LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » gianfranco franchi http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 LETTERATURA DI MADRI E FIGLIE: Sandra Petrignani, Dora Albanese http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/14/letteratura-di-madri-e-figlie/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/12/14/letteratura-di-madri-e-figlie/#comments Mon, 14 Dec 2009 15:53:53 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1422 sandra-petrignani-dora-albanese

Il filo conduttore di questo post è il rapporto tra madre e figlia: uno dei più importanti tra quelli contemplati nell’ambito delle relazioni umane. Un rapporto non sempre facile, ma essenziale. Che muta nel tempo, ma che – alla fine (forse) – rimane sempre uguale.

Vorrei discuterne con voi insieme a due scrittrici (appartenenti a generazioni diverse) che hanno pubblicato – di recente – due testi di narrativa che, a mio avviso, sono collegati proprio dal tema che propongo in questa discussione: Sandra Petrignani (scrittrice notissima) e Dora Albanese (esordiente, ma già nota ai frequentatori di questo blog).

Introduco subito qualche domanda con l’intento di favorire la discussione:

Rispetto agli altri tipi di rapporti umani, cos’è che caratterizza quello tra madre e figlia?

È un rapporto basato più sulla complicità o sulla conflittualità?

Quali sono i rischi? E quali le opportunità?

Quali sono le fasi della vita (sia della madre, che della figlia) più delicate? Quelle che influenzano di più il loro modo di relazionarsi?

E come è cambiato il rapporto madre/figlia, in questi anni? Che differenza c’è – oggi – rispetto a venti, trenta, cinquant’anni fa?

Infine… che differenza c’è – a vostro avviso – tra il rapporto madre/figlia e quello madre/figlio?

I due libri protagonisti di questo post, in un modo o nell’altro, affrontano questo argomento.

Il libro di Sandra Petrignani è un romanzo intitolato  “Dolorose considerazioni del cuore” (edito da Nottetempo). Ecco la scheda…

Dal suo rifugio sotto le coperte, Tina racconta a Vittoria, amica amatissima, persa e ritrovata, i fatti, il disordine e i ricordi degli anni in cui una brusca rottura le ha tenute lontane. Nel tentativo di ricondurre a un unico, ricorrente malamore i tanti modi in cui ha amato, Tina recupera dai suoi cassetti brani di romanzi incompiuti e li annoda alla testimonianza di un presente insopportabile. L’assistenza a due genitori anziani, incattiviti da una relazione infelice, riporta in superficie le sofferenze infantili e permette di ricomporre gli indizi di un antico rifiuto. Si delinea così l’”autobiografia di una borderline” dalla caotica vita sentimentale, nella quale gli affetti vivono di strappi e tormentosi ritorni. Eppure il cielo resta alto sulle rovine e una ricomposizione è possibile.


Dora Albanese, invece, per i tipi di Hacca, ha pubblicato la raccolta di racconti “Non dire madre“…

Attraverso il topos della maternità, Dora Albanese racconta tre metamorfosi sociali e culturali del Sud postbellico: la dura maternità della Lucania “interna”, ancora legata a feroci e dolcissimi stili contadini; la frustrata maternità piccolo-borghese di una Matera “piana”, dimentica della superba e misera civiltà dei Sassi; e, infine, la maternità delle nuove generazioni, sospese tra “ritorni al passato”, fastidi per un benessere di facciata, e goffi e ostinati tentativi di abbracciare il mondo, magari attraverso un altro topos di questo libro, quello dell’emigrazione. In Non dire madre il tema della maternità e della femminilità è ossessivamente indagato e sviscerato con franchezza, senza abbellimenti estetici e senza indulgenze; anzi, le donne di questo libro sono sempre colte in un estremo momento di quotidianità scoperta, finanche di buffa sciatteria. A Dora Albanese interessa il trucco che si scioglie sul viso, l’odore immediato della carne e della placenta, la calata delle maschere, l’emergere impietoso delle paure, delle viltà, dei sentimenti più immediati, senza temere né la crudeltà né il sentimentalismo – dilagante attitudine, quest’ultima, di un Sud che, a furia di recitare, ha pure imparato a recitare i sentimenti.

Seguono due recensioni: la prima, firmata da Stefania Nardini, riguarda il romanzo di Sandra Petrignani; la seconda, di Gianfranco Franchi, è relativa alla raccolta di racconti di Dora Albanese.

(Spero che Stefania e Gianfranco abbiano la possibilità di partecipare al dibattito).

Siete tutti invitati a discutere dei due libri e dei temi proposti.

Massimo Maugeri

P.s. Potete ascoltare le interviste che le autrici protagoniste di questo post hanno rilasciato alla trasmissione Fahrenheit. Quella di Sandra Petrignani è qui… quella di Dora Albanese è qui.

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Petrignani: la storia dell’età forte

di Stefania Nardini

A un’amica, un’amica mai perduta nonostante le pause che il tempo intransigente impone, una lettera vera, di quelle che vengono dal profondo del cuore. Da scrivere rannicchiandosi sotto le coperte.

Perché ci vuole uno spazio intimo. Caldo. Come quando i gatti decidono di stare da soli. Perché scrivere sotto una coperta significa mettersi a nudo. Lasciarsi andare alle emozioni, viaggiare senza soste ripercorrendo la propria vita, la propria storia.

Erano trascorsi tre anni da quando Tina si incontrò l’ultima volta con Vittoria. Una scelta? No. Piuttosto le circostanze, i cambiamenti, che spesso creano distanze che poi si rivelano apparenti. Tina per raccontarsi a Vittoria sceglie la parte di sé che meglio riesce a esprimere senza paure, filtri: la scrittura. Recupera romanzi incompiuti rimasti nel suo cassetto.

Creando un melange con il suo oggi. L’oggi di una donna matura che suo malgrado è portata ogni giorno a fare i conti con la sua vita, i suoi antichi problemi, i suoi mali. L’oggi di Tina sono i suoi genitori. Anziani, malati, sui quali il tempo implacabile ha tracciato un segno irreversibile, che si rivela in comportamenti discontinui, tra fantasmi del passato che cedono spazio all’universo fragile di chi da vecchio perde le difese.

Un romanzo, “Dolorose considerazioni del cuore” di Sandra Petrignani (ed. Nottetempo), che ha sicuramente un connotato generazionale che sboccia, pagina dopo pagina, nel racconto della protagonista, nel suo rapporto con una madre, tipica donna del dopoguerra, simile a tante altre madri dell’epoca: capace di amare e di fare male in nome di un “credo” conformista, in nome di una morale umorale, o per quell’esteriorità che si fa “veleno” da inghiottire nella vita quotidiana. Il mito del figlio maschio, la scuola dalle suore, il marito eroe da accettare comunque, l’uso di “parabole” per giustificare un semplice desiderio. E lei: la piccola Tina che cresce nel suo disagio che un giorno cercherà di superare con l’esperienza dell’analisi. Perché poi, come ci racconta bene Petrignani, la vita oltre al malessere costruito dal passato ti riserva quello della crescita, dell’esperienza, delle relazioni, dove tutto va e viene senza tregua. Si collezionano amori sbagliati che sembravano perfetti, si cede ai carnefici che ti vogliono vittima, si ama senza sapere dove si va…

Un libro da cui si evince un percorso esistenziale che giunge ad una maturità liberatoria, quando viene il momento in cui è la vita che si ricompone intorno alla propria storia. Ma è anche la fase del declino dei propri genitori, per i quali non resta che l’essenza dell’amore. Sono vecchi, dimenticano le cose, vanno accompagnati ovunque, accuditi, assistiti, e non possono far altro che abbandonarsi a una figlia che li ricorda come erano, per poi guardarli come sono.

Quando ascoltando la vecchia canzone “O main papà”, il padre si commuove e con Tina si ritrovano uniti dalle lacrime.

Sandra Petrignani che ha al suo attivo romanzi per i quali ha ricevuto importanti riconoscimenti, come “Care presenze” , “Ultima India”, La scrittrice abita qui”, giusto per citarne alcuni, con “Dolorose considerazioni del cuore” si dimostra ancora una volta una scrittrice di grande talento e di grande sensibilità, dote, quest’ultima, che esprime senza risparmiarsi mai. “Questo libro é nato dalla realtà di dovermi improvvisamente occupare di due genitori vecchi, non solo dal punto di vista accuditivo, ma anche pratico, economico – mi racconta. Uno crede di aver chiuso i conti con l’infanzia e invece una situazione del genere ti ributta addosso tutto, anche di più. Rileggi tutta la tua vita e i rapporti difficili con due persone che hanno determinato la tua vita e il tuo carattere…

Ho rovistato nei cassetti e ho davvero trovato manoscritti iniziati e lasciati lì in epoche diverse della vita. Ho riscritto ricucito inventato qualcosa (pochissimo).”

In questo testo emergono due sentimenti: il dolore e la grande gioia di vivere nell’amore, nel sentimento dell’amicizia. Sandra Petrignani ci lascia riflettere, ma ci regala anche la speranza di essere persone vere. Perché il dolore è come l’onda del mare. Va, viene. E quando c’è tempesta si infrange su quella scogliera che è la nostra esistenza. Una scogliera a tratti friabile. Là dove ha lasciato il segno tante, forse troppe, volte. Dove, appunto, c’è il cuore.

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Non dire madre: Dora Albanese

di Gianfranco Franchi

Prepotente come l’esordio di questo romanzo, di bellezza pari all’intensità e alla violenza dei sentimenti di una madre, della madre che racconta cosa significa dare alla luce un bambino, e cosa significa avere diciannove anni, in quel momento, ricordo d’aver letto poco, negli ultimi anni. Forse niente. La maternità è un mistero assoluto, per noi uomini; è solo il principio di una metamorfosi della donna che abbiamo amato e ameremo per sempre, è solo la sensazione di un evento fenomenale, incancellabile (e: giusto. Naturale, perfetto). E da quell’esordio in avanti mi sono lasciato andare, tra le pagine, come se fossi cullato. È strano, non ho accompagnato né guidato la lettura – sono stato, come dire, trasportato. Tutto a un tratto è cambiata la voce della narratrice, e ho scoperto che avevo di fronte una raccolta di racconti di una scrittrice lucana, classe 1985, esordiente; alle spalle qualche pubblicazione web e cartacea, qui alla sua opera prima. Ho guardato meglio la copertina di Maurizio Ceccato e ho sorriso. Mi sono accorto che nessuno mi stava cullando, e ho letto. Da letterato, ho apprezzato una gran sensibilità per i dialoghi, un grande amore per le proprie origini, un enorme orgoglio per Matera, per Stigliano, per le proprie radici; infine – magnifico – per il dialetto delle madri, per l’essenza di quella società contadina, matriarcale, tenace, forte. Ho sorriso di come mi s’era rovesciato tutto. Ho pensato al mistero della maternità, a quanto grande è questo enigma anche per le stesse donne che vanno a viverlo. È tanto grande che a un tratto narrarlo diventa impossibile: si devia nell’allegoria, si pasticcia col presente, ci si confonde tra un ricordo e un altro, si cerca una fine che non c’è (la fine è sempre una fortuna, un dono: ma è qualcosa di giusto, e naturale. Proprio come la nascita), si guarda nel lago delle proprie origini per dimenticare d’essere diventate origini voi, voi stesse donne. È bellissimo, e sbagliato (ma quanto è bello sbagliare? Quanto è sano?).

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Saluto l’esordio di una narratrice che farà scintillare la Lucania di vita nuova, nelle patrie lettere. Sarà come pioggia su una terra arida. Sarà madre di un canto di quella terra, di quelle persone, di quella cultura, che sin qua manca. E come spesso accade, saprà farlo meglio di chi vive lì, perché adesso lei da Roma osserva tutto con più chiarezza: sta interiorizzando e giudicando la sua vita, e la sua cultura originaria, e presto ne deriveranno nuove e grandi cose. Questo libro è il primo passo. È l’elegia dolorosa e magnifica della maternità, sin quando è romanzo. Poi, è prosa letteraria, espressione ancora d’una ricerca – d’uno stadio della ricerca. D’una ricerca di qualcosa che io non posso dire, non ne ho la prepotenza, né l’incoscienza; ma è qualcosa che Dora Albanese saprà plasmare.

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“Sarebbe bello uscire da questa camera e gettarsi nella pioggia, donare al buio il rosso delle mie ferite e il verde dei miei lividi, riempire dei miei capelli neri ogni fosso, tanto da annullare quest’annullarsi di colori, e appiattire tutto. Sarebbe bello, questa notte, ballare a piedi nudi e a braccia aperte, bagnata da gocce di pioggia, e affondare i piedi nella mia terra. Ho scelto di partorire in Lucania per dare in eredità a mio figlio le mie stesse origini. Ho sempre creduto, fantasticando, che Lucania fosse il nome di una madonna nata nei Sassi, e morta in quello strapiombo acquoso che è la Gravina”

(Dora Albanese, “Non dire madre”, p. 43).

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Tutto ha inizio nel reparto Ostetricia dell’ospedale Santa Maria delle Grazie di Matera. La narratrice, diciannove anni, sta per dare alla luce suo figlio; e intanto sogna di ritrovare le piccole cose quotidiane, di tuffarcisi e di non voltarsi più indietro; e il dolore la fa sentire “sgraziata” e “involgarita”. Sembra incredula lei stessa, che sempre s’era sentita libera ed emancipata, e aveva grandi sogni di libertà e d’incoscienza (ballare il flamenco a Madrid; ballare, e basta) tatuati sul polso (“duende”). È incredula, ferita e combattiva: le altre gestanti sono tutte più grandi, e hanno qualcosa di borghese (la responsabilità: la programmazione della vita, come fosse una cena) che lei proprio non sopporta. Non vuole interagire con loro, non vuole che osservino, giudichino, pensino. Non vuole che si rapportino a lei. “Che ne sanno, loro, di me? Che ne sanno del motivo per cui ho fatto un figlio a diciannove anni? Cosa ne sanno loro del perché ho scelto di sdoppiarmi proprio in questo ospedale, proprio in questa città, davanti agli occhi di tutti?” (p. 21).

La mamma deve starle vicino. Lei vuole. Già s’accorge che parla con quell’intercalare che si usa “solo da noi a Sud, un intercalare con cui presto dovrò prendere confidenza, anche se non significa niente, perché in questo momento avrei bisogno io di essere attaccata al seno” (p. 23). E poi allatta il bambino, davanti a tutti. Accetta d’essere madre. Sa che il bambino è anche frutto delle sue paure, “della mancanza di coraggio, della giovinezza e dell’inesperienza”; s’accorge d’avere paura del bisogno che il piccolo ha di lei.

Osserva sua madre. Cerca impossibili vie di fuga. Pensa. “Credo che mia madre abbia trascorso buona parte della sua vita a ingoiare tutto: i problemi famigliari, le incomprensioni con la suocera e le cognate, i problemi e la vita dei figli. La vita dei figli mia madre l’ha depositata, come un’ape regina, nella gola, e sta aspettando la carestia per ridistribuire i viveri” (p. 39). Pensa, prima di dormire, che è stato bello vedere la madre dormire al suo fianco. Adesso sarà difficile dire “madre”: essere madre annienta il sacrificio dell’altrui maternità.

Passa del tempo. Passano cinque anni. Riesce a crescere suo figlio senza l’aiuto di nessuno. Si sente una donna bella e sazia. Si sente simile alle mamme del Sud nella stanchezza e nei tormenti (“Mentre gli occhi scavano pozzanghere, noi madri teniamo sempre il pianto in bocca”, p. 50). Soffre perché suo padre non capisce; perché sembra offeso dalla sua scelta di vita, perché ripete che sua sorella più piccola può prendere il cattivo esempio. Vive a Roma, e trova pace nel paese che ha deciso sia la sua origine – il paese delle sue madri – Stigliano, terra di contadine forti e coraggiose. E condivide ricordi. Nonna che racconta di aver assistito a un parto in casa, e di aver visto ammazzare un bambino storpio; che racconta la disperazione dei poveri, e di come cercavano di abortire; di come sopravvivevano alle cose della vita. Con dignità, nonostante le eccezionali difficoltà: e con semplicità. E poi, ricorda un aborto accaduto senza che nemmeno capisse. Ricorda un’amica anoressica, a sedici anni. Ricorda come ha combattuto quel male. Ricordando il male, vince il male: lo nomina, lo domina.

Altrove. La sua storia d’amore è in crisi. Luca non ispira più senso di protezione. Lei vuole andarsene. Vuole liberarsi della fedina. Vuole andarsene portandosi via qualche libro di poesia, due vestiti, un caricabatterie. E poi perdona, si rimangia tutto, cambia idea. Lui le appartiene come la sua terra.

E da qui in avanti il romanzo scompare. Sembra di trovarsi di fronte a una raccolta di racconti vera e propria. Storie di amori più maturi, di un istruttore di scuola guida che si innamora di una suora, di una madre che parla della nostalgia di sua figlia, di povere donne meridionali emigrate a Roma in cerca di una fortuna che non c’è; di un vecchio amico che diventa donna, e per farlo finisce in coma, e se ne va; di squarci di Roma, dove “Il mio quartiere è una piazza, un piccolo paese nella metropoli. La Roma insonne e chiassosa non toccherà mai la mia piccola piazza in via La Spezia, e questa cosa mi rassicura”, in cerca d’una dimensione di paese che non c’è. Se vi pare.

Fonte: Lankelot

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VIDEOINTERVISTA A SANDRA PETRIGNANI

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BRANI ESTRATTI DAI LIBRI DI SANDRA PETRIGNANI E DORA ALBANESE

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da Dolorose considerazione del cuore di Sandra Petrignani (pagg. 60-61)

“Tina, che fai?”
“Tina, vieni qui”.
“Tina, non ti sporcare”.
“Tina, non stare in mezzo alla corrente”.
“Tina, mettiti il golf”.
Ero sempre nei suoi pensieri, non ero in nessuno dei suoi pensieri. Ero nelle sue parole, questo sí. Nel suo cuore no. Il suo cuore lo avevano preso i cacciatori, chissà quando. Era rimasta viva, apparentemente. In realtà non c’era piú, io non avevo mamma. Un simulacro dalla pelle liscia, dai capelli neri, dagli occhi brillanti, dalla bocca rossa. E le perle ai lobi delle orecchie.
Io gridavo “non andare via” ogni volta che si preparava a uscire e non poteva portarmi con sé, “non lasciarmi sola”. Gridavo senza voce, “resta con me”. Ero muta. La voce compressa sotto lo sterno.
“Tina, fa’ la brava, aspettami, torno presto,” come si dice a un cucciolo, un cane che piega la testa sconsolato.
Quanto dura “presto”? Che razza di misura è? Ore di abbandono e di solitudine. E quell’altra parola, “subito”, la piú bugiarda di tutte. Lei usciva e non tornava mai piú, tutte le volte.
“Non stare in mezzo alla corrente”, questo il viatico per affrontare la giornata e la vita. Correnti e umidità.
Precipitavo nel vuoto, e lei mi metteva la maglia.

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da “Non dire madre” di Dora Albanese (pagg. 18-19)

Oggi e pure domani, e per sempre credo, non sarò lo specchio di nessuno, e questo viso gonfio ricoperto da capillari rotti sarà la mia seconda faccia: di certo non mi dimenticherò mai di me, e ogni volta che mi specchierò vedrò dall’altro lato un miscuglio di carne aperta e di sudore.
Mio padre sbuca all’improvviso, inaspettatamente, davanti alla barella, e mi dice che è tutto finito e che ce l’ho fatta. Mia madre, invece, da lontano si asciuga le lacrime, e tiene fermo sulla bocca un sorriso che sa di disperazione.
Nonostante la sofferenza, il travaglio e i nove mesi di gravidanza, non mi sono mai sentita così lucida come in questo momento; nonostante abbia partorito senza alcun conforto chimico un bambino di quasi cinque chili, non mi sento affatto stanca, interiormente. È come se non fosse ancora successo niente, è come se il peggio dovesse ancora arrivare.
Adesso l’unico mio desiderio è riuscire a smettere di tremare come una rana, essere più dignitosa nell’aspetto e avere poca gente attorno.
Domando subito a mia madre, non appena mi si avvicina un poco, se ho gridato molto durante il parto; lei fa di no con la testa, e dice che non si è sentito quasi niente, e che sono stata forte e coraggiosa a non pretendere il cesareo.
In effetti è vero, credo anch’io di non aver gridato molto, anche quando l’ostetrica, mentre mi radeva i peli del pube, per sbaglio mi ha tagliato un pezzo di carne; sì, alla fine sono stata brava, ho solo sforzato la gola per sostenere il dolore come fece Cristo quando venne inchiodato al palo, ed è proprio a lui che ho pensato per tutto il tempo – però è sempre a lui che si pensa quando la sofferenza graffia nelle vene.

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da “Dolorose considerazione del cuore” di Sandra Petrignani (pagg. 76-77)

Eppure l’amavo. Io non sapevo niente, sapevo solo la forza del mio amore frustrato. Non sapevo la sua debolezza, la sua infelicità, la sua pazzia. La guardavo prepararsi per andare a una festa. La pelle perfetta. I capelli neri. Le perle bianche. Il lungo vestito frusciante.
Le spalle che restavano scoperte. Volevo baciarla.
Volevo sempre baciarla.
“No. Mi rovini il trucco”.
Baciami tu.
“No. Ho il rossetto”.
No no no. L’aria percorsa da elettricità. Non sapeva di essere bella. Sempre insoddisfatta. Sempre preoccupata di non essere all’altezza. Troppo elegante. Troppi vestiti da sera, troppe pellicce. A me piaceva la misura, mi piacevano le cose semplici, però l’ammiravo a bocca aperta. Era scintillante. Si trasformava come Cenerentola.
Anche la sua carrozza era finta, pronta a ritornare zucca. Lei lo sapeva e s’innervosiva. Che io le togliessi il rossetto.

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da “Non dire madre” di Dora Albanese (pagg. 28 – 29)

Entra la ginecologa senza chiedere permesso, e invita a uscire gli ultimi parenti rimasti in camera. La ringrazio con gli occhi, ma la dottoressa, che è donna e medico, capisce al volo il mio rifiuto. È stata lei ad assistere al parto, è lei che ha tagliato il cordone ombelicale gonfio di ossigeno, è lei che mi ha fatto molto male quando con le dita ha rotto le acque.
Anche mia madre viene allontanata dalla stanza e, prima di uscire, prende Alessio dal mio petto, e lo rimette nella culla.
– Non mi lasciare sola, mamma, aiutami, non abbandonarmi, non so cosa fare con il bambino se piange, resta con me, mamma, voglio stringerti la mano –.
Vorrei implorarla di rimanere, anche se non ne ho più il diritto.
“Rilassati, adesso” dice la ginecologa. Poi getta uno sguardo alla cartella clinica e continua a parlarmi chiamandomi per nome, come per farmi sentire al sicuro – proprio come accadeva a scuola quando la prof di matematica, per tranquillizzarmi, mi chiamava per nome per farmi svolgere le equazioni alla lavagna.
“Adesso, Erica, devi fare un ultimo sforzo. Chiudi gli occhi. Puoi anche mordere le lenzuola, se vuoi…”
mi dice rimettendo a posto la cartellina.
– Mamma, mamma, aiutami madre, madre aiuto, o madre sempre meno madre –.
Taccio, pensando al conforto materno che non arriverà mai.
Chiudo gli occhi come mi è stato detto, e trattengo le lacrime mentre la dottoressa continua a lavorare con distacco.
È giusto che io non dica mai più madre ora che il mio volto è racchiuso in una lacrima; è giusto che io non dica mai più madre, perché secondo lei, l’ho abbandonata prematuramente, e non ho apprezzato fino in fondo tutti i suoi sacrifici, anche se in realtà non è andata proprio così. Ho fatto un figlio punto e basta. Ho fatto di me una donna completa, ho messo le mani nella sabbia, e non la testa, come pure fanno molti a diciannove anni, e le conseguenze le pagherò io da sola, mentre i miei genitori lentamente si volteranno di spalle.
Il bambino dorme e io soffro, mi arrendo a quella donna che non porta sollievo ma altro dolore.
“Dobbiamo fare la spremitura dell’utero, durerà poco, ma devi essere forte, non possiamo permettere che si formino grumi di sangue, altrimenti bisognerà fare il raschiamento” dice mettendomi il palmo della mano sulla pancia ancora gonfia.
– Mi fai male, mi fai male, voglio morire, morire… perché non ho abortito… quella maledetta paura… avrei dovuto abortire… aia! aia! aia!… Voglio morire! –
Tengo i denti stretti, e piango ad occhi chiusi, mentre sto ferma e mi lascio torturare. Per il troppo pudore non getto neanche un urlo, e mi faccio spremere la pancia come fosse un’arancia, mentre tra le mie gambe scorre un fiume rosso.

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da “Dolorose considerazione del cuore” di Sandra Petrignani (pagg. 161-162)

Era seduta davanti a una tazza di latte.
“Non ha chiuso occhio stanotte,” dice Roda, “è preoccupata”.
“Preoccupata perché? Deve solo bere tanta acqua,” faccio io a voce alta in modo che lei senta. “L’azotemia si cura cosí, ha detto il medico. Se fosse una cosa grave, non si curerebbe con l’acqua”.
“Ho un tumore al cervello,” dice lei lasciando la tazza dove sta.
Cerco di ridere: “Ma che dici?”
“Ho paura”.
Le spiego con calma che non ha niente di terribile. È solo vecchiaia, vorrei aggiungere, ma non lo dico. Nessun tumore. Il cervello è un po’ lesionato, ma solo nella trasmissione dal pensiero alla parola. È una seccatura, lo ammetto. Ma sarebbe piú terribile che fosse davvero un cancro: operazioni, chemioterapia. Invece deve solo adattarsi a quella che è indubbiamente una menomazione, con cui però si può provare a convivere.
“Le parole crociate, non riesco piú a farle, nemmeno le piú semplici,” farfuglia disperata. La frase è quasi incomprensibile, ma ho imparato a ricostruire il senso dei suoi discorsi frammentati.
“Va bene, rinuncerai alla Settimana Enigmistica,” cerco tutta la dolcezza possibile per consolarla. “Farai altre cose”. Frugo nella mia mente alla ricerca di un’idea, la guardo. Ha i capelli in disordine, da un mese dice che vuole tagliarsi i capelli. Non le piacciono i parrucchieri del quartiere. E quello che era il suo parrucchiere, Roberto, è al centro della città, lontano.
Come fa ad arrivarci da sola? Penso alla riunione di lavoro che mi aspetta.
“Potresti andare da Roberto, per esempio. Se vuoi ti ci accompagno, ci sto andando anch’io”.
Ha un lampo di arresa incredulità negli occhi. Oppone resistenza per mettermi alla prova. “Devo vestirmi”.
Già pronta a rinunciare.
“Va bene, ti aspetto”.
L’aspetto nell’ingresso, leggiucchiando un giornale, dando occhiate corroboranti alla vetrata del terrazzo.
L’intrico verde delle piante è l’unico dettaglio dell’appartamento dei miei genitori che non ho mai sentito ostile.
Ricompare ancora in vestaglia e mi abbraccia. Improvvisamente mi abbraccia stretta stretta, e piange.
La sento piccola e fragile, me la ricordo piú alta di me, altera, fredda.
“Ho solo te,” dice chiaramente.
“E io ci sono e ti proteggo”.
Quell’abbraccio ha cambiato ogni cosa fra me e lei.
Mi propongo di tornare a sentire quell’abbraccio sul mio corpo ogni volta che sto per crollare.

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MONTEVERDE di Gianfranco Franchi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/#comments Tue, 26 May 2009 19:33:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/26/monteverde-di-gianfranco-franchi/ Di Gianfranco Franchi avevamo già avuto modo di parlarne qui, in merito ai volumi “L’inadempienza” e “Pagano“.
Torniamo a incontrare questo giovane intellettuale romano, nato a Trieste, classe 1978, creatore e gestore del popolare Lankelot, nonché scrittore e consulente editoriale di varie case editrici.
L’occasione ce la fornisce l’uscita del suo nuovo lavoro letterario: Monteverde, edito da Castelvecchi.

Trovo che la nota al libro sia molto intrigante. Ve la riporto di seguito: “Nella schiera degli antieroi che solo la migliore letteratura sa regalarci, ecco il protagonista di Monteverde, trentenne laureato e precario sempre in cerca di lavoro, e di volta in volta arbitro, giornalista-magazziniere, inseritore notturno, tirocinante, addetto allo sportello. Un nostalgico che seppellisce il suo vecchio palmare sotto la pianta di rosmarino, tifoso accanito della Magica, spirito rock, collezionista di mug. Un esule, un italiano, un letterato che rivendica orgogliosamente il suo ruolo. Uno a cui ogni tanto appare all’improvviso un cane, per strada, con un occhio più chiaro dell’altro. Ma chi è davvero Guido, che percorre avanti e indietro la sua isola, Monteverde, sulle tracce di Pasolini, e che fa strani incontri al cimitero, tra le tombe di Keats e Gramsci? Un duro o un romantico? Un asociale? Uno che si innamora? Ascoltalo: è tutto ciò che non ha patria e si ribella, e sembra non voler morire mai”.

Monteverde inizia con queste frasi:
Sono una foglia che pesa ottanta chili. Sogno refoli di vento.
Sono una batteria che si sta ricaricando. Voglio ricaricare in pace, senza sbalzi di corrente. Sono un navigatore senza programma, non so orientarmi con le stelle. Sono lo stipite stanco di una vecchia porta. Sono un contratto firmato in bianco, sono una lettera senza mittente. Sono una tela d’acqua su una cornice di carta, un telecomando che non spegne niente; se mi punto sul cielo m’accendo, funziono. Sono un orologio che batte secondi sulle tempie della sua cassa. Sono un pallone bucato.
Sono una sigaretta che non si spegne, fuma soltanto.
Sono queste mani che dovresti mutilare.

Guido Orsini è l’alter ego di Gianfranco Franchi. Un personaggio che ci fornisce alcune indicazioni sulla condizione di alcuni giovani intellettuali italiani.

Ho chiesto ad Andrea Di Consoli e a Barbara Gozzi di dire la loro su questo libro, e vorrei discuterne con voi insieme all’autore (che parteciperà al dibattito). E poi vorrei interrogarmi (e interrogarvi) sulla figura e sul ruolo dei giovani intellettuali oggi in Italia.

Così mi domando (e vi domando)…

Qual è la condizione dei giovani intellettuali oggi in Italia? Quale il ruolo?

Gli intellettuali trentenni di oggi, in cosa si differenziano da quelli di venti, trenta, quarant’anni fa? In cosa si assomigliano? I loro sogni sono uguali o sono cambiati?

Inoltre ho chiesto a Gianfranco di mettermi a disposizione uno dei bellissimi racconti di Monteverde. Ho scelto Catafalco (potete leggerlo in coda al post), per un motivo ben preciso. È un racconto che affronta il tema della morte dal punto di vista dei bambini. Un racconto che mi ha fatto tornare indietro nel tempo. Che mi ha fatto domandare: quand’è stata la prima volta che ho preso consapevolezza della morte?
Giro la stessa domanda a voi. E aggiungo quest’altra.
Secondo voi, è giusto parlare della morte ai bambini? E in che termini?

Ne approfitto per sottolineare che, oltre che con Monteverde, Gianfranco Franchi è in libreria con: “Radiohead. A Kid. Testi commentati” (Arcana).

Di seguito, le recensioni di Andrea Di Consoli e Barbara Gozzi.

Massimo Maugeri

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MONTEVERDE di Gianfranco Franchi
recensione di Andrea Di Consoli (nella foto)

Monteverde (Castelvecchi, 310 pagine, 16,00 euro), di Gianfranco Franchi, è un romanzo di formazione (Franchi è uno scrittore nato nel 1978, è romano, ma ha sangue triestino, mitteleuropeo). I romanzi di formazione sono, specialmente se costruiti sulla falsariga della propria esperienza personale, romanzi totali, generosi, magmatici – e l’unico rischio che corrono (un rischio tutto rivolto al futuro) è quello di “dire tutto”, di mettere tutte le carte sul tavolo, di bruciare in un unico fuoco legni accatastati nell’arco di due decenni. Mettiamola così: il rischio è tutto di Franchi (ripeto, per il suo futuro di scrittore), ché il lettore ha la possibilità di leggere “un mondo” e una vita con un solo libro. Questa generosità, voglio iniziare così, è il primo tratto “generazionale” di Franchi. Ne sono profondamente convinto: Monteverde è un romanzo generazionale. Ma non lo è nel senso del “target”, ma in un senso più profondo, perché riesce a dire la vitalità e il dolore e lo spaesamento tachicardico dei trentenni italiani (ripeto, senza volerlo) come nessuno lo aveva mai fatto prima. Franchi, cioè, delinea – e vi riesce, sia letterariamente che sociologicamente – la “linea d’ombra” che ha separato quelli nati negli anni ’70 da un “prima” e da un “dopo”, sia privato che collettivo, perché a questa strana generazione è capitato in sorte uno strano “passaggio” epocale, ovvero quello dal Novecento “rudimentale” e sostanzialmente romantico a un Duemila ipertecnologico, afasico, post-comunitario, globale e non più provinciale (ecc.); pure, a quelli nati negli anni ’70 è accaduto, come capita a tutte le generazioni del mondo, il “passaggio” dalla vita giovane a quella adulta. Ecco: come ebbe a dire Eduardo a Napoli, durante i bombardamenti, alla prima di Napoli milionaria al Teatro San Carlo (parafrasandolo): “Gianfranco Franchi ha detto il dolore di tutti noi”. Ripeto, ne sono profondamente convinto. E ora provo a spiegare una cosa che per me è fondamentale, ovviamente sperando di riuscirci. Mi è capitato di leggere recentemente romanzi anche interessanti come, per esempio, La futura classe dirigente di Peppe Fiore. Qual è la grande differenza che c’è, poniamo, tra Franchi e Fiore? La mia risposa è questa: che in Franchi grida e canta la tradizione e la storia sociale e letteraria italiana, perché nonostante Franchi racconti il “pop” o il cosiddetto moderno (la musica, il calcio, il precariato, gli amori spezzettati, ecc.) il collo di Franchi guarda avanti e guarda anche molto indietro (è un collo tormentato), cioè verso i padri, verso le cose perdute, verso una tradizione che continua a parlare, sia pure nell’ombra. Non è nostalgia, ma qualcosa di più profondo, ovvero, per citare Pound, “la contemporaneità di tutte le epoche”. C’è anche un’altra cosa che rende Franchi “generazionale” e sostanzialmente novecentesco, creatura divorata dalla tradizione ultima, figlia delle altre: lo stile non calcolato, non algido, non controllato, ma oscillante, con punte di incandescenza sentimentale e lirica davvero commoventi. Ecco, anche in questo Franchi rischia, rischiando, sempre, la fraternità. E’ un cuore messo a nudo, Monteverde. E vorrei dire un’altra cosa. Molti reportagisti si sono provati a raccontare Roma per mezzo della realtà (operazione utile, ricca di informazioni); ma l’anima di Roma, ecco, quella chi l’ha raccontata? L’anima di Roma l’ha raccontata Franchi. Non avevo mai visto così profondamente appalesarsi l’anima provinciale romana (Michele Plastino, i negozi di dischi, le strade d’estate, Giuseppe Giannini il giorno dell’addio, i concerti, ecc.), senza il compiacimento del provincialismo, della “trovata” sociologica. Ora so finalmente – ne ho il catalogo, le parole, lo stile – le cose che ho perduto in questi ultimi vent’anni di vita. Ora so che non sono solo – scusate la confessione – in questo disperato tentativo di fare il pieno della vita, di dare un senso a tutte le cose perdute, alle paure, al tempo, di entrare nella letteratura con tutti gli sbandamenti (dell’umore, dello stile, della cultura) che rendono certi nostri libri così poco calcolati. Ecco, finalmente, un “compagno di strada” che cercavo da tempo.

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‘Monteverde’ di Gianfranco Franchiappunti di lettura di Barbara Gozzi (nella foto)

barbara-gozzi-2009.jpgMonteverde, il quartiere romano dove vive il protagonista – Guido Orsini – è luogo di memorie, amarezze, di lucide e crude registrazioni che gli occhi dell’autore, Gianfranco Franchi, ‘prestano’ al protagonista (alter ego apparso per la prima volta in ‘Disorder’ pubblicato da le Edizioni Il Foglio nel 2006). Occhi acuti, dunque, ironici quanto precisi, capaci di annegare nel dolore, nel malessere di un vivere faticoso, incerto e perennemente in bilico, ma anche delicati, desiderosi di esplorare, tentare ancora, e ancora.
‘Monteverde’ conclude un percorso preciso, iniziato con il già accennato ‘Disorder’, passando per ‘Pagano’ ( Edizioni Il Foglio, 2007). Un percorso costruito su frammenti, tasselli uniti e slegati che poco alla volta si insinuano, delineano una strada tortuosa eppure nitida.
Guido Orsini è un laureato alla disperata ricerca di quella che, per le generazioni precedenti era un passaggio obbligato, ovvero un posto se non propriamente definibile ‘fisso’ quanto meno stabile, la possibilità dunque di dedicarsi all’unica vera e inviolabile passione-ossessione ovvero la Letteratura. Ma Guido è anche sensibile osservatore della società che lo circonda, di questo ‘Monteverde’ specchio del suo vivere tra limitazioni volute e imposte eppure immerso in tanti sottili interessi importanti. In perenne contorsione, tra ricerche fallimentari, amori sfocati, musica e calcio, orari e vizi.
La struttura stessa del romanzo fornisce una prima guida alla decodifica: sei macro oggetti letterari, un antefatto che è uno ‘spot’ di ciò che il lettore affronterà, e cinque interludi tra gli argomenti principali. Su questi ultimi, gli interludi, vorrei soffermarmi.
Nel primo c’è un cane, che muta nella razza, con gli occhi di due colori diversi e che lo fissa (‘lo’ riferito a Guido sebbene in queste pagine che staccano volutamente la struttura amalgamandola, mi è parso di sentire prepotente e trasparente, la volontà, la voce unica dell’autore). Il cane è un simbolo, un messaggero, ripreso con intelligenza nella copertina e che ritorna anche nel secondo interludio.

“… e mi spieghi se mi stanno venendo a prendere o se c’è qualcosa che sta per capitare oppure se devo smettere di cercare Letteratura e quindi incanto, magia, segno, assurdo e meraviglia in tutte le cose. Io vedo simboli e significati in tutto. Sono un giocattolo giocato da mani sempre nuove, e tutto è un mio giocattolo. Forse anche la morte.” (pag.55)

Attraverso questo simbolo, dunque, la voce inizia a denudarsi, a svuotarsi di contenuti, a riconoscersi in perenne lotta. Non è una guida dunque, il cane, è probabilmente la necessaria virata che attraversa gli oggetti tematici e ne affonda tra le carni.

“Forse il cane voleva avvertirmi che stava per tornare il male, che si avvicinava e che avrei dovuto soffrire ancora per un pezzo.” (pag.113)

Ma anche più avanti, nel terzo interludio, si insiste e si riprende l’antefatto, si incastrano, sovrappongono sensi e significati, l’eco è forte, urgente e necessario. Disperato.

“… e non trovo riposo e non conosco più gioia. Sono una sigaretta che non si spegne mai, e un calice che non s’esaurisce. Sono un caffè troppo amaro, così ti stomaco.
Il malessere fatico a tollerarlo. Ogni mattina peggiora, non so come arginarlo.
Il lavoro è un’ossessione, o un ricordo grottesco che ogni tanto fa male.
Voglio dormire. Fammi dormire.” (Pag. 177)

Il malessere è un leitmotiv pressante, sintomo evidente di un vivere che è trascinarsi tra precariato, esperienze lavorative fallimentari, deriva degli affetti, disagio economico e confusione. C’è molto dolore in questo romanzo, molta fatica da acido e sangue, molta tenace affermazione di quei ‘sogni’ schiacciati ma mai dimenticati, impossibili da accantonare del tutto, perfino nelle scene più grottesche e ironiche, che strappano sorrisi amari, consapevoli.

“… e maledetto il dio della sofferenza, che sia verità o menzogna poco cambia e poco importa: per tutto quel dolore che t’intorpidisce, per quel veleno che s’insinua, e che sordo scava, scava. Sordo, scava. Ma quanto a fondo può scavare, quanto avido ancora può essere, per ossa, e sangue infetto, e polvere e cenere, cenere. Scava. “ (pag.235)

Infinte, nell’ultimo interludio l’immagine del ponte. Che è più d’un simbolo. È chiave di decodifica. Ognuna delle sei tematiche-oggetto di cui accennavo sopra, ovvero: casa, lavoro, donne, musica, la Roma e Patrie letterarie; ognuna è ponte dell’altra, sottile collegamento capace di far traballare l’equilibrio instabile senza disperderlo del tutto, la caduta pare vicina ma mai definitiva.
C’è speranza in questo libro, nella lotta, nel cogliere i fallimenti, il dolore, il male feroce quanto l’insanabile conflitto dei sentimenti, senza imporre conclusioni. I brevi capitoli, ognuno a suo modo indipendenti, possono – sì – cadere ma subito dopo c’è una risalita, una ripartenza, un tentare e ri-tentare in una visione complessa, onesta dell’essere giovani oggi, tra titoli di studio che paiono carta straccia, mestieri inutili, illusori e legami faticosi.
Guido non è persona facile, solitario, poco incline alle mediazioni, mal disposto a cedere ai compromessi, che non accetta la rassegnazione che vede nella sua generazione, inutilità che non ha sapore né odore, senza ‘quel’ fuoco che invece è così prepotente dentro di lui: la Letteratura, amore inviolabile, passione violenta, ragione di vita probabilmente.

“Ho scelta come patria la Letteratura in lingua italiana con opportune commistioni dialettali e linguistiche perché io sono amalgamato così; ho scelto come patria la Letteratura perché è terra di menzogna e oasi di invenzioni e meraviglia, non ha pretese d’essere vera o realistica ad ogni costo, né d’essere Storia: è storia delle storie, è tante storie assieme.” (pag.306)

È un romanzo amaro, ‘Monteverde’, pieno zeppo di scene, dettagli, schegge taglienti mai pietose. Ma anche sottilmente colmo di amore e sentimenti forti quanto pieni, intensi.
Franchi è autore poliedrico, acuto e preciso. La sua lingua si plasma, è materia in evoluzione dove nulla è lasciato al caso o all’intuizione del momento. In questo romanzo, il progetto iniziato con ‘Disorder’ raggiunge una maturazione notevole, nell’intensità, gli intenti incastrati, numerosi. La lunghezza, elemento di stacco dalle precedenti opere, è pregio e difetto di un’opera che non può essere vissuta come mero romanzo. Richiede tempo e pazienza, analisi e recupero dei frammenti, delle ‘storie nelle storie’. La suddivisione in oggetti narrativi semplifica al lettore parte della comprensione, dà modo all’autore di spogliare quel Guido alter ego amato e odiato, all’interno di precise tematiche. È dunque possibile che il lettore perda la ‘strada’ nel corso della lettura, eviti di oltrepassare un certo ponte, ad esempio quello della ‘Roma’ se non ha precisi interessi per il calcio o ‘Musica’. Franchi sa essere tecnico, intinge la sua materia narrativa in elementi fortemente caratterizzati dalla stessa vita che conosce e cerca. E sono rischi calcolati, io credo, necessari per collocare Guido e il suo raccontare in un contesto preciso e inequivocabile.

Ultima annotazione personale: Franchi che scrive d’amore è secondo me perla rara. Già in Disorder alcuni capitoli sono delicati sfarfallii, inni ai sentimenti fondi, lirici senza scivolare nella dolcezza filante che stomaca.

“Una goccia di spirito cade nel silenzio d’un, e aspetto ogni giorno un pezzo di te. Se tu sapessi, che.
Amare (davvero) è pericoloso e brucia; e quando non, è la fine. “
(pag.49 – capitolo ‘Pelle’, ‘Disorder’)

In ‘Monteverde’ ho ritrovato pagine di una dolcezza meno celata, più spudorata, che si mostra fiduciosa e nulla chiede, nulla aggiunge a se stessa. C’è ‘un’ bianco che rimbomba con la forza che toglie il respiro, un bianco che può essere tutto e niente, non colore che facilmente, da un momento all’altro, rischia di finire fagocitato dalle altre tinte eppure brilla, irradia.

“Scende dal cuscino e si mette col muso contro il mio, naso contro naso, occhi negli occhi. Oddio amore mio che occhi che hai, dovresti guardarmi sempre, io questi tuoi occhi li sento dentro sempre, anche quando non ci sei.
[…]
Bianca quella notte che non voleva finire, bianco il telefono che la mattina suonava, bianca la carta delle pizze, bianca la vasca del mio bagno, bianco il pacchetto delle sigarette, bianche le mie scarpe che dovevi sporcare. Bianco il foglio che hai sporcato, bianca la luce del domani.
«Non sono mai stata così».
«Ti amo».
«Ti voglio ancora. Vieni qua».
(pag.131-133)

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CATAFALCO
da Monteverde (Castelvecchi), di Gianfranco Franchi

Un bambino non accetta un concetto in particolare. Che qualcuno o qualcosa possa morire, perché significherebbe che quel qualcuno non è più vero, non è più reale e quindi non è possibile, le cose cambiano ma non si dissolvono, niente si disintegra. Soltanto i soldatini quando li butti nel fuoco, ma qualcosa rimane e poi non sono vivi, sono veri, è diverso. Un essere umano è vivo e vero. La forma mentis del bambino si fonda su tutta una serie di implacabili sicurezze, date per acquisite e mai più smarrite. Una di queste è che le persone che lo stanno allevando saranno protagoniste per sempre della sua vita. Credo che cominciai a capire che potevano levarmi qualcuno pochi giorni prima che mio nonno morisse. Rimase chiuso in ascensore per un tempo che mi sembrò sconfinato, in realtà saranno stati quindici minuti, venti, non lo so. Avevo quasi otto anni, stavo aspettando che tornasse da lavoro, ero là sulla porta, come sempre. Magari mi aveva comprato un giocattolo. Oppure mi avrebbe raccontato un’altra storia. Un sabato pomeriggio, d’un tratto il rumore dell’ascensore s’interrompe. Sento una campana. Chiamo nonno, nonno, e nonno non risponde poi da lontano dice sono rimasto dentro e io mi spavento. Corro da nonna, lei s’è già precipitata a chiamare il portiere. I minuti passano e io non vedo chi doveva tornare. Allora m’accorgo che qualcosa può portarmi via nonno. Non so perché ma in quel momento ero convinto che non tornasse più. Nessuno era mai rimasto chiuso in ascensore, nella mia memoria, e quindi pensavo significasse qualcosa di terribile e di doloroso e di definitivo. Mi dispero, batto i pugni sul divano, piango. Non tornerà mai più, grido. Qualcosa di incomprensibile mi stava portando via nonno. Poi riescono a sbloccare l’ascensore, nonno torna, mi tranquillizza ma non serve a niente. Ho capito che c’è qualcosa che sfugge alla mia logica di bambino, qualcosa di triste e di doloroso e non è come quando un genitore se ne va per mesi interi, perché poi so che torna, questo è qualcosa di cattivo e di invincibile e imprevedibile. Qualcosa di meccanico. Tutto quel che è meccanico è sbagliato. È così. E qualche notte dopo, l’avvertimento diventa reale. Dormiamo nei letti vicini, io sto nel sonno profondo. Ricordo che qualcuno mi prende in braccio e mi porta a dormire altrove. Solo questo, mi sveglio un attimo ma mi confortano e mi ripetono dormi, dormi dai, dormi ciccio. La mattina c’è un parente in salone. Dico Marco come mai, è mattina presto. Una visita, risponde.

Mi mandano a scuola. Papà viene a prendermi prima della fine, parla con la maestra, la maestra fa un sorriso e mi dice puoi andare. Non capisco, c’è qualcosa che non va. In macchina papà tira su col naso ma non piange, mi dice che nonno se n’è andato in cielo e io immagino che ci sia una scaletta, qualcosa del genere, magari dei gradini a chiocciola come nei palazzi, che appaiono soltanto quando lo decidi tu, per cui ha preso e ha deciso di arrampicarsi sino in cima, quindi non dovrebbe esserci più fisicamente, non dovrebbe più essere visibile, immagino. Come se fosse a lavoro o in un’altra città. Mi sento triste ma ancora non capisco. Saliamo su in ascensore che stavolta non si rompe e la porta di casa è spalancata e ci sono delle corone di fiori. Un’amica di famiglia mi leva il grembiule nero della scuola Sant’Ivo, mi fa poggiare la borsa prima dell’uscio, la consegna a qualcuno e non vedo chi è. Nel grande salone c’è una sorta di baldacchino che non ho mai visto, è di legno e sembra un letto ma letto non è, papà mi dice si chiama catafalco, sul catafalco c’è nonno disteso, intorno tante persone e non tutte le conosco ma tutte mi guardano con aria mista di dispiacere e di malinconia e di attesa. Nonna da una parte con delle amiche attorno. Papà mi prende per mano e mi dice vieni a salutare nonno. Nonno è là con le mani giunte e mi sembra tanto bianco. Papà cos’è successo chiedo, dice nonno è stato male. Posso toccargli la fronte dico papà dice vai e mi fa un sorriso poco convinto. Ho paura perché è freddo e penso ora gli parlo e si sveglia come dopo che era rimasto chiuso in ascensore, torna. Non torna. Nonno ciao. Non dice niente.

Arriva una babysitter e mi portano altrove, a giocare vorrebbero, e qualcuno dice il bambino non capisce i bambini non capiscono fatelo stare lontano da qua ma io voglio stare con nonno, così si sveglia. Saliamo al piano di sopra, ma io so già che dal piano di sopra se apro la porta a vetri posso sbirciare in salone e nel salone c’è il catafalco e sul catafalco c’è nonno che se n’è andato in cielo ma invece è rimasto qua. Mia sorella rimane con la babysitter al piano di sopra, io sgattaiolo via come posso e vado a guardare il catafalco, guardo nonno e penso ora si muove, ora si alza, ora parla e tutti sorridono e invece niente, sale su la compagna di mio padre e mi dice cosa fai dico nonno è morto e voglio stare con nonno mi fa una carezza e sussurra andiamo di là da tua sorella e io voglio stare con nonno. Ci penso tutto il giorno mentre mi fanno giocare e sento il campanello suonare anche se la porta è aperta, penso che sia una forma di educazione o di rispetto che non conosco, ma trovo giusta e però non mi sembra giusto che tutti vanno da nonno e io no.

Il giorno dopo quando mi sveglio a casa non ci sono ospiti, c’è odore di caffè e la nonna sta in vestaglia e piange con la signora domestica e papà invece sta in salone vicino a nonno allora vado là, dico papà perché stai qua, risponde perché è l’ultima volta che vede suo padre, dico perché ha le labbra viola, dice è normale quando te ne sei andato, allora questa morte è meno astratta, sei freddo, hai le labbra viola, sei muto, non guardi e non rispondi a nessun segno, sei come spento, papà è come quando spengo qualcosa con la differenza che non so come si riaccende ma ci deve essere un modo. E il modo no, non c’è. Cos’è questo catafalco che non capisco, la parola ha un suono che non c’entra niente con la morte, in mente ho De Falco che gioca centravanti nella Triestina appena tornata in serie B e non capisco che c’entri il calciatore De Falco col catafalco, il catafalco è un antico uso borghese, dice, quando qualcuno importante muore in casa e non all’ospedale succede che si lascia esposto nel salone sul catafalco, è un segno di rispetto. Si muore quindi si va sul catafalco. E tutti vengono a salutare il morto.

E poi arrivano dei signori con la cravatta, con l’aria seria, e portano sulle spalle una bara. E nonna piange forte e non mi fanno guardare mentre nonno va dal catafalco sulla bara, quindi vedo loro con la bara sulle spalle e escono dalla porta nonna dice qualcosa sulla bara che esce dalla porta e credo di aver capito che questo è qualcosa di odioso e di insopportabile ma è nelle cose di quando qualcuno muore e non si può fare a meno, non c’è alternativa, finisce così, con quattro estranei che ti caricano sulle spalle chiuso in una scatola di legno. E il catafalco rimane vuoto e tu non ci sei più nemmeno per i saluti.

Non capivo tutte quelle persone, a dire cose che non capivo magari sottovoce a papà e nonna, e poi era rimasto il catafalco vuoto. Era caldo. Negli anni, a partire da allora, non credo di avere più visto nessun catafalco in nessuna casa, quando è successo che qualcuno s’è arrampicato sulla scala che porta sin lassù sino a non essere più visto; ho visto persone distese sul letto, con le mani giunte, con o senza crocifissi. Tutti bianchi, labbra viola e via dicendo ma nessuno disteso sul catafalco. Questo vuol dire che nonno era proprio importante e che quando è morto tutti dovevano andare a salutarlo, perché aveva fatto cose buone e giuste per tante persone. Questo vuol dire che ci sono tradizioni italiane che non si sono spente col passare dei secoli. Questo vuol dire che nella morte siamo una volta ancora tutti diversi, a dispetto della propaganda. L’uomo grande, forte e intelligente che ha cambiato la storia della mia famiglia per generazioni s’è disteso su un catafalco, e là ha consumato gli ultimi incontri con la luce preziosa e prepotente della nostra vita. Non sapevo che in casa avessimo un catafalco, e non ricordo che sia stato portato in salone da qualcuno: non l’ho mai visto entrare, non l’ho mai visto uscire. Non voglio nemmeno sapere se è stato nascosto da qualche parte. Credo di no ma non voglio andarlo a cercare. So che dal 1985 ci sono due metri, nel salone, in cui non cammino volentieri: là, tra i due divani di pelle, di fronte al camino, dove ho incontrato la morte di un uomo che mi amava più di ogni altra cosa al mondo, e che non aveva finito di prepararmi alle cose della vita. Avevo quasi otto anni e lui sessantaquattro, non aveva una gamba da dieci anni, doveva morire nove anni prima ma invece lavorava e mi insegnava tante cose, aveva un grande ufficio con quattordici dipendenti, tante amanti, tante case, tanti progetti e tanto orgoglio per il nipote primogenito, romanista e sveglio. Non ho capito come sia possibile che una persona così possa morire, so che quando muore la mettono in salone su un catafalco, e da quel momento il salone cambia per sempre.

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L’INADEMPIENZA (e PAGANO) di Gianfranco Franchi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/20/pagano-di-gianfranco-franchi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/20/pagano-di-gianfranco-franchi/#comments Mon, 20 Oct 2008 16:30:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/09/12/pagano-di-gianfranco-franchi/ Conosco Gianfranco Franchi dai tempi di “Pagano” (edizioni “Il Foglio”).
Gianfranco è un intellettuale di quelli che ci crede davvero. Di quelli disposti a mettere in gioco la propria vita per seguire il sacro fuoco della letteratura.
È appena uscita, sempre per le edizioni Il Foglio, una sua silloge di poesie.
Si intitola “L’inadempienza” ed è il suo libro primo e ultimo di poesia: 12 anni di versi; un atto postumo compiuto in vita.
Ne parliamo qui con i contributi di Marco Fressura, Patrick Karlsen, Nicola Vacca e Angela Migliore.
Invito Gianfranco qui a Letteratitudine per discutere di questa sua nuova fatica letteraria.
In coda al post anche troverete i riferimenti a “Pagano”.
Massimo Maugeri

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Gianfranco Franchi, “L’inadempienza”, Edizioni Il Foglio, Piombino 2008. Pag. 280.

Vivere in cerca di orientamento;
altrimenti sprofondare
nel non senso.
Che non ho.
Io non è.
Niente.

(GF)

«Gianfranco Franchi nasce poeta e tuttavia qui, nell’Inadempienza, come scrittore di poesie volontariamente muore. Il lettore infatti è davanti a una raccolta che si prefigge di risultare conclusiva. Quasi un atto postumo compiuto in vita. Eppure Franchi è nato, è, e malgrado lui stesso continuerà a essere poeta, perché ha sempre inteso la letteratura come ricerca, frastagliata e coerente a un tempo, rivolta all’interiore e all’esteriore, e come luogo di massima adesione alla vita. (…) Non c’è personaggio della modernità letteraria italiana che assomigli al triestino Franchi più del triestinissimo Slataper (…) Ma Slataper non è la sola suggestione delle origini che è possibile captare nel testo, se è vero che prima o poi dovremo pur affrontare la questione dell’espressionismo della lirica franchiana — ciò che non può fare a meno di rimandare più che al “solito” Campana alla visionaria vena di Srečko Kosovel: lo sloveno del Carso che è stato uno dei grandi cantori della novecentesca autodistruzione europea, prima che la sua voce così immaginifica si spegnesse ancora giovanissima». (Marco Fressura e Patrick Karlsen)

«Gianfranco Franchi è uno scrittore guerriero che non rinuncia a impugnare la parola come un’arma e ad usarla per pugnalare il proprio tempo. (…) La morte della bellezza è il segno devastante della decadenza che avanza. Davanti a questa triste realtà il poeta chiede aiuto anche alla dimensione spirituale del silenzio. Dalla interrogazione sublime del silenzio nascono i versi migliori di Franchi. Siamo davanti a un meraviglioso alfabeto di emozioni e sensazioni che sanno catalogare il disordine nel quale l’uomo è miseramente piombato. Franchi con la sua poesia non ha la pretesa di curare le ferite sanguinanti del pianeta Terra, ma consapevolmente invoca il sentire acceso della parola poetica, necessità interiore che ci fa pensare solo per un attimo “di sfiorare la vita”. Nel tempo incolore e freddo, nei campi inariditi di questa terra desolata, la poesia è un punto di vita dal quale bisogna sporgersi per guardare l’Inferno» (Nicola Vacca).

«Come rughe. A increspare sorrisi e pianti silenti, consumatisi in dieci anni di versi. “Anni di buio, di scrittura scontrosa, disperato studio”. Anni di notti-rifugio, di ombra, e fuoco e sogni. Simbiosi di carta e pelle, di cui L’Inadempienza costituisce sigillo. Perché questa raccolta è nodo che vincola Franchi alla menzogna della poesia. È il moderno “Canzoniere” di chi si riconosce “uomo d’ideale, cavaliere d’arte e d’amore” e dolorosamente conscio, intorpidisce le chiare, fresche e dolci acque di petrarchesca memoria, per sprofondare nel gorgo della propria “miseria di carne e spirito”. (…) “Domani non esiste”, domani non è. Piuttosto prevale il desiderio di regressione, a quel prima indefinito, quando “innocenza era sgomento”, quando ancora non si era valicato il confine. Perché la “giovinezza corrompe, deruba la poesia” e “si schianta l’ideale, defraudato”. Allora la preghiera è un sonno che difenda dal domani, distolga dalla coscienza e abbandoni all’amore. Mentre l’imperativo è “resistere, resistere: nel nome di utopia”». (Angela Migliore).

«Ecco il prezzo da pagare: nel cuore del labirinto c’è un segreto per rovesciare il sole e il suo canto è Babilonia. Colui che cerca la parola prima – la droga più infame – non sa ancora pronunciare quel nome: equazione irrisolta, costellazione caduta, cigno nero, moglie, madre e dea. Amichevoli suicidi? Magari sognando in alta definizione se una radio spenta, avamposto del nulla, infiamma la notte del mondo, il tramonto della notte (misteriosa inadempienza), la notte che non torna perché nessun Dio resiste. È tempo di incantare l’Ade aspettando l’ultima battaglia dell’angelo e dell’assassino: presto tutto potrà tacere. E mentre sorrido ricordo la mia storia». (Stefano Scalich).

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Post del 12 settembre 2007

Vi segnalo un libro che ha tutta l’aria di essere di… interesse. Un libro forte, polemico, capace di suscitare dibattiti. Si tratta di Pagano, nuova opera letteraria di Gianfranco Franchi (Il Foglio, 2007, pag. 150, euro 10).

Vi propongo, di seguito, un estratto della recensione della mia “dirimpettaia” Francesca Mazzucato e la prefazione di Gordiano Lupi .

Massimo Maugeri

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“Antiromanzo, certo, ma anche summa di tutta la letteratura passata e anticipazione visionaria di quella che verrà, nel suo sotteso scoramento raccontato con uno stile superbo, Pagano ci scuote dal nostro piccolo torpore polveroso, e ci scuote con uno schiaffo. Anzi. Con una serie di schiaffi e di accerchiamenti. È bellissimo ed è anche terribile, è il nostro tempo precario appeso a un filo già mezzo tagliato rivisto attraverso il caleidoscopio non consolatorio di un letterato che ha fatto sue le considerazioni di Samuel Beckett sul fallire e sulle rovine. (…) Questo è un romanzo che solo un miope, un prevenuto, un corporativo consorte di qualche potentato d’accatto non può non riconoscere come fondamentale. A che cosa, a quale tempo (e a quale ritmo) può essere solo il lettore a dirlo, come sempre, quando si parla di letteratura, come sempre quando un libro ha iniziato il suo viaggio (o meglio il suo camminare sul filo, il suo volo obliquo, il suo arrancare, il suo pellegrinaggio, o anche messa a nudo, apoteosi, preghiera laica, esaltazione, via crucis di soste e attese, telematiche risoluzioni e presidi di amici, di estimatori silenziosi e attoniti, esattori di rimasugli incancreniti dei frantumi passati, detrattori ammutoliti, sudori, pacche sulle spalle, mani che agganciano, sudore, sangue e altra scrittura, subito, tutto in agguato). Licenziate (pre)giudizi e conformità alle scenografie del banale e tenete caro questo libro dopo, come vi ho suggerito, almeno una seconda lettura”. (Francesca Mazzucato).

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Una Vita agra contemporanea

Conosco Gianfranco Franchi dai tempi in cui dirigeva le riviste universitarie Ouverture e Der Wunderwagen, ho collaborato con le sue creature e con il portale culturale Lankelot che ospita stimolanti interventi critici. Tra me e lui ci sono ben diciotto anni, ma nonostante questo gap generazionale abbiamo tante idee e progetti in comune. Sarà perché chi lotta per produrre opere letterarie che vogliono scuotere le coscienze trasmette sulla stessa lunghezza d’onda e quindi è facile entrare in sintonia. Franchi ha già pubblicato con Il Foglio l’interessante Disorder, una raccolta di racconti che denuncia l’appiattimento della vita quotidiana. Adesso è la volta di Pagano, antiromanzo esistenziale che racconta il disagio giovanile nella società contemporanea. Pagano è un testo che non può essere incasellato in un genere letterario, ma è un lavoro importante, irrinunciabile per chi ha deciso di pensare con la propria testa. Franchi guarda fuori dal vetro dei suoi giorni e trova pensieri bruciacchiati, scrive come suonerebbe un piano, è un’isola che non si lascia popolare, legge opere importanti, ascolta musica che fa ragionare e odia la televisione. Franchi ha trent’anni e nessuna certezza, scrive libri e si schiera con i deboli, fonda riviste e case editrici, lancia accuse e si sbatte per comunicare idee forti. Ha una sola certezza, quella che da un po’ di tempo a questa parte non si vuole più ammazzare. Franchi ci racconta i fatti suoi, ma lo fa con grande eleganza e con superbo stile letterario, soprattutto si comprende che i fatti suoi sono comuni a una generazione nata dalla crema dei sessantottini che ha cancellato i diritti dei lavoratori a vantaggio dei padroni. Franchi costruisce un testo politico che non è schierato con nessun partito, ma rappresenta un manifesto anarchico di grande spessore. La sua alternativa al vuoto che ci circonda è chiamarsi fuori, restare laterali e dilettanti, studiare, scrivere e combattere, anche se la sconfitta è l’unico risultato possibile. Pagano ricorda La vita agra di Luciano Bianciardi, attualizzata ai nostri giorni, in chiave antiberlusconiana, anticapitalistica e anticomunista. Franchi è uno degli ultimi samurai che pretende la rivoluzione degli intellettuali, guarda avanti e non si piega al conformismo, non si fa comprare e non scende a compromessi, cerca di sopravvivere al suo destino. Franchi è uomo di destra, ma di una destra sociale che non esiste più, si ispira a Evola più che alle costruzioni partitiche e non crede a un surrogato di democrazia capitalistica. Mi sono sempre detto uomo di sinistra, ma confesso che leggendo il testo di Franchi spesso sono stato in pieno accordo con le sue considerazioni. E anche quando non lo ero mi dicevo che si trattava di argomenti che meritavano di essere discussi. Non ho mai pensato che questo libro non andasse pubblicato per motivi ideologici perché in una democrazia culturale non può esistere una censura delle idee. Ben vengano libri forti e polemici come questo, di qualunque impostazione essi siano. E allora forse è vero che esiste una politica degli intellettuali, un modo d’intendere la realtà contemporanea tipico di chi ama la letteratura. Sarà per questo che io e Franchi ci sentiamo culturalmente vicini, nonostante le diverse esperienze, forse siamo accomunati da una medesima anarchia letteraria. Siamo due cavalieri dell’utopia, samurai in via di estinzione che lottano sino alla fine solo perché convinti di doverlo fare. E poi dicono che perdere ogni tanto c’ha il suo miele e se dicono che vinco stan mentendo, cantava qualcuno un po’ di tempo fa. E pure lui mica era di destra.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

lupi@infol.it

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ALI DI SABBIA di Valerio Aiolli http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/12/19/ali-di-sabbia-di-valerio-aiolli/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/12/19/ali-di-sabbia-di-valerio-aiolli/#comments Tue, 18 Dec 2007 23:46:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/12/19/ali-di-sabbia-di-valerio-aiolli/ Non so se ci avete fatto caso, ma ultimamente pare ci sia stato un ritorno alla “letteratura di guerra”.

Giusto per farvi un esempio potrei citarvi il nuovo romanzo di Arturo Pérez-Reverte intitolato Il pittore di battaglie (tr. it. R. Bovaia, Tropea, 15 euro). Oppure Neven (tr. it. D. Brolli, Mondadori, 15,50 euro) la nuova graphic novel di Joe Sacco.

E il noto libro di Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue (Rizzoli, 16,50 euro).

Ma questo post è dedicato soprattutto al nuovo romanzo di Valerio Aiolli: Ali di sabbia (Alet, 12 euro). Il romanzo è ambientato nel periodo storico della “scomoda” conquista italiana della Libia.

Ha recensito il libro Gianfranco Franchi, curatore di Lankelot e autore di questo libro.

Valerio Aiolli sarà “virtualmente” presente per partecipare al dibattito.

Alla fine del post potrete leggere un breve estratto dal testo.

Inoltre sarebbe interessante discutere di “letteratura di guerra” in generale (c’è qualche libro del passato che vi viene in mente?).

Altre due domande:

Siete d’accordo con chi sostiene che la guerra in Libia è stata dimenticata troppo in fretta? E se sì, è un bene o un male?

(Massimo Maugeri) 

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Recensione di Gianfranco Franchi

Sessant’anni dopo il folgorante esordio letterario di Ennio Flaiano, “Tempo di uccidere”, vede la luce una nuova allegoria dell’esperienza colonialista italiana: “Ali di sabbia” di Valerio Aiolli, narratore italiano classe 1961. È difficile assimilare, ma non comparare, le due opere: Flaiano trasfigurava la sua esperienza, virando dal particolare all’universale con una stupenda e drammatica metafora di quel che aveva vissuto; Aiolli appartiene a un’altra generazione, quella che ha testimoniato il progressivo oblio sui tempi dell’Impero, e scrivendo di Italo Balbo, delle condizioni dei soldati al fronte, delle cause dell’avvento del fascismo, non può altro che documentarsi e immaginare, congetturare e interpretare. L’interpretazione, mi sembra, è opportunamente equidistante; o almeno all’equilibro tende.

La qualità della ricostruzione andrebbe rigorosamente vagliata da uno storico, e non da un letterato; mi limito quindi a tracciare questa emblematica continuità tra romanzieri di classe, autori di due delle poche testimonianze letterarie italiane su un periodo così inspiegabilmente rimosso. Al contempo, sollecito gli studiosi del Fascismo e del Novecento a valutare la fedeltà della ricostruzione storica, e l’opportunità di salutare nell’opera un documento dalle valenze plurime. La mia impressione è che l’opera derivi da uno studio meticoloso delle fonti.

“Ali di sabbia”, strutturato alternando flashforward e flashback (la sequenza è: 1940 Libia, 1915 Italia, 1916-1939 Italia, 1940 Libia, 1911-1915 Libia, 1940 Libia, 1915 Libia, 1940 Libia), si sviluppa su due differenti binari, progressivamente convergenti: il primo è quello della vicenda dell’aviatore Italo Balbo, eroe della Prima Guerra Mondiale, Governatore della Libia, caduto a Tobruk nel 1940 probabilmente per via del fuoco amico; il secondo è quello d’un suo secondo, e diversamente romanzesco pilota, Settimio, nato da un aviatore caduto proprio in Libia, e da un amore proibito. Aiolli rivela progressivamente i destini incrociati del grande trasvolatore e del suo secondo, aviatore già miracolato, sopravvissuto a una caduta disastrosa da trecento metri, e figlio di chi sognava, per amore del volo, di scrivere una grande storia del volo.

Intanto leggiamo di eserciti male armati, privi – nel 1940 – di autoblindo, di pezzi anticarro; ci avventuriamo nella “biografia in terza persona” dell’ex Quadrumviro, già plurimedagliato al fronte, già repubblicano e massone, mazziniano convertito al fascismo; feroce oppositore dei bolscevichi (p. 18: “Che cos’è il bolscevismo? È disoccupazione, ozio, fame, furto, assassinio. Chi ama la propria casa, la propria famiglia, chi non vuole vedere i propri figli morire di fame, è nemico del bolscevismo. E D’Annunzio, a Fiume, è un magnifico suscitatore di energie sane e gagliarde”), idolo dei cittadini, esempio per i soldati.

E tramite la storia del padre putativo di Settimio, l’eroico Balbo, entriamo nella storia del suo perduto padre, e della fidanzata che lo aspettava invano. E così assistiamo, da spettatori, agli eventi che trascinano l’Italia dalla Prima alla Seconda Guerra; agli scontri tra fascisti e socialisti, alla fondazione del Partito Comunista (Livorno), al clima di violenza tra le fazioni in lotta per assumere il potere. Toccante il racconto – allegorico – della fine della Grande Guerra: la fidanzata “vedova” del pilota, e madre di un figlioletto che non era suo, lo accompagna a guardare i festeggiamenti:

“Sua madre gli teneva forte la mano e lui guardava in cielo. Passavano aerei che gettavano manifestini colorati con parole di vittoria e in fondo a destra era scritto Diaz, generale dei generali, salvatore dell’Italia, e lui guardava gli aerei e quanto gli sarebbe piaciuto esserci su quegli aerei non riusciva a dirlo ma sua madre lo capì e ne fu contenta” (p. 38).

Aiolli narra un seducente e tragico spaccato di quell’epoca, e dell’entusiasmo degli italiani per il clima che si stava vivendo. Inconsapevoli, forse, degli stenti e delle difficoltà di chi si trovava al fronte. Si percepisce, qua e là, memoria dell’orgoglio di essere italiani, della dignità riservata ai morti caduti per una patria che ora si componeva anche di Trieste e della Libia; la fidanzata vedova “pensava che chi era morto per quel nome, Italia, era morto per qualcosa di unico e di grande e si sentiva meno sola” (p. 43). Era innocenza, ma era anche fede.

Diciamola tutta: da parte di Lucia, come anche da parte dei cittadini, c’era riconoscenza per questa rigenerazione: toccanti e emblematici, a questo proposito, i passi che riferiscono i discorsi di Balbo agli emigranti (cfr. p. 103: “Siate fieri di essere italiani – gridai – o gente nostra d’oltreoceano, e soprattutto voi, lavoratori dal braccio infrangibile e dal cuore semplice, perché rappresentate l’amore e l’orgoglio del Duce, voi che siete credenti e fecondi, voi che avete il genio e la pazienza dei costruttori di Roma (…) Mussolini ha chiuso il tempo delle umiliazioni, essere italiani è un titolo d’onore (…) l’Italia è l’esercito della civiltà in cammino per le vie del mondo”).

Discorsi oggi talmente impensabili da suonare grotteschi, per la nostra sensibilità. Il fallimento è stato bruciante, la delusione immensa, la vergogna degli ultimi anni del regime, e di quel che è stato post 1943 senza fine. Essere italiani è un grave disonore, da molto tempo. E non significa più niente. Siamo nazione puntinata da basi nemiche: colonizzata militarmente e culturalmente. Sfinita.

Dicevamo: di quel grande amore di Lucia, che sognava di scrivere la storia del volo, rimangono delle lettere, che la donna leggerà soltanto quando suo figlio partirà per il fronte. Sono lettere che raccontano di trincee, delle prime bombe lanciate da un aereo (p. 67), del rapporto tra turchi e arabi (aborigeni libici); della condizione delle truppe, sempre prive di munizioni e di viveri; delle torture inflitte dai nemici (p. 69: atroce) e delle rappresaglie italiane. Delle truppe eritree italianizzate, quelle degli ascari (p. 74), di stregate città d’argilla, nel deserto. Di ritirate, e di assedi. Il pilota al fronte pensa soltanto a volare, anche quando la realtà si sgretola. Sembra morire volando.

E volando muore il grande eroe dell’Impero, quell’idolo dei cittadini, valoroso soldato e coraggioso pilota; massacrato forse dall’invidia di suoi compatrioti, cittadini di quella patria che stava per morire.

La storia del volo dell’Impero termina ingloriosamente. Quella della fortuna di questo romanzo ha appena avuto inizio. Onore al merito.

Gianfranco Franchi

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(aggiornamento del 19 dicembre 2007)

Brano estratto dal libro

28 giugno 1940, ore 17

aeroporto di Derna, Libia

primo pilota

Mi è toccato scriverglielo, a Badoglio. Il generale, il capo di stato maggiore del Duce. Ti mando settantaquattro di questi pezzi anticarro, dice. E settantaquattro ne arrivano, però poi c’è la bella sorpresa che diciotto non li possiamo montare perché i numeri di matricola non corrispondono, e altri quarantanove li montiamo, solo che mancano gli strumenti di puntamento, e così alla fine i pezzi che possiamo utilizzare sono sette. Ti mando i perforanti da venti, dice. Che sono la cosa che più ci serve, i perforanti da venti, però poi quando arrivano gli aerei e andiamo a spacchettare c’è la bella sorpresa che troviamo perforanti da sessantacinque e contraerei da venti, e dei perforanti da venti neanche l’ombra, cristo.

A vèg par la mì strè. Io vado per la mia strada.

Eppure la conosce bene la situazione, Badoglio. Abbiamo dei carri d’assalto vecchi come il cucco e armati solo di mitragliatrice, che le autoblinde inglesi li crivellano e li passano da parte a parte, e di autoblinde noi neanche l’ombra. Ci basterebbe poco, basterebbe un minimo di mezzi corazzati e di autoblinde e gli inglesi li faremmo a pezzi, ci ritroveremmo in tre giorni al Canale di Suez e sarebbe un altro andare, ora che dalla Francia non abbiamo più da temere sorprese. Ora che la Francia è stata schiacciata, invasa. Ora che i tedeschi se la sono presa. E poi mi dà dei consigli, cristo, Badoglio mi dà dei consigli che sono impossibili da seguire, oppure quando mi arrivano li ho messi in pratica da giorni. Crea delle fortificazioni, dice. E come faccio a creare delle fortificazioni in pochi giorni, mica salgono su da sole le fortificazioni. E poi non ho carri pesanti, non ho pezzi anticarro. Comunque stai sicuro che se attaccano Tobruk ci trovano pronti, anche se sono più di cinquanta chilometri di perimetro da difendere. Le comunicazioni difettano, dice. Ovvio che difettano, ma non è certo mia la colpa. Non abbiamo mezzi radio e le comunicazioni a filo sono inesistenti perché non abbiamo filo, e poi c’è questo nuovo sistema cifrato che è lungo pesante incerto, cristo, ci ho impiegato quattro ore per decifrare quel suo telegramma di una settimana fa, e alla fine non ero neanche ben sicuro di averlo decifrato a dovere.

Ma l’ho scritta quella lettera, prima di uscire? “Gentile signora Mahieu, conto di farle cosa gradita comunicandole…” Sì che l’ho scritta. Almeno iniziare l’ho iniziata.

«Non mi toccare, son debole, son verginella d’amor» canta Settimio con la sua voce fessa.

A vèg par la mì strè.

Un giorno bisogna che mi decida a scriverla, questa benedetta autobiografia in terza persona. Pizzo di Ferro nel 1920 aveva ventiquattro anni, scriverò.

Io vado per la mia strada.

Pizzo di Ferro nel 1920 era tenente, scriverò, aveva fatto la guerra. Era tenente degli Alpini, scriverò, aveva fatto la Grande guerra in montagna.

«Non mi toccare, son debole, son verginella d’amor» ancora Settimio con quella sua vocetta.

Pizzo di Ferro nel 1918, sull’Altissimo, si era guadagnato la sua prima medaglia d’argento, scriverò. “Comandante di un plotone di Arditi, dimostrò sempre grande coraggio personale e brillanti qualità di soldato e di comandante. Spesso per assolvere il proprio mandato s’impegnò anche contro un nemico superiore in forze, attaccandolo con tale impeto da rendere necessario l’intervento delle nostre mitragliatrici e anche delle nostre artiglierie per disimpegnarlo.”

«Non ti tocchiamo, sei debole, sei verginella d’amor» canto con la mia voce che vorrei fosse di baritono. E invece è sottile e fessa quasi come quella del buon vecchio Settimio.

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secondo pilota

Non mi toccare son debole son verginella d’amor, non ti tocchiamo sei debole sei verginella d’amor. A Balbo piace essere stuzzicato che io canto e lui risponde, lo fa sentire padrone e comandante e buono e cattivo e fermo. La fermezza è la virtù che maggiormente gli si addice. Come il patrigno di David Copperfield, si chiamava Murdstone o qualcosa del genere, che non faceva che predicare la fermezza come virtù dei forti e in nome della fermezza costringe la mamma di David Copperfield a non mostrargli più il suo amore di madre. Ora che ci penso è stata una fortuna che mamma non si sia risposata, mi sarebbe potuto capitare un patrigno tipo Murdstone o come si chiama, magari un Merdston, e questa l’avrebbe potuta dire lui, Balbo, e se l’avesse detta tutti avremmo riso forte, perché quando lui dice una facezia tutti ridiamo, non è mica che ci stiamo lì a pensare, ridiamo e basta, ridiamo forte perché così dev’essere e così è. Ho fatto controllare i livelli i freni gli alettoni, il Gobbo è a posto per quanto possa esserlo un aereo in zona desertica, dove sabbia e terra si infiltrano ovunque e ti puoi ritrovare d’improvviso con i filtri otturati. L’importante è controllare ogni volta con attenzione ed è proprio ciò che ho fatto. Non mi ci avranno messo per caso qui a fare da secondo al comandante, al governatore della colonia libica.

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primo pilota

Iniziare l’ho iniziata. Ma l’ho finita, poi? “Gentile signora Mahieu, conto di farle cosa gradita comunicandole di aver incaricato l’ambasciatore italiano a Bruxelles di prender cura…” Mahieu sì, che era un grande aviatore.

Pizzo di Ferro nel 1918, sul Valderoa, si era guadagnato la sua seconda medaglia d’argento, scriverò. “Segnava la via luminosa del dovere ai reparti del proprio battaglione nell’attacco di una posizione nemica strenuamente difesa dalle mitragliatrici, riuscendo primo tra tutti a porre il piede nella trincea nemica.”

A vèg par la mì strè, incontr’a la mì guera. Io vado per la mia strada, incontro alla mia guerra.

Pizzo di Ferro nel 1920 era tenente, aveva fatto la guerra, scriverò. E una domenica pomeriggio fu introdotto da un amico nella casa dei conti Florio a San Daniele, sulle colline del Friuli. Sia il benvenuto in casa mia, disse il conte Florio. Lo guardava salire la scalinata della villa. Venga che le presento mia moglie, disse stringendogli la mano.

Bisogna che mi ci metta a scriverla davvero, la mia autobiografia in terza persona.

Forza che saliamo sull’aereo. Sul nostro s.79.

“Gentile signora Mahieu, ho incaricato il nostro ambasciatore a Bruxelles di prendersi cura della sua casa contro eventuali vandalismi tedeschi.”

Pizzo di Ferro li odia, i tedeschi. Li ha sempre odiati, fin dai tempi della Grande guerra. Erano nemici, allora, i tedeschi. Vent’anni fa. Venticinque. Erano i nostri nemici, i tedeschi.

«Non mi toccare, son debole, son verginella d’amor» insiste Settimio.

Manù nel 1920 aveva diciott’anni. Era magra, lo sguardo dolce. Il naso pronunciato, ma non grande. Aveva occhi nerissimi, Emanuela Florio. La mia Manù.

Ma l’ho firmata, quella lettera? La lettera alla vedova di Mahieu.

L’s.79 è un trimotore. Un trimotore da bombardamento. Il suo nome sarebbe Sparviero. Ma i soldati lo chiamano il Gobbo. Ha una gobba appena dietro la cabina. Dentro ci stanno due mitragliatrici.

No che non l’ho firmata.

Pizzo di Ferro è ai comandi. Accanto a lui il secondo pilota, Settimio. Uno che dall’aereo ci è già caduto, da trecento metri d’altezza. Uno che si è fratturato non si sa quante ossa. Uno che cammina tutto storto. Uno che di quando in quando dice che tanto dobbiamo fare tutti quella fine. Settimio, il mio secondo pilota.

«Non mi toccare, son debole, son verginella d’amor.»

«Non ti tocchiamo, sei debole, sei verginella d’amor.»

Perché Cagna non c’è. Si è arruolato, poi, e alla fine abbiamo fatto anche pace. Ma non c’è, qui sul Gobbo, a farmi da secondo. Cagna, uno dei migliori piloti italiani, non c’è. C’è Settimio, la verginella d’amor.

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secondo pilota

Mi studia ogni volta che saliamo a bordo con quelle sue occhiate indagatrici. Ancora non si fida di me, mi paragona a Cagna, lo so, l’uomo che lo ha accompagnato in tutte le trasvolate, che gli ha tolto le castagne dal fuoco chissà quante volte, che lo ha tradito passando all’aviazione civile. E io dovrei ringraziarlo, Cagna, per aver liberato questo posto che poi chissà perché è stato assegnato a me, nonostante l’incidente o può darsi proprio grazie all’incidente, che quando tornai al reparto dalla convalescenza tutti erano così gentili e mi guardavano in quel modo strano, come se non se l’aspettassero proprio di rivedermi così presto, anzi come se non si aspettassero proprio di rivedermi in assoluto. Magari dopo un colpo di quel genere pensavano che uno potesse soltanto abbandonare l’aeronautica o morire. Io non ero morto e non avevo alcuna intenzione di rinunciare alla carriera di pilota e questo forse li spiazzava, i miei colleghi e i superiori. Ero come un monumento vivente al rischio e alla paura, se ce l’avevo fatta io avrebbero potuto non farcela loro, vita tua mors mea, e sai bene quanto conta tener lontana la paura quando voli. La paura è un morso che ti stringe dentro, una volta che ti ha infilato le ganasce nella carne sei finito, puoi scendere dall’aereo per sempre se sei ancora in tempo a scendere. Il segreto è tenerla lontana, impedirle di aggredirti, ma se hai lì davanti a te un monumento vivente che suo malgrado te la soffia in faccia ogni mattina allora è dura, forse è per questo che alla fine hanno deciso di liberarsi di me e mi hanno proposto per questo posto di secondo del comandante. Così dovrei ringraziare anche i miei superiori, oltre a Cagna, per essere finito quaggiù nella colonia libica. Ma io non ho ringraziato e non ho intenzione di ringraziare nessuno. A me bastava volare. Mi basta volare. Con chi e per quali scopi non mi interessa. Voglio volare ed è quello che faccio ed è tutto.

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primo pilota

Paolino ha compiuto dieci anni. L’abbiamo festeggiato stamattina a colazione. Paolo. Dieci anni. Chissà che cosa sarà, da grande. Cappannini, il motorista, mi ha detto che suo figlio vuole occuparsi d’arte, in qualche modo. Chissà Paolo quale strada troverà. Manù, Valeria, Giuliana, Paolo. Con Manù, nel 1920, al quarto incontro ci dichiarammo. E poi comunicammo la decisione di sposarci al conte e alla contessa. Il conte sorrise. Mi prese sottobraccio, uscì con me dalla portafinestra del salone. Scendemmo la scalinata e ci inoltrammo sulla ghiaia del giardino, verso la vasca con i pesci. Caro Balbo, disse il conte. Aveva un tono conciliante, paterno. Caro Balbo, mia figlia non gliela do. Non gliela do perché non è buona a nulla. Lei è un uomo d’azione, lei ha fatto la guerra. Lei ha bisogno di una donna forte e combattiva, Manù sta sempre a leggere. Non è adatta a lei, mi creda, Balbo, disse. Allora cominciammo a vederci di nascosto, complici le sorelle, gli amici. E intanto io fondavo “L’Alpino”. Traditori, scrissi. Quanto mi piaceva, scrivere traditori. Traditori gli operai che avevano scioperato a Torino nel 1917. Traditori gli internazionalisti. Traditori i deputati contrari alla guerra. “Non si permetta mai più” scrissi, “che si sputi sulla nostra divisa. Che cos’è il bolscevismo? È disoccupazione, ozio, fame, furto, assassinio. Chi ama la propria casa, la propria famiglia, chi non vuole vedere i propri figli morire di fame, è nemico del bolscevismo. E D’Annunzio, a Fiume, è un magnifico suscitatore di energie sane e gagliarde”.

Forza, che dobbiamo andare. Saliamoci, su quest’aereo.

«Tu sei troppo grasso» grido al Tellera. Il generale Tellera, il capo di stato maggiore delle forze armate in Libia. Sorridendo, glielo dico, mica sono fesso. E Tellera sorride, a sua volta, e accetta di spostarsi sull’aereo gemello, quello guidato da Porro. Tu sei troppo grasso, e al posto di Tellera faccio salire sul Gobbo mio nipote Lino e mio cognato Cino.

Badoglio si è permesso di fargli quella sfuriata, al povero Tellera. «Ti sostituisco se non mi farai avere quelle informazioni puntualmente» dice. Ma gliele ho cantate chiare, a Badoglio. “Tu devi prendertela con me” gli ho scritto, “io sono responsabile”. Perché Badoglio quella sfuriata avrebbe voluto farla a me ma non ne ha avuto il coraggio, e allora l’ha fatta al povero Tellera, a quel grassone.

A vèg par la mì strè, incontr’a la mì guera; s’a casc a casc in tèra. Se cado cado in terra.

Mentre ero il fidanzato segreto di Manù, studiavo a Firenze per prendermi la laurea. Istituto di scienze sociali Cesare Alfieri, via Laura. A due passi da piazza Santissima Annunziata. Archi di pietra, fontane in bronzo. Città che ti accoglie silenziosa, senza abbracci. Finanze: diciotto. Economia politica: ventitré. Studiavo diritto, studiavo geografia. Studiavo il pensiero di Mazzini. Ci scrissi la tesi, sul pensiero di Mazzini. “Le classi capitalistiche” scrissi, “debbono aprire il cuore ai patimenti delle classi operaie, comprenderne i bisogni, fiancheggiarne il cammino di redenzione. Combattere l’ingiustizia e l’errore non è un diritto ma un dovere. Lo scopo della vita non è quello di essere più o meno felici, ma quello di rendere sé e gli altri migliori”. Mi laureai con settantotto ottantesimi. Chiamatemi fesso.

Rulliamo sulla pista di Derna alzando nubi di polvere.

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secondo pilota

E via ai motori, allora, a tutta forza. Quando vanno su di giri i motori del Gobbo urlano con un tono cupo, un tono che poi perdono appena ti alzi in volo. Anche se il frastuono rimane forte e ti costringe ad alzare la voce, quando sei in volo non c’è più quel tono cupo che ora ci si infila dentro le orecchie e si propaga per tutte le ossa e i muscoli, e il paraorecchie filtra ma non abbastanza o forse, chissà, è proprio il paraorecchie ad assorbire i suoni acuti e a lasciar passare quelli cupi. Ora che Balbo ha mollato il freno va già meglio, prendiamo velocità su questa pista di terra battuta che non si riesce mai a tenerla liscia come si dovrebbe, e sobbalziamo, e dietro c’è silenzio, nessuno parla più, né Cappannini, Berti, né Cino e Lino con i nomi che sembrano una coppia da album a fumetti, che anche questa se la dicesse Balbo staremmo tutti lì a ridere forte. L’aria che sbatte contro il vetro della cabina si fa sempre più solida e fra pochi secondi, non più di tre o quattro ormai, ci solleverà come una grande mano invisibile, perché è l’aria che tiene su gli aerei come è l’acqua che tiene a galla le navi. L’uomo ha capito in fretta come sfruttare la forza dell’acqua con le navi, ma ci ha messo millenni per arrivare a utilizzare quella dell’aria con gli aerei. Sono Settimio la verginella d’amor, mio comandante. Spetta a lei tirare la cloche, quando desidera.

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primo pilota

Il 29 novembre del 1920 mi laureai. Ma il 20 dicembre io non c’ero, a Ferrara. Ero a Lugo di Romagna, io. Il 20 dicembre del 1920, a Ferrara, trecento fascisti si scontrarono in piazza con i socialisti. Pugni, bastonate, inseguimenti. Io non c’ero. Ero a Lugo, a tenere comizi mazziniani. Pugni, bastonate, inseguimenti. E dal castello partì una scarica. Una scarica di fucileria. Pugni, bastonate, inseguimenti. E cinque morti in terra. Io ero a Lugo, a tenere comizi mazziniani. Non mi sporcai le mani, quella volta, e quasi mi dispiacque. Meno di due mesi dopo fui nominato capo del Fascio di Ferrara. Restituii la tessera di repubblicano, diventai uno dei capi del fascismo. Avevo quasi venticinque anni, ed ero fidanzato di nascosto con Manù. Nella Grande guerra mi ero guadagnato due medaglie d’argento e una di bronzo. Non avevo neppure venticinque anni, e chiesi e ottenni millecinquecento lire al mese, una bella cifra, per fare il capo del Fascio di Ferrara. Capii che non agli industriali ci si doveva legare, ma agli agrari. In Romagna erano loro ad avere i soldi. Avevo quasi venticinque anni, era il 1921, e iniziai a mettere a ferro e fuoco le sedi socialiste. A uccidere. A far uccidere. Ero mazziniano, diventai fascista. Pugni bastonate inseguimenti spari. Soldi dagli agrari. Ero fidanzato di nascosto con Manù. La sposai nel 1924. Ero appassionato di aeronautica.

Ci stacchiamo dalla pista di Derna. Il tempo è splendido. I greci di Batto i alla fine avevano scelto proprio un posto meraviglioso per fondare la loro città a pochi chilometri da qui, verso il mare. Quando gli archeologi avranno finito il loro lavoro Cirene diventerà la nuova acropoli.

S’a casc a casc in tèra, ’zident a chi’m to so. Se cado cado in terra, accidenti a chi mi tira su.

Il telegramma

giugno 1915, Italia

A metà pomeriggio di una domenica di giugno, una giornata particolarmente calda, un uomo e tre donne siedono sotto un pergolato nel giardino di una villa da cui si può godere uno scorcio inusuale sul centro della città.

Sulla strada che porta alla villa, qualche centinaio di metri più in basso, un fattorino arranca in salita, in sella a una bicicletta con qualche problema alla catena. Il fattorino deve consegnare un telegramma.

L’uomo, l’unico uomo sotto il pergolato, è già da un po’ che insiste sulla disciplina. Sostiene che il mantenimento della disciplina sarà fondamentale. Nel dirlo tiene gli occhi fissi sul cane di casa, Buck, addormentato di fianco alla cuccia addossata alla parete esterna della cucina dove una cuoca, che la domenica svolge anche la funzione di domestica, stende la pasta per le tagliatelle sul tavolo di marmo.

Il fattorino esce da una curva, intravede in cima alla salita il cancello della villa.

L’uomo sotto il pergolato dice che è giunto il momento di dimostrare al mondo il nostro valore, e che è necessario reprimere sul nascere ogni ipotesi di disfattismo o peggio ancora di diserzione.

Buck, il cane che dorme, è un labrador di sei anni che sbava molto, soprattutto d’estate. Negli ultimi mesi ha iniziato a perdere il pelo a ciuffi e gli è stato proibito di entrare in casa. In vita sua non ha mai morso nessuno, sarebbe un perfetto compagno di giochi per un bambino. Ma nella villa non ci sono bambini.

La moglie dell’uomo sotto il pergolato sospira e si fa vento con la manina grassoccia sollevando un tintinnio di braccialetti d’oro. Ama poche cose nella vita: andare all’opera (ma l’opera in se stessa poi la induce al sonno), mangiare pasticcini all’ora del tè nei freddi pomeriggi d’inverno, giocare a ramino con amiche dalle mani ingioiellate quanto le sue. E poi ama suo figlio. Ama il suo unico figlio, che è alla guerra.

Alle pareti della grande cucina stanno appese decine di pentole in rame. D’inverno, quando il camino è acceso, le pentole riflettono e allo stesso tempo assorbono il guizzo della fiamma. Ora, d’estate, contribuiscono a mantenere fresca la cucina. Milena, la cuoca che la domenica svolge anche la funzione di domestica, smette di guardarle, appoggia il mattarello sul tavolo e afferra il coltello a punta quadra col manico in legno scuro. Si ferma un istante per concentrarsi: le tagliatelle devono venire dritte. Il signor barone la prende in giro, quando le tagliatelle non vengono dritte. Le mangia, certo, ma la prende in giro. E dopo, in cucina, la signora baronessa le fa la ramanzina: «Dove ce l’hai la testa, Milena? Tanti anni e non sai come si fanno le tagliatelle».

Il fattorino calcola che mancano più o meno cinquanta pedalate al cancello. È l’ultima consegna della giornata. Il direttore dell’ufficio postale gli ha fatto quella faccia, mentre gli passava il telegramma. Lui la conosce, quella faccia. Speriamo che la catena regga, pensa mentre comincia ad avvertire il bruciore della fatica nelle cosce.

L’uomo sotto il pergolato, il barone, è un barone in disgrazia. A suo tempo aveva ereditato vigne e oliveti, terreni incolti e qualche palazzo all’interno della cerchia dei viali di circonvallazione, ma negli ultimi dieci anni ha perso quasi tutto. Speculazioni sbagliate, superficialità amministrativa. Il vizio del gioco. Gli è rimasta la villa o poco di più. È piccolo, magro, con la punta del naso che gli sporge dal volto come un’escrescenza. Dice che sarebbero sufficienti un paio di scrolloni e l’Austria ci restituirebbe con tante scuse quello che è nostro. Intende Trieste e i territori circostanti. «L’importante è che l’esercito si muova come un sol uomo» dice. E quel sol uomo, nella sua testa, è suo figlio. Anche se suo figlio non è sul Carso a combattere gli austriaci. Anche se suo figlio la guerra la combatte da più di quattro anni. Una piccola guerra coloniale, di grande fatica e scarsa gloria.

Sotto il pergolato, a marcare il confine tra il barone e la baronessa da un lato e le altre due donne dall’altro, su un tavolino di ferro battuto stanno accostate due caraffe di limonata ghiacciata, e una è già vuota. Accanto ci sono due vassoi di panini tagliati a metà e spalmati di confettura di albicocche e di prugne. La più anziana delle due donne di fronte al barone e alla baronessa è grande e grossa, vestita di nero si direbbe per far dispetto alla calura, il volto quadrato simile a una pietra da costruzione appena sbozzata. Non mangia, non beve, non sorride, non sospira. Ha un tumore che le sta devastando rapidamente l’intestino ma ancora non lo sa. Di tutti e quattro è l’unica a non sudare, nonostante un’acconciatura massiccia e scura che le pesa sghemba sul capo. Guarda dritto davanti a sé e quello che vede è un cielo azzurro chiaro, quasi bianco, sopra colline verdi e, più in basso, i tetti di una città che solo con qualche sforzo riconosce come la sua. Le capita ogni volta, nelle rare occasioni in cui viene invitata in quel giardino, di non riconoscere la città. La città dove è nata e dove è vissuta sempre. I nobili, dice quel suo sguardo opaco, i nobili e quel loro diritto di vedere le cose in un modo diverso da quello in cui le vedono gli altri. Un modo diverso e migliore, quello dei nobili. Un modo che la irrita. Non sorride e non sospira, la più anziana delle due donne ospiti. Si chiama Doris e non si è ancora abituata alla sua condizione di vedova.

Il fattorino calcola che al cancello mancheranno trenta pedalate. Purché la catena regga. Le cosce non ce la fanno quasi più. Ma poi la discesa, una sciacquata alla faccia e via all’osteria per un bicchiere con gli amici. L’espressione del direttore dell’ufficio postale quando gli ha passato il telegramma. Pedala e pedala, pensa il fattorino. Pedala e non pensare.

Milena ripone il coltello a punta quadra nel cassetto sotto il tavolo di marmo e si impolvera le mani di farina. «Dritte» dice ad alta voce, e sbattendo i palmi l’uno contro l’altro cosparge le tagliatelle di un sottile velo bianco. Sorride. Dritte come sempre, pensa. Solo quella volta le sono venute storte. Non riusciva a smettere di piangere e di tremare, quella volta. Non riusciva, il giorno in cui la levatrice le aveva confermato che era incinta. Non sapeva neanche come faceva di cognome il muratore che aveva detto di chiamarsi Gino, ma anche se l’a­vesse saputo non avrebbe trovato il coraggio di andare a cercarlo. E il giorno in cui la levatrice le aveva confermato che era incinta e le tagliatelle le erano venute storte, aveva anche pensato di raccontare tutto alla signora baronessa, ma poi il signor barone l’aveva presa in giro e la signora baronessa l’aveva rimproverata in cucina, e allora si era resa conto d’improvviso che sarebbe stato uno sbaglio terribile raccontarglielo. E raccontare cosa? Che lui, il muratore che aveva detto di chiamarsi Gino, non si era più fatto vivo? Quella sera prima l’aveva avvicinata, poi invitata a cena in una trattoria all’aperto e infine quasi costretta a fare l’amore sull’argine del fiume dove lei aveva accettato di seguirlo a passeggiare, un po’ immaginandosi e un po’ no come sarebbe andata a finire. No, sarebbe stato uno sbaglio terribile raccontarglielo. L’avrebbero cacciata di casa. Così non aveva detto niente. Si era sentita scoppiare, ma non aveva detto niente. E la vecchia, quella che la levatrice le aveva indicato, con certi ferri aveva risolto il problema. Al prezzo di un po’ di sangue, un po’ di mal di pancia, qualche lira. Roba di cinque anni fa. Sorride di nuovo, Milena. Non c’è felicità più dolce di quella che segue un pericolo scampato.

Il barone, tra un bicchiere di limonata e un mezzo panino, continua a dire che i disfattisti dovrebbero essere mandati in trincea, i disertori al muro. Nessuna pietà, per i disertori. Sua moglie sospira, si fa vento con la manina tintinnante. Non ne può più di quelle tirate patriottiche. È da quando la guerra è stata dichiarata, da quasi un mese ormai, che il barone ce l’ha con i disfattisti e con i disertori. E lei è convinta di conoscerle le ragioni di questa fissazione. Prima di tutto è per il figlio, per quello che lui sta facendo per la Patria. Civilizzare gli indigeni, la quarta sponda. Ma un po’ deve essere per quel mezzo anarchico che ha portato via al barone gli ultimi due appartamenti, ai dadi. Gliel’ha raccontato, il barone, una mattina. «Ho perso gli ultimi due appartamenti» le ha detto. Aveva bisogno di farsi la barba e la punta del naso gli si era arrossata. Per il resto e­ra in perfetto ordine: camicia inamidata, cravattino. «Me li ha portati via una specie di anarchico» le ha detto. «Uno che mentre tirava i dadi ce l’aveva col governo e col Re e con gli interventisti. Uno che faceva l’apologia della diserzione.» Poi era andato a letto, il barone, si era spogliato ed era andato a letto. E lei, la baronessa, si era alzata. Con due appartamenti in meno di quando era andata a dormire. E con la voglia di non sentirne più parlare, di quegli appartamenti. E di quei dadi. E di quella specie di anarchico. E dei disfattisti e dei disertori.

L’altra donna sotto il pergolato, seduta di fianco a Doris e di fronte al barone e alla baronessa, è una ragazza. Ha meno di vent’anni e il viso magro. Gli occhi neri, allungati e languidi, di tanto in tanto le si accendono di bagliori improvvisi. È vestita di bianco, si chiama Lucia. Trova che il barone sia nel giusto, con quei suoi attacchi contro i disfattisti. Contro i disfattisti e contro i disertori. Trova che il barone abbia tutte le ragioni per parlare così. “Se ci fossero meno disfattisti e meno disertori” pensa, “lui magari sarebbe già tornato a casa”.

Ancora una decina di pedalate, calcola il fattorino, e poi via, la discesa. Gli amici, l’osteria, l’attesa della cena.

Per la prima volta in quel pomeriggio Doris bagna le labbra nella limonata ghiacciata. La baronessa, la pelle liscia e bianca, deve avere più o meno la sua età. Ma come si comporterebbe la baronessa se capitasse anche a lei la disgrazia? La morte del marito. Sarebbe capace, la baronessa, di andarsene in giro vestita di nero, estate e inverno, caldo o freddo? Poggia il bicchiere sul tavolino e stringe le labbra, Doris, più per reprimere un sorrisetto di superiorità che per asciugarsele.

Le tre donne siedono su poltrone di vimini con cuscini a fiori, il barone su una sedia di castagno. La sedia di castagno ha sessant’anni. L’ha costruita il nonno del barone con le sue mani e lui ci è molto affezionato. Fin da ragazzino ha preso l’abitudine di portarsela dietro in tutte le stanze della villa, e anche in giardino. Quando deve star seduto a lungo siede soltanto sulla sua sedia di castagno.

Milena si affaccia sulla porta della cucina che dà sul giardino per controllare che i signori non abbiano bisogno di nulla. Nota che una delle due caraffe di limonata è finita. Dovrebbe andare là, riportarla in cucina e riempirla di nuovo. La bambina, le viene in mente, la bambina adesso avrebbe quasi cinque anni. Chissà perché ha sempre pensato che sarebbe stata una bambina. Vivrebbe a casa di sua sorella, contadina in un borgo che ci vuole mezza giornata per arrivarci: omnibus, treno, calesse e gli ultimi due chilometri a piedi. Lei andrebbe a trovarla una domenica al mese. Le porterebbe un giocattolo, un dolce, un vestitino. Starebbero lì a parlare, a raccontarsi, sedute sui gradini di casa, la sorella che dà il becchime ai polli, il cognato all’osteria. Le racconterebbe della città, della villa. Del signor barone, della signora baronessa. Gliel’avrebbero detto, al­la bambina, che lei era la sua vera mamma? O le avrebbero magari detto che era una zia? No, la bambina avrebbe dovuto sapere la verità. Proprio per questo forse le sarebbe sfuggita. Avrebbe accettato i regali, ogni volta, e poi sarebbe scappata via per l’aia, si sarebbe infilata nel castagneto. Lei ci sarebbe rimasta male e poi avrebbe pianto al momento di andarsene, dopo mangiato. Sorride, Milena. In fondo è felice di non averla avuta, quella figlia. Rientra in cucina.

Lucia guarda la caraffa vuota, guarda Milena che si infila in cucina e poi guarda Buck. Le viene voglia di accarezzare Buck. Non sono molte le cose che le suscitano tenerezza, e i cani addormentati sono una di quelle. Non l’ha mai chiesto un cane, Lucia. Doris ha sempre odiato gli animali ma suo padre certo l’avrebbe accontentata. Suo padre è un’altra delle cose che a Lucia fanno tenerezza. Suo padre e i cani addormentati. Solo che di cani non ne ha mai avuti e suo padre è morto sette anni fa. Era diventato magrissimo, la pelle gialla e gli occhi come due fanali blu. Non si era mai lamentato, suo padre, ma nell’ultima settimana aveva smesso di sorridere. Quando provava a stringerle la mano riusciva solo a trasmetterle una sensazione di gelo e poi non c’era modo di liberarsene. Vorrebbe accarezzare Buck che dorme all’ombra della cuccia, Lucia. Fosse morta Doris invece di suo padre, oggi avrebbe un cane da carezzare. Poi Doris l’inglese non lo conosce e i clienti della pensione sono perlopiù inglesi. E ha lasciato ingrigire la carta da parati, Doris, ha smesso di sostituire i velluti dei divanetti man mano che si consumavano. Da quando suo padre è morto la pensione ha iniziato ad andar male, sta rotolando verso il fallimento. Le presenze si sono via via diradate come i capelli di Doris, che ora porta quella sghemba parrucca color pece. Ed è soltanto grazie alla propria sfacciataggine e alla capacità di arrangiarsi con poco che Lucia è riuscita a impedire che la notizia dell’imminente dissesto trapelasse oltre la cerchia dei fornitori. Il barone e la baronessa non lo devono venire a sapere. In nessun modo.

Ci siamo, dice tra sé il fattorino. Poggia a terra un piede, poi l’altro. La bicicletta contro il pilastro. Il fiatone, il sudore, le cosce che bruciano. Estrae dalla borsa a tracolla il telegramma, controlla il numero civico. «Ci siamo» dice. Il campanello.

Buck abbaia, il barone scatta in piedi, Buck apre gli occhi e abbaia per la seconda volta, il barone trattiene la sedia di castagno che sta per finire a terra, Buck si alza sulle zampe e abbaia per la terza volta, un ronzio in lontananza, alla baronessa sfugge di mano un mezzo panino con la confettura di prugne, Buck si precipita verso il cancello, Milena esce svelta dalla cucina, Doris drizza la schiena sulla poltrona di vimini, Milena si struscia le mani sul grembiule legato in vita, Buck abbaia per la quarta volta, Milena grida a Buck di stare zitto e mettersi a cuccia, Buck smette di abbaiare e si accuccia sulle zampe posteriori rizzando il muso verso il ronzio di un aereo in lontananza, Milena raggiunge il cancello, il barone si tocca la punta del naso che gli si va arrossando, il fattorino – giovani baffi e uniforme bagnata di sudore – porge attraverso le inferriate il telegramma a Milena che lo afferra, la baronessa prende con due dita il panino che le era caduto sulla gonna macchiandola, Milena passa al fattorino alcune monete di mancia tratte da una tasca del grembiule, il fattorino ringrazia, inforca la bicicletta e sparisce dietro il muro di cinta. Lo sferragliante rumore della catena non copre del tutto il ronzio di quell’aereo che si avvicina.

Milena raggiunge il pergolato tenendo il telegramma per un angolo e rallenta, incerta se passare davanti o dietro al tavolino. L’incertezza è se porgere il telegramma al signor barone o alla signora baronessa, che pretende di essere sempre lei ad aprire la posta, incertezza subito fugata più che dalla strana fissità della signora baronessa, con quel mezzo panino in mano e quella macchia scura sulla gonna di lino, dal cenno imperioso del signor barone che, rigido in piedi dietro la sua sedia di castagno, se lo fa consegnare.

Il ronzio dell’aereo sta diventando un rombo.

Buck si intrufola tra le gambe del barone.

Milena si allontana in direzione della cucina.

Il barone apre il telegramma.

Mentre lo spiega con un colpetto della mano destra, con la sinistra fa una lunga carezza a Buck, sulla testa e dietro le orecchie, una carezza che suscita un moto di affetto e di invidia in Lucia.

Poi sbianca, il barone. Lascia cadere il telegramma, si aggrappa alla sedia di castagno cercando di non crollare a terra ma non vi riesce. La baronessa emette un grido da uccello notturno, poi un altro, un altro ancora, grida ritmiche e acute, e si percuote il petto con la mano tintinnante di braccialetti d’oro. A Doris spuntano due lacrime improvvise, a tradimento. Non le era successo neanche in occasione della morte del marito.

Lucia rimane immobile. L’aereo ormai è vicino, vola basso. “Mai più trascorrerò domeniche pomeriggio come questa” pensa Lucia, “a bere limonata ghiacciata insieme alla mia matrigna nel giardino della villa dei genitori del mio fidanzato, rassicurata – chissà poi perché – dalle tirate patriottiche del mio futuro suocero. Mai più vedrò Buck e mai più l’accarezzerò, mai più vedrò Milena e mai più mangerò i suoi panini con la confettura di prugne e di albicocche. E poi mai più”, e si ferma perché non riesce a pensare. “Mai più”, si sforza di continuare. “Mai più”, riesce a dirsi serrando i pugni, “mai più lo terrò stretto tra le mie braccia, mai più gli accarezzerò i capelli sfumati sul collo, mai più lo aiuterò a scrivere la sua storia del volo che ci teneva tanto e tanto e tanto, mai più respirerò il suo profumo di uomo sotto l’orecchio prima e dopo quei rari baci rubati agli sguardi sempre troppo attenti di tutti gli altri intorno”. Si tira su dalla poltrona di vimini, raccoglie da terra il telegramma e lo legge d’un fiato. Poi alza gli occhi al cielo, ed è l’unica a vedere sfilar via la pancia di quell’aereo color sabbia, e poi la coda, il timone di coda, piccola croce che si allontana e diventa lentamente un punto, un punto scuro che va a perdersi nell’azzurro quasi bianco di un pomeriggio di giugno, una domenica particolarmente calda del 1915.

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