LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Giovanni Verga http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 GIOVANNI VERGA e la “SCUOLA AMERICANA” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/09/17/giovanni-verga-e-la-scuola-americana/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/09/17/giovanni-verga-e-la-scuola-americana/#comments Fri, 17 Sep 2021 13:00:22 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8852 Portrait of Giovanni Verga.jpgIl nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine “Saggistica Letteraria” è dedicato alla figura di Giovanni Verga con questo contributo dell’omonimo giornalista bergamasco, pronipote del grande scrittore verista, che ci ragguaglia sugli studi statunitensi e, in particolare californiani, dedicati all’autore de “I Malavoglia”.

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GIOVANNI VERGA e la “SCUOLA AMERICANA”

di Giovanni Verga

Può sembrare strano che un autore così profondamente legato alla sua terra come Giovanni Verga possa avere avuto degli ammiratori e abbia suscitato interesse in un Paese e in una cultura lontani come l’America. Specificamente in California, dove lo scrittore verista è stato in tempi  passati al centro degli studi di un importante gruppo di studiosi, specificamente all’University of California Los Angeles (UCLA). Anche se non si può parlare di una vera e propria scuola, in quella università si formò un gruppo di lavoro negli anni Sessanta molto attivo nella traduzione e nella diffusione delle opere di Verga, come anche di altri classici della letteratura italiana, in particolare Leopardi e Dante.  Quella scuola evidentemente ora non esiste più, ma ha lasciato un segno ancora ben vivo tra gli studiosi. La conoscenza dei classici della letteratura italiana ha senz’altro una limitata diffusione in California e probabilmente in genere in America. E’ una materia di nicchia, ma viene  mantenuta viva probabilmente anche  per la presenza di una significativa comunità di origine italiana in quella terra. E’ indicativo che a Los Angeles ci sia  una prestigiosa Istituzione  locale di diffusione della cultura italiana, Italian American Museum of Los Angeles (IAMLA) che organizza mostre, convegni, omaggi e cura pubblicazioni con il consueto  rigore anglosassone. Soprattutto UCLA però è attiva,  con un dipartimento di letteratura italiana che ha un numeroso corpo docente e diversi corsi annuali. Sono gli eredi di quegli studiosi degli Anni Sessanta che diedero un forte impulso e soprattutto un’idea innovativa alla ricerca e alle traduzioni, riscoprendo tra i primi  Verga e il suo mondo.  Un lavoro che vale la pena togliere dall’oblìo anche per capire le ragioni dello scarso seguito di Verga all’estero e, secondariamente, quale sia la percezione della sua opera fuori dai nostri confini. Il risultato più importante è stata la prima traduzione integrale e soprattutto fedele, de I Malavoglia. grazie alla volontà e alla determinazione di uno specialista che aveva vissuto in Italia appassionandosi alla sua letteratura e a Verga in particolare,  Raymond  Rosenthal.  Esistevano già almeno due traduzioni in lingua inglese de I Malavoglia, ma erano ormai molto datate e soprattutto lacunose e che in molte parti travisavano fortemente l’ispirazione e la lingua del romanzo. Il suo The house by the medlar tree, (La casa del nespolo), lo stesso titolo delle precedenti traduzioni, è ormai assolutamente fuori commercio e irreperibile. Ne esiste però una diversa e successiva edizione che non ha la sua originale introduzione, ma solo una sua nota sulla traduzione. Nella quale si mette subito in evidenza l’aspetto più importante per Rosenthal, cioè il fatto che la prima traduzione in inglese de I Malavoglia, dell’inglese Mary A. Craig, pubblicata in America nel lontanissimo 1890 (con un’introduzione di William Dean Howells), conteneva tagli molto estesi, che ammontavano a più di cinquanta pagine, e che sembravano essere dettati “da pruderie vittoriana e molte cautele. Tutti gli evidenti o anche celati riferimenti alla sensualità, tutti i toni particolarmente selvaggi o ironici, per non parlare di tutte le espressioni che rivelano sentimenti anticlericali o antigovernativi, furono rigorosamente eliminati. Abbastanza stranamente, sostiene sempre Raymond Rosenthal,  la seconda traduzione molto più tarda di Eric Mosbacher negli anni Cinquanta usa la stessa edizione “mutilata” in italiano nelle edizioni scolastiche.

C’era probabilmente una qualche affinità o simpatia ideologica oltre che letteraria che spinse Rosenthal a cimentarsi nell’impresa. Lo spiega la figlia Margaret Rosenthal che vive a insegna a Los Angeles, alla University of Southern California, dove è preside del Dipartimento di letteratura francese e italiana. Ricorda l’ammirazione del padre per Verga. «Era affascinato dalla smisurata passione che aveva per la sua gente e dal suo progetto di dare voce e dignità letteraria alle classi più svantaggiate. Verga è una figura di grande complessità, che è molto difficile far comprendere all’estero, non solo per l’ambientazione regionale dei suoi romanzi, ma perché aveva adattato alla realtà italiana e siciliana del suo tempo teorie letterarie e di scrittura nate in un contesto diverso. Ha pagato il fatto che quelle teorie erano state elaborate in altre società più evolute come quella francese, e trasportate in una realtà molto più arretrata. Il realismo europeo era stato concepito per raccontare la condizione proletaria e urbana della nuova società industriale, invece la Sicilia di Verga era ancora contadina. Questo all’estero non era stato capito, ancor meno in America». Riguardo ai tagli delle traduzioni precedenti, mancava secondo Rosenthal metà dell’intero capitolo in cui, dopo il naufragio della Provvidenza, si focalizza l’attenzione sugli scandali, i pettegolezzi e gli intrighi del paese. E poi entra nel cuore del problema, la traduzione del linguaggio  popolare, dei proverbi, dei modi di dire, che il verista Verga tanto spesso usava per restare il più possibile fedele a quel mondo che per primo, dopotutto, ha  raccontato. Anche chi l’aveva preceduto nell’impresa di cimentarsi con lui, soprattutto il celeberrimo scrittore, critico e viaggiatore David H. Lawrence – che aveva fatto conoscere all’estero con la sua traduzione de il Mastro don Gesualdo e le Novelle rusticane -,  non se la sentì di prendere in mano I Malavoglia. Troppo lontani da lui probabilmente quei proverbi, quella lingua di pescatori semi analfabeti, quella religione della famiglia e quell’idea di fatalità così poco anglosassone che tutto pervade e guida e contro cui è invano opporsi. Secondo Rosenthal, la maggior parte dei proverbi sono locali o varianti personali di antichi detti e massime; quindi ritiene che sia meglio restare il più possibile fedele all’autore piuttosto che tentare di trasformarli in qualcosa di equivalente, per loro più familiare di certo, ma che rischierebbe di travisare il significato.

E nel fare un esempio, ritroviamo un elemento che ricorre spesso quando gli anglosassoni e i nordeuropei si accostano alla cultura italiana e in particolare siciliana. E’ la fascinazione per l’esotico., inteso in quel significato caro al Romanticismo nordico, di natura incontaminata e selvaggia. Parlando dei personaggi verghiani,  Lawrence dice che “sono oggettivi, senza rimorso e senza remissione, come tutti coloro che vivono nelle terre del sole. Al sole si è oggettivi, nella nebbia e sotto la neve si è soggettivi. Quando si va a Ceylon, ci si rende conto che per i bruni cingalesi anche il buddismo è una faccenda puramente oggettiva”. Ancora Rosenthal, citando uno di quei modi di dire travisati, riferisce quello pronunciato da don Silvestro  quando si vanta che obbligherà Barbara Zuppidda a “cadere ai suoi piedi come una pera matura” (una frase, aggiunge, che è stata presa da qualche romanzo sentimentale tardo romantico o da qualche libretto d’opera). “Questa immagine esotica è stata dapprima ripresa (da Verga, ndr) con precisione dagli abitanti di Trezza, ma poi improvvisamente è stata, per così dire, naturalizzata nell’assurda frase <cadere con i suoi piedi>, che trasforma l’iniziale, sottile e indiretto concetto di infatuazione per una persona in un rude atto fisico, come qualcuno a cui si sta facendo uno sgambetto”. Un non sense.

Ma fu Giovanni Cecchetti la vera anima organizzativa e il fondatore della “scuola verghiana” di Los Angeles. Italiano di origine a differenza di Rosenthal, era diventato in quegli anni direttore del dipartimento di Italiano a UCLA, dedicandosi alle sue passioni, Dante e il Verismo. Anche lui, proprio come  Lawrence, tradusse il Mastro don Gesualdo e le Novelle rusticane e fece pubblicare per la University of California Press la traduzione de I Malavoglia di Rosenthal, ma con una sua prefazione. Nella quale è subito evidente il suo forte interesse per Verga e in particolare per la sua innovativa tecnica narrativa che definisce “una delle prime e più spontanee forme narrative sviluppate dai maggiori scrittori europei ed americani del suo tempo”. Rispetto ai quali, tuttavia, non ne raggiunse la fama fuori dai confini. Si spinge a dire che tutto il romanzo è costruito con un supremo senso di equilbrio, che ogni capitolo è magnifico in se stesso, ma non può essere separato dal resto, come le cinque dita della mano di Padron ‘Ntoni. “L’interazione tra eventi raccontati e stile è prodigiosamente unita. Leggere è come seguire i movimenti della vita  stessa mentre questa raggiunge le più lontane ramificazioni. Tutto è ovvio, quel difficilissimo ovvio che solo i grandi artisti possono raggiungere. Con I Malavoglia Verga arriva quanto più si possa  concepire a creare il romanzo perfetto”.

Resta da capire perché proprio Verga. Il gruppo californiano poteva scegliere fra tanti per i suoi studi e invece puntò  su Verga, uno tra i meno conosciuti in America e tra i più lontani dalla loro cultura. Le ragioni possono essere diverse, ma di certo l’ispirazione veniva dal solco già aperto da Lawrence e forse anche da un’attrazione di tipo ideologico per quel mondo di diseredati che era stato elevato da Verga a dignità di protagonista della sua opera e, in fondo, della storia. Un tema quindi che andava ben oltre i limiti regionali e siciliani, come del resto già Lawrence aveva ben capito e chiarito. Cecchetti dice che a Verga interessava raccontare la lotta per la sopravvivenza, non certo delle classi superiori, e questa doveva essere esplorata dentro i confini della società che conosceva meglio, quella siciliana, una scelta inevitabile che lo confinerà però entro i limiti del suo Paese. E per farlo doveva inventare una lingua.  E quindi è sulle scelte linguistiche di Verga che si focalizza l’approccio innovativo del gruppo alla traduzione rispetto ai precedenti. Scrive Cecchetti che «Verga rifiutò di lasciare che i suoi braccianti e pescatori parlassero la stessa lingua della borghesia, ma doveva scrivere in italiano. Perciò ha creato un mezzo linguistico (“medium”, ndr) col quale quel popolo povero e analfabeta pulsava di vita con tutta la sua “freschezza” emotiva. Ha adottato molte espressioni locali e le ha trapiantate nel vecchio solco dell’italiano tradizionale. In realtà, pur usando un vocabolario piuttosto limitato, ogni parola suonava nuova e originale». Cecchetti prenderà posizione anche sulle stesse traduzione di Lawrence, in vari suoi studi, tra cui la raccolta di saggi Il Verga maggiore.  In sostanza, lo rimprovererebbe di avere tradotto troppo alla lettera o, peggio ancora, di avere spesso “stranierizzato” il suo inglese per avvicinarsi alle frasi idiomatiche originali, facendo quindi autoconcessioni che si possono spiegare col fatto che era uno scrittore creativo, ma finendo a spingersi troppo oltre. Un mix di scelte volute e no che avrebbero profondamento fatto confusione rispetto allo spirito delle opere di Verga. E’ vero che il dibattito è poi andato avanti tra gli esperti, che in alcuni casi hanno a loro volta censurato le critiche di Cecchetti, rivalutando la creatività delle traduzioni di Lawrence, fors’anche condizionati dalla statura e dal prestigio del suo nome nel mondo anglosassone.

Nonostante sia passato tanto tempo, resta molto vivo il ricordo del metodo della scuola californiana tra gli studiosi. Thomas Harrison, direttore del dipartimento di Italiano di UCLA e anch’egli traduttore, osserva che Cecchetti «ha lasciato una solida sapienza accademica e una capacità di organizzare nuovi programmi nello studio dell’italiano e di rivitalizzare quelli vecchi, che sono poi state portate avanti dai suoi allievi». Tra i suoi illustri predecessori alla guida del dipartimento di Italiano nella prestigiosa ed elegante Royce Hall, la sede in stile vittoriano a UCLA, c’è anche un altro studioso Charles Speroni, fondatore del dipartimento e del periodico trimestrale Carte Italiane (Italian Quaterly) e a cui è intitolata la biblioteca e il centro di ricerca. E tuttora esiste un premio accademico intitolato a Cecchetti (Giovanni Cecchetti Graduated Award), istituito da UCLA e presieduto da Harrison, per giovani laureati in letteratura italiana, utilizzato per finanziare ricerche sulla materia sia in America che all’estero. Un premio che “vuole ricordare il pioniere degli studi e delle traduzioni dei classici italiani in America, soprattutto i più difficili, come Leopardi e Verga – sottolinea Harrison- che sono conosciuti tra i cultori, ma ancora troppo poco dai lettori americani”.

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Giovanni Verga, dopo anni e anni passati come cronista in quotidiani locali, ha deciso di dedicarsi al reportage dall’estero, ovunque ci fossero storie meritevoli di essere raccontate. Quindi è stato in Israele e Palestina, Afghanistan, Siria, Caucaso ed Est Europa. Da queste esperienze sono nati anche due libri reportage. Ma nello stesso tempo ha continuato a coltivare l’altra passione, quella per la cultura, il teatro, il cinema e i viaggi. In sintesi, è giornalista professionista, amante della letteratura e  grato pronipote del grande verista.

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GIOVANNI VERGA. SAGGI (1976-2018) di Romano Luperini http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/02/15/giovanni-verga-saggi-1976-2018-di-romano-luperini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/02/15/giovanni-verga-saggi-1976-2018-di-romano-luperini/#comments Sat, 15 Feb 2020 15:21:18 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8408 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Giovanni Verga. Saggi (1976-2018)” di Romano Luperini (Carocci).

Il volume, che presenta tutti i saggi verghiani che Romano Luperini ha scritto fra la fine degli anni Settanta e oggi, ricostruisce la figura di un grande scrittore il cui uso dell’impersonalità copre e nasconde una vicenda autobiografica nella quale è possibile riconoscere il destino non solo di Giovanni Verga, ma in generale dello scrittore moderno. Verga vive la condizione dell’artista ai margini, periferico, spossessato della propria funzione tradizionale. Un artista il cui punto di vista non coincide mai né con quello dei vincitori né con quello dei vinti ma è alla ricerca di un “terzo spazio” fra quello degli oppressori e dei vincitori e quello degli oppressi e dei vinti.

Di seguito pubblichiamo uno stralcio della prefazione di Luperini.

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Un estratto della prefazione di Romano Luperini del volume contenente la sua raccolta di saggi dedicati a Giovanni Verga. “Giovanni Verga -  Saggi (1976-2018)” – Carocci (pagg. 11 – 14)

(…)

L’idea, a lungo coltivata, che esista “una barriera del naturalismo” e che la modernità cominci solo al di là di essa, non regge alla prova dei fatti. Pirandello e Tozzi partono da Verga, recuperandone spunti espressionistici (lo stile scorciato, l’opzione per il grottesco, il montaggio “cinematografico”) e l’assenza di mediazione narrativa prodotta dalla caduta della prospettiva onnisciente (con Verga si entra nel campo, direbbe Pirandello, della scrittura “senza autore”). In realtà è molto maggiore la distanza che divide Verga da Manzoni da quella che lo separa da Pirandello. La svolta del 1848, sottolineata con forza daLukács, a cui bisogna aggiungere, in Italia, quella del 1860-61, si fa sentire.
Verga apre una frattura su cui si inserirà la ricerca più avanzata del primo Novecento. È, questa, una coscienza critica che comincia lentamente ad affermarsi, e chi scrive ne aveva illustrate le ragioni già all’inizio degli anni Novanta.
Si può parlare allora di un’area modernista che congiunga Verga, Pirandello, Tozzi e, addirittura, Svevo? È questa la proposta di Pierluigi Pellini. Secondo Pellini, un francesista e un italianista cui vanno riconosciuti grandi meriti anche nella critica verghiana, «il naturalismo [...] è un movimento letterario decisamente modernista». Anzi, «sarebbe l’ora che si affermasse anche in Italia, come da tempo nei paesi anglosassoni, e recentemente anche in altre aree culturali, il concetto di modernismo». E aggiunge:

A me pare ovvio che, alle esigenze del periodizzamento storico-letterario, parlare di modernismo per il migliore verismo, per Svevo, Pirandello e le avanguardie, farebbe un ottimo servizio. Anche perché permetterebbe finalmente di mandare in pensione l’improbabile e immensamente fortunata etichetta di “decadentismo” – uno strano movimento in cui trovano posto Fogazzaro e d’Annunzio accanto a Svevo e Pirandello: e cioè scrittori che alla modernità appena, e contraddittoriamente, si affacciano, insieme a coloro che la interpretano ai massimi livelli; e da cui resta escluso Verga, che dei secondi è il più importante maestro.

In questa proposta si mescolano esigenze giuste e ragioni che invece andrebbero più attentamente vagliate. È giusto sottolineare la modernità di Verga e le ragioni che spingono Pirandello e Tozzi (piuttosto che Svevo) ad assumerlo a maestro e che dunque stabiliscono una certa continuità (da non enfatizzare eccessivamente, però) fra gli anni del naturalismo e quelli dell’espressionismo e della grande letteratura sperimentale e innovativa d’inizio secolo. È giusto anche (io lo sostengo quasi da un quarto di secolo, e precisamente dal Novecento, uscito nel 1981) discutere i confini del cosiddetto “decadentismo” e sottrarre al suo territorio autori come Svevo e Pirandello, da inserire piuttosto all’interno della grande stagionedel modernismo europeo (fra espressionismo, nel caso di Pirandello, e “romanzo aperto”, nel caso di Svevo). I loro capolavori non hanno in effetti nulla a che vedere con i romanzi di d’Annunzio o di Fogazzaro ma anche di Huysmans o di Wilde.
Non mi pare invece possibile fare del modernismo un contenitore analogo al disprezzato “decadentismo”, che d’altronde è una etichetta come un’altra e, una volta affermatasi storicamente (e il termine ha, nella critica, una storia ormai secolare, oltre a essere un’autodefinizione di un gruppo di scrittori francesi, i décadents, appunto), tanto vale accettarla e ridefinirla piuttosto che abolirla. Huysmans, d’Annunzio e Wilde si confrontano certamente con la modernità; le danno, non è difficile ammetterlo, risposte regressive, ma tutta la loro opera si situa su quello sfondo. Per reazione al moderno esaltano l’estetismo, un atteggiamento aristocratico, un simbolismo panico e irrazionalistico: tutti aspetti che li differenziano da Zola e da Verga, ma anche da Svevo, Pirandello, Joyce, Proust. D’altronde il modernismo ha a che fare con tecniche e ideologie decisamente antinaturaliste e con una letteratura sperimentale e fortemente innovativa. Nella letteratura inglese si parla di Modernism per definire una tendenza affermatasi fra gli anni Dieci e Trenta grazie soprattutto a Pound per la poesia e a Joyce per la narrativa: nessuno ci includerebbe, per esempio, Anthony Trollope o George A. Moore o Charles Reade o altri naturalisti.
Verga e Pirandello sono certamente distanti dal simbolismo “decadente” di d’Annunzio, e duramente polemici nei suoi confronti. Ma fra i due, e ancor più fra Verga e Svevo, ci sono differenze importanti che è impossibile dimenticare. Anzitutto culturali: si passa da una concezione oggettivistica a una soggettivistica, dal materialismo d’origine positivistica e spenceriana del primo al relativismo degli altri due: nel mezzo ci sono stati Nietzsche, Bergson, Freud, e si sente. Fra l’impersonalità verghiana o zoliana, che presuppone criteri scientifici e cerca di concretizzare l’ipotesi teorica dello scrittore come sperimentatore in laboratorio, e l’umorismo di Svevo e Pirandello, che sconta il definitivo tramonto anche di questo ruolo, gli elementi di discontinuità sono fortissimi. E poi c’è una differenza generazionale che non può essere dimenticata: Verga si è formato in età preunitaria, ancora romantico-risorgimentale, e ha vissuto il crollo delleideologie della sua giovinezza; Pirandello e Svevo si sono formati invece in età postunitaria, quando la crisi delle visioni del mondo ottocentesche era già avvenuta o comunque era avviata da tempo. Insomma, naturalismo e modernismo non sono sovrapponibili, ma designano due periodi diversi. Che poi il primo possa preludere, in certi autori, ad alcuni aspetti del secondo (è questo appunto il caso di Verga) è indubbiamente vero, ma ciò non basta ad autorizzare rischiose confusioni.
In conclusione. Il naturalismo non costituisce più la barriera oltre la quale avrebbe inizio la modernità letteraria, come amavano credere i teorici della neoavanguardia. Il moderno nella letteratura italiana comincia con Verga, che da un lato pone in discussione in modo radicale e, in Italia, definitivo la figura del narratore onnisciente e, dall’altro, sotto l’idea di una vita ridotta a lotta crudele di tutti contro tutti, fa scorrere una banalità di eventi che celano un vuoto sostanziale e il non senso dell’esistere. Ma dopo Verga, nel quindicennio che va da Il piacere di d’Annunzio a Il Santo di Fogazzaro, si può benissimo parlare di “decadentismo” per designare il periodo in cui hanno prevalso estetismo, irrazionalismo e simbolismo (tutte tendenze, peraltro, che nel romanzo non hanno neppure posto in discussione la tradizionale forma chiusa), distinguendolo però dall’età, assai più profondamente sperimentale, dell’espressionismo, del modernismo e delle avanguardie (quella tra Il fu Mattia Pascal e La coscienza di Zeno). Ogni movimento letterario, dal romanticismo a oggi, ha in realtà la durata di una generazione (vent’anni, o poco meno). Meglio coglierne la specificità che annullarlo in contenitori troppo vasti.
(…)

(Riproduzione riservata)

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Giovanni Verga

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I MALAVOGLIA di Giovanni Verga (Leggerenza n. 1) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/03/24/i-malavoglia-di-giovanni-verga/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/03/24/i-malavoglia-di-giovanni-verga/#comments Sun, 24 Mar 2019 08:00:46 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8105 imagedi Gianni Bonina

Com’è facile intuire, il titolo di questa rubrica mutua il verbo “leggere” e il sostantivo “gerenza”, che indica l’assunzione di responsabilità da parte del direttore di un giornale: per dire che, trattandosi di libri (in questo caso di romanzi, dove l’opinione conta più del postulato), i giudizi espressi non saranno che miei, quindi del tutto discutibili. Il proposito è di leggerne alquanti (più esattamente si tratta di rileggere, riguardando sempre capolavori ben noti), scegliendoli – anche questo personalmente e dunque discrezionalmente – dalla mia libreria: dove non c’è stato mai verso di ordinarli secondo qualche criterio, districati in quella confusione che tuttavia procura il sottile piacere di ritrovare libri dimenticati. Per modo che sarà un po’ il caso a scegliere i libri tra quelli che ho amato, a formare così un mio canone. Ognuno ha il suo, s’intende, e nessuno è preferibile a un altro, ma dal momento che molti libri figurano in molti canoni, ne deriva che per somme linee condividiamo un’unica grande biblioteca. La nostra: di contemporanei, di occidentali e perché no di italiani.

Un romanzo che vale riaprire e dal quale vale certamente partire è I Malavoglia, magari dopo una visita ad Acitrezza e una capatina a Casa Verga, a Catania. Se ne avrebbe motivo per chiedersi lì perché Acitrezza e qui quali libri lo scrittore leggesse. Una duplice domanda intrecciata che sbriga la questione se I Malavoglia fu davvero il frutto di una geniale ispirazione che improvvisamente colse Verga. Non lo fu. Già Carmelo Musumarra, italianista catanese e autorevole verghiano, scriveva che «Verga non dev’essere considerato come un fenomeno, ma soltanto come il risultato di un lungo processo evolutivo». Il fenomeno riguarda ovviamente I Malavoglia. Che Natalino Sapegno definisce «la scoperta più intelligente e feconda della nuova letteratura italiana» mentre Pietro Citati parla di «scoperta intellettuale» e del paradosso che coglie Verga: «Non aveva mai conosciuto l’intelligenza e fu salvato dall’intelligenza». Un’intelligenza ben poco feconda, in verità, perché il capodopera verghiano rimase un episodio mentre il verismo infiammò le lettere il tempo che sulla scena nazionale, voltando lo sguardo dalla società ai salotti e su sé stessi, apparissero i modelli decadentistici di Pirandello, Svevo e D’Annunzio.
Ma certamente fu una scoperta sensazionale quella di Verga, l’intelligenza del quale riguardò il diverso modo in cui la questione sociale così di gran momento poteva essere affrontata, meglio ancora “studiata”. Semmai è da chiedersi perché giunse quando l’autore aveva già quarant’anni – dopo ben otto romanzi mondani e decine di novelle fra cui la raccolta di Vita dei campi – e cosa l’abbia favorita. Una risposta si trova proprio sugli scaffali di Casa Verga, nei libri che il giovane idealista unitario si passa fra le mani quando affida la propria educazione letteraria a scrittori della sua Catania, che in parte frequenta, come Antonino Abate, nella cui casa vive in pensionato, Domenico Castorina, Salvatore Brancaleone, Benedetto Guglielmini, quest’ultimi due forse i più vicini alla futura sensibilità verista. È da loro, ma anche dal profluvio di periodici catanesi, primo fra tutti il “Giornale gioenio”, che Verga matura la scelta a favore del gusto romantico e quindi delle lingue vive contro la retorica carducciana e le resistenze classiciste molto attive anche a Catania, nonché un’attenzione nuova, suggerita in tutta Italia dal positivismo e dalle spinte socialiste, verso le classi sociali svantaggiate alla ricerca di un modo per denunciarne le condizioni.
In Sicilia questo interesse non viene, almeno questo, dal continente, ma nasce per primo in Italia nel clima tutto siciliano della ricerca demopsicologica, lo studio del comportamento umano nei rapporti sociali di gomito, attraverso l’impegno di eruditi come Pitrè, Guastella, Salomone-Marino, Avolio, decisi tutti a ubbidire all’invocazione di Di Giovanni “Antiquam exquirite matrem” e seguire un’istanza che si precisa nelle forme di un originale regionalismo inteso a studiare la parola per capire la società e dunque indagare il vero. I demopsicologi cercarono le tradizioni popolari, l’antica madre, ne raccolsero in tutta l’isola proverbi, mottetti, ballate, leggende e nello stesso tempo si accorgevano di quali fossero le condizioni di vita di quel popolo che interrogavano e sul quale sciorinavano le loro redingotes – per usare un’espressione del Verga di Tigre reale. Il romanticismo unito al positivismo si completò in Sicilia nello scientismo intendendo rappresentare il vero sociale visto come fisico e materiale, cioè naturaliter. Sennonché tutta l’Italia letteraria fu invero percorsa da un fremito che la spinse a scoprire l’esistenza del popolo plebeo, quello stesso il cui “ventre” era Oltralpe già da tempo oggetto di notomizzazione da parte del naturalismo: con la differenza che nei bassifondi gli scrittori realisti andavano a viverci, mentre in Italia come pure in Sicilia scendevano per osservarli e farne materia di studio. Verga non fece cosa diversa.
Mentre egli scriveva romanzi intimi come Eva, Eros o manzoniani come Storia di una capinera, c’era già stato chi aveva da decenni avviato il verismo e scelto la prosa umile contro quella togata. Niccolò Tommaseo per esempio aveva descritto “gli infelici”, com’erano chiamati gli indigenti, in Fede e bellezza e si era pure occupato di pescatori in Cantici del mare, inaugurando nel romanzo italiano il tema del naufragio e del destino cui è sottomesso chi vive di stenti. Dirà di lui Luigi Capuana: «Quando si scriverà la storia del nostro romanzo contemporaneo si dovrà riconoscere che il primo verista in Italia è stato lui». Verga legge Tommaseo ma è di aristocratici che scrive, per giunta settentrionali, inseriti in grandi città come Firenze, Torino, Milano. Nondimeno è a Catania che fa capo o che ritorna. E a Catania c’è la rinomata Accademia di Scienze naturali, c’è l’Etna, c’è già dal Settecento una radicata vocazione agli studi scientifici grazie alle esplorazioni del vulcano e dei suoi minerali, c’è un grande fermento per la ricerca archeologica e la raccolta di fossili. Il giovane Verga, cugino dell’intemperante Antonino Abate, ne legge i romanzi storici  e quelli che gli vengono da lui suggeriti del vate etneo del momento, il Castorina autore di I tre alla difesa di Torino, talché è a questa cifra che si attiene nella sua prima formazione. Scrive in un linguaggio ricercato e senza volerlo classicheggiante, lascia la narrazione a un io narrante nel quale alle volte è lui stesso da vedersi, ignora con noncuranza il popolo. E ritiene, secondo l’influsso invalente, che solo un’alternativa ci sia al canone del romanzo storico ed è quella del romanzo intimo. Nemmeno considera l’esistenza del romanzo sociale.
Poi nel ’66, otto anni prima di Nedda, arriva il fatto nuovo, costituito da Una peccatrice, romanzo anch’egli borghese, ma che pure segna un primo passo, sebbene inconscio, verso la “scoperta intelligente” di cui parla Sapegno in riferimento a I Malavoglia. La novità consiste in ciò, che il romanzo adotta la forma della narrazione non più testimoniale ma in terza persona, è in gran parte ambientato finalmente a Catania e vi appare per la prima volta Acicastello, stesso Comune di Acitrezza, dove la contessa di Prato si suicida in una villa. Giacomo Debenedetti è riuscito a dimostrare, con un acume che lascia sbalorditi, quanto autobiografico fosse il romanzo laddove il Pietro Brusio che, stanco della contessa, le chiede di farsi nuovamente desiderare e la lascia per poterla corteggiare di nuovo e quindi riamare non è che lo scrittore stesso che, stanco delle città e dei salotti, vagheggia un allontanamento da quel mondo per poi farsi nuovamente attrarre: allontanamento che significa vivere a Catania, quella Catania che trova tutta presa in questioni locali che prima neglettava e che ora gli sembrano un nuovo orizzonte: la polemica sul luogo dove costruire il porto tra la città e Capo dei Molini, la mitica ricerca del Porto d’Ulisse, immaginato a Ognina, la conoscenza soprattutto che fa del borgo di Trezza per via del forte interesse che la comunità scientifica rivolge al luogo marinaro.
Un fatto questo davvero sorprendente: gli scienziati e i letterati (uniti nell’originale sistema tutto catanese che amalgama anche nei suoi giornali e nei circoli scienza, filosofia, storia e letteratura), esplorando l’Etna, studiandone i minerali, si accorgono che i curiosi e mitici Faraglioni di Trezza sono fatti di basalto e si concentrano perciò su di essi, finché guardando e riguardando i Faraglioni, la flora e la fauna marina, non vedono i pescatori e i loro abituri, ma anche le loro usanze, i metodi di pesca, i costumi, passando così a studiare, con metodi altrettanto scientifici, pure loro e le famiglie, per scoprire infine che non esiste alcun paesino nelle stesse condizioni estreme di miseria e avvertire forte un impulso al soccorso mercé un atto di denuncia in un momento in cui la “deprecatio temporum” per la nuova Italia, riuscita poca cosa, impone che l’immutata condizione del Sud sia additata nei termini di una “questione”.
Acitrezza riempie così i giornali catanesi, Lionardo Vigo, che è di Acireale, riprende da Alfio Grassi, anch’egli acese, La storia delle quattro sultane di Acitrezza, ambientata nel borgo simbolo della povertà, “cuntu” di quattro fanciulle che trovano il riscatto solo al prezzo di un rapimento. Il principale centro di interesse del Catanese attrae anche Verga, che un anno prima dell’uscita de I Malavoglia, scrive Fantasticheria, una specie di cartone preparatorio del romanzo che, ambientato a Trezza e sinopia dei personaggi in fieri segna la presa di coscienza veristica e annuncia la scoperta intelligente, ovvero il risultato sul piano letterario di un teorema che coniuga tutte le temperie: lo scientismo come metodo di osservazione di un dato fisico, il positivismo come ricerca del malessere sociale nel determinismo storico, il romanticismo come adozione della lingua d’uso e attenzione alla vita degli umili. L’idea – ed ecco l’intelligenza – è di denunciare lo scandalo di Acitrezza attraverso il racconto esemplare dei suoi abitanti, regredendo con un artificio linguistico al loro stadio culturale e assumendo un metodo di osservazione di tipo impersonale, come per stendere un rapporto etnografico.
Verga racconta le pene dei Malavoglia per fare conoscere Acitrezza e non sceglie Acitrezza come luogo dove fare agire (“agitare” scrive in Una peccatrice) i Malavoglia e gli altri compaesani, tutti succubi di un destino che ne decreta la sventura collettiva. Non inventa una storia di mare per rendere più laceranti le tribolazioni dentro la casa del nespolo ma perché i pescatori di Trezza versano come i Malavoglia nelle condizioni più drammatiche. Vuole il romanzo reale, anzi vero, ma il romanzo fa fiasco, come scrive a Capuana, perché dà alla questione sociale e in particolare a quella meridionale il senso di una parabola nel momento in cui l’Inchiesta Sonnino-Franchetti e la concomitante indagine parlamentare sulle condizioni della Sicilia hanno appena rivelato al mondo, con i mezzi non della letteratura ma del documento storico, la cruda verità di una situazione che non riguarda solo un borgo ma tutta l’isola. Alla fine Verga racconta una storia saputa e una situazione molto più grave e diffusa, sennonché il tempo consacrerà il romanzo al di sopra di ogni trattato scientifico e di ogni relazione ministeriale assurgendo ad assoluto capo d’accusa, a manifesto contro l’ingiustizia sociale. Alla sua uscita non viene capito perché il senso di rassegnazione e di irredimibilità che lo pervade viene inteso come una condanna inestinguibile quando la Sicilia ha invece bisogno di sollevarsi, di ribellarsi, quantomeno di nutrire una speranza, che le inchieste nazionali pongono piuttosto come irrinunciabile e prefigurano come possibile.
Portrait of Giovanni Verga.jpgCon I Malavoglia Verga realizza il progetto adombrato in Una peccatrice: lascia il romanzo intimo per quello sociale e poi torna, con ritrovato vigore, a quello mondano con Il marito di Elena al quale segue Mastro don Gesualdo che segna il definitivo abbandono del primo filone. Questo andirivieni dimostra che Verga, deluso da I Malavoglia, non ha chiaro il programma enunciato nella prefazione al suo capolavoro circa il ciclo dei vinti, anche perché il terzo romanzo, La duchessa di Leyra, sul quale tenta per anni di concentrarsi senza riuscire a portarlo avanti, così come gli altri due, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso, non sarebbe che legato al Verga intimo anziché al verista. Non è dunque accoglibile la teoria secondo cui interrompe il ciclo perché non sa raccontare le classi elevate, giacché ha fatto più questo che occuparsi dei “vinti”. È vero invece che non possono essere considerati dei vinti quanti vivono nell’agio e vivono traversie e rovesci tutt’altro che assimilabili alle sventure proprie delle genti miserabili.
In verità Verga, dopo Mastro don Gesualdo, smette di scrivere e si dà alla novellistica, alla fotografia e al cinema, perché rimane in una impasse, intrappolato tra le sue due tensioni, quella che lo porta al Nord e quella che lo tiene come un’ostrica alla Sicilia. Tale ambivalenza, che involge una contrapposizione certamente divisiva, si ritrova proprio ne I Malavoglia, dove da un lato padron ‘Ntoni tiene il capo della corda che tira verso il paese e da un altro ‘Ntoni tiene l’altra cima che porta lontano da esso: salvo alla fine tornarci e capire che era quello il suo posto dal quale non doveva pretendere di andare via. Forse è quanto capisce anche Verga di sé quando aggiunge al testo già concluso una nuova breve parte solo per approfondire lo stato d’animo di ‘Ntoni, preda del rimpianto per quanto sta per lasciare, seduto su un muretto a guardare la sua Trezza, a ricordare e soprattutto aspettare che faccia giorno e che la vita riprenda pur senza di lui. Abbiamo un indizio decisivo di ciò. Verga scrive, anzi ripete nella conclusione aggiunta, un’espressione incomprensibile quando fa dire a ‘Ntoni che deve andare via perché ormai sa ogni cosa. Cosa sa ‘Ntoni da essere ineluttabilmente costretto a partire? O piuttosto, cosa sa Verga? Sa forse che deve rimanere a Catania e rinunciare alla tentazione di tornare al Nord per cedere di nuovo, come farà con Il marito di Elena, alla “contessa di Prato” e cioè alla sua vecchia maniera. Resisterà al richiamo, ma intanto fa partire ‘Ntoni (che probabilmente emigra in America), così disgiungendosi e riducendo i suoi “vinti” al silenzio. Vinto anche lui per primo.

© Gianni Bonina

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