LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » garzanti http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 ALESSIA GAZZOLA con “Un tè a Chaverton House” (Garzanti) in radio a LETTERATITUDINE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/30/alessia-gazzola-con-un-te-a-chaverton-house-garzanti-in-radio-a-letteratitudine/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/04/30/alessia-gazzola-con-un-te-a-chaverton-house-garzanti-in-radio-a-letteratitudine/#comments Fri, 30 Apr 2021 13:26:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8778 ALESSIA GAZZOLA con “Un tè a Chaverton House” (Garzanti), ospite del programma radiofonico Letteratitudine trasmesso su RADIO POLIS (la radio delle buone notizie).

In streaming e in podcast su RADIO POLIS

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia, postproduzione e consulenza musicale: Federico Marin

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Ospite della puntata: la scrittrice Alessia Gazzola. Con Alessia Gazzola abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato “Un tè a Chaverton House” (Garzanti).

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La scheda del libro: “Un tè a Chaverton House” di Alessia Gazzola (Garzanti)

Mi chiamo Angelica e questa è la lista delle cose che avevo immaginato per me: un fidanzato fedele, un bel terrazzino, genitori senza grandi aspettative. Peccato che nessuna si sia avverata. Ecco invece la lista delle cose che sono accadute: lasciare tutto, partire per l’Inghilterra e ritrovarmi con un lavoro inaspettato. Così sono arrivata a Chaverton House, un’antica dimora del Dorset. Questo viaggio doveva essere solo una visita veloce per indagare su una vecchia storia di famiglia, e invece si è rivelato molto di più. Ora zittire la vocina che lega la scelta di restare ad Alessandro, lo sfuggente manager della tenuta, non è facile. Ma devo provarci. Lui ha altro per la testa e anche io. Per esempio prepararmi per fare da guida ai turisti. Anche se ho scoperto che i libri non bastano, ma mi tocca imparare a memoria i particolari di una serie tv ambientata a Chaverton. La gente vuole solo riconoscere ogni angolo di ogni scena cult. Io invece preferisco servizi da tè, pareti dai motivi floreali e soprattutto la biblioteca, che custodisce le prime edizioni di Jane Austen e Emily Brontë. È come immergermi nei romanzi che amo. E questo non ha prezzo. O forse uno lo ha e neanche troppo basso: incontrare Alessandro è ormai la norma. E io subisco sempre di più il fascino della sua aria da nobiltà offesa. Forse la decisione di restare non è così giusta, perché io so bene che quello che non si dovrebbe fare è quello che si desidera di più. Quello che non so è se seguire la testa o il cuore. Ma forse non vanno in direzioni opposte, anzi sono le uniche due rette parallele che possono incontrarsi.
Alessia Gazzola è un idolo per i suoi lettori, per la stampa e per i librai. Dopo i bestseller della serie L’allieva, che è anche un grande successo televisivo, della serie di Costanza e del romanzo Lena e la tempesta, torna con un nuovo libro che fa sognare tra dolci fatti in casa, la magia di un’ambientazione che riporta al fascino del passato e un piccolo mistero di famiglia da risolvere. Entrate a Chaverton House e godetevi il viaggio.

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Alessia Gazzola (Messina, 1982) è laureata in Medicina e Chirurgia ed è specialista in Medicina Legale. Ha esordito nella narrativa con L’allieva nel 2011, cui sono seguiti Un segreto non è per sempre (2012), Sindrome da cuore in sospeso (2012), Le ossa della principessa (2014), Una lunga estate crudele (2015), Non è la fine del mondo (2016), Un po’ di follia in primavera (2016), Arabesque (2017) e Il ladro gentiluomo (2018), vincitore del premio Bancarella 2019.
Dai romanzi della serie L’allieva, tradotti in numerose lingue, è tratta la serie tv di successo in onda su RaiUno con Alessandra Mastronardi nei panni di Alice Allevi e Lino Guanciale nel ruolo di Claudio Conforti.
Collabora con i supplementi culturali di La Stampa e del Corriere della sera. Vive a Verona con il marito e le due figlie.
Con Questione di Costanza (2019) ha inaugurato la nuova serie di romanzi incentrati sul personaggio di Costanza Macallè. Dopo Lena e la tempesta, Alessia Gazzola torna in libreria con un nuovo romanzo intitolato “Un tè a Chaverton House” (Garzanti)

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia, post produzione e consulenza musicale: Federico Marin

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È possibile ascoltare le precedenti puntate radiofoniche di Letteratitudine, cliccando qui.

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La colonna musicale della puntata (a cura di Federico Marin): brani in ordine di ascolto

sigla: Jason Shaw – BACK TO THE WOODS
licenza: https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/us/

Vincent Augustus – Indigo

K.I.R.K. – Don’t Go

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JEAN-CHRISTOPHE GRANGÉ con “Il rituale del male” (Garzanti) a “Letteratitudine in Fm” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/12/14/in-radio-con-jean-christophe-grange/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/12/14/in-radio-con-jean-christophe-grange/#comments Wed, 14 Dec 2016 16:35:24 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7384 JEAN-CHRISTOPHE GRANGÉ con “Il rituale del male” (Garzanti – traduzione dal francese di Paolo Lucca) ospite del programma radiofonico Letteratitudine in Fm di lunedì 12 dicembre 2016 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino).

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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Lo scrittore francese Jean-Christophe Grangé è stato l’ospite della puntata di Letteratitudine in Fm di lunedì 12 dicembre 2016. Ringraziamo Francesca Ilardi per il servizio di traduzione simultanea.

Con Jean-Christophe Grangé abbiamo discusso del suo romanzo – un thriller – intitolato “Il rituale del male” (Garzanti – Traduzione dal francese di Paolo Lucca).

Di seguito, informazioni sul libro.

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Il rituale del male” (Garzanti – Traduzione dal francese di Paolo Lucca) di Jean-Christophe Grangé

L’aria è malvagia sull’isola di Sirling, al largo della costa bretone. Un’aria salmastra, appiccicosa, in cui l’odore del mare si mescola alle immagini di un macabro rituale, al ricordo di un uomo, uno spietato serial killer dalla firma inconfondibile. L’Uomo Chiodo, però, ha smesso di colpire da più di quarant’anni. Nel 1971. A Lontano, nel cuore del Congo.
Ma i segni di quei terribili omicidi emergono ora dal limbo del tempo in una base militare di fulgida tradizione. Il corpo di un giovane cadetto, dilaniato da un’esplosione, viene ritrovato all’interno di un bunker. I rilievi del medico legale non lasciano dubbi: il corpo è stato trafitto da centinaia di chiodi arrugginiti, gli organi asportati, gli arti orrendamente mutilati. A occuparsi del caso, stranamente, non è la polizia militare, ma la prestigiosa squadra Omicidi di Parigi, guidata dal comandante Erwan Morvan. Erwan è figlio di quel Grégoire Morvan che, proprio a Lontano, aveva messo fine alla scia di sangue dell’Uomo Chiodo, quello che sulle risorse minerarie del Congo ha costruito la propria fortuna e che ora, da una posizione defilata, comanda le leve della polizia francese. E mentre le vittime si moltiplicano e gli indizi si fanno via via più evanescenti, il fantasma dell’Uomo Chiodo torna a braccare i Morvan e a scuotere dalle fondamenta il buon nome di una famiglia in apparenza inattaccabile. Ben presto l’indagine costringe Erwan sulle tracce delle più oscure gesta di suo padre in Africa, trasformandosi in una sfida che oltrepassa le leggi dello spazio e del tempo, in cui nessuno è senza colpa e nessuno conosce la verità. Una corsa sfrenata per salvare chi ama, che condurrà Erwan lontano dalla Francia, nel cuore del Congo oscuro e sanguinoso che ha tenuto a battesimo la sua stessa esistenza.
Tradotto in trenta lingue, Jean-Christophe Grangé è uno degli autori di thriller più venduti in tutto il mondo. Con Il rituale del male ha confermato il suo ruolo di re francese del noir, vendendo in un solo mese 200.000 copie e piazzandosi in cima alle classifiche dei bestseller. Una storia che intreccia passato e presente, Europa e Africa, moderne tecniche investigative, superstizioni e credenze religiose, conquistando il lettore con la potenza selvaggia di un mito antico.

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Jean-Christophe Grangé è autore di romanzi di grandissimo successo che hanno ampliato i confini del thriller tradizionale: Il volo delle cicogne, I fiumi di porpora, Il concilio di pietra, L’impero dei lupi, La linea nera, Il giuramento, Miserere, L’istinto del sangue. I suoi libri, tradotti in tutto il mondo e venduti in milioni di copie, sono pubblicati in Italia da Garzanti. Spesso sono stati portati sul grande schermo, e I fiumi di porpora ha vinto il premio Grinzane Cinema 2007 per il miglior libro da cui è stato tratto un film.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

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La colonna sonora della puntata: “Show me the Way” di Papa Wemba; “Africa” dei Toto; “Mobembo” di Papa Wemba.

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

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VITTORIO SERMONTI con “Se avessero” (Garzanti) a Letteratitudine in Fm http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/06/28/vittorio-sermonti-a-letteratitudine-in-fm/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/06/28/vittorio-sermonti-a-letteratitudine-in-fm/#comments Tue, 28 Jun 2016 18:17:54 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7185 VITTORIO SERMONTI, autore di “Se avessero” (Garzanti) in radio a Letteratitudine in Fm di lunedì 27 giugno 2016 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)


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È stato Vittorio Sermonti l’ospite della puntata di Letteratitudine in Fm di lunedì 27 giugno 2016.

Abbiamo avuto il piacere di ospitare un intervento di Vittorio Sermonti incentrato sul suo nuovo libro “Se avessero” (Garzanti) – finalista al Premio Strega 2016.

Nella seconda parte della puntata, una lettura del libro.

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Il libro

Se avesseroUna mattina di maggio del 1945 tre (o quattro) partigiani si presentano col mitra sullo stomaco in un villino zona Fiera di Milano alla caccia d’un ufficiale della Repubblica Sociale (o forse di tre), lo scovano, segue un ampio scambio di vedute, e se ne vanno. Da questo aneddoto domestico, sincronizzato bene o male ai grandi eventi della Storia, si dipanano settant’anni di ricordi di un fratello quindicenne, confusi ma puntigliosi, affidati come sono agli «intermittenti soprusi della memoria»: il nero-sangue e il gelo della guerra, la triste farsa di sognarsi eroe, poi il «passaggio dalla parte del nemico» (iscrizione al PCI), e poi ancora un titubante far parte per se stesso; e il rapporto di reciproca protezione con il padre fascista; e la famiglia «feudale» della strana mamma; ma anche una collana di amori malriposti, le letture, il teatro, la musica, il calcio, gli amici. Testa e cuore però non fanno che tornare a quella mattina di maggio, a quell’ipotesi sospesa, a quell’eccidio mancato.
Così, nel tentativo di fare i conti con i propri fantasmi, Vittorio Sermonti ci regala un libro sconcertante, tracciato nella forma di una lunga canzone d’amore per un tu che ha smascherato molti di quei fantasmi del “narrator narrato”, e gli dà ancora la voglia di vivere: un libro che è anche la cronaca minuziosa di un Paese e di un interminabile dopoguerra, e, spesso mimando pensieri, lessico e voce d’un ragazzino d’antan, ci fa riflettere sulla tragica e ridicola ricerca di noi stessi che ci affligge giorno per giorno, uno per uno: «non contiamo niente, perché ognuno conta purtroppo tutto».

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Vittorio Sermonti è nato a Roma nel 1929, sesto di sette fratelli. Da bambino, vedeva circolare in casa dei nonni e di zii materni, a loro legati da vari gradi di parentela, V. E. Orlando (suo padrino di nascita), Luigi Pirandello, Alberto Beneduce, Enrico Cuccia. Freelance ostinatissimo, nelle vesti più disparate — narratore, saggista, traduttore, regista di radio e tv, giornalista, docente di Italiano-Latino al liceo «Tasso» di Roma (1965-1967), e di tecnica del verso teatrale all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (1973-1974), consulente CEE (1985-1988), poeta e lettore di poesia — V. S. si occupa da sempre dell’energia vocale latente nei testi letterari, insomma, del rapporto fra la scrittura e la voce. Tra il 1987 e il 1992 ha registrato per Raitré l’intera Commedia introdotta da cento racconti critici sotto il titolo La Commedia di Dante, raccontata e letta da V.S; tra il 1995 e il 1997 ne ha replicato la lettura, ampliando le introduzioni, nella basilica di San Francesco a Ravenna, davanti a migliaia di persone. Fra l’autunno 2009 e la primavera 2010 ha registrato per la versione definitiva dei cento commenti-racconto e delle cento letture della Commedia di Dante, dei dodici libri dell’Eneide e di 14 «racconti verdiani». Se avessero è il suo primo romanzo.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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La colonna sonora della puntata è affidata alle musiche di Giuseppe Verdi.

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

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SARA RATTARO ospite di “Letteratitudine in Fm” di lunedì 28 settembre 2015 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/28/in-radio-con-sara-rattaro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/28/in-radio-con-sara-rattaro/#comments Mon, 28 Sep 2015 15:59:50 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6903 SARA RATTARO ospite di “Letteratitudine in Fm” di lunedì 28 settembre 2015 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)

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È SARA RATTARO l’ospite della puntata di Letteratitudine in Fm di lunedì 28 settembre 2015. Con Sara Rattaro discutiamo del suo nuovo romanzo intitolato Niente è come te (Garzanti) e delle tematiche in esso trattate (soprattutto quello relativo alla “sottrazione internazionale di minori”). “Niente come te” ha vinto il Premio Bancarella 2015 (il Premio letterario conferito dai librai).

Nella seconda parte della puntata, una lettura delle prime pagine del libro.

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La scheda del libro
“Nessuno fa solo cose giuste o sbagliate. Siamo luce e ombra insieme”. Due scatole colme di libri, pupazzi e tante fotografie. Tutto il mondo di Margherita è racchiuso in quelle poche cose. In spalla il suo adorato violino e tra le mani un biglietto aereo per una terra lontana: l’Italia. La terra dove è nata e che non rivede da quando è piccola.
Ma ora è lì che deve tornare. Perché a quasi quindici anni Margherita ha scoperto che a volte è la vita a decidere per noi. Perché c’è qualcuno che non aspetta altro che poterle stare accanto: Francesco, suo padre. Il suono assordante dell’assenza di Margherita ha riempito i suoi giorni per dieci anni. Da quando sua moglie è scappata in Danimarca con la loro figlia senza permettergli di vederla mai più.
Francesco credeva fosse solo un viaggio. Non avrebbe mai pensato di vivere l’incubo peggiore della sua vita. Eppure, ora che Margherita è di nuovo con lui, è difficile ricucire quello che tanto tempo prima si è spezzato. Francesco ha davanti a sé un’adolescente che si sente sbagliata. Perché a scuola è isolata dai suoi compagni e a casa passa le giornate chiusa nella sua stanza. Ma Francesco giorno dopo giorno cerca la strada per il suo cuore. Una strada fatta di piccoli ricordi comuni che riaffiorano. Perché le cose più preziose, come l’abbraccio di un padre, si possiedono senza doverle cercare. E quando Margherita ha bisogno di lui come non mai, Francesco le sussurra all’orecchio poche semplici parole per farle capire quanto sia speciale: «Niente, ma proprio niente, è come te, Margherita».
Dopo il successo di “Non volare via”, a lungo in classifica in Italia tra i libri più venduti, Sara Rattaro torna con un romanzo potente e intenso che sa come avvicinarsi al cuore di tutti noi. La storia di quell’istante in cui non importa più cosa è giusto o cosa è sbagliato. La storia di un padre coraggioso e di una ragazza speciale. La storia di un amore che non conosce né tempo né ostacoli. Perché a volte l’unica cosa che conta è lottare per quello che si ama veramente.

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Sara Rattaro nasce e cresce a Genova, dove si laurea con lode in Biologia e Scienze della comunicazione. Nel 2010 esce per un piccolo editore il suo primo romanzo Sulla sedia sbagliata. Nel 2011 scrive il suo secondo romanzo Un uso qualunque di te, che ben presto scala le classifiche e diventa un fenomeno del passaparola. Non volare via è il suo primo romanzo pubblicato con Garzanti. La scrittura di Sara e la sua voce unica hanno già conquistato i più importanti editori di tutta Europa, che hanno deciso di scommettere su di lei e di pubblicarla.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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La colonna sonora della puntata è composta dai seguenti brani musicali: “Sad Songs (Say So Much)” di Elton John; “Fragile” di Sting; “Avrai” di Claudio Baglioni


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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

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CLARA SÁNCHEZ scrive a Letteratitudine (per “Le cose che sai di me”) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/03/31/clara-sanchez-scrive-a-letteratitudine/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/03/31/clara-sanchez-scrive-a-letteratitudine/#comments Mon, 31 Mar 2014 16:35:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6036 Il nuovo ospite di “L’autore straniero racconta il libro” è la scrittrice spagnola Clara Sánchez.
Clara ha scritto a Letteratitudine per raccontarci qualcosa sul percorso che l’ha portata alla scrittura del suo nuovo romanzo “Le cose che sai di me” (pubblicato da Garzanti e tradotto da Enrica Budetta). Questa è la scheda di presentazione del volume…

Il piccolo pezzo di cielo che si intravede dal finestrino è di un azzurro intenso. Patricia è sull’aereo che la sta riportando a casa, a Madrid. All’improvviso la sconosciuta che le è seduta accanto le dice una cosa che la sconvolge: “Qualcuno vuole la tua morte”. Patricia è colpita da quella rivelazione, ma poi ripensa alla sua vita e si tranquillizza: a ventisei anni è realizzata, felicemente sposata e con un lavoro che la porta a girare il mondo. Niente può turbare la sua serenità. È sicura che quella donna, che dice di riconoscere le vibrazioni emanate dalle persone, si sbaglia. Eppure a Patricia, tornata alla routine di sempre, iniziano a succedere banali imprevisti che giorno dopo giorno si trasformano in piccoli incidenti. Incidenti che stravolgono le sue abitudini e il suo lavoro. Non può fare a meno di ripensare alla donna dell’aereo e alle sue parole. Parole che a poco a poco minano le sue certezze. Vuole sapere se è davvero in pericolo. Vuole scoprire chi desidera farle del male, e quando il sospetto cresce dentro di lei, inizia a guardarsi intorno con occhi diversi, dubitando delle persone che ha vicino. Sente che tutto il suo mondo sta crollando pezzo dopo pezzo, ma deve trovare il coraggio di resistere: la minaccia è più vicina di quanto immaginasse. Però deve essere pronta a mettere in discussione tutta la sua vita, a leggere dentro sé stessa. Perché anche la felicità ha le sue ombre…

Ringraziamo Clara per il testo che ci ha inviato e ringraziamo la Garzanti per l’assistenza nella traduzione dallo spagnolo affidata, nella fattispecie, a Rossana Ottolini (grazie anche a te, Rossana!).

Di seguito, il contributo di Clara Sánchez (nella duplice versione: tradotto in italiano e in lingua originale)

Massimo Maugeri

P.s. Nelle precedenti puntate abbiamo ospitato: Glenn Cooper, Ildefonso FalconesJoe R. Lansdale Amélie Nothomb.


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clara-sanchezCLARA SÁNCHEZ ci racconta Le cose che sai di me

di Clara Sánchez

La paura dello sguardo dell’altro, la paura di non piacere, quella di essere respinti in amore o dalla nostra cerchia di amicizie, così come nel mondo del lavoro ci obbliga a mascherarci dietro a un’immagine e a essere come agli altri piacerebbe che fossimo. Da questa sensazione dominante mi sentivo spinta a scrivere un nuovo romanzo.
Scegliamo i vestiti che ci stanno meglio e mostriamo sempre il nostro profilo migliore, sorridiamo senza ragione e cerchiamo di non dire nulla che possa trasformarci in persone antipatiche. I politici sanno a memoria queste regole, conoscono bene il valore che può avere un gesto. Ma non volevo un politico per protagonista, volevo piuttosto qualcuno di più ingenuo, più vulnerabile, qualcuno incapace di ingannare in modo deliberato. Una persona con contraddizioni e insicurezze in compagnia della quale imparare qualcosa della vita.
E un giorno, all’improvviso, quando meno me lo aspettavo, sfogliando una rivista di moda nella sala d’attesa di uno studio medico, ho trovato la mia protagonista. Lei era una modella giovane e bella, di successo, con ogni probabilità anche ricca e amata e che nonostante tutto questo non sembrava essere proprio felice. Mi ha colpito il suo sguardo, che sembrava gridare “Aiutami!!”. Cosa poteva star succedendo di terribile a una persona così? Forse l’avere tutto non ti mette al sicuro dall’angoscia e dai demoni? In quell’istante l’ho chiamata Patricia ed è uscita dalle pagine della rivista per installarsi in quelle del mio romanzo. Così comincia l’avventura di una ragazza che all’inizio si sente come Anna Karenina, fin quando dovrà decidere se morire o non morire per amore. È una ragazza che non si accorge di essere vittima di una vampirizzazione da parte delle persone che la circondano, perché a volte le persone che più amiamo sono proprio quelle che possono farci più male. Una ragazza sola, che non vede la propria solitudine.
Flaubert direbbe: “Io sono Patricia”, forse siamo tutti un po’ Patricia, perché: qual è l’essere umano che non ha mai sentito il bisogno di fuggire e andare alla ricerca della libertà? Chi non ha mai sentito che il lavoro lo stava indurendo o trasformando in un’altra persona, in qualcuno in cui non si riconosceva più? Patricia inizia a slegarsi dai propri vincoli emotivi grazie al provvidenziale aiuto di Viviana. Tutti i personaggi di “Le cose che sai di me” sono scaturiti direttamente dal mio cuore, tutti sono ispirati a persone che ho conosciuto, persino Viviana, la cui vera casa è davvero come un bosco pieno di aromi.
Quando Viviana entra nella vita di Patricia reca con sé un intero mondo, non è solo un personaggio, ma qualcuno che si porta dietro il mondo delle fate e delle streghe della propria infanzia, la magia. È un personaggio creato dalla natura stessa come un albero o una montagna ed è così che mi piacerebbe che restasse nella mente del lettore una volta chiuso il libro, come un’evocazione della nostra fantasia.
Da qui in poi preferisco che i lettori stessi continuino a raccontare le vicissitudini di Patricia, Viviana, Elías, Carolina… perché sono i lettori a dar loro vita.
Infinite grazie a tutti.
(Riproduzione riservata)

© Clara Sánchez
© Garzanti libri

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CLARA SÁNCHEZ ci raccontaLe cose che sai di me” (versione in lingua spagnola)


di Clara Sánchez

El miedo a la mirada del otro, el miedo a no gustar, a ser rechazados en el amor, en nuestro círculo de amistades, en el mundo laboral, nos obliga a enmascararnos en una imagen y a ser como a los demás les gusta que seamos. Esta era la sensación que me impulsaba a escribir una nueva novela. Elegimos la ropa que más nos favorece y mostramos nuestro mejor perfil, sonreímos sin motivo y procuramos no decir nada que nos convierta en seres antipáticos. Los políticos saben mucho de todo esto, saben lo que significa un gesto. Pero yo no quería un político como protagonista de mi novela, quería a alguien más ingenuo, más vulnerable, alguien que no engañase conscientemente. Alguien con contradicciones e inseguridades en cuya compañía pudiese aprender algo de la vida.

Y un día de repente, en el momento más insospechado, hojeando una revista de moda en la salita de espera de una consulta, encontré a mi protagonista. Era una modelo joven, guapa, con éxito, seguramente con dinero, seguramente con amor y que sin embargo no parecía precisamente feliz. Me llamó la atención su mirada, que estaba gritando “¡Ayúdame!” ¿Qué le estaría ocurriendo? ¿Acaso el tenerlo todo no te libra de la angustia y de los demonios? En este mismo momento la llamé Patricia y saltó de la revista a mi novela. Y así comienza la aventura de una chica que al principio se siente Ana Karenina hasta que tendrá que decidir si morir o no morir por amor. De una chica que no se da cuenta de que está siendo vampirizada por la gente que la rodea, porque a veces las personas que más queremos son las que más daño pueden hacernos. De una chica que está sola y no lo sabe.
Como diría Flaubert “Yo soy Patricia”, quizá todos somos un poco Patricia, porque ¿qué ser humano no ha sentido la necesidad de escapar y de buscar la libertad? ¿Quién no ha sentido alguna vez que el trabajo le estaba endureciendo y le estaba convirtiendo en otra persona, en alguien que ya no conocía? Patricia comienza a desatarse de sus ligaduras emocionales con la ayuda providencial de Viviana. Todos los personajes de

“Le cose che sai di me” han salido de mi corazón, todos están inspirados en personas que he conocido, incluso Viviana, cuya casa real es como un bosque lleno de olores.
Cuando Viviana entra en la vida de Patricia trae todo un mundo con ella, no es solo un personaje, sino que lleva consigo el mundo de las hadas y las brujas de la infancia, de la magia. Es un personaje creado por la propia naturaleza como un árbol o una montaña y así es como me gustaría que quedara en la mente del lector una vez que cierre el libro, como una evocación de nuestra imaginación.
A partir de aquí prefiero que sean los lectores quienes continúen contando la aventura de Patricia, Viviana, Elías, Carolina… porque son quienes acaban dándoles vida. Y gracias a los lectores he reparado en algunas frases  que me han hecho llegar a través de mi facebook. Muchas gracias a todos.
(Riproduzione riservata)

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DIBATTITO SU LETTERATURA E PIRATI: da Salgari ai nostri giorni http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/01/28/letteratura-e-pirati/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/01/28/letteratura-e-pirati/#comments Thu, 28 Jan 2010 19:30:21 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1557 Sono molto lieto di poter avviare un nuovo dibattito letterario a largo respiro. Il tema che propongo è il seguente: “Letteratura e pirati (da Salgari ai nostri giorni)“.
La figura del pirata è entrata a far parte dell’immaginario collettivo da moltissimo tempo: ha invaso le pagine di romanzi e saggi, di film e serie Tv, di cartoni animati e opere musicali. Eppure ho l’impressione che, di recente, si sia sviluppato un interesse ancora maggiore, che dal cinema (valga come esempio “I pirati dei Caraibi” di Johnny Depp) si è riversato sulle pagine dei libri e altrove.
Diversi gli ospiti che parteciperanno a questa discussione. Intanto, Maria Lucia Riccioli (a cui chiedo di darmi una mano a coordinare e a moderare gli interventi) che ha scritto un articolo sui “pirati in letteratura”. E poi alcuni autori di saggi molto interessanti (che mi piacerebbe potessero discutere del tema in generale, parlarci dei loro libri e interagire tra loro):
- Nicolò Carnimeo, autore di “Nei mari dei pirati. I nuovi predoni degli oceani” (Longanesi)
- Giovanna Fiume, autrice di “Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna” (Bruno Mondadori)
- Ignazio Cavarretta e Eletta Revelli, autori di “Pirati. Dalle origini ai giorni nostri, dai Caraibi alla Somalia” (Nutrimenti).
Di seguito troverete le schede dei tre volumi. Nel corso della discussione avrò modo di presentare gli autori e di fornire ulteriori contributi sulle loro opere.
In coda al post troverete un doppio articolo di Alberto Pezzini sui “nuovi romanzi dei pirati”, con riferimento alle recenti pubblicazioni di Michael Crichton, Valerio Evangelisti, Arturo Pérez–Reverte.

Per avviare il dibattito provo a formulare alcune domande (che potrebbero essere integrate e/o modificate nel corso della discussione).

Che tipo di rapporto avete con la “letteratura dei pirati”?

Qual è, a vostro avviso, il miglior romanzo sui pirati della storia della letteratura?

Di recente, c’è stato davvero un effettivo aumento di interesse per la “figura” del pirata? E se sì, per quale motivo?

La “figura” del pirata è stata eccessivamente “mitizzata”? C’è uno scollamento tra “fiction” e realtà? Che percezione avete in proposito?

Al di là dell’invenzione letterario-cinematografica… avete mai pensato di poter rimanere vittime di una reale “scorribanda piratesca”?

Che rapporto c’è tra storia e letteratura a proposito del fenomeno di cui ci stiamo occupando?

Che rapporto c’è (e c’è stato) tra pirateria e schiavitù?

Siete tutti invitati a partecipare.

Massimo Maugeri

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Pirati in letteratura
di Maria Lucia Riccioli

http://letteratitudine.blog.kataweb.it/files/2008/08/maria_lucia-riccioli.JPGQuant’è forte il potere evocativo delle parole… quelle tre semplici sillabe sanno ricreare magicamente un mondo fatto di mare, cordami e sartie, alberi maestri, coffe e trinchetti, daghe e cofani bellamente riempiti di dobloni spagnoli!
Ho amato Stevenson ed il suo capitan Silver, capitan Uncino che attenta alla vita di Peter Pan, Achab e la sua disperata caccia a Moby Dick, e leggendo “Piccole Donne” mi sono imbattuta in un gioco di società, una specie di domino letterario, con uno dei personaggi che monopolizza la serata citando a memoria una scena dei romanzi pirateschi che tanto ama…
E la leggenda dell’Olandese volante? E il nostro Salgari, che senza praticamente muoversi dal tavolino di un caffè ci ha regalato la figura del Corsaro Nero, oltre che a quelle di Sandokan e dei suoi tigrotti della Malesia?
I pirati hanno popolato le pagine dei romanzi fin dall’antichità. Se pensiamo a quanta letteratura greca è letteralmente naufragata nel mare magnum della storia, specialmente per quanto riguarda la narrativa, c’è da rimpiangere i romanzi, in cui i pirati la facevano da padroni nel “mare colore del vino” e separavano fanciulle e giovinetti innamorati per venderli come schiavi, come accade anche nelle novelle del Decameron, in cui ancora permane l’eco delle scorrerie saracene, di quei pirati che saccheggiavano e rapivano, alonati di fascino misterioso.
Bucanieri. Barbareschi.
E il corsaro. Altra figura leggendaria, legittimata però nel suo scorribandare in cerca di fortuna dalla protezione di alti personaggi, addirittura di sovrani: pensiamo a Francis Drake, addirittura Sir.
I filibustieri. Altra parola che poi è divenuta un insulto, un po’ datato ma che ci riporta all’epopea dei pirati.
E cos’altro è in fondo Ulisse? Il suo nostos verso Itaca si colora d’avventura e l’uomo dall’ingegno versicolore sembra più un corsaro che un re in fuga da Troia.
Il cinema molto deve ai pirati: scene spettacolari, isole e galeoni, combattimenti all’arma bianca col coltello tra i denti… e la classica camminata sulla passerella di legno per finire in pasto ai pescecani, già pronti con le mascelle spalancate.
Pensiamo ai pirati dei Caraibi, fantastici e glamourous, ad Erroll Flynn, alle trasposizioni filmiche dei romanzi pirateschi (chi non ricorda “Quindici uomini, quindici uomini, sulla cassa del morto” e la gamba di legno di Long John Silver?), i pirati di Polanski, il Capitan Harlock dei cartoni animati, il “pirata tutto nero che per casa ha solo il cielo” e che ha lasciato gli antichi vascelli per un’astronave?
Oggi i pirati sono informatici, ancora più misteriosi dei personaggi mascherati col fazzoletto al collo e il pappagallo sulle spalle, ma le loro incursioni nei sistemi computerizzati e nei nostri pc sono dannosi quanto un arrembaggio…
E che dire dei cacciatori di relitti e tesori? C’è chi spera ancora di trovare la cassaforte del Titanic, o l’oro spagnolo disseminato per l’Atlantico.
Senza dire che i pirati esistono ancora, e depredano carghi, sequestrano e uccidono. E nelle loro imprese non vi è nulla di romantico.
La bandiera nera con il teschio e le tibie, simbolo potente della morte per mare, resterà ancora a lungo nell’immaginario collettivo.
Fino a quando vivranno lo spirito d’avventura, il desiderio dell’ignoto e – perché no? – la trasgressione o meglio l’elusione delle regole del vivere civile, del mondo dei terricoli che non conosce le dure leggi del mare.

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Nei mari dei pirati. I nuovi predoni degli oceani di Nicolò Carnimeo
Longanesi, 2009, pagg. 254, euro 17,60

Lo dimostrano le cronache più recenti: i pirati sono sempre esistiti e sono ancora fra noi, ma questa volta non siamo in un romanzo d’avventura, e men che meno al cinema. La pirateria è una guerra silenziosa: si stima che negli ultimi venticinque anni nelle sole acque del Sudest asiatico siano state attaccate più di diciassettemila navi, con una media di settecento all’anno. Tutto ciò ha costi economici e sociali altissimi. I nuovi predoni del mare dispongono di armi sofisticate e tecnologia satellitare, prosperano nelle acque di quelle nazioni in cui vi è forte instabilità causata da guerre e carestie, come in Somalia, oppure dove i governi sono deboli e corrotti, come in Nigeria e Indonesia, ma tutti i mari del mondo ne sono infestati e chiunque può diventarne vittima, magari durante una crociera nel mar Rosso o ai Caraibi oppure nell’incantevole soggiorno low cost di un villaggio turistico in Borneo. Nel seguire le tracce della pirateria moderna, dal sequestro del veliero da crociera francese Ponant, a quello della gigantesca petroliera Sirius Star, alle “navi fantasma” depredate dalle mafie orientali del mar della Cina, questo appassionante reportage, scritto da un esperto di “cose di mare”, porta in luoghi lontani ed esotici, fa conoscere i nuovi spietati bucanieri e chi ogni giorno li combatte. La guerra ai pirati del terzo millennio è appena iniziata e nessuno può sentirsi al sicuro: oggi anche una tranquilla vacanza in barca a vela può diventare un incubo.

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Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna di Giovanna Fiume
Bruno Mondadori, 2009, pagg. 349, euro 22

Durante l’età moderna, l’area mediterranea è segnata dalla guerra da corsa e dalla pirateria, su cui prosperano intere città, cristiane e musulmane; il conflitto per mare assume i toni dello scontro religioso, quasi da crociata contro gli infedeli. Quanti cadono in mano dei corsari, ridotti in schiavitù, attendono di essere riscattati o scambiati, e in cattività danno origine a un’intricata storia di abiure e conversioni – dall’islam al cristianesimo e viceversa. L’analisi dell’autrice, basata su ricche e talvolta inesplorate fonti documentarie, mostra il forte coinvolgimento delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche in questa nuova dimensione della contesa politica internazionale e offre un quadro significativo sulle condizioni di vita dei captivi, in bilico tra la vecchia fede religiosa e l’esigenza di inserirsi in un diverso tessuto sociale. L’efficacia nell’evangelizzazione degli schiavi ha come risultato più eclatante la canonizzazione di santi neri, quali Antonio Etiope e Benedetto il Moro, ma si spinge sino in terra africana, dove Juan de Prado guadagna la palma del martirio, mettendo in luce inediti aspetti del ruolo politico dell’attività missionaria degli ordini religiosi nel regno del Marocco.

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Pirati. Dalle origini ai giorni nostri, dai Caraibi alla Somalia di Ignazio Cavarretta e Eletta Revelli

I pirati dei film non rappresentano che una realtà parziale, quella del mar dei Caraibi o della Malesia; per questo molti ignorano che la pirateria ha giocato un ruolo importante in tutti i mari, Mediterraneo compreso. Dal punto di vista storico, poi, si tende comunemente a collocare le ultime imprese dei pirati nel Settecento, dimenticando circa tre secoli di feroci scorribande, che si protraggono fino ai nostri giorni. Questo libro intende restituire un volto più reale al fenomeno, con uno sguardo che comprende i Caraibi, ma a cui non sfugge la storia della navigazione a partire dai fenici, la guerra di corsa nel Mediterraneo, la pirateria nell’Estremo Oriente, nonché le ‘navi ausiliarie’ delle due guerre mondiali e gli odierni pirati delle coste somale.
Con una trattazione avvincente e leggera, corredata da numerose immagini, Pirati ci trasporta in un viaggio a bordo delle navi dei Barbarossa o di Andrea Doria; ci costringe al remo tra forzati musulmani o cristiani; ci conduce alla corte di Elisabetta I o al patibolo di Wapping Old Stairs. E ci rivela il naturale sodalizio tra pirateria e guerra: non esiste bucaniere, filibustiere o corsaro, se non in uno scenario reso instabile da un conflitto.

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Nuove storie di pirati (parte I): Michael Crichton, Valerio Evangelisti

 articolo di Alberto Pezzini

 Chissà se Michael Crichton si è ispirato a Hornblower di C.S. Forester per scrivere la postuma “Isola dei Pirati (Garzanti, 2009, pagg. 332). Della Giamaica in cui è ambientato il libro Crichton ci aveva già parlato in un suo racconto di vita, relativo ad uno suo viaggio personale legato ad una separazione sentimentale (Giamaica, in Viaggi, Garzanti Elefanti 2005).

Ma il personaggio dello spregiudicato Capitano Charles Hunter, inglese, che combatte gli spagnoli, sa moltissimo di un suo antenato molto più ortodosso: il Capitano Hornblower, che nelle galere spagnole ci resterà per due anni da prigioniero.

Sembrano figure molto vicine e contrarie.

Hornblower è un comandante nato che combatte per la regia marina, Hunter è un corsaro, una sorta di irregolare con la patente di uccidere in segreto per la corona.

Dire che il romanzo di Crichton sia stato pensato con un occhio avido verso una futura sceneggiatura è pur vero, ma banale.

Se vale il fatto che la sua scrittura – alla fine – era divenuta carne per il cinema, ciò non cancella il suo personale approccio alla scrittura. Predisposta quasi naturalmente per gli adattamenti cinematografici. Crichton è stato medico, e quindi era in possesso di una formazione scientifica per cui si impara a scrivere con parole secche. La frase – come diceva Terzani quando scriveva per Der Spiegel – doveva essere “piccante”. Senza niente di più addosso.

Il suo corsaro risente molto di Hornblower e della sua epopea nei contenuti.

Forester aveva fatto sentire molto di più il mare in una saga di quasi millecinquecento pagine dove gli spagnoli vengono gradualmente sostituiti dagli odiati francesi di Napoleone.

Il capitano Charles Hunter è un avventuriero che in Giamaica, nel 1665, decide di espugnare un galeone ancorato in un’isola vicina a Matanceros, sotto gli occhi di un sadico comandante di nome Cazalla. Si tratta di un’impresa quasi impossibile. Così come era quella di espugnare Veracruz per il capitano De Grammont nell’omonimo romanzo di Valerio Evangelisti.

In entrambi i casi si tratta di uomini che hanno scelto la guerra di corsa per combattere gli spagnoli. Mentre in Evangelisti, però, la figura di Hornblower con tutti i suoi valori non è mai esistita, e dove vince una concezione meridionale (il sesso è preminente, cioè) della pirateria, in Crichton, invece, il sesso c’è ma passa senza sfiorare nessuno. Non fa danni. Evangelisti fa parte di un girone letterario tutto suo dove la guerra di corsa e la pirateria sono qualcosa di barbaro, un reparto dove la macellazione è garantita se ti prendono e dove lo stupro è una regola fissa a cui in qualche modo il lettore è preparato pagina dopo pagina. In “Tortuga l’io narrante vive di una donna meravigliosa – anche se muta – la quale si rivelerà una nemesi feroce per le sue voglie di uomo preso alla sprovvista. Solo che il sesso resta una componente molto forte, e molto partecipata di una vita dove il mare, l’assenza di regole in guerra e la voglia di godere lasciavano davvero poco ogni giorno in cui il sole cominciava a prendere l’orizzonte. Non è un sesso espresso, però, ma più che altro una vena mentale per cui nella vita di questi uomini è la donna che comanda. Lei viene presa una volta, ma l’uomo è preso tutta la vita… e, dunque, è in manette. È la concezione di Filippo II rinchiuso nell’Escorial dove la luce è preda del buio.

Crichton in questo è più wasp, molto più anglosassone.

La visione della guerra di corsa dell’americano è forse anche più feroce di quella di Evangelisti, ma non è così bulimica sulla pagina, insomma sprizza sangue meno rosso. In entrambi si respira lo studio della marineria e della guerra di corsa sul mare che – in moti autori – diventa quasi una sorta di prova di scrittura. Ci siamo chiesti il motivo per cui molti scrittori si cimentino in una nuova edizione del Corsaro Nero. Il punto di partenza resta il romanzo di Salgari.

La prima risposta che viene in mente quando si parla di pirati è che l’animo maschile sia in profondità un pozzo dove i giochi dell’infanzia restano sempre ad un centimetro dalla superficie. Stanno sempre sotto un velo molto sottile.

Le navi rappresentano isole ove la vita è il frutto di regole rigidissime che non esistono in altri luoghi. Sono luoghi atopici, insomma, dove tutto è possibile.

Le avventure in mare sono infinite come tutte diverse – in ogni menoma particella – ne sono le onde. Mai uguali.

Il Corsaro Nero nasce come romanzo per ragazzi e diviene la base di una letteratura per adulti dove si arriva a mescolare un arrembaggio con uno stupro per tenere meno acido il sapore di una storia ormai abusata.

Crichton scrive questo romanzo verso la fine della sua vita, quando la malattia gli ha già dato qualche potente strattone tipo quelli della Morte in “Vi presento Joe Black”. Deve aver pensato a quando navigava con la mente da piccolo e lì, in quella zona di calma apparente, ha provato a fermare un poco il battito del cuore .

Il romanzo di Crichton termina con la parola latina Vincit: come il suo autore, vittorioso sulla morte per aver navigato nei mari estremi anche da adulto. Tutti siamo stati bambini, ma pochi se ne ricordano, come diceva “Il Piccolo Principe”.

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  Nuove storie di pirati (parte II): Valerio Evangelisti, Arturo Perez–Reverte

 articolo di Alberto Pezzini

 A distanza di un anno, ma neanche visto che “Tortuga” è del gennaio 2008, tornano i pirati della Tortue di Evangelisti. Un euro in più, uguale numero di pagine – per la verità una in meno – “Veracruz” è il prequel di Tortuga. Parliamo di una città situata all’interno del Golfo del Messico, proprio nel cuore pulsante della Corrente del Golfo. Viene assalita dai nostri corsari, depredata, messa a fuoco, violentata nelle donne e denudata delle merci. Diventa un deserto. Siamo nel 1683 e Michel De Grammont, l’ultimo comandante guida dei Fratelli della Costa, prende questa decisione rivoluzionaria. Espugnare Veracruz, la città più importante della Nuova Spagna, distruggendo così tutta la rete dei contatti diplomatici europei dell’epoca. L’impresa sarà condannata anche dalla corona di Francia in nome della quale i Fratelli si dicono gli agenti segreti sui mari. Veracruz si trasforma così in un casus belli che condannerà i Fratelli ed il loro comandante. Ostaggio, lui, di una donna che riesce a far liberare, la sua sorella più piccola tumulata viva dentro una prigione inumana dai cattolici spagnoli. La sete di vendetta diventa per De Grammont una benda spessa sugli occhi e gli fa perdere la visione strategica dei mari. Insieme alla moribonda, un’altra presenza femminile che conturba le menti è Gabriela Junot – Vergara, preda del saccheggio, e stuprata con piacere apparente da uno dei comandanti del Re della Corsa. Tutto viene narrato dalla voce di Hubert Macary, ufficiale votato all’obbedienza più cieca se non fosse per quell’inclinazione incoercibile verso le donne fatte di senso e bellezza. Macary sarà poi colui che si perderà nelle ultime pagine di Tortuga scomparendo dentro una fine tanto nefasta quanto inattesa. La storia dei corsari è tutta qui, sempre con il solito meccanismo del romanzo d’appendice. Ogni paragrafo fa saltare di corsa verso l’altro, sempre con il fiatone. Evangelisti ha individuato un filone aurifero che sa gestire molto bene. L’impasto è il solito: avventura, sangue, intrighi, passioni e sesso. Qui, rispetto a “Tortuga”, è più fine, più lontano all’orizzonte ma lo si avverte come la vera molla della storia. Se si apre “Il Corsaro Nero” di Emilio Salgari (1898) ci si può toccare e pizzicare perché le cose non sono cambiate. La stessa orditura, la stessa velocità nella narrazione, soltanto con qualche pepita di appetito maschile concessa in più ai lettori (che sociologicamente si sono evoluti verso un tipo di avventura dove il sesso è divenuto una componente fisiologica).
Evangelisti ci confessa nella Nota finale di avere già in mente il terzo tomo con il titolo “Cartagena”, che prima o poi scriverà. Conterà le stesse pagine, costerà un euro in più, e sarà anch’esso capace di far sentire il mare come le conchiglie.

La mano di Evangelisti – quel che è giusto va detto – è però la più abile nell’arte di “affiancarsi” a Salgari e la sua capacità mimetica supera di gran lunga anche “I Corsari di Levante”, Tropea 2009, di Arturo Pérez–Reverte, che letto in controluce è più intellettualistico e meno maroso. Evangelisti – in fatto di corsari – è più audace, ha una maggiore visione fumettistica dell’intreccio che sa far pesare di più sulla bilancia. Perez Reverte è in affanno perché la sua mano resta quello dello spadaccino, dell’indimenticabile e supremamente terreste maestro di scherma Alatriste che – sul mare – fa la figura del piemontese alla spiaggia. D’altro canto gli spagnoli, con quei galeoni così pesanti, perdono sempre contro i corsari. È una legge che regola le storie della Corsa. La Spagna è sovrana di un impero dove il sole non tramonta mai. Sulla terra, però…  soltanto sulla terra.

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LA MALATTIA CHIAMATA UOMO di Ferdinando Camon http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/27/la-malattia-chiamata-uomo-di-ferdinando-camon/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/27/la-malattia-chiamata-uomo-di-ferdinando-camon/#comments Fri, 27 Mar 2009 22:40:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/27/la-malattia-chiamata-uomo-di-ferdinando-camon/ Sulla psicanalisi si è detto di tutto, si è scritto di tutto. Molti testi di narrativa, dal Novecento a oggi (cito “La coscienza di Zeno” per tutti) sono intrisi o fanno riferimento alla psicanalisi. I saggi non si contano; così come i manuali. Eppure “La malattia chiamata uomo” di Ferdinando Camon, romanzo appena ri-edito da Garzanti (euro 14,50, pagg. 186) è un testo che si distingue dagli altri. E non solo perché è un romanzo. Lo intuiamo già da questa frase riportata in copertina: “Viaggio nell’inconscio di un uomo, fin là dov’è sconosciuto anche a se stesso e alle sue donne”. E di questo si tratta: la descrizione di un lungo e difficile viaggio durato ben sette anni di terapia. Alla fine del testo leggiamo questa avvertenza dell’autore: “Questo non è un diario o una cronaca, con personaggi della realtà, ma un romanzo: in qualche caso la realtà può avermi offerto un pretesto, ma niente più che un pretesto”. Al di là del fatto che la realtà sia stata rappresentata più o meno fedelmente, in questo libro c’è Camon: c’è l’esperienza dell’uomo esposta con il talento dello scrittore; c’è una rivelazione che forse costituisce la tappa finale di quel viaggio (ammesso che quel tipo di viaggio preveda l’esistenza di un punto di arrivo). Carlo Sgorlon sostiene (la frase è riportata in quarta di copertina): “Camon sembra essere entrato in quel gusto autolesionistico di sciorinare in pubblico le proprie disavventure che è talvolta tipico di alcuni scrittori ebrei, per esempio Philip Roth o Saul Bellow”. Non sono molto d’accordo. Non credo si tratti di gusto autolesionistico, ma di insopprimibile esigenza di raccontare (e raccontarsi) per uscire da sé. E nel percorso narrativo che porta a questa uscita da sé, Camon elabora (e offre al lettore) un testo unico: la storia di un’analisi raccontata dal suo interno; il rapporto tra medico e paziente visto con gli occhi di quest’ultimo. Una storia lunga e difficile, dicevo… che comincia così: “Ci siamo incontrati per sette anni, quattro volte alla settimana, in casa sua, ci siamo parlati per mille e cinquanta ore, ma non so con esattezza chi è. Mi pare che sia abbastanza alto, ma forse ho quest’impressione perché l’unico momento in cui lo avevo davanti e potevo guardarlo in faccia era quando avevo suonato il campanello e lui veniva ad aprirmi la porta” (pag. 9). Uno sconosciuto che diventa più indispensabile di una madre, ma che rimane estraneo fino alla fine del viaggio. “E allora intuisco: anche nelle esperienze più nuove e più rivoluzionarie, ognuno impara solo quello che già sa; e quest’uomo col quale sto parlando, e che guardo per la prima volta – così piccolo, così magro, così vecchio – io non lo conosco.” (pag. 174)
Eppure questo sconosciuto (che rimane tale) diventa un punto di riferimento imprescindibile. “Incontrarlo diventava la cosa più importante della giornata, della settimana, persino (ora mi è difficile riconoscerlo) della vita.” (pag. 13). E la necessità di incontrarlo non scema (tranne che alla fine del percorso) di fronte alla consapevolezza dello stravolgimento interiore a cui il paziente va incontro: “L’analisi sta all’uomo come una guerra civile sta allo Stato” (pag. 153).
Silenzi prolungati, sfoghi improvvisi, racconti di traumi, rivelazioni e interpretazioni di sogni, disturbi psicosomatici, risvolti tragicomici (in alcuni punti perfino divertenti), malattie vere con conseguenti ricoveri ospedalieri: Camon racconta tutto da par suo; con scrittura ritmica, incalzante, che a tratti sorprende e colpisce allo stomaco. Al centro di tutto c’è la crisi della società e dell’uomo, la dissoluzione della famiglia, la scomparsa delle Chiese-madri e dei Partiti-padri (dunque la perdita di punti di riferimento). E la sconfitta del maschio: “L’orgoglio di essere maschio si è moltiplicato in ogni minuto di ogni giorno di ogni anno, ma il risultato finale di questa operazione non indica che una minima parte della realtà. Perché questo fiume di orgoglio lo aveva già accumulato mio padre, e prima di lui mio nonno, e prima di loro tutti i maschi della nostra famiglia, del nostro paese, del mondo, e tutti questi fiumi di orgoglio erano sfociati in me, riempiendomi come un mare, prima ancora che io nascessi.” (pag. 90)
Un accumularsi di maschio orgoglio che è facile riscontrare in frasi come questa: “Non piangere, sei un uomo”. I fiumi di orgoglio riempiono, i fiumi di orgoglio travolgono. Oggi più di ieri. Perché questi fiumi – forse – corrono su letti sempre più ristretti. E straripano. E allora, la malattia. Ma attenzione: “Ciò che è malato è apparentemente lo stomaco, il cuore, l’intestino, in realtà è la lingua. La lingua è il rapporto tra il figlio e la madre, e, per estensione, tra l’uomo e tutto. Quindi, in realtà, ciò che è malato è questo rapporto. Poiché la lingua è un rapporto, la malattia è epidemica: noi viviamo immersi nella malattia, e trasmettendo la lingua trasmettiamo la malattia: la lingua è il virus della malattia chiamata uomo.” (pag. 153). La parola che si logora, che traballa, che tradisce… che perde il suo senso, fino a diventare malattia.
Sulla psicanalisi si è detto di tutto; ma a quel tutto aggiunge qualcosa in più la scrittura di questo romanzo sincero e coraggioso. Una scrittura che fluisce rapida, che scuote, che induce a riflettere sugli effetti dei mutamenti della società e sulla fragilità dell’equilibrio umano.

Di seguito potrete leggere la nota dell’autore alla nuova edizione (ringrazio Ferdinando Camon e la Garzanti per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicarla).

Mi piacerebbe discutere con voi sulle tematiche affrontate da questo libro.
Pongo alcune domande con l’intento di favorire il dibattito:
- che idea avete della “psicanalisi”? Quali sono, a vostro avviso, i pro e i contro?
- secondo voi l’uomo di oggi ha più difficoltà ad adattarsi alle metamorfosi sociali rispetto a quello di un tempo? E perché?
- c’è stato davvero un processo di dissoluzione della famiglia? Se sì… con che conseguenze a livello individuale e collettivo?
- le chiese-madri e i partiti-padri sono davvero scomparsi?
- siete d’accordo sulla seguente considerazione: “oggi il maschio è in crisi”?
- da dove deriverebbe questa crisi? Quale generazioni di maschi ha colpito di più? E per quale motivo?

A voi, come sempre, la parola.

Massimo Maugeri

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LA MALATTIA CHIAMATA UOMO (di Ferdinando Camon)

Nota dell’autore alla nuova edizione

camon-a-padova-2007.jpgQuando scrivevo questo libro, lo sentivo come pieno di sofferenza, a tratti d’angoscia, perciò sono rimasto sbalordito quando poi, appena è uscito, ho visto che i lettori e i critici lo trovavano divertente o perfino comico. Specialmente i lettori e i critici maschi. Le donne hanno avuto una reazione che ci ho messo un anno a capire: le giornaliste non si sono limitate a farci un articolo, ma han voluto una conversazione con l’autore: e così son venute a casa mia una sinologa, critica della «Stampa», una scrittrice del «Corriere della Sera», una romanziera francese redattrice di «Libération», una giornalista
della Radio svizzera… Io le ricevevo con gioia, ero contento che s’interessassero al mio libro, ma un po’ alla volta mi sono accorto che il loro interesse non era per il libro, era per l’uomo: godevano nell’aver tra le mani un uomo in analisi, e venendo a parlargli desideravano costringerlo a una seduta in più, farsi raccontare un altro capitolo, guidare o comunque partecipare all’analisi di un maschio, e in questo modo dominarlo, tenerlo in pugno. Io nel libro lo dico di un uomo per una donna: amare una donna, far sesso con lei, non è il modo più completo di averla in proprio dominio; e nemmeno confessarla, esaminarne i peccati e le colpe; no, il modo più completo ed entusiasmante di conquistarla e possederla è entrare negli spazi di lei che lei non conosce, farsi consegnare i sogni e le fantasie, scoprirne le fobie che lei patisce ma ignora.
Bene, queste donne che appena letta la Malattia venivano a cercarmi, cercavano un nuovo recesso del mio inconscio da indagare, da scoprire, un punto vulnerabile, un sogno dimenticato, una reazione incauta… Volevano una loro vittoria, diretta e personale, su un maschio in crisi. Per ottenere questo, eran disposte a pagare il prezzo che valeva, e cioè a scambiare sogno con sogno, confessione con confessione, seduta con seduta, e perciò mi raccontavano spezzoni della loro analisi, finita o ancora in corso. Alcune di queste loro confessioni sono poi confluite nella Donna dei fili. Ho imparato molto da quelle donne. Più di quanto ho loro insegnato.
Con questo libro, per la prima volta i contatti si facevano personali anche con direttori editoriali e traduttori con i quali fin’allora dialogavo per lettera. Questo è un libro che, fra tutti i miei, alla Gallimard, Hector Bianciotti ha amato di più. Da New York è venuto a trovarmi il traduttore John Shepley, s’è piazzato in un albergo qui vicino e c’è rimasto per alcuni giorni. «Per parlarmi», diceva lui. Credo che la ragione fosse un’altra: per vedermi. Da Buenos Aires è venuto Antonio Aliberti. Questo non lo avevo messo nel conto: che fosse un libro che fa venir voglia di vedere in faccia l’autore, sedersi di fronte a lui, vis-à-vis, entrargli in confidenza.
L’autore, al contrario, non ha voglia di farsi vedere dai lettori, il suo istinto è nascondersi.
Il libro è stato portato in teatro a Parigi, ed è stato recitato tutte le sere per quattro anni all’Aquarium. Io ero a Parigi la sera della prima. Ma non mi sono presentato al teatro.
In una pubblica piazza proiettavano, in prima mondiale, Ran di Kurosawa. In fretta e furia mi son procurato un accredito e mi son seduto tra la folla. Al teatro mi son recato una settimana dopo, l’attore che mi impersonava sulla scena mi ha riconosciuto e alla fine della recita mi ha indicato al pubblico, ma io non mi sono alzato in piedi.
Devo dire che le poche volte che sono andato a incontri con i lettori mi sono pentito. Le osservazioni e i dialoghi eran incauti, indelicati, dolorosi. Un gruppo di lettori aveva organizzato un piccolo festeggiamento con cena, mi presento, siamo nell’atrio della sala in attesa, una signora mi s’avvicina e mi fa: «È lei che ha scritto il libro?», «Sì, signora », «Leggendo, la immaginavo diverso», «E come m’immaginava?», la signora mi squadra dall’alto al basso, dal basso all’alto, e conclude, sprezzante: «Più ascetico».
Mi considero fortunato a non aver mai incontrato di persona, almeno finora, qualcuno dei lettori-pazienti che in questo quarto di secolo sono andati in analisi dall’analista di cui parlo nel libro. È stato lui stesso a raccontarmi che hanno tutti qualcosa da ridire: «Dov’è sul muro la macchia a forma di aereo che descrive Camon?», «Ma il lettino è sempre stato così vicino al muro? e quando venne il terremoto di cui parla Camon, sbatteva sul muro?». Son passati tanti anni, ma è come se andassi ancora in analisi insieme con loro. E neanche questo l’avevo previsto.
Quella che racconto nel libro è un’analisi in cui è uomo (maschio) sia l’analizzato che l’analista. Poiché l’analisi è onnisessuale, in questa onnisessualità fra due uomini una mente profana (beata lei) può sentire una vena di omosessualità: in fondo, son due uomini che parlano di sesso, in completa intimità. C’è stato uno scrittore omosessuale che è venuto a trovarmi, dopo di che mi ha mandato per lettera una scheda di valutazione del mio aspetto fisico: mani «raffinate», sopracciglia «stupende» (scusate, lo diceva lui; ma perché le donne non mi hanno mai fatto complimenti del genere?), sguardo «morbido»; «peccato le spalle…». Infatti, lo riconosco, sono un po’ curvo.
Non ho mai ricevuto esami anatomici dai lettori di nessun altro mio libro, ma della Malattia sì. Qualcosa deve significare.
La psicanalisi dà l’idea non di una relazione ma di una fusione psiche-soma. Valutazioni di questo tipo credevo che non mi facessero né caldo né freddo. Però, passano gli anni, e m’è venuto un tic: ogni mattina, quando mi rado, guardo le sopracciglia e ripeto dentro di me «stupende », guardo le mani e dico «raffinate», poi mi giro per vedere nello specchio le spalle e mi lamento: sì, sono curve, sembro Leopardi. È dunque un libro che mi ha inguaiato i rapporti con i lettori. E con me stesso.
Da Mosca il mio traduttore Mickail Andreev, professore all’università, mi mandò una lettera sconsolata: «Non mi la sciano tradurre questo libro, dicono di non poter ammettere che ci sia un’influenza che partendo dalla psiche si scarica sul corpo». Non so se la seduta sia un reato, come sosteneva il presidente degli psicanalisti italiani Cesare Musatti (è un aneddoto che cito spesso, a costo di ripetermi: «Se i carabinieri sentissero come parlano, e di cosa parlano, analizzato-analista, gli metterebbero le manette e li porterebbero in prigione di corsa»), ma certo è un tabù. E ogni capitolo del libro rompe questo tabù. E qui, probabilmente, c’è una violenza, una hybris. È una colpa, e chi la commette deve espiarla. Di fronte all’uomo in crisi, al maschio in analisi, la critica italiana dava spiegazioni storiche o economiche (l’Occidente è in decadenza, la donna guadagna quanto il marito, nei divorzi la moglie si porta via tutto, e soprattutto i figli, eccetera): noi avevamo una critica marxista-idealista, altrove usavano da tempo quelle che i francesi chiamano le «nuove scienze umane». E queste, nella comprensione di un testo letterario, rendevano di più. Perciò è stata profondamente diversa la lettura che di questo libro han fatto i giornali francesi, spagnoli, argentini rispetto a quegli italiani. Fuori d’Italia mi son sentito capito meglio. Qualcuno, all’estero, aveva affacciato l’ipotesi che il culmine della vittoria della donna sull’uomo (del femminile sul maschile) si fosse avuto quando c’era stato un papa che era durato solo 33 giorni, ma in quei 33 giorni aveva fatto in tempo ad annunciare al mondo che «Dio è mamma», cioè femmina. Fosse durato altri 15 giorni, avrebbe cambiato le parole con cui i cristiani sparsi sulla Terra si richiamano alla propria origine: «Madre nostra, che sei nei cieli». Era la de-maschilizzazione del mondo e della storia. Correva l’anno 1978, il mese era settembre, in analisi ero sprofondato nel tunnel dei sogni, ci volevano ancora tre autunni perché uscissi a riveder le stelle, intanto prendevo appunti, e quegli appunti erano il primo nucleo della Malattia chiamata uomo.
Ferdinando Camon
Luglio 2008

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AGGIORNAMENTO DEL 31 marzo 2009

Aggiorno il post con il bellissimo intervento che ci ha fatto pervenire Ferdinando Camon
(Massimo Maugeri)

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Ferdinando Camon a Massimo Maugeri
31 marzo 2009, ore 17,14

Caro Maugeri e cari colloquianti di “Letteratitudine”, leggo nella mattinata del 31 marzo il dibattito che si sta svolgendo sul mio libro “La malattia chiamata uomo”, e poiché qualcuno mi chiama in causa, ritengo un dovere morale rispondere. Non è una buona cosa che un autore risponda a domande su un suo libro, perché il libro dovrebbe già contenere le risposte: se le risposte le dà l’autore, vuol dire che il libro è incompleto o reticente. Ma il fatto è che si tratta di un romanzo-verità, un racconto-diario, e la verità e il diario riguardano una delle esperienze fondanti della vita, la psicanalisi, e perciò basta che uno viva per sentirsi coinvolto e reagire, concordando o dissentendo. Ho detto psicanalisi-esperienza. Il che comporta che chi ne ha fatto l’esperienza sa che cos’è, mentre chi ha soltanto letto dei libri o discusso con amici (o psicanalisti o preti o intellettuali vari) ne ha una intuizione esterna, ma non una conoscenza. La mia analisi è cominciata con Cesare Musatti, presidente degli psicanalisti italiani. Non molto costoso. Loquace. Un grande padre. Non immune da errori, anche gravi, anche gravissimi. Come, del resto, ogni padre. Musatti però stava lontano, dovevo fare tre ore di treno per l’andata e tre per il ritorno, e così dopo un po’, passata la buriana del primo transfert, concordammo, lui ed io, che si poteva continuare con uno più vicino, naturalmente membro della Spi, professore universitario, persona squisita, che sapeva impostare e condurre (e sfruttare) il transfert molto meglio di Musatti, praticamente senza il minimo errore. Questi abitava a trenta minuti di auto da casa mia. E’ il protagonista del libro. Musatti era vecchio, e come tutti i vecchi parlava troppo. Mi raccontava di un altro scrittore che era stato in analisi da lui, un grande scrittore, che io sentivo come un fratello maggiore, Ottiero Ottieri: Ottieri era caduto in quella che si chiama “analisi interminabile”, dopo l’analisi con Musatti entrò in un’analisi junghiana, e dopo in un’altra ancora, e insomma non ne usciva più. Io amavo i suoi romanzi. Avevo raccolto in un libro le mie conversazioni con gli scrittori italiani che frequentavo, Moravia Pratolini Bassani Cassola Pasolini Volponi Ottieri Roversi Calvino, Musatti lo sapeva, e non doveva parlarmi in quel modo di due di questi autori, che per me erano due “figure interiori” dominanti. Ottieri beveva. La moglie gli nascondeva gli alcolici. Ma lui trovava il rimedio, beveva i profumi della moglie, che contengono alcol. Pasolini controllò con sofferenza le prime 6-7-8 sedute, non voleva che saltasse fuori la sua omosessualità. A un certo punto lo disse: “Parlerò di tutto, tranne che della mia omosessualità, perché la considero natura”. Musatti rispose: “Ne parlerà comunque, perché è cultura”. Pasolini entrò in una crisi d’angoscia, saltò una-due-tre sedute, e alla fine non si fece più vedere. La mia opinione è che, se avesse continuato l’analisi, sarebbe ancora vivo, e avrebbe l’età di Zanzotto. Ma non sono convinto che Musatti abbia fatto bene a dire quelle parole. Lui non doveva spiegare nulla. Doveva soltanto analizzare perché Pasolini credesse che l’omosessualità fosse natura (convinzione, peraltro, che il senno del poi predilige). Anche per questi sconcertanti errori non mi fu traumatico passare da Musatti a Fara.
Quella era l’”epoca eroica” della psicanalisi, la psicanalisi freudiana si svolgeva così come io la racconto. Avevo amici psichiatri-psicanalisti che andavano in analisi a Parigi una volta al mese, da Salomon Resnik. Resnik, argentino trapiantato a Parigi, è l’autore delle voci sulla psicanalisi per l’Enciclopedia Einaudi. Questi miei amici stavano a Parigi un week-end al mese, e in quei giorni andavano in analisi ogni mattina e ogni pomeriggio. Poi, separazione totale per un mese. Assurdo. Per me, l’analisi è una “consegna” della vita, man mano che viene vissuta. Tu, all’analista, dai tutto quello che sei, giorno e notte, quello che sai e quello che non sai, e i sogni li consegni alla cieca, ignorando quel che contengono. In quello che non sai, e nei sogni, può esserci anche disprezzo per l’analista, e oltraggio, e protesta. Non ha importanza, il vostro rapporto non cambia. Il vostro rapporto è il rivivimento di altri rapporti, analizzando l’odio di questo rapporto tu capisci l’odio di altri rapporti, e ne vieni fuori. Finché non ne vieni fuori, lo patisci. E’ per questo che l’analisi è un cibo: un cibo lo devi mangiare, non saprai mai cos’è finché leggi menù. Così è l’analisi. Finché leggi libri, non ne fai esperienza.
L’analisi che racconto nella “Malattia” è la forma classica dell’analisi freudiana. Ci sono altre analisi, certo. Alcune selvagge. Un’analisi selvaggia la racconto nel romanzo “Il canto delle balene”, lo dico perché vedo che qualcuno di voi l’ha letto: l’analista del “Canto delle balene” è (scusate) un pazzo, che crede di guarire contagiando con la propria pazzia. Mi sono divertito scrivendo “Il canto delle balene”, ho sofferto oltre ogni dire scrivendo la “Malattia”.
Oggi non la scriverei più così, ma l’analisi nella sua forma classica resta quella. Allora c’erano ruoli inderogabili: padre, tu vieni dopo la famiglia; marito, tu vieni dopo tua moglie; figlio, ama il padre e la madre; omosessuale, tu sei un assassino. I “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio” erano sette, il primo era l’omicidio volontario, il secondo il “peccato impuro contro natura”, cioè l’omosessualità. Capisco la disperazione, allora, di Pasolini, e oggi di Vattimo. Ognuno aveva un ruolo, sgarravi dal tuo ruolo e ti sentivi morire. Imperava il senso di colpa. L’analisi che io racconto è il processo a cui viene sottoposta una morale piena di valori e anti-valori terrificanti. Adesso il campo della morale è vuoto, il senso di colpa è dissolto.
Per tutto quello che ho detto, uno psicanalista ottiene più per quello che è che per quello che sa. Non contano le sue risposte, conta il modo con cui ti conduce a trovare le risposte. Non è vero che quando non risponde c’è il silenzio: siete in due, tutt’e due vigili all’estremo, quindi silenzio come assenza non c’è mai. Il silenzio come assenza è l’isolamento. Il silenzio come presenza vigile è la solitudine. E’ ben diverso.
Capisco chi dice oggi che quattro ore alla settimana sono troppe: oggi forse non sono neanche necessarie. Forse oggi non è necessaria nemmeno l’analisi col lettino, e infatti vedo che qualcuno ironizza sul lettino. Il lettino e il non-vedersi causano regressione. Il punto a cui arrivi con la regressione è il punto da cui parti con la ricostruzione. Vedo che qualcuno parla di “ricostruzione della persona”. E’ giusto, è l’operazione da fare. La persona fu costruita con la lingua, e con la lingua va ricostruita. Non sono sicuro che si possa porre un “essere” prima che si possa porre il “parlare”. Heidegger dice che il linguaggio “è la casa dell’essere”. Vito Mancuso dice che “l’essere divino è persona e ha un linguaggio”. Su quel che c’era in principio sta scritto: en archè en o lògos, in principio erat Verbum. Credo (ma non è il mio campo) che la lingua fondi la persona, e che il bambino che sente come prima parola “mamma” venga fondato diversamente da quello che sente “Mutter”. Poi, crescendo, i due bambini si differenziano sempre di più: il ragazzo che sente “attenzione” sta attento, il ragazzo che sente “Achtung” trema. All’interno di una lingua, ogni parlante è diverso dagli altri, e così per ogni uomo si svolge un’analisi diversa: se non fosse così, potrebbero esistere dei dizionari dei sogni, in cui dato un sogno con i suoi simboli si deducono le oggettive valenze. Come se il senso di un sogno fosse in chi lo interpreta. Invece il senso di un sogno sta dentro il sognatore, e quando vien fuori il senso se ne meravigliano sia l’analista sia chi va in analisi. Il terreno dell’analisi è il terreno dei tabù. Un’analisi si muove sempre nel proibito. E’ ingenuo il paragone (che spesso si fa) tra analista e confessore: un’analisi comincia dove la confessione finisce, la confessione a un certo punto si deve fermare (sta scritto nelle guide del confessore; se non si ferma, diventa morbosa), ma l’analisi è da lì che parte. Certo, come dice qui più d’uno (ho imparato molto da queste e-mail; grazie a tutti, da Zauberei agli altri, e grazie anche a Giampiero, che mi ringrazia), i tempi cambiano, cambia la famiglia, cambiano l’uomo e la donna, e dunque cambia anche l’inconscio. Perciò cambia la caccia all’inconscio. Tuttavia l’inconscio fu ipotizzato e cercato e rintracciato e descritto con la tecnica che io descrivo. Quella tecnica sta alla psicanalisi come il latino sta alle Scritture. Per capire le Scritture, bisogna conoscere la lingua in cui sono scritte.
Ferdinando Camon

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