettuale che desiderava solo stupire ed ammaliare.
Colpisce il fatto che i suoi aforismi sono giunti fino a noi come esempi di raffinato cinismo e di spietata ironia, quando invece a una lettura più attenta rivelano, come fu per lui stesso e per la sua vita, una certa dose di saggezza, e di comprensione per le umane&#nbsp; debolezze. Se Dorian Gray fece gridare allo scandalo (e in effetti cosa ci può essere di più abbietto di un patto col diavolo che ti renda immune da tutte le conseguenze fisiche e morali delle tue malefatte scagliandole su un quadro immagine e simulacro di tutti i mali del mondo?) perché sembrava incitare le nuove generazioni verso una condotta amorale e sconsiderata, con la certezza di una sicura immunità, esso al tempo stesso rappresenta un momento di profonda riflessione, se letto in doppia chiave. Rivelando al suo interno una sottile dicotomia perché, se sottoposto a un esame più approfondito, denota una chiara disciplina morale, sottintesa con ironia ma visibile, sotto il primo strato di decadente disprezzo.
Fa tutto parte del sottile snobismo di Wilde a cui importavano di certo più la fama e la gloria, che non l’espressione di una morale, ma questo non esclude che ne avesse, e infatti ne aveva. Ci basti pensare ai suoi aforismi, apparentemente dedicati al solo culto del bello, dell’arguto, del sofisticato, del raffinato, ma sempre spietatamente diretti e scritti per colpire al cuore e sottolineare crudamente la verità. Che è poi l’intento primario di ogni artista.
“Non esistono libri morali o immorali … i libri sono scritti bene, o scritti male. Questo è tutto.”
Sembra un’affermazione irriverente, immorale, puramente estetica, ma nasconde invece una sovrana verità che tutti noi aspiranti scrittori dentro di noi conosciamo assai bene.
E’ solo uno dei tanti inganni di quest’anima suadente ed intrigante, che ancora si fa beffe di noi a distanza di un secolo e mezzo, e basta guardare una sua foto per vedere quello sguardo irridente e beffardo di uno che sa di averci sempre imbrogliati, come una delle sue opere più incompresa, Il Fantasma di Canterville, che viene a tutt’oggi introdotta nelle raccolte per ragazzi assieme alle altre favole che Oscar Wilde pare avesse scritto per i suoi due figli, e tuttora si rappresenta nei teatrini scolastici. Ma non è una favola, o se mai lo è, è una favola nera, un piccolo intrigo, un bluff sapiente e misurato tramato ai danni di noi lettori dal più grande ingannatore della storia.
Brillante e spumeggiante come una coppa di champagne questo racconto è tutto imperniato sull’incontro tra due culture agli antipodi, la vecchia solida inamovibile realtà britannica contrapposta con la nuova rampante ed emergente società americana. Il fantasma di per sé è solo un elemento nel contesto, anzi tecnicamente parlando è uno degli oggetti compresi nella compravendita della casa avita, presso la quale dimora.
Esilarante e burlesco, scritto in tono scansonato, con una prosa sciolta e disincantata, umoristico ma non troppo, questo testo, ingiustamente trascurato, racchiude dentro di sé tutto un universo: fatto oggetto di studi approfonditi esso rivela tutta una serie di piani narrativi elegantemente sovrapposti e sapientemente dosati. Ironia e satira nei confronti delle due culture contrapposte: da una parte il solido pragmatismo degli americani, convinti di conoscere la soluzione a tutti i problemi, sicuri di poter dominare il mondo, certi di ottenere la conquista di ogni obiettivo e di conseguire il superamento di tutti gli ostacoli, la nuova aristocrazia, il potere del denaro, la classe emergente, il futuro, dall’altro lato il passato, la vecchia solidità britannica, l’amore per le tradizioni, il mito, la leggenda, la classica imperturbabilità e quel vecchio ancestrale modo di essere sempre uguali a sé stessi in ogni circostanza che hanno fatto degli inglesi il popolo conquistatore e colonizzatore che ha dominato il mondo. Da una parte la vecchia solida Inghilterra dunque, e dall’altra l’America nascente, da una parte la fantasia, la creatività, l’emozione, dall’altra il realismo, lo scetticismo, il pragmatismo, due mondi diversi che mal si conciliano, e ancora una volta la lacerante divisione sempre più sentita tra l’umanismo e il positivismo, tra le tradizioni e il progresso, tra la storia e la scienza, tra la filosofia e la tecnica, in una lettura frizzante e umoristica, condotta con mano leggera e sobrio “sense of humour” che sono tipici di tutta la produzione di Wilde.
La storia in breve narra di un’ antica e solida famiglia britannica in procinto di vendere la dimora avita a una famiglia di americani rampanti, borghesi e arroganti. Vediamo il compunto capostipite Lord Canterville fornire al nuovo proprietario ragguagli circa gli accessori e le pertinenze del bene immobiliare, pare infatti che il distinto ministro americano non stia acquistando solo un antico castello, ma anche il suo intero contenuto, annessi e connessi, dunque comprensivo di mobili, tendaggi, tappeti, vasellame, domestici e …fantasmi. Dunque imperturbabile Lord Canterville sta informando Mr.Otis con distinto “savoir faire” non solo dell’esistenza del fantasma, appartenente alla sua famiglia da generazioni, ma anche dei suoi usi, costumi e abitudini. Chiaro che il ministro americano e la sua famiglia,da buoni appartenenti a una cultura giovane e irridente non prendano la cosa molto sul serio, anzi la considerano come un’ulteriore stranezza da parte dei vecchi Lord Inglesi e come tale la archiviano e la mettono da parte.
E qui assistiamo alla partenza della vecchia famiglia inglese, e all’insediamento della nuova turbolenta famiglia americana, quasi a leggere tra le righe una metafora sui cambiamenti che proprio allora si stavano preannunciando nel panorama mondiale con l’inesorabile&#nbsp; sopravvento della cultura del Nuovo Mondo sulle abitudini sopra le consuetudini e i costumi del Vecchio.
Anche se Wilde con il suo sofisticato snobismo non può esimersi dallo schierarsi dalla parte della solida e nei secoli immutabile realtà vittoriana,&#nbsp; non può nemmeno evitare di schiacciare scherzosamente l’occhio all’ingenua semplicità del popolo americano che pur facendo sorridere esercita comunque un fascino innegabile.
Dunque racconto fantastico, favola nera, testo di potente atmosfera gotica, o satira mondana-sociale che sia, questo racconto incanta e strega, fa sorridere e riflettere, mentre ascoltiamo il ministro americano opulento e saccente dichiarare che se mai un fantasma fosse esistito realmente in Europa i migliori impresari del continente nuovo lo avrebbero sicuramente ingaggiato per farlo lavorare nei loro teatri, come già accaduto con i migliori attori e cantanti, paragonando quindi una leggenda vivente a un mero fenomeno da baraccone. Nel contempo lo sentiamo dichiarare che se una governante sviene rompendo il servizio buono per aver visto un fantasma, è lecito e doveroso addebitarle i danni, e vediamo la distinta e imperturbabile Missis Otis offrire al fantasma sferragliante che percorre i corridoi trascinando le sue catene, un famoso e potentissimo prodotto per oliare gli ingranaggi, e il giovane rampollo della casata pulire la macchia di sangue che da secoli riaffiora nel salotto buono, a memoria di un turpe delitto compiuto in vita dal fantasma, con uno smacchiatore di provata efficacia, mentre i due gemelli, i più piccoli&#nbsp; della famiglia tendono al povero e ormai terrificato spettro ogni sorta di trappole e di trabocchetti tutte le volte che questi tenta di esibirsi in una delle sue famosissime apparizioni.
Ma Wilde strizza l’occhio ancora una volta al lettore inserendo nel racconto un ennesimo imprevedibile dualismo, perché, attenzione sarà proprio Virginia, l’unica figlia femmina della casata americana, a sanare questa ferita apparentemente inguaribile, questo enorme divario tra il vecchio e il nuovo mondo, tra la cultura emergente e quella discendente, riuscendo inaspettatamente a comprendere il fantasma e a soffrire per il suo dramma, venendo così a spezzare una maledizione antica di secoli, che nessuna delle generazioni precedenti, tutte solidamente inglesi, aveva potuto combattere, dando così al fantasma pace e riposo eterno.
Sembrerebbe finire qui, quando però il nostro arguto e imprevedibile ingannatore ancora ha una riserva di sarcasmo, nel mostrarci una Virginia, ormai non più ragazza ma donna sposata, tornare nostalgicamente al castello per rivisitare la sua personale leggenda, portando fiori sulla sua tomba, con indosso i vecchi gioielli di famiglia dei Canterville,i quali, di proprietà dello spettro ormai defunto e facente parte delle pertinenze, annessi e connessi del castello, appartengono ora di pieno diritto agli Otis….e chi ci vuol leggere qualcosa in questo epilogo ne tragga pure la sua personalissima morale…
Senza mancare però di considerare che proprio nel momento in cui il sagace, arguto e sarcastico Wilde ci ha ancora una volta ingannati, e con rara maestria e disinvolta leggerezza per di più, non possiamo non amarlo per l’eternità ripetendo con lui: “Chi intende il simbolo, lo intende a suo rischio e pericolo”.

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Gli inquieti fantasmi di Henry James ne “Il Giro di Vite”
Cosa c’è di più conturbante di una storia di fantasmi in cui sia implicato un bambino? Semplice: una storia di fantasmi con due bambini coinvolti loro malgrado in una spirale senza fine di terrore … Da qui trae spunto il travolgente inizio di una delle storie di fantasmi meglio narrate nella storia di tutti i tempi, con incredibili risvolti di suspense e angosciosissimi dubbi….

Henry James nasce a New York nel 1843, e come molti suoi contemporanei subisce prepotente il fascino del cossidetto virus europeo che indusse buona parte degli scrittori e degli intellettuali dell’epoca a viaggiare in lungo e in largo per il vecchio continente assumendone e assimilandone la cultura e la storia.
A Parigi viene influenzato dalla frequentazione con Flaubert, Zola e Maupassant, dopodichè si stabilisce definitivamente a Londra, dove dà vita alla maggior parte dei suoi capolavori, tra cui Giro di Vite.
Universalmente riconosciuto come una pietra miliare dello sperimentalismo formale, questo romanzo è basato sulle diverse connotazioni conferite alla narrazione dalla scelta del punto di vista, in grado di rappresentare gli eventi in maniera diametralmente opposta, rispetto alle altre prospettive possibili. Al punto che per la prima volta la storia narrata, non è più LA storia, ma solo UNA delle storie realmente possibili, perché ogni cosa cambia e si trasforma a seconda del punto di osservazione, trama e personaggi sono mutevoli, cangianti, ingannevoli e come fantasmi sembrano dissolversi e rapidamente riapparire sotto multiformi vesti di momento in momento. Tanto che il lettore una volta chiuso il libro, non è più nemmeno in grado di dire egli stesso a quale delle possibili rappresentazioni abbia appena assistito, riuscendo comunque solo a riconoscere che, qualsiasi storia fosse delle tante possibili, ne è rimasto magicamente ammaliato subendone il fascino senza neanche sapere come.
Oltre ad essere un gran romanzo gotico, questo testo si presta a molteplici analisi essendo in esso tutto appositamente studiato per stupire, meravigliare ed irridere. Ogni dettaglio, la pur minima sfumatura, la più sottile percezione, sono stati concepiti per ottenere un determinato risultato, che sorprendentemente muta a seconda della chiave interpretativa con cui viene esaminato.
Vediamo il titolo per esempio, siamo in un’epoca letteraria in cui i titoli sono mediamente molto lunghi e tendono a descrivere l’oggetto della narrazione in maniera esaustiva, tipo Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni, Frankestein o il Moderno Prometeo, Alice nel Paese delle Meraviglie o semplicemente ricalcano il nome del protagonista, Jane Eyre, Moll Flanders, Michele Strogoff, Dorian Gray, questo titolo sorprendentemente moderno, Giro di Vite, sembra alludere o precludere a consuetudini letterarie ancora da venire.
A una prima interpretazione il titolo, come spiegato dallo stesso autore nel prologo, anzi nell’antefatto, sta a simboleggiare una situazione aggravante, il dramma che si aggiunge al dramma, la goccia che fa traboccare il vaso: all’inizio della storia, troviamo un gruppo di persone riunite attorno al fuoco intente (come accadde alla famosa compagnia di Byron, Polidori, Percy e Mary Shelley) a raccontarsi storie per passare il tempo, storie intense, storie terrificanti, storie spaventose, insomma storie di fantasmi, e uno dei presenti esordisce dicendo, cosa ci può essere di più orrorifico di una storia di fantasmi in cui sia coinvolto un bambino?
Semplice: una storia di fantasmi in cui appaiono non uno ma ben due bambini. In pratica un giro di vite.
Ed ecco spiegato il titolo, o meglio così iniziamo a credere, ma sarà poi vero? E’ davvero questa l’interpretazione corretta che possiamo dargli? Cos’è in definitiva una vite? Un oggetto metallico costruito ed ideato in maniera tale da conficcasi profondamente nel legno man mano che ruota su se stesso. Se ci soffermiamo su questa immagine cosa possiamo vedere da un’altro punto di vista? Qualcosa che si fissa girando su sè stessa e che penetra lentamente e inesorabilmente nella superficie che ha davanti, un atteggiamento psicologico e pscicotico, una debolezza umana, un attaccamento selvaggio a un’idea fissa, una volontà pervicace, ottusa, ed ostinata.
Siamo nel giusto? Non lo sappiamo, e non lo sapremo mai per tutta la durata del racconto, come non lo sapremo una volta che lo avremo terminato, e come non potremmo saperlo nemmeno se lo rileggessimo altre mille volte.
Ma qual è l’io narrante scelto per realizzare questo innovativo stile letterario?
Molteplice anche questo: uno dei personaggi riuniti attorno al fuoco inizia raccontare una storia, a suo dire riportata da un suo amico, che a sua volta l’aveva letta in un diario.
Dunque un triplo passaggio. E chi è poi questo io narrante?
La protagonista diretta degli accadimenti, colei che è stata presente in ogni momento dello svolgimento, è una persona di tutta prova, di solida moralità, un’istitutrice, sufficientemente colta da non essere facile preda di isterismi o vittima di visioni, essa ci viene presentata, anzi si presenta da se stessa, come un soggetto degno della massima considerazione, tale per cui siamo costretti e quasi obbligati a prestare fede a ciò che dice, ciecamente, senza nulla chiedere né domandare. E pure gli eventi riportati sono di una tale “non credibilità” da lasciarci perplessi, anche perchè quel che ci viene prospettato dalla giovane donna non è tanto la narrazione oggettiva, ma la interiorizzazione dei fatti, la sua visione personale quindi, la sua proiezione singola ed individuale. Allora non ci resta altro che rivolgerci nel dubbio agli altri attori della narrazione scenica per avere conferme da loro sulla realtà dei fatti.
Già, ma chi sono poi gli altri? Abbiamo un capostipite, che però appare distante, lontano nella sua casa di città, che si limita ad assumere un’istitutrice col preciso intento di non essere né coinvolto né disturbato per la gestione delle necessità quotidiane, e che dopo il primo capitolo non compare praticamente più se non per dire, a mezzo lettera “per cortesia non voglio essere disturbato, sbrigatevela da Voi”. Dunque non è un attore quanto piuttosto un “deus ex machina”, colui che mette in moto gli avvenimenti, e poi si mette in disparte ad osservare, e su di lui non possiamo far conto, non interverrà.
Poi abbiamo una governante, e il personale di casa, ma chi sono questi elementi? Personaggi appartenenti a una classe inferiore (il romanzo rivela tra le altre cose anche insospettate connotazioni sociali, se non socialiste), poco affidabili, emotivi, influenzabili, rozzi, ignoranti, chiacchieroni e creduli: che aiuto possiamo mai aspettarci da loro?
Chi altro allora? Ci sono gli altri due protagonisti, i bambini sui quali l’istitutrice deve vegliare, ma sono bambini appunto, creature deboli, in balia degli eventi, inconsapevoli vittime, al centro di un arcano mistero, di cui non hanno consapevolezza, e come potrebbero?
Non ci resta dunque nulla altro che riaffidarci nelle mani della giovane donna, che ci narra la storia, ed assistere con lei ai misteriosi eventi, e con lei schierarci quando essa ne rimarrà coinvolta e drammaticamente sconfitta.
Anche la prosa di James è infida, i suoi stessi passi narrativi traggono in inganno, dicono e non dicono, e al contempo dicono tutto e il contrario di tutto, questo testo, a ben guardare somiglia a un gioco di puzzle montato male, non c’è un pezzo che si incastri bene con gli altri, ma tutti fluttuano vorticosamente senza mai fermarsi, tanto che non riusciamo nemmeno a vederne bene la forma né il colore né la dimensione.
L’istitutrice arriva nella casa di campagna, con il tipico entusiasmo dei giovani, e si accinge a prendere in mano la conduzione della casa e l’educazione dei ragazzi con tranquilla e disinvolta sicumera, certa che le sue fragili spalle siano perfettamente in grado di reggere tale peso, ma ecco che, quasi subito, vede una figura spettrale, oscura e misteriosa, uno sconosciuto che la osserva con malanimo, e poi scompare. Chi è costui? Indagando e chiedendo scopre presto che le fattezze da lei descritte si attagliano perfettamente all’intendente di casa, morto tragicamente anni prima, anzi scomparso…
Bene, non importa: i ragazzi sono graziosi, docili e arrendevoli, apprendono con facilità e si prestano volentieri a collaborare con la nuova maestra, la governante offre il suo valido aiuto, il personale di servizio è efficiente ed affidabile, tutto scorre per il meglio, l’andamento della casa procede a meraviglia, l’educazione dei ragazzi è posta su solide basi, il compito sembra dunque essere più semplice del previsto, se non fosse… se non fosse per quest’uomo subdolo ed oscuro che continua ad apparire e a scomparire.
Ma presto qualcosa si inceppa, il meraviglioso meccanismo perde dei colpi, il pacifico progredire dei giorni esce dai consueti binari della tranquillità quotidiana, le apparizioni si moltiplicano, si insinua prima il dubbio, e poi la terrificante certezza che anche i bambini sappiano, che anche i bambini vedano… ma che per qualche oscuro motivo essi non dicano nulla.
Anche la governante sa, anche la governante vede, e confidandosi narra di malefiche influenze, di oscure malvagità che a tratti affiorano nel comportamento di quelle angeliche creature, di parole irripetibili proferite dalla piccola, di comportamenti indecorosi tenuti dal ragazzo, si insinua presto l’ombra di un maleficio, i ragazzi sanno, i ragazzi vedono, essi sono posseduti, vittime di un maleficio, colpiti da una maledizione.
Ed i fantasmi che appaiono ora sono due, la precedente istitutrice e l’intendente, colpevoli di una bieca relazione amorosa che infrangeva e i limiti di classe e i confini della decenza, fuggiti, morti, defunti, scomparsi, eppure vivi, tornati a prendere possesso dei ragazzi, o forse a rivivere attraverso essi e dentro di loro.
Ma sono veri questi fantasmi? Ci sono davvero? O sono un frutto della mente malata dell’istitutrice?
Forse le troppe responsabilità, il peso eccessivo che grava su di lei, forse la gioventù, l’inesperienza, un supposto amore ideale e impossibile per il suo austero datore di lavoro, un eccesso di romanticismo, il forzato isolamento, forse tutto questo ha avuto ragione del suo equilibrio mentale, e la posseduta, la folle, la visionaria potrebbe alla fine essere solo lei? Ma allora perché questi ragazzi sono così angelici, così perfetti nella loro arrendevolezza, così assolutamente candidi e innocenti, al punto da apparire quasi sospetti? Non sappiamo e mai potremmo dire da che parte sta la verità.
Quando ecco nelle pagine finali il mistero sembra svelarsi, dal fondo del tunnel cominciamo a intravedere una luce, che si avvicina, ora sta per illuminarci, quasi vediamo, quasi crediamo di capire, quasi comprendiamo il macabro gioco di prestigio di cui sicuramente siamo stati vittime ( e vi assicuro che a questo punto nemmeno un allarme antiaereo o un incendio in salotto riuscirebbero a schiodarvi dalla vostra poltrona) e un attimo prima che la soluzione ci venga svelata, o forse giusto un attimo dopo, ricadiamo perplessi nelle tenebre più oscure della più impenetrabile non conoscenza.
Perché alla fine ne sappiamo meno di quanto credevamo di sapere all’inizio, il vento ha girato e ha riportato l’imbarcazione in mare aperto, i flutti e i marosi ci sballottolano di qua e di là, le vele sbattono implacabili contro l’alberatura, gli spruzzi ci colpiscono sul viso, e noi vaghiamo senza meta in questo oceano sconfinato e non troveremo mai la strada. Perché sapete cosa succede alla fine? Che la giovane e coraggiosa istitutrice, colta in fondo anch’essa dal dubbio di essere pazza, decide di uscire allo scoperto, e costringe le piccole creature ad affrontare le inquietanti visioni, di cui ovviamente davanti alla loro possibile o supposta innocenza prima non si era mai parlato, e gli chiede, non senza devo ammetterlo, un certo tono da invasata, allora li vedi? Dimmi che li vedi anche tu… Ottenendo dalla bimba un collasso immediato e una fortissima crisi di febbri epilettiche, che la costringono ad allontanarla e a mandarla sollecitamente dal medico di città accompagnata dalla governante. Fatto questo l’istitutrice resta ovviamente sola col ragazzo, il quale a momenti appare un bimbo sprovveduto ed ingenuo, ancora rivestito dei candidi panni dell’infanzia, a tratti invece appare un semi-adolescente inquieto e spavaldo, quasi in tentazione di sedurla. Messo a confronto anch’esso, brutalmente e con violenza, con l’ennesima apparizione, al reiterato: dimmi che anche tu la vedi… egli crolla folgorato tra le braccia della povera sconsolata avventata folle e coraggiosa istitutrice e, ci dice l’autore, il suo povero cuore ora non batte più.
Potete leggerlo e rileggerlo questo romanzo, e anche copiarlo parola per parola se credete che questo vi possa aiutare, e setacciare tutte le biblioteche alla ricerca di prefazioni, interpretazioni e recensioni, tutto quello che troverete sarà sempre e soltanto un grande, meraviglioso, incomparabile gioco di alchimia letteraria, mai tentato prima, e devo dire, mai eguagliato dopo.
Anche se, ve lo confesso, se solo Henry James fosse stato vivo gli avrei scritto o telefonato, per avere le mie risposte.
Ma chissà che io non possa, forse, dopotutto, evocare il suo fantasma ?

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Frankestein di Mary Shelley
Il terribile mostro che condanna la falsa onniscenza dell’uomo è in assoluto la prima prima pietra miliare che viene posta in letteratura a creare la genesi di tutta una serie di filoni destinati ad avere in seguito grandissima fortuna, dal gotico al noir, dall’horror al thriller, questo romanzo è l’antesignano di tutti i generi “neri”

Influenzato dalla rapida successione di incredibili scoperte scientifiche e tecnologiche e dai primi studi evoluzionistici a firma di Erasmus Darwin, vede la luce nel 1817 il Frankestein di Mary Wollstonecraft Shelley, nel tentativo di spiegare un universo in pieno mutamento e di rappresentare la falsa onniscienza in cui l’uomo all’epoca si cullava, questo romanzo rappresenta la genesi del genere fantastico frutto di una perfetta fusione di elementi gotici e fantascientifici.
La scrittrice inglese nacque il 30 agosto 1797 in un ambiente ricco di stimoli culturali e di pensieri decisamente innovativi, da due genitori letterati ed intellettuali: il padre, William Godwin, fu filosofo, teorico, politico e scrittore appartenete al movimento del razionalismo anarchico, la madre Mary Wollstonecraft, scomparsa prematuramente, viene considerata l’antesignana di tute le femministe, tra le prime a promuovere i diritti della donna, scrisse una serie di testi sul femmismimo, fu attiva militante del movimento, decisamente progressista, fu la fondatrice di un circolo che per la prima volta accoglieva le donne di ogni ceto sociale, tra cui molte scrittrici. A lei si deve il primo manifesto femminista di tutti i tempi, tra l’altro pubblicato anche in Italia nei caldi anni ‘70.
La vita della madre di Mary Shelley fu per molti versi drammatica, e per alcuni aspetti simile e speculare a quella che ebbe poi la figlia, protagonista di una fuga d’amore e di una relazione clandestina dopo aver concepito una figlia fuori dal matrimonio, tentò il suicidio a seguito dell’abbandono dell’amante, e infine lo seguì fino in Scandinavia, scrivendo poi un romanzo su questo inseguimento d’amore, Travel, dove descrive se stessa come un’intellettuale alle prese con le difficile scelte di donna e di madre, nonchè di rivoluzionaria. Di lei ci restano le struggenti lettere d’amore al suo perduto amore, il diario di viaggio, e un successivo romanzo sempre autobiografico dal titolo Maria, or The Wrongs of a Woman pubblicato postumo dal vedovo, il padre di Mary, con cui aveva intrapreso una nuova relazione dopo la precedente drammatica esperienza amorosa, e che sposò solo dopo essere rimasta nuovamente incinta. Morì di febbre puerperali nel 1797 dopo aver dato alla luce Mary.
Mary, invece, sulle orme delle esperienze materne, a soli 16 anni incontra durante un soggiorno in Scozia il romantico, giovane e geniale poeta ribelle Percy Bysse Shelley, e lo segue in una romantica fuga d’amore fino in Svizzera, lo sposa solo nel 1816, dopo la morte per suicidio della prima moglie di lui, Harriet Westbrook, anch’essa giovanissima. Con il marito viaggia attraverso l’Europa in Francia, Germania ed Olanda, ed approda infine in Italia.
Come per le sorelle Bronte la sua vita fu improntata da una serie infausta di tragedie ed eventi lussuosi, succedutisi senza interruzione: nel 1822 muore il marito Percy per il naufragio del suo natante da diporto nelle acque tra Genova e La Spezia, i comuni amici Byron e Polidori muoiono anch’essi giovanissimi, Byron a Missolungi, Polidori suicida, la nipotina Allegra, figlia che la sorellastra Claire ebbe da Byron, fu da questi affidata a un Istituto dove morì di malattia in tenera età, come accadde anche ai figli di Mary e Percy, di cui solamente uno sopravvisse.
L’esistenza di Mary stessa si trascinò tormentata da scandali, amori non corrisposti, e aspre difficoltà economiche fino alla morte, probabilmente per un tumore al cervello, nel 1851.
Tuttavia nonostante le alterne vicende Mary Shelley, a quanto ci risulta,fu in assoluto la prima donna a vivere dei suoi proventi di scrittrice, nonostante fosse stata costretta a dare alle stampe le sue prime opere in forma anonima, o sotto pseudonimo maschile. E il suo romanzo, definitivamente consegnato al mito della storia della letteratura, essendo in assoluto il capolavoro che vanta in tutti i tempi il maggior numero di imitazioni, dimostra una struttura narrativa particolarmente ardita ed innovativa.
Come tutti sanno, la genesi di questo romanzo ebbe inizio durante un incontro, la cui storia appartiene ormai alla leggenda. Nell’estate del 1816 Lord Byron si trovava sul lago di Ginevra, in una suggestiva Villa, la Villa Diodati, che aveva preso in affitto per la stagione, e la sera per ingannare la noia di una lunga serie di giorni piovosi, davanti al caminetto gli ospiti eccellenti di quel soggiorno estivo, dopo aver narrato storie di fantasmi facendo a gara per raccontare la storia migliore, decidono di dar vita a una gara di scrittura, con l’idea di preparare ciascuno una storia attinente al genere gotico-orrorifico.
I presenti erano Lord Byron (padrone di casa), il poeta Percy Bysshe Shelley, accompagnato dalla sua giovanissima moglie Mary Wollstonecraft e il medico John Polidori, e quella fu una notte memorabile per la storia della letteratura.
Byron e Shelley composero due brevi racconti, The Burial e The Assassin, Polidori ideò un romanzo breve Il Vampiro, poi dato alle stampe nel 1819, anch’esso antesignano di uno specifico filone letterario di indiscussa fortuna, sopravvissuto fino ai nostri giorni, e Mary stese una novella ispirata al mito di Prometeo, dal titolo di Frankestein, pubblicata nel 1818 e destinata alla consacrazione eterna nella storia della letteratura.
Pur non essendosi mai cimentata con il genere, l’opera di Mary risultò talmente carica di orrore inespresso, che ella sentì il bisogno di celarsi dietro un immaginario sogno ” a occhi aperti” che, disse, le aveva ispirato il racconto, rivelandosi forse, la prima esperta di Marketing Letterario nella storia.
Difficilmente si riesce a immaginare una trama simile concepita da una mente femminile, ed era certo più semplice trovare riparo nel facile espediente di un evento onirico.
La novella iniziale era molto più breve, e furono necessari anni di rielaborazioni per portarla a compimento nella forma attuale. Sia la trama che la struttura narrativa sono ardite e ardimentose, prospettando dei modelli innovativi per l’epoca e dei contenuti che furono a suo tempo aspramente criticati. Negli anni a venire la critica letteraria ha creduto di rintracciare in quest’opera, dichiaratamente ispirata al mito di Prometeo, influssi e connotazioni comuni con le opere di Milton ne Il Paradiso Perduto, di Omero nell’Iliade e nelle Metamorfosi, di Shakespeare ne LaTempesta e nel Sogno di Una Notte di Mezza Estate, di Stevenson nel celeberrimo Dr. Jekyll and Mr Hyde, e di Oscar Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray.
Basterebbero da soli questi parallelismi così eccelsi e tanto complessi per proiettarci in quella che è la reale dimensione di questa opera fondamentale ed unica, anche al di fuori del suo genere.
“I am by birth a Genevese, and my family is one of the most distinguished of that republic. My ancestors had been for many years counsellors and syndics, and my father had filled several public situations with honour and reputation. He was respected by all who knew him for his integrity and indefatigable attention to public business. He passed his younger days perpetually occupied by the affairs of his country; a variety of circumstances had prevented his marrying early, nor was it until the decline of life that he became a husband and the father of a family.”
Questo il sommesso incipit, pur vigoroso, di un testo complesso, svolto su diversi piani temporali, che non predilige nessuna delle forme narrative consuete all’epoca, in questa partenza nulla ci anticipa, nulla ci prepara, nulla ci avvisa del sommesso fremito orrorifico che presto ci pervaderà, e già nella quarta delle lettere che ci introducono, riassumendo, in “media res” ci sentiamo chiedere dallo stesso co-protagonista della vicenda: “…..non senti anche tu ghiacciarti il sangue per l’orrore?…” e non possiamo non concordare con lui, perche’, pur sapendo poco o nulla della vicenda, tuttavia sentiamo serpeggiare nelle nostre vene un indiscusso, irrefrenabile e oscuro fremito di puro terrore.
Sarà l’ambientazione tra i ghiacci, sarà la sensazione che il co-protagonista non è altro in realtà che la “spalla” dell’orrida creatura, vera indiscussa e incontrastata stella dell’intera narrazione, sarà che la vicenda si snoda in una serie di falsi piani temporali e narrativi, ma la magia di questo testo difficlmente è riproducibile, ed effettivamente mai è stata riprodotta, neppure in parte, nelle centinaia di tentativi di imitazione che si sono succedute nei secoli a venire.
Ma vediamo per sommi capi la storia, ovviamente nota a tutti, e la trasposizione narrativa, esaminata nella sua complessa architettura strutturale.
Facendo una rapida sintassi, una specie di Bignami della trama, possiamo dire per sommi capi che si narra di uno studioso di medicina svizzero, che sperimentando tenta di creare la vita dal nulla ed assembla una creatura mostruosa usando pezzi trafugati dai cadaveri nel cimitero, riuscendo ad infondere in essa la vita, ma che poi, terrorizzato dal suo medesimo successo, fugge nell’attimo stesso del suo affacciarsi alla vita, lasciandola ad affrontare da sola le difficoltà della sua esistenza. La creatura orrorifica ed incompleta, dotata di un aspetto terrificante, abbandonata a se stessa tenta di trovare una sua via, ma viene rifiutata e perseguitata a causa del suo orrido aspetto, la sua bramosia di vita si ritorce in odio verso l’umanità in genere e verso il suo creatore in particolare.
Parte così una doppia caccia del mostro in cerca del suo creatore per vendicarsi e del creatore in in cerca del mostro per liberare l’umanità dalla sua fastidiosa presenza, in una rocambolesca fuga attraverso i ghiacci, in cui non si sa più chi sia preda e chi cacciatore, chi vincitore e chi vinto, chi il bene e chi il male.
Questo dualismo è in realtà il filo conduttore di tutta l’opera.
Il primo editore a cui si rivolse, facendo passare il suo manoscritto per quello di un giovane autore, rifiutò il libro, che venne poi pubblicato da Lackington, Allen and Company, nel marzo 1818, non conoscendo un successo immediato se non dopo innumerevoli discussioni e polemiche, che non fecero altro che alimentarne il mito, definitivamente consacrato con la realizzazione delle prime trasposizioni cinematografiche, almeno sei di cui l’ultima celeberrima, senza contare tutta la produzione minore.
Mary Shelly scrisse successivamente biografie, racconti di viaggio, storie della letteratura, articoli di giornali, romanzi futuristici e novelle, ma senza mai eguagliare la sua prima eccelsa opera, morì nel 1851, logorata da un lungo travaglio doloroso, probabilmente a causa di un tumore al cervello.
A tutti gli effetti la Shelly fu considerata la vera madre dell’intero filone fantascientifico e il suo Frankestein continua ad avere un grande successo, tanto che vanta il maggior numero di tentativi di imitazione, ristampe; e trasposizioni sia teatrali che cinematografiche.

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LA CONDANNA DEL SANGUE. La primavera del commissario Ricciardi, di Maurizio de Giovanni http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/30/la-condanna-del-sangue-la-primavera-del-commissario-ricciardi-di-maurizio-de-giovanni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/30/la-condanna-del-sangue-la-primavera-del-commissario-ricciardi-di-maurizio-de-giovanni/#comments Tue, 30 Sep 2008 07:09:58 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/30/la-condanna-del-sangue-la-primavera-del-commissario-ricciardi-di-maurizio-de-giovanni/ ricciardi.JPGLuigi Alfredo Ricciardi, nato a Napoli nel 1900, è il trentenne commissario di polizia ideato da Maurizio de Giovanni. Avevamo già avuto modo di presentarlo in concomitanza con il primo libro della serie di quattro (una per ogni stagione) a lui dedicata: “Il senso del dolore”.
Ora Ricciardi ritorna con “La condanna del sangue”.

Ci parleranno di questo nuovo romanzo Laura Costantini e Francesco Di Domenico.

Io ricordo solo la peculiarità di questo malinconico commissario che si trova a operare nella Napoli degli anni Trenta del secolo scorso: Ricciardi ha il dono – o la maledizione – di vedere l’immagine di chi muore di morte violenta, e ascoltarne le ultime parole pronunciate.

Il Fatto, lo chiamava. E il pensiero che la morte, nella sua partenza improvvisa, non aveva avuto il tempo di chiudere i conti, gli arrivava addosso, a chiedere vendetta. Chi se ne andava così, se ne andava con lo sguardo rivolto all’indietro. E lasciava un messaggio che Ricciardi raccoglieva, ascoltando quell’ultimo pensiero ossessivamente ripetuto.” (da “La condanna del sangue”, pag. 21).
Ospite di questo post sarà l’autore del romanzo: Maurizio de Giovanni.
Ma non solo…
Avrete la possibilità di interloquire direttamente con il commissario Ricciardi.
Ponetegli domande, mi raccomando…
Vi offro uno spunto.
Ricciardi sostiene che i moventi che stanno alla base di ogni delitto sono fondamentalmente due: la fame e l’amore.
Siete d’accordo?
Naturalmente tutti coloro che hanno già letto il libro sono invitati a dire la loro.
Massimo Maugeri

Intervista a Maurizio de Giovanni
di Laura Costantini

maurizio-de-giovanni.JPGCi sono personaggi nati dalla fantasia di uno scrittore destinati a vivere di vita propria. Il commissario Luigi Ricciardi, protagonista dei romanzi Il senso del dolore e La condanna del sangue, editi da Fandango, è uno di questi. Ma ci sono anche scrittori che assurgono facilmente al ruolo di personaggi essi stessi, e Maurizio de Giovanni (nella foto) è uno di quegli scrittori. Alto quasi due metri, di sicuro questo bancario partenopeo non ha il phisique-du-rôle dell’Alice piombata nel paese delle meraviglie. Ma è esattamente così che si sente da quando, auspici un corso di calcetto per i suoi due figli e un laboratorio di letteratura umoristica, è incappato nella scrittura.
“Non te la faccio lunga: grazie a un elaborato di otto righe scritto durante il laboratorio, mi iscrivono a un concorso. In giuria gente tipo Carofiglio e Lucarelli, presidente Daniele Protti (direttore dell’Europeo, n.d.r.). Non volevo andarci, non mi ritenevo all’altezza. Avevo già 47 anni, ero fuori tempo massimo. Il tema del concorso era un delitto famoso, io non sapevo cosa scrivere. Avevamo una quindicina di ore di tempo. Io ho pensato che avrei fissato il foglio per un’oretta, poi me ne sarei andato.”
Ma non l’hai fatto.
“No. Eravamo all’interno del caffè Gambrinus, a Napoli. Ho visto passare oltre le vetrate una bambina. Aveva un’espressione truce, era triste. Mi sono chiesto come sarebbe se uno potesse vedere il dolore degli altri, l’emozione nuda, senza alcuna mediazione.”
Quella bambina la ritroviamo ne Il senso del dolore, giusto?
“Giusto. Insomma, ho vinto il concorso. Il racconto I vivi e i morti venne pubblicato sull’Europeo nel 2005. Una grossa soddisfazione, ma pensavo fosse finita lì.”
Invece?
“Invece mi chiama un’agente letterario. Voleva un romanzo con il commissario Ricciardi protagonista. Non ce l’avevo. Mi sono preso due settimane di ferie, quindici giorni a scrivere come un pazzo, a tappo dentro casa.”
E hai scritto Il senso del dolore.
“Sì, anche se ancora non era quello il titolo. Io l’avevo intitolato Le lacrime del pagliaccio, poi la Fandango ha deciso diversamente.”
Il dolente commissario Ricciardi è un successo inaspettato. Come te lo spieghi?
“Me lo spiego cosi’: ho la fortuna di non saper scrivere. La mia scrittura non prevale come succede a colleghi molto più bravi di me. Loro si ascoltano scrivere, gli piace il gusto delle parole e la gente non ci si riconosce. A me non succede così. Sarà stata la fretta, ma io mi sono limitato a raccontare una storia. Ho mandato il manoscritto all’agente letterario, le piacque, ma voleva amore, qualche scena di sesso.”
E tu?
“Io non lo sapevo fare. A me quel romanzo mi era uscito così, come un circuito stampato. Chiesi consiglio al direttore editoriale di una casa editrice di Napoli. Mi chiama la mattina dopo: lo pubblichiamo noi.”
Le lacrime del pagliaccio vende 2000 copie in due mesi.
“E calcola che era distribuito solo a Napoli. Pensavo che fosse finita lì, mi ero tolto lo sfizio ma i colpi di… posso dirlo? Di culo non erano ancora finiti. Te la faccio breve, prometto. Il direttore del centro di produzione Rai di Napoli si ruppe una caviglia. Per passare il tempo leggeva. Gli capitò il mio libro, mi cercò, me ne chiese tre copie per sottoporle a tre nomi del settore editoriale. Il primo a muoversi fu Domenico Procacci, di Fandango. Mi diede appuntamento a Roma.”
E, come si dice, il resto è storia. Il senso del dolore e La condanna del sangue sono i primi due di quattro episodi, uno per ciascuna stagione dell’anno.
Sì. Procacci pensava che li avessi già pronti. Mi è toccato scrivere a tempo di record il secondo (La condanna del sangue – la primavera del commissario Ricciardi, nelle librerie dallo scorso 26 giugno). Sto lavorando al terzo e per il quarto sono ancora in alto mare. La mia fortuna, una delle mie molte fortune, è Paola, la mia compagna, che ha la pazienza di rileggermi e farmi l’editing. Io non rileggo mai quello che scrivo, mi annoia perché so già come va a finire.”
Il senso del dolore è uscito in sordina, eppure è nella classifica dei 100 più venduti da ottobre. I diritti sono stati acquistati all’estero, in Francia e Germania. Si comincia a parlare di una trasposizione televisiva. Ti aspettavi tutto questo?
“Ma quando mai? Mi viene da ridere quando la gente mi tratta come fossi uno scrittore vero, sai quelli con i capelli lunghi, il dolcevita nero e l’aria tormentata. Io sono solo… lo posso dire? Un coglione strafelice che ha avuto una bella idea. E basta.”
Nessun talento?
“No. Tutti abbiamo dentro delle belle storie. Ci vuole solo la faccia tosta di raccontarle. E io la faccia tosta ce l’ho.”

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Recensione a La condanna del sangue – la primavera del commissario Ricciardi (di Laura Costantini)

Faccia tosta o talento che sia, Maurizio de Giovanni è riuscito a mantenere ciò che aveva promesso nel suo romanzo di esordio. E non era facile, vista la perfezione di stile, di emozioni, di equilibrio che Il senso del dolore sapeva trasmettere. Diciamo subito che La condanna del sangue è romanzo molto più corposo e articolato. Se nel primo l’autore aveva tenuto strette le redini della propria creatività, con La condanna del sangue si è lasciato andare al piacere di un acquerello che alle tinte leggere e trasparenti della primavera in corsa nei vicoli di questa Napoli 1931, aggiunge pennellate vivide e gocciolanti che non possono che essere rosso sangue. Al centro di tutto, ancora, il nostro amico Ricciardi, con i suoi occhi verdi trasparenti come vetro, ma profondi e insondabili almeno quanto quel Fatto che è dono e maledizione. E se ci era apparso personaggio degno di restare ben presente nella memoria del lettore alla sua prima apparizione, qui il commissario acquista spessore e umanità, rivelando fragilità che fanno sorridere. E innamorare. Intorno a lui si muove Napoli e una piccola folla di personaggi guidati all’azione dal vento leggero e profumato della primavera, dal rimescolarsi dei sentimenti e degli ormoni, dalla cattiveria, dall’avidità, ma anche e soprattutto dall’amore. L’omicidio cruento di una vecchia cartomante è il filo conduttore e l’indagine principale, ma le pennellate si espandono intorno, comprendendo una donna troppo povera e sola per permettersi di essere la più bella di tutta Napoli, un pizzaiolo indebitato e disposto a morire per tutelare l’onore della sua famiglia, una ragazzina abusata dal padre vedovo, un attore bello e rampante, una nobildonna annoiata e in cerca della scossa della passione, una bambina ritardata che condivide con Ricciardi il dono di vedere i trapassati. Tirare le fila di tutto questo, e molto altro, non deve essere stato facile eppure de Giovanni, che per scrivere romanzi prende due settimane di ferie e si chiude a tappo in casa, ci è riuscito con la maestria di un grande pittore. Quello che ci troviamo davanti è un affresco tenero ed epico insieme, arricchito da maschere profondamente umane. Come quella del brigadiere Raffaele Maione, indispensabile spalla di Ricciardi, uomo tutto d’un pezzo ma vero nelle sue incertezze, nella sofferenza per il figlio perduto, nella rabbia per un matrimonio che rischia il naufragio, nella fragilità davanti alla possibilità di un altro amore, un’altra donna. Saranno la sua profonda onestà, la saggezza di un femminiello e la forza tutta femminile di sua moglie Lucia, a riportarlo in carreggiata, a rimetterlo al posto che gli spetta nell’affresco. Un affresco che si accende anche di rosa nella nuova chance che riporta speranza per il timidissimo commissario Ricciardi e per la sua Enrica, silenziosa ricamatrice mancina alla finestra. La primavera ce li mostra così i personaggi partoriti dal talento di Maurizio de Giovanni, incasellati in una storia che odora di vicoli, di rifiuti, di mare, di vento fresco, di fiori appena sbocciati. E su tutto domina l’aroma ferroso e feroce del sangue. La ferita che attraversa il volto perfetto di Filomena così come quello di Napoli. Uno sfregio che non ne spegne la bellezza. Anzi, la esalta.
Laura Costantini

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Recensione di Francesco Di Domenico

Uno poi sta lì ad aspettare.
Il lettore è una carogna, aspetta la seconda opera, come diceva il principe: “Vediamo ‘sto stupido dove vuole arrivare”; il critico, quasi sempre un’infame sprovveduto e insulso mancato scrittore; l’amico scrittore, una gelida bestia arsa dal livore per il successo del compagno.
Maurizio de Giovanni esce con il secondo “Ricciardi” e sgomenta un po’ tutti.
Li stende. Ma non credo ne avesse voglia, de Giovanni semplicemente tira fuori da sé quello che la sua incredibile fantasia ha accumulato in quasi 50 anni di letture e vita vissuta, con semplicità disarmante. Quando gli chiedevano, alla presentazione del “Senso del dolore”: – “Maurì, e adesso? Come sarà il prossimo? Che scriverai?” Lui rispondeva, con quel sorriso umile, dolce, come sanno essere dolci i veri amici, e anche un po’ sulla difensiva: “Perdonatemi, ma l’ho già scritto!” Tornano, con questo secondo libro, di una promessa quadrilogia delle stagioni, i personaggi che ci avevano già convinto nel primo tomo: il brigadiere Raffaele Maione, ombra massiccia e sussiegosa; la giovane e delicata Enrica, amore di sguardi tra finestre e Luigi Alfredo Ricciardi, gli occhi verdi all’altro capo dell’altra finestra. Messa così sembra un romanzo d’appendice: tutt’altro.
“La condanna del sangue” è la primavera di questo giovane commissario trentenne, nel ‘30 del ‘900. Tutto ribolle nella stagione della rinascenza, a cominciare dal sangue.
Tra i vicoli dei quartieri poveri della città che si affacciano nell’antica via Toledo, la “Via Nova” – come ancora oggi, a 400 anni di distanza la chiamano gli abitanti dei “Quartieri Spagnoli – Il commissario Ricciardi vive, cammina e sopravvive a se stesso e ad un soprannaturale dolore che si porta dentro. La strada, sotto il fascismo si chiama via Roma, ed è ancora una violenta coltellata seicentesca nel cuore della sirena partenope, che scendendo dalla Reggia estiva di Capodimonte arriva direttamente all’altra reggia di piazza del Plebiscito,  e al mare, cercando di dividere i ricchi dai poveri, il mare dalla collina; i vivi dai morti.
In questa città non si sono ancora prodotti i distacchi netti del dopoguerra tra ceti; non c’è ancora l’odore della morte e della sopraffazione che avrebbe ereditato dalla tragedia del ’43. Il fascismo è raccontato in modo distaccato, come “un altro da sé”, quasi separato dalla vita viva della gente, con ironia storica. Anche il mare, che dovrebbe essere il contenitore vivido di questa città, è trattato come una delicata cornice, una nuance.
Il melange tra classi è una risulta culturale della Napoli ancora borbonica; ricchi che frequentano i poveri per servirsene, per comprare soldi a usura o speranze da cartomanti. La stessa miscela, sapientemente raccontata nel capolavoro eduardiano “Napoli Milionaria”. Nel mezzo delitti, a volte quasi casuali, raramente premeditati. Croci continue sulle spalle di un uomo autocondannatosi alla scoperta della verità, legato a quel mistero soprannaturale , “Il Fatto”, che gli fa udire le ultime parole che il morto pronuncia o pensa, per dare sepoltura a quelle parole e alle anime, più che ai corpi.
L’autore afferma che “I genitori di ogni delitto sono, per Ricciardi, la Fame e l’Amore; l’una ottusa, cieca e violenta, l’altro illusorio, falso ed egoista. Il Potere, l’ansia del quale procura pure crimini orribili, è di fatto una via di mezzo. Potremmo dire che tutti e tre esauriscono le motivazioni di questi crimini.”
Il percorso adottato dall’autore è lastricato di piccole e grandi passioni incastrate come i lastroni di pietra lavica che pavimentano la città, e di miseria, quella che una volta era fisica e oggi è puramente morale.
La narrazione, intrisa di particolari spietati e lucidi sembra quasi precedere lo straordinario “Il Mare non bagna Napoli” di A. M. Ortese . Alcuni passaggi hanno la stessa tensione di amore/odio della grande scrittrice che nel ’53 scriveva: “Qui, il mare non bagnava Napoli. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco dell’amore, sotto il cielo nero del sovrannaturale.”
Napoli aveva proprio bisogno di un altro scrittore.
Francesco Di Domenico

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