LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » francesco forlani http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 NAPOLI E L’IRPINIA TRA I LIBRI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/25/napoli-e-l%e2%80%99irpinia-tra-i-libri/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/25/napoli-e-l%e2%80%99irpinia-tra-i-libri/#comments Wed, 24 Mar 2010 23:06:42 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1835 Sono molto lieto di avviare questa discussione incentrata su Napoli e l’Irpinia, luoghi entrati nell’immaginario di molti di noi (ma anche luoghi dove sono nati e vivono parecchi amici di questo blog).
Nel farlo tenterò di coinvolgere alcuni scrittori che, attraverso i loro libri, hanno raccontato di queste terre e di tutto ciò che – nel bene e nel male – gravitano attorno a esse.
Credo sia superfluo premettere che la produzione di libri (di narrativa e non) dedicati, in un modo o nell’altro, a Napoli e all’Irpinia (a partire dall’ormai celeberrimo Gomorra di Saviano) è piuttosto cospicua. Per cui, i libri che segnalo in questo post sono solo una piccola rappresentanza della folta schiera disponibile.
Di seguito, come sempre, porrò qualche domanda al fine di agevolare la discussione. Ma prima ci tengo a presentare scrittori e libri coinvolti (li elenco per ordine alfabetico di cognome degli autori e curatori):
- “L’INFANZIA DELLE COSE” di Alessio Arena (Manni)
- “UNA TERRA SPACCATA” di Emilia Bersabea Cirillo (San Paolo)
- “L’IMBROGLIO NEL LENZUOLO” di Francesco Costa (Salani)
- “SCUORNO (Vergogna)” di Francesco Durante (Mondadori)
- “NAPOLI PER LE STRADE“, racconti a cura di Massimiliano Palmese (Azimut)
- “LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia” racconti a cura di Generoso Picone (Mephite edizioni)

Mi permetto di ricordare, tra gli altri, “Napoli sul mare luccica” di Antonella Cilento (Laterza) di cui avevamo parlato qui. E, per quanto riguarda l’Irpinia, i libri di Franco Arminio.

Gli autori dei suddetti libri, i curatori delle raccolte e gli autori dei racconti, gli amici irpini e napoletani e voi tutti… siete invitati a partecipare al dibattito.

Francesca Giulia Marone e Emilia Cirillo mi daranno un mano a moderare e a coordinare la discussione.

E ora… le domande del post:

1. Che differenza c’è tra Napoli e l’Irpinia (in cosa differiscono due città come Napoli e Avellino)?

2. Quali sono i “tratti” in comune?

3. Come è cambiata (se è cambiata) la Napoli di oggi rispetto a quella di venti, trenta, quarant’anni fa?
E l’Irpinia?

4. Che rapporto c’è tra Napoli, l’Irpinia e il cinema? Come sono state rappresentate nel grande schermo? Tali rappresentazioni sono sempre state aderenti alla realtà?

5. Se doveste scegliere, con riferimento all’intera storia della letteratura, il libro che meglio rappresenta Napoli… quale scegliereste? E perché?

6. E quale libro scegliereste in rappresentanza dell’Irpinia?

Di seguito, un po’ di notizie sui libri sopraccitati (ne approfitto per ringraziare gli autori delle recensioni).
Massimo Maugeri

———————–

L’INFANZIA DELLE COSE di Alessio Arena
Manni, 2009 – pagg. 280 – euro 17

di Francesca Mazzucato: da Books and other sorrows

L’infanzia delle cose di Alessio Arena ( Manni, 2009) è un romanzo di stupori. E’ una storia vagabonda, anarchica, smembrata, pornografica, impazzita, politica e favolistica, folle e slabbrata, adatta a chi sa mettersi a sentire il brusio delle cose, la loro voce, un’eco diseguale: chi lo sa fare arriva a captare la loro infanzia, la loro dimensione di innocenza. Che si perde presto. E poi si ritrova. In un visionario e immaginifico stratificarsi di luoghi fisici ed emotivi, Il quartiere di Madrid di Lavapiés, il Rione Sanità di Napoli, piccoli e grandi malavitosi, ristoratori collusi, figure di donne stupende, che ti rimangono anche se non le capisci del tutto perché sono fatte della materia del sogno, del prisma, del gioco di luci: Erika , Amparo, la madre del protagonista, la madre di Amparo che le cose le raccoglie.

“…Non vuole fare morire le cose
-Le cose? Quali cose?
-Tutte quelle che ci stanno, tutte quelle che trova, lei se le porta dove sta lei, perché non devono morire, non si devono buttare.
Mi è venuto da dire maronna mia però non ho detto niente. L’ho guardata soltanto e all’improvviso ho avuto come la sensazione che da quel momento potevo contare su Amparo per qualsiasi cosa..”

Cose che si ammucchiano, che cambiano perché cambiano i modi per definirle e così si trasformano, nomi che sono tronchi, inventati, irriverenti, impastati di napoletano che diventa spagnolo che diventa italiano bislacco, dove ci si fa gioco della sintassi perché il background è solidissimo e lo permette. Una partita a carte con tutte le convenzioni, i contesti facili della parola scritta. Non sarà tutto semplice in ogni pagina, a volte sarà un percorso tortuoso, vi avverto, ma ne vale la pena. Fare fatica per leggere è vitale. Non si può rinunciare prima, è la resa definitiva, e il nostro paese se si arrende sui libri, sulle letture, se sceglie definitivamente il lamento televsivo, gli aggiornamenti calcistici, le ” convention” plaudenti alle storie, se preferisce per sempre tutto il ciarpame del nulla alla carta, alla vita dei personaggi da far proseguire nella testa e nel cuore rischia il ripiegamento definiivo, la perdita della dignità. Difendersi è vitale.
Ecco, Arena ha scritto un romanzo popolato di personaggi folli, increduli e devastati, ma pieni di una loro magnificenza. Di dignità antica. Una storia così contemporanea e così densa.

“Ci ho pensato e mi è venuto da pensare che io mi metto paura di una cosa che sta in tutte le cose e che pure se non la vedi sai che ci potrebbe stare”

Non l’ho letto per forza, non è stato un colpo di fulmine, ma un lento avvicinamento circolare. Quando leggo “realismo magico” sulla quarta di copertina di un libro sono sempre sospettosa, penso che non mi riguardi, che il contenuto non possa che fare il verso al realismo poetico francese, quello dei film che amo tanto, o che sia una frase fatta per definire ”una cosa a metà strada fra la fantasia e l’improbabile, un pasticcio” : ero un po’ sospettosa quando ho iniziato quindi, procedevo adagio coi piedi di piombo, poi qualcosa mi ha tirato i capelli, infilato nelle pagine e non ne sono più uscita.
Non è tutto perfetto questo libro di Alessio Arena. Proprio per niente. A volte si arranca leggendo, a volte la storia si incaglia, si perde il filo. Accade. Ma si deve leggere sapendo che è uno di quei libri dei quali non si devono macinare righe e parole nell’attesa di arrivare alla fine. La fine c’è già, viene ribaltata, cambiata, rotolata, è all’inizio, poi ci sono intermezzi e divagazioni. Occorre soffermarsi sulle singole pagine, respirarne i colori, il vociare, gli odori e le evocazioni musicali della lingua che lo scrittore inventa. Perfettamente adatta a cogliere quel magico bisbiglio. Quello delle cose innocenti nonostante la camorra, la morte, l’esilio, la paura, gli incendi. Le persone muoiono- anche se non del tutto- le cose restano innocenti ed eloquenti, e Arena ce le fa sapere decodificandole e, facendolo, regala momenti di commozione, attimi luminosissimi quando la storia perfora il cuore e pensi”caspita”, e resti inebetito e vai avanti e poi ritorni qualche pagina indietro e intanto il napo-latino si è esibito in altre pirotecnie. Veri fuochi d’artificio. Li puoi vedere. Se il montaggio non è perfettamente calibrato si può perdonare e capire.
In questo suo primo romanzo Alessio Arena ricrea il mondo. Un mondo caleidoscopico, dove ci sono De Sica, Almodovar, Pasolini tutti insieme. Un mondo-mondo, mai asfittico ma che si apre come la corolla di un fiore di carnevale. Non addomestica la sua urgenza narrativa, l’autore. E la lettura è bella e strana, un’esperienza differente da tante letture anemiche, precise, puntuali, adatte ma banali. Alla fine de L’infanzia delle cose l’ imperfezione diventa parte dell’incanto.

———–

UNA TERRA SPACCATA di Emilia Bersabea Cirillo

San Paolo edizioni, 2010 – pagg. 240 – euro 14,50

Una Napoli soffocata dalla spazzatura ma che ancora riluce della sua antica bellezza – come quella delle architetture realizzate da Lamont Young – accoglie il corpo di Filippo Ghirelli, morto durante una manifestazione di protesta contro la costruzione di una discarica al Formicoso, in provincia di Avellino.
È questa la vicenda di apertura di Una terra spaccata, che vede protagonista la geologa Gregoriana De Felice, chiamata a riconoscere il cadavere dell’amico, proprietario di un elegante albergo napoletano.
Come in un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio della propria memoria la donna rivive le fasi dell’incontro con l’uomo che le ha cambiato la vita, dal riconoscimento di intime affinità (la scoperta della bellezza di un luogo interno del Sud, la musica del silenzio, la ricerca della verità) alla condivisione di un atteggiamento di netto rifiuto verso la costruzione della discarica.
Incaricata di effettuare i saggi del terreno a essa destinata, poi blandita e infine minacciata dall’ingegnere Misuraca, direttore dell’azienda per cui lavora, al fine di redigere una relazione che testimoni la “idoneità del terreno alla costruzione della discarica” Gregoriana impara la ribellione amando Filippo e la sua malinconica ricerca di un luogo in cui vivere, di una casa dell’anima.

Filippo camminava davanti a me. Visto di schiena sembrava più giovane, la testa eretta, le spalle dritte, il corpo piccolo e muscoloso.
- Ci sono luoghi che si infilano dentro di noi. E non se ne vanno più. Li accogliamo per come sono dimenticati, splendenti, sconosciuti. Riescono a entrare nelle crepe, nelle nostre ombre, inconsolabili come siamo. Trovano rifugio perché abbiamo bisogno di loro. Un mutuo compenso. Quanto più è intricata la nostra oscurità, tanto più permangono, mia cara. Fino a convertirci. Fino a modificarci. Penso che questo ti sia capitato con il luogo dello scavo. Per forza che devi difenderlo. Fa parte di te -

La donna infatti denuncerà l’operazione pubblicamente, durante un’apparizione televisiva, poi rassegnerà le dimissioni per “amore della verità”.
Due personaggi scheggiati: lei con un padre lontano, una madre assente e malata, un compagno già sposato che in quei giorni si trova a Gerusalemme, in missione diplomatica .
Lui senza più una madre, senza una patria, senza un vero affetto, così sospetta Gregoriana, che non sia quello pagato per una notte.
Dal confronto con la comunità del Formicoso, composta da emigranti di ritorno ma anche da giovani che sono decisi a restare e a impegnarsi per i loro paesi, Filippo e Gregoriana finiranno per condividerne, ciascuno per suo conto, memoria e destino, lottando per la difesa di un luogo lucente e ventoso, fatto di terra, acqua e silenzio.

——————–

L’IMBROGLIO NEL LENZUOLO di Francesco Costa
Salani, 2010 – pagg. 266 – euro 14,50

1905. Il cinematografo conquista Napoli Ma che cos’è questa invenzione che crea dal nulla movimenti e colori, e che fissa la stessa azione, la stessa immagine in eterno, uccidendo la morte e donando l’eterna giovinezza? Ai paesani del circondario pare una diavoleria che chiamano « o ’mbruoglie dint’o lenzuolo »: per loro è una nuova forma di magia, da guardare con sospetto e diffidenza. Così è per l’ingenua Marianna, erbivendola analfabeta, che scopre di essere attrice suo malgrado di La casta Susanna, una pellicola di sei minuti in cui incanta (o scandalizza) folle di spettatori bagnandosi nuda nel lago d’Averno. La bella bagnante che tanto le somiglia è veramente lei o una sosia che le vuol male? E perché ripete sempre gli stessi gesti, senza sgarrare di un secondo? La verità la sa Federico, realizzatore del film, ma intende ricostruirla anche colei alla quale era stato inizialmente offerto il ruolo, Beatrice, autrice torinese giunta in città per scrivere il romanzo a puntate Eunice, l’orfana tisica

Generoso Picone parla di questo libro così: “Francesco Costa, adoperando una lingua a cui l’uso del dialetto o di brani della parlata popolare dà ritmo ed esplicitezza, risolve l’intreccio in una soluzione che diventa un’ode all’eterno valore del cinema: imbrigliare la bellezza da cui si è ossessionati, renderla eterna oltre i giorni che si possono vivere, donarle la seduzione che può trasmetterla ai giorni che verranno.”

Un brano del libro: “Ecco il lago d’Averno incorniciato di felci che si piegavano al vento, così lievi da parere finte, e dal fondo, ignara, magnifica, si faceva avanti la sua Susanna, i capelli neri e arruffati… Giunta a un accenno di spiaggia si toglieva i vestiti e guardava il sole che sorgeva dalla parte in cui, lontano, il mare univa quella terra a paesi di cui neanche sapeva i nomi.
Un attimo ancora, e si sarebbe gettata nel lago tutta nuda, ma prima, per chissà quale incontenibile impulso che lui mai avrebbe benedetto abbastanza, avrebbe fatto una piroetta, un passo di danza o qualcosa di simile…
Si sarebbe tolta i vestiti in eterno, e avrebbe ripetuto la sua piroetta per sempre, incarcerata nel suo raggio di luce, era sua, l’aveva catturata e anche tra un secolo, o perfino tra due, sarebbe stata costretta a ripetere i suoi gesti per un pubblico incuriosito o stralunato. Era la sua prigioniera…
La luce era al suo servizio, proprio così, e ai napoletani in vena di spassi rendeva visibile su quel grande lenzuolo bianco tutto ciò che aveva sognato, inseguito, desiderato.”

Francesco Costa è nato a Napoli. Già sceneggiatore cinematografico e televisivo, ha esordito con il romanzo La volpe a tre zampe, cui si ispira l’omonimo film di Sandro Dionisio con Miranda Otto e Angela Luce. Sono seguiti Non vedrò mai Calcutta, Se piango picchiami, Il dovere dell’ospitalità e, per Salani, Presto ti sveglierai. I suoi libri sono tradotti in Germania, Giappone, Spagna e Grecia. Da L’imbroglio nel lenzuolo è stato tratto il film di Alfonso Arau, illuminato da Vittorio Storaro e interpretato da Maria Grazia Cucinotta, Anne Parillaud e Geraldine Chaplin.

* * *
“L’imboglio del lenzuolo” di Francesco Costa
La recensione di Maria Lucia Riccioli

Napoli, 1905.
L’Unità d’Italia è una realtà da più di trent’anni, ma per Federico Bory, “cinematografaro” ante litteram, non è più che un cambio di nome per la Via Toledo. O forse è la possibilità d’incantare la gente come un apprendista stregone: «Non poteva comandare, va da sé, tutta la luce che inonda la terra, ne aveva asservito solo un fascio, però era già più di quanto capitasse di norma, e quel fascio di luce andava a buttarsi tutte le volte che lui voleva dentro un lenzuolo da cui tirava fuori cose mai viste, una magnifica femmina e paesaggi d’incanto voi vi chiederete che diavoleria è mai questa, e io che non voglio tirarla in lungo, vi rispondo che faccio il cinematografo, voi saprete di che sto parlando, sì, sono un direttore di scena, ho realizzato una film e ho venticinque anni appena finiti».
E cos’è per Beatrice Sismondi, torinese inquieta, l’Unità d’Italia? Il sentirsi attratta e respinta assieme da Napoli, il sogno realizzato di scrivere sul Mattino come l’ormai leggendaria Serao, di pubblicare a puntate Eunice, l’orfana tisica, improbabile feuilleton strappafazzoletti.
Marianna Mazzolati, bellissima e analfabeta, taglia corto. Chi è del Nord viene «dall’altra Italia», quella in cui si parla una lingua sconosciuta, quella che ti strappa il tuo uomo, Giocondo Gaudio o Gaudio Giocondo – valli a capire i misteri dell’anagrafe del Continente – per farlo soldato a forza.
E chi è la casta Susanna che s’immerge come una ninfa antica nelle acque del lago d’Averno e danza nuda, immortalata su una pellicola?
Cafè chantant, esilaranti produttori cinematografici, amori e passioni in una Napoli smagliante e chiassosa, incantata dal cinema, “l’imbroglio nel lenzuolo”, che fa spavento e attrae dando corpo ai sogni e scrivendoli con la luce.
E poi c’è il fascino della Napoli sotterranea, dell’Averno e del Lucrino, con la grotta della Sibilla e i suoi misteriosi sussurri, il paesaggio affatturato di ginestre e indorato di sole in cui si mescolano profumi e colori, le piante che Marianna raccoglie e impiastriccia per le sue incantagioni curative.
Francesco Costa è un giocoliere di parole e di luce, quella luce mediterranea e partenopea in particolare che fa pazziare i suoi personaggi e che forse li farà rinsavire.
“L’imbroglio nel lenzuolo” è una girandola di situazioni e di trovate, un flusso di narrazione in cui i personaggi principali si rimpallano la storia e se la rigirano a proprio modo. Al lettore il compito di sbrogliare il lenzuolo, di sorridere indulgente ai propri sogni e a quelli usciti dalla penna di Francesco Costa.

——————–

SCUORNO (Vergogna) di Francesco Durante
Mondadori, 2008 – pagg, 208 – euro 17,50

di Francesca Giulia Marone

Giorni fa leggevo un articolo di Marco Belpoliti su Panorama che trattava del sentimento della vergogna, o meglio della mancanza di tale sentimento nella società attuale. Il senso del pudore pare essere scomparso – ed io concordo con quanto scritto nell’articolo – non solo a livello personale ma anche a livello sociale.
La comunità ha abbassato la soglia del pudore, sia che si parli di pudore come concetto legato al sesso, sia che riguardi i sentimenti e le emozioni più intime. Tutto è “spudoratamente” mostrato e nel suo mostrarsi perde di significato, rende tutti uguali, tratta le nostre emozioni come merci e nessuno più abbassa gli occhi di fronte ad uno sguardo di giudizio interiore o esteriore che sia. Nessuno prova più vergogna.
Per tale motivo il libro “Scuorno” di Francesco Durante si inserisce come una lettura oltre che piacevole, necessaria, magari come uno stimolo in più per ritrovare quel sentimento a livello personale e sociale nella città di Napoli. Ma attenzione, lo scuorno è molto più della vergogna, è la vergogna della vergogna. Da questo sentimento, di cruciale importanza per un vivere civile e consapevole, Napoli potrebbe ripartire riscattando un’immagine che negli ultimi tempi è stata sommersa dalla “munnezza”, la camorra, la miseria e un’attenzione mediatica concentrata sui mali endemici. Difficile compito – per lo scrittore nato ad Anacapri, allontanatosi da Napoli per diversi anni e poi tornato – “parlare” della città senza cadere nelle trappole degli stereotipi e del già detto (difficile inserirsi nel solco del dopo Gomorra di Saviano); ma Francesco Durante riesce in pieno nell’intento e ci consegna un libro stimolante, scritto con agilità e grazia, che sa cogliere la malìa seduttiva della città con ironia intelligente senza risparmiare peraltro le giuste critiche. “Scuorno” è un libro che brilla per l’originalità della visione, è colto senza annoiare, è a tratti intimo come le pagine di un diario personale, è interessante quando tratta il percorso storico del passato di Napoli capitale e del significato delle tante dominazioni straniere, è ironico quando dipinge quadretti di vita dei quartieri, puntuale e divertente quando dedica un intero capitolo ai santi patroni della città dispiegandone tutti i tratti caratteristici al lettore. Non mancano i riferimenti alla politica e una certa simpatia indulgente per personaggi della scena politica napoletana degli ultimi anni, affondanti le riflessioni sulla lingua e sui termini che tracciano una linea di contiguità fra le classi sociali, il libro si snoda apparentemente in maniera disordinata da un tema all’altro con abile maestria da narratore, affrontando diversi registri, disegnando un prodotto finale che risulta essere profondamente diverso dalla moltitudine dei testi fioriti nell’ultimo periodo sulla città di Napoli. Non c’è soltanto accusa, non esiste soltanto un dito che gira nelle piaghe dei mali endemici della città. Nelle pagine di “Scuorno” c’è amore, c’è nostalgia per un’atmosfera napoletana unica e irripetibile in altri contesti. Lo si legge chiaramente anche dalle parole che lo scrittore riporta di Valeria Parrella – altra scrittrice napoletana rimasta fisicamente e spiritualmente legata alla sua città – : “Napoli ha un microclima esistenziale che non trovi da altre parti”. Tutto questo, che probabilmente è parte dell’intimo pensiero dell’autore, viene consegnato al lettore con leggerezza, con sguardo ironico e sapiente che lascia intravedere un’altra prospettiva, un’altra strada per Napoli che attraverso lo scuorno possa riscoprire un orgoglio nuovo che superi l’avvilimento e dia slancio per recuperare l’immagine migliore di sé. In fondo potrebbe essere sufficiente, per riacquistare un peso di consapevolezza felice, un piccolo oggetto-simbolo come la statuina di pulcinella mandata nello spazio per vincere un lack of mass (come dicono gli esperti del Mars), un carico più leggero del previsto che crea problemi nel decollo spaziale – un’immagine simbolo beneaugurante affinché la città possa ritrovare la sua natura oggi svilita. Sono state diverse le letture di questo libro, al di là della indiscutibile bravura e preparazione dell’autore, alcune letture scure e pessimistiche lo interpretano come un quadro di una città senza speranza, che dietro le facce dello scuorno ha solo ignoranza e fallimento. Mi piacerebbe, oltre lo sguardo doloroso e acuto dell’autore, vedere segni di speranza e di ripresa, attraverso le sue parole talvolta delicate e ricche di sentimento per Napoli, ma senza cadere mai nel vittimismo, ed immaginare con lui e i lettori di “Scuorno” tanti pulcinella liberi nell’etere che raccontino ancora della bellezza antica della mia città come qualcosa di possibile.

——————-

NAPOLI PER LE STRADE racconti a cura di Massimiliano Palmese
Azimut, 2009 – pagg. 200 – euro 12

da Napoli.com

Racconti di: Alessio Arena, Stella Cervasio, Luigi Romolo Carrino, Fabrizio Coscia, Carla D’Alessio, Maurizio de Giovanni, Luca De Pasquale, Peppe Fiore, Francesco Forlani, Antonio Iorio, Simone Laudiero, Marilena Lucente, Giusi Marchetta, Marco Marsullo, Paolo Mastroianni, Rossella Milone, Davide Morganti, Marco Palasciano, Massimiliano Palmese, Angelo Petrella, Massimiliano Virgilio.

Dopo Gomorra molti altri libri tra fiction e giornalismo hanno avuto Napoli come oggetto d’indagine. La vocazione di Napoli per le strade – parte di un progetto benefico più ampio, Città per le strade – è del tutto differente: più che un’inchiesta sulla città, è un’inchiesta sullo stato di salute della sua letteratura. Infatti, se il giornalismo dipinge il ritratto di una città malata e sofferente, le narrazioni degli scrittori fanno emergere con forza le istanze di una città reattiva e “resistente”.
Può sembrare ambiziosa la sfida di presentare in un’unica raccolta ventuno scrittori da Napoli e dintorni, eppure si deve pensare che il volume non raccoglie una sola generazione ma almeno tre, e provare a immaginare questi scrittori come le molte e differenti voci di una città che, tirata in ballo dalla cronaca (quella nera della camorra e quella grigia della politica), decida di voler intervenire personalmente nel dibattito, e raccontarsi.
E così, dalle antiche cime di Pizzofalcone alla borghese Chiaia, dalla collina “snob” del Vomero alle zone popolari di Vasto, Duchesca e Sanità, da “giù Napoli” alle alture dei Camaldoli e Capodimonte, dalle periferie di Chiaiano fin dentro al cuore pulsante del Centro Storico, ventuno luoghi di Napoli vanno a comporre la cartografia di una città troppo vasta e troppo ricca di energie contrastanti per essere definita con un unico nome, o soprannome.
”Napoli per le strade” ha un incipit colto, col racconto di un poeta e studioso (Palasciano), quindi salda subito il suo debito con la nostalgia di chi è partito, ma una nostalgia senza rimpianto (Forlani, Fiore); chi invece è rimasto in città, la vive in uno stato di attesa (Marchetta, D’Alessio) o di combattimento perenne, quasi di guerriglia psicologica (Palmese, Laudiero, Virgilio); una città dove alte sono le temperature dell’eros (Carrino, Petrella) e dalla passione al delitto il passo è breve (Arena, Marsullo, Iorio, Mastroianni, Morganti); dove il presente per la sua complessità è difficile da decifrare o addirittura enigmatico (Coscia, De Pasquale, Lucente), mentre il futuro per qualcuno potrebbe essere già scritto (Cervasio, de Giovanni, Milone).
Autori nuovi, che hanno esordito negli ultimi due o tre anni (Carrino, Coscia, De Pasquale, Fiore, Forlani, de Giovanni, Laudiero, Mastroianni, Morganti, Palmese, Petrella, Virgilio), diverse e interessanti voci di donne (Cervasio, D’Alessio, Lucente, Marchetta, Milone), i giovanissimi (Arena, Iorio, Marsullo), un poeta (Palasciano): ventuno scrittori per un progetto benefico, ventuno storie da una grande metropoli.

———————

LE FRANE FERME. Quattro racconti sull’Irpinia a cura di Generoso Picone
Mephite edizioni, 2010 – euro 12

di Antonella Cilento (da IL MATTINO del 19/01/2010)

È un fatto che le aree geografiche, le province, le pianure, i golfi o le montagne vadano raccontate: non c’è forse narrazione più vitale, in questo momento storico, di quella che parte dai luoghi e che si assume la responsabilità di rappresentarli in rivolta contro il silenzio assoluto imposto dal vocìo globale che racconta macro-aree, non-luoghi, metropoli tentacolari, poli magnetici e direzioni (storia del Nord, del Sud, dell’Est, dell’Ovest) piuttosto che terre e persone. E se in Italia gli scorsi decenni hanno identificato con chiarezza aree della provincia raccontate con vigore dagli scrittori locali, dall’Emilia al Nord-Est, è giunta senz’altro l’ora dell’Irpinia, riposto interno della Campania, oscurata dal sole (luminoso o buio) napoletano, regione nella regione, a scavalco dell’Appenino, rivolta verso l’Oriente ma con un piede nell’Occidente, luogo dell’osso, come tante volte si è detto. I narratori raccolti ne «Le frane ferme» (Mephite edizioni) da Generoso Picone sono in effetti scrittori, almeno in parte, imparentati con i narratori delle pianure di Gianni Celati, con l’Emilia padana che negli anni Settanta e Ottanta raccoglieva la tradizione di Antonio Delfini e di altri narratori extra-ordinari, malinconici, provinciali nel senso ideale della parola e non solo locale, che dei movimenti dell’animo del territorio, delle variazioni di luce, dei sentimenti minori, della quotidianità facevano racconto. Una tradizione che si sarebbe tradotta in Pier Vittorio Tondelli e che ancora s’intravede, ad esempio, nei bei racconti di Davide Bregola o in alcune storie di Guido Conti. Una continuità non solo ideale ma concreta c’è nelle storie letterarie di Franco Arminio e Emilia Bersabea Cirillo, legati in anni trascorsi alle riviste o agli ambiti di Gianni Celati, e nel racconto di Marco Ciriello con un protagonista e un tema ispirato al meraviglioso «Casa d’altri», massimo approdo narrativo di un altro eclettico emiliano, Silvio D’Arzo: ne «La piega» Ciriello infatti sceglie per protagonista un prete e come tema una difficile confessione, identica traccia di D’Arzo, e lo chiama Ezio, che era il vero nome di D’Arzo, all’anagrafe Ezio Comparoni. E se in Ciriello si declina quindi il tema darziano della solitudine montagnosa, del panorama che wertherianamente rispecchia il sentimento di solitudine e abbandono, l’Irpinia di Franco Arminio cerca una sua specifica autonomia, declinata non in forma prettamente narrativa ma sotto forma di reportage o di comizio narrativo. Sottile ma continua la presenza di certa passata politica: il nome di De Mita appare inevitabile in ogni racconto a punteggiare situazioni o discorsi di diversa natura. Così come appare limpida l’Irpinia delle case vecchie, del terremoto dell’Ottanta che fa da spartiacque fra scelte e destini, letterari e no, e l’Irpinia delle case nuove, degli Zio Paperone della Campania, della nuova borghesia che affluisce in palazzine e villette, di quest’immensa periferia dell’anima, ancora contadina eppure fin troppo urbanizzata, con troppi Suv e scarpe costose ma con ancor più grandi melanconie, infelicità e incapacità di trasformazione. Ad esempio, scrive Arminio nel suo «Il circo dell’indifferenza»: «Abbiamo belle case, abbiamo un’aria decente, abbiamo belle macchine, abbiamo ottimo cibo, abbiamo gli stessi telefonini, gli stessi computer che hanno a Tokyo e a Francoforte. Quello che ci manca è il coraggio di giocarci la partita, preferiamo dire che il campo è impraticabile o che l’arbitro è sempre contro di noi». Ma è nel racconto di Emilia Bersabea Cirillo, «Gli infiniti possibili», impietosa e commossa narrazione alla Joyce Carol Oates (la provincia americana o del Nord Europa qui aleggia, distante sorella), che si spiegano gli eventi recenti di un territorio, il fallimento di una generazione – o il sentimento di questo fallimento: sospesa nell’apprendimento di un tuffo nella piscina comunale di Avellino, la protagonista osserva la sua città immobile nelle abitudini e nel consolidamento di un quotidiano senza slanci, rievocando le lotte giovanili per far accadere eventi importanti e di spessore culturale. Compare così sullo sfondo un profetico Luigi Nono, la musica sperimentale del secondo Novecento, una stagione che, oltre la politica, ha cercato di modificare la formazione degli irpini. Come nel delicato racconto di Franco Festa, «La ragazza della sala 4», l’amore muore, assassinato, incompreso, silenzioso: e così si asciugano anche le narrazioni a volte grottesche ma più spesso cariche di fading degli scrittori irpini d’oggi. Quattro racconti per quattro stili, quattro generi letterari e quattro generazioni differenti, raccolte dalla lucidissima introduzione di Generoso Picone che fa il punto sul valore della parola, invalidata, abbandonata, amata in solitudine, ma, in fondo, pur sempre salvifica, per «ormesi» o omeopatia, o forse osmosi. Ed è con l’autoritratto geografico di Vinicio Capossela, irpino Dop, che si deve concludere questo ritratto dell’Irpinia: «Sono nato tra i Kuta Kuta appartengo al ramo dei Pacchi Pacchi, che sono i più lunatici e fissati.(…) Dagli altipiani di Lacedonia sono arrivati fino ai bassopiani del Chiavicone. Nelle nebbie dove osano soltanto le anatre mute e le donne in segno di ammiccamento si lisciano il mustacchio». Lunatici, autoironici, ipocondriaci, solitari, attaccati al territorio, legati ma distanti, in fuga ma stanziali, questi narratori irpini bisognerà, prima o poi, ricollegarli in una futura geografia post-dionisottiana, ai loro parenti dell’Appennino del Nord, senza dimenticare i narratori dell’interno di altri Sud, dalla Calabria alla Sicilia degli altopiani.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/25/napoli-e-l%e2%80%99irpinia-tra-i-libri/feed/ 217
RECENSIONI INCROCIATE n. 6: Francesco Forlani e Lidia Riviello http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/23/recensioni-incrociate-n-6-francesco-forlani-e-lidia-riviello/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/23/recensioni-incrociate-n-6-francesco-forlani-e-lidia-riviello/#comments Fri, 23 Jan 2009 16:47:53 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/23/recensioni-incrociate-n-6-francesco-forlani-e-lidia-riviello/ recensioni-incrociate.jpgNuova, particolarissima, puntata delle “recensioni incrociate”.
Dico particolarissima perché oggetto dell’ “incrocio”, stavolta, sono un’opera di narrativa e una silloge di poesie.
I due autori/recensori invitati sono lo scrittore Francesco Forlani (redattore storico di Nazione Indiana e de La poesia e lo spirito) e la poetessa Lidia Riviello.

I libri oggetto delle recensioni sono “Autoreverse” (di Francesco Forlani) e “Neon 80” (di Lidia Riviello).

Il volume della Riviello beneficia di una nota di Edoardo Sanguineti e offre, per dirla con le stesse parole dell’autrice, “materiali sparsi, volutamente accennati e provvisori. Accennati e provvisori come sono stati gli anni Ottanta, nei quali, io bambina e adolescente, mi iniziavo come potevo e soprattutto mi “cominciavo” a scrivere. Il neon era la non-illuminazione che rendeva le nostre città, uffici, i centri commerciali, gli ingressi dei palazzi dei non luoghi, scenografie ripetitive di uno scenario un tempo spento, ora acceso dalle nuove tecniche di illuminazione. Un piatto e lineare “luogo standard” dentro il quale prendevano vita eccentrica i feticci delle nostre società di consumo. Se ci sono stati dei non luoghi ci sarà stata una luce radicalmente “autonoma e immortale” a isolare tempo e spazio. Con questo “gas nobile, inerte, quasi incolore”, si spegneva il sole”.

I protagonisti del romanzo di Forlani (vi invito ad ascoltare l’intervista che l’autore ha rilasciato alla trasmissione Fahrenheit di Radio Rai Tre) si chiamano Angelo e François. Si sono conosciuti alla reception dell’Hotel Roma, l’albergo dove Cesare Pavese si è suicidato. Lì Angelo, immigrato meridionale, fa il portiere di notte e François ha prenotato per la sua ultima notte in Italia la camera “di Pavese”: era qui alla ricerca dell’unica registrazione, forse dispersa, con la voce dello scrittore. I due fanno amicizia e, come in un vecchio nastro, le loro voci si alternano e si incrociano: si raccontano dei rispettivi paesi, delle loro vite, delle occasioni avute e di quelle perse… ma i loro discorsi tornano sempre a lui, a Pavese, alla sua scrittura, ai suoi amori infelici. Come quello per Constance Dowling, l’attrice americana alla quale fu legato e la cui figura è divenuta per François altrettanto ossessionante della voce dello scrittore. E poco per volta la vita di Pavese diventa sempre più presente nella quotidianità dell’albergo, permeando le storie di dipendenti e ospiti, tra amori e matrimoni, eventi apparentemente misteriosi, speranze e tradimenti…” (nota al libro).

Due testi diversi, legati dalla comune esigenza della ricerca.

Vi invito a interagire con gli autori ponendo loro domande. E poi, come sempre, tenterò di organizzare discussioni “collaterali” sui temi trattati dai libri proposti. Così vi chiedo…

Come sono stati, per voi, gli anni ‘80? Come li ricordate? Quali sono stati i pro e i contro? (libro della Riviello)

Ascoltare la voce di uno scrittore, di un poeta… udirne il suono… può consentire di conoscere meglio le sue opere? Oppure c’è il rischio che, in qualche modo, quell’ascolto possa esercitare una funzione “sviante”… (libro di Forlani)

Seguono le recensioni incrociate.

Massimo Maugeri

——————————-

“NEON 80″ di Lidia Riviello - Casa editrice Zona, 2008 - euro 10 - pagg. 60
recensione di Francesco Forlani

C’est à partir du jour où l’on peut concevoir un autre état de choses qu’une lumière neuve tombe sur nos peines et sur nos souffrances et que nous décidons qu’elles sont insupportables.

L’Être et le Néant” (1943), Jean-Paul Sartre

Il neon (o neo) è un elemento chimico della tavola periodica degli elementi, che ha come simbolo Ne e come numero atomico 10. Gas nobile, quasi inerte, incolore. Il neon possiede una distintiva incandescenza rossastra quando è utilizzato in un tubo a scarica o nelle lampade dette, appunto, “al neon”. È presente in tracce nell’aria (definizione wikipedia).
Tra i punti deboli dei movimenti avanguardistici in Italia ne va segnalato uno in particolare: neo. E’ un punto debole perché con un colpo al cerchio e uno alla botte, si finge nuovo partendo dal vecchio. In questo libro prezioso, Neon 80, di Lidia Riviello (casa editrice Zona), come solo un libro di poesia può e sa esserlo, accade invece che i due tempi e dunque i mondi che quei tempi sottintendono, si scontrino tra di loro, e nella fragilità dell’oggetto – cosa di più fragile che non una poesia?- si entra solo a patto di fare attenzione, esercizio di consapevolezza.
Molti ricorderanno come, sul finire degli anni Settanta, le illuminazioni delle case degli italiani si annientarono in nome del risparmio energetico. E di colpo le cose si intubarono, come nelle corsie degli ospedali, nelle aule di scuola, anticipando il secolo a venire della medicalizzazione delle vite e delle relazioni. La pellicola non era più il supporto dell’imagerie collettiva ma un involucro, un muro per quanto trasparente tra le le persone e le cose. La mutevolezza dei tempi, il trasformismo degli anni Ottanta, come in certi apparecchi elettronici dell’epoca, indicava la funzione, mute e spingeva le voci più forti a starsene zitte, mute. La voce di Lidia Riviello non tace. Si algoritma, si espande, che nemmeno ne senti l’odore da subito, ma poi ti impregna e nella geometria dei versi ritrovi la tua voce – la composizione si avvale di fughe e contrappunti prevedendo ad ogni apertura del discorso una chiusa che ti lascia senza voce, senza parole.
“Società perfetta, di tutti, dei morti soprattutto, dei morti con nessuno in casa” recita un verso, e la couleur della poetica è annunciata. E’ dello stesso colore del ghiaccio. Lo vedi.
Si dice di un verso, spesso, di come esso sia toccante. E a volte mi chiedo se sia possibile toccare un verso – i poeti si sa hanno poco tatto, in generale – e come per i gas, sembra che sia difficile. Ecco allora che la parola poetica di Lidia Riviello si inguaina, s’impellicola, e di colpo la vedi, la tocchi, la spingi in ogni angolo della memoria. E’ una parola critica, dissidente, ma che mai diserta il mondo. Nemmeno quando questo sembra senza senso. Quando il mondo non si lascia più decodificare, vedere, esperire, cosa resta?
- Vedo il finale- e non so decifrare nessun segno di dissidenza sui muri- la parola non resta fedele alla parola data

Uno dei dischi più venduti nell’ottanta fu Tubular Bells, di Mike Oldfield. Sicuramente non il migliore del polistrumentista, ma del resto anche gli anni Ottanta non sono stati un decennio memorabile.

Come in un quadro di Magritte, l’oggetto appariva sospeso e allo stesso tempo slegato dalla realtà. Come se il poetico Fluxus – la straordinaria performer Lidia Riviello appartiene piuttosto a questa tradizione che non a quella dei professori della neo-avanguardia – la vena aurea della sperimentazione, sociale e poetica, si fosse recisa.

L’ottanta,
(così li chiama Lidia Riviello, lungo tutta la silloge, ndr)
è un anno singolare
merce confusa al disastro, la tenerezza
sotto quota annuale di corruzione
noi in fuga dagli altari della patria e dai padri
davanti il muro rosa colossale delle madri in attesa

“Neon 80″, di Lidia Riviello è un’opera oltre che preziosa, necessaria. Per capire innanzitutto come e perché la luce avesse smesso di illuminare, e l’esperienza, perfino della felicità, che può essere tale solo se condivisa, isolata dal collettivo e piegata a mero fatto privato.
“non c’è neon che si sia spento senza un perchè ”
Vorrei allora concludere questa mia nota con un appunto e una voce.
L’appunto concerne il suono della parola neon e contaminazione sonora con il francese néant. Etimologicamente, la parola ha la sua origine nel latino volgare, ne gentem, ovvero nessuno. In Francia si trova sulle carte d’identità per indicare la totale assenza di segni particolari. Signes particuliers: néant. Louis Aragon scriveva che bisognava “guardare in faccia il “nulla” (néant) per saperlo sconfiggere (pour savoir en triompher).
Viviamo un’epoca di Re-vival (redivivi) e di Re-minders. (Rammendi). E solo una poetessa poteva narrare lo strappo che c’era stato tra i due decenni, il Settanta e il Novanta. Solo un verso, in ogni senso raccontare la ferita, il taglio – nell’Ottanta i miseri abitanti dell’Italia, a novembre, studiavano i segni lasciati sulle pareti dal terremoto per confidare o meno nella solidità delle proprie abitazioni scosse. E’ un grazie, di nulla, gridato a quei miseri anni.
La voce, è quella di Lidia Riviello, che nella Cronologia finale dell’opera dice:
Non ci hanno liberati per essere liberi. Negli anni dell’intrattenimento franano interi paesi, si esplode in volo, s’invadono le terre, gli uomini di governo mordono tutte le metà della mela rimaste, le ragioni dei disastri non vengono più chiarite. Pensavamo che sarebbero durati per sempre quegli anni, ecco perché quelli della mia generazione sono ancora freschi di primavere congelate. L’ibernazione, una pratica semplice quando è ben chiaro l’obiettivo dell’operazione. Ibernare per conservare inattivo e puro, dunque inattivo, ogni elemento. Così la mia generazione non ha preso parte ai lavori di scavo, ma solo a quelli di restauro.
Francesco Forlani

—————-

“AUTOREVERSE” di Francesco Forlani – L’Ancora del Mediterraneo, 2008 - euro 13,50 – pagg. 157

recensione di Lidia Riviello

E’ il 1948, quando con lo swing all’italiana Addormentarmi cosi’, le signorine pallide che indossano gonnelline di pura lana “italica, mugugnano teneri sensi di colpa, diventando rosse come mai erano state le loro madri ( forse meno…?) ai primi contatti “bocca a bocca”, “morendo insieme” al compagno di balera, “labbra sulla labbra”. Chi aveva voce cantava per configurare un paese che ancora non c’era, chi non l’aveva stava a guardare un’Italia fatta di guerra che non riusciva a dormire. E poi c’era chi, di voce, ne aveva avuta in quantità “esistenziale” per parlare e soprattutto per scrivere, ma forse in parte se ne vergognava e due anni dopo se ne sarebbe andato via da quel mondo “senza finire l’anno”. Questi era Cesare Pavese.
E’ il duemilasette, quando Francesco Forlani indossa una vita, quella del sopradetto e sempre discusso, Cesare Pavese, e va alla ricerca della sua viva voce, in un romanzo, “Autoreverse” che sconvolge i canoni della rituale e convenzionale biografia. Spesso le biografie sono gonfie, come se l’autore, identificandosi nel personaggio di cui “tradisce” la storia/vita, si sostituisse a questi, provocando fuoriuscite di altre vite che bloccano il traffico delle parole. Sottolineando contorni che il “bio-grafato” aveva impiegato tutta la vita ad assottigliare, oppure trascurando, con narcisistica interpretazione, l’essenziale esistenziale cosi’ essenziale per quella vita/opera. Forlani non occulta nessuna vita di poeta, sa che tutto è stato scritto ma nulla è stato ancora ascoltato. La voce del poeta è inascoltata, perché dice quello che non sempre scrive, sfugge ai recintori, scusate, recensori, ed è piena di errori. Sgrammaticata, perché vorrebbe solo cantare, tradisce l’immaginario dei lettori/uditori che vorrebbe le voci dei poeti sempre in “stato di grazia” ed invece eccole nella permanente resistenza alla idealizzazione, al plagio. Eccole in serie le voci dei poeti: rauche, sofferenti, sgraziate, piene di tosse, riottose, che dicono no, infantili, stridule, oppure cosi’ mute da lasciarti senza poesia. E piene di una vita di cui la poesia è solo al servizio.
La voce è quel corpo che non cede al tempo, contraria all’immagine convenzionale, allo streotipo in vita e in morte, al “pettegolezzo” che tanto Pavese temeva, perché quelle del pettegolezzo, della mondanità reiterante, sono le voci del campo, del cortile. La sua era una voce fuori campo. Ed è questa che cerca Francois, lo scrittore che viene da Parigi, che Forlani sceglie come suo “alter reggo” giocoso, intuitivo, gentile, ma che non ha remore a effettuare incursioni a sorpresa ovunque vi sia sentore di un Pavese mai sentito prima, di un altro Cesare. Cerca la voce originale, autentica, l’unica registrazione, forse persa, del poeta, un documento, dunque, ma presto si rende conto che per arrivare a trovare la voce di Pavese deve attraversare tutta Torino, città che ti sfugge e ti “stanca”, che se non la tieni ti lascia. Senza ansia di protagonismo ma con una sete struggente segue le tracce che partono dalla sua idea di Pavese, che è piu’ di un’idea, è un desiderio. Mosso da desiderio arriva in un profondo Nord fatto di un profondo Sud all’ Hotel Roma di Torino, dove Pavese si suicido’ nel 1950 e dove Francois vuole passare la sua notte. Nella stanza 313 udrà forse “la voce di dentro” di Cesare? Dentro una sola stanza Moby Dick, La bella estate, La luna e i falo’, il cinema, la “spassosa musica americana”, le donne che nascono da dentro e che prendono forma lasciando sguardi di approdo.
All’Hotel Roma ci lavora un uomo semplice, diretto ed enigmatico allo stesso tempo, l’altro alter reggo di Forlani, Angelo di Casapulla (Caserta) che ha “la voce di fuori”, le chiavi in mano. E’ il portiere di notte dell’albergo, che subito smitizza lo slancio figurativo e l’identificazione fra finzione letteraria e condizione umana di Francois: la stanza non è piu’ la 313, quella in cui il poeta si lascio’, ma la 346. La ricerca, “uaglio’ ” è lunga, la strada afosa, il poeta senza voce. Fra i due s’instaura una istintiva complicità, un dialogo fino al termine della notte, un intreccio di due opposte e cosi’ animate vite. Nonostante le due ricerche si snodino autonome, sul disco dell’epoca nostra e dell’epoca di Pavese, suonano le loro narrazioni in prima persona.
In realtà anche Francois e Angelo cercano la loro voce disseminata nelle caotiche pulsioni dell’Esperienza. Le donne, le avventure del dialogo, la conoscenza dell’altro. Francois segue corsi d’inglese, punta la luce sul volto di una donna, cerca attraverso documenti, amici di Pavese, lettere del poeta stesso, ricostruzioni, registrazioni del premio Strega (che Pavese vinse nel 1950) di rintracciarne il corpo vitale . Tutto questo con desiderio ma anche discrezione, perché Pavese è imprendibile. Tutti parlavano di lui e lui non si è fatto “prendere”.
Angelo ama il corpo delle cose, si disfa delle cose che non lo appassionano, sa di affaracci e crimini e misfatti della sua terra e si ritrova dentro un giallo vero e proprio, e s’innamora pure della bellezza, della straniera, di un’altra voce che non lo nasconda ma lo accolga cosi’ com’è: Angelo Cocchinone, ed è il primo a dire che questo Hotel Roma, noto per la morte del poeta, è un luogo di cui liberarsi e liberare Pavese, ché su questo dramma si è fatto del marketing. Sia Francois che Angelo devono liberarsi e liberare, attraverso il racconto in prima persona, una terza persona: Cesare.
Ma chi aiuterà infine Francois a trovare ( se la trovera’) la voce di Pavese incisa su nastro?La Rai teche? La storia letta dai giornalisti? L’editore che attende lo scoop? Pavese stesso? Francois riporta Pavese dentro casa, fuori dalla stanza del dolore. Lo libera dallo stereotipo dagli inde-fessi critici annoiati del tempo, dalle attrici americane volubili. Come la Dowling, Constance senza sostanza.
“Se mai riuscirò a sentire la voce di Pavese come farò a descriverla?”. Sarà questa domanda che il nostro si porra’ infine al termine della notte di questo romanzo. Difficile Francois, difficile. Perchè quando lo scrittore cerca l’uomo trova ancora, sempre, il poeta.
Lidia Riviello

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/23/recensioni-incrociate-n-6-francesco-forlani-e-lidia-riviello/feed/ 113