LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Giuseppe Bonaviri http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IL GATTOPARDO di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Leggerenza n. 5) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/28/il-gattopardo-di-giuseppe-tomasi-di-lampedusa/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/28/il-gattopardo-di-giuseppe-tomasi-di-lampedusa/#comments Sun, 28 Apr 2019 06:00:14 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8138 imagedi Gianni Bonina

Senza il pregiudizio ideologico apposto dalla critica di sinistra, sia accademica che militante, Il Gattopardo non sarebbe stato ricordato in chiave politica ma unicamente come romanzo storico, secondo le intenzioni del suo autore. Invece continua a gravare su di esso una doppia ipoteca reazionaria e riduzionista: la prima voluta da un’ottica aristocratica che non vede né il progresso né i proletari, ma solo la conservazione di un retaggio di casta; la seconda imposta da un gurgite sicilianista che, secondo Sciascia, porta Tomasi a comprendere i mali della Sicilia come “vizio di astrazione geografico-climatica” che ne ricondurrebbe la causa essenzialmente al tormento del caldo torrido, indicato invero dall’autore quale “autentico sovrano della Sicilia”, “collera divina”, “grande lutto”, “maledizione annuale”, segno di cattiva giornata.
Astrazione che è però anche storica nella rappresentazione della Sicilia che il principe (offrendo la miglior prova di sicilianismo) fa a Chevalley, da un lato con l’imputare alle dominazioni straniere le gravi condizioni sociali dell’isola e da un altro con il deplorare le caratteristiche endemiche dei siciliani che amano il sonno, condannano il fare e si credono il sale della terra. In questo quadro le critiche al romanzo sono fondate, perché Il Gattopardo non concede scampo alcuno alla “irredimibilità” (termine coniato da Tomasi e fatto proprio da Sciascia) della Sicilia, strozzata in un’impossibilità di sviluppo che è anche un arroccamento volontario. Il romanzo storico cui per anni, almeno dal referendum costituzionale, pensa l’autore palermitano è inteso a celebrare i fasti di una classe sociale per millenni al potere allo scopo di intonarne il de profundis: alla ricerca delle cause del declino, Tomasi trova che i primi segni di cedimento della aristocrazia siciliana si siano avuti in occasione della campagna di Garibaldi: evento al quale la Sicilia assiste in un’accidiosa insipienza, incapace anche di formarsi un’opinione condivisa. L’antistoricismo imputato a Tomasi trova quindi ragione nella pusillanimità che l’autore attribuisce a una classe incapace di cogliere l’ultima occasione che la storia le offre non tanto per salvarsi quanto per rigenerarsi. Il giudizio di disprezzo che il principe di Salina esprime al ricevimento della lettera di un nobile che invita anche lui a lasciare Palermo dopo lo sbarco dei Mille segna il momento di rottura dell’asse che regge la classe dominante.
Di fronte alla divisione della nobiltà tra liberali e lealisti, il principe di Salina dà credito all’iniziativa mediana e ruffiana, ma di estrema intelligenza per un ceto così miope, che si intesta il nipote Tancredi, pronto a combattere per il nuovo re contro il vecchio solo per ottenere che nulla cambi nella sfera di privilegi del casato. Fermo in questa strategia, don Fabrizio vota perciò a favore dell’annessione e incoraggia i villani di Donnafugata a fare altrettanto, mostrandosi moderno per restare infine non tanto antico ma sulla scena, sennonché altro non conquista che un limbo nel quale, durante il gran ballo, gli apparirà evidente la vacuità dello sforzo compiuto in favore di un cambiamento che fosse un adattamento, perché vedrà danzare in un palazzo lasciato nello stile antico, insieme con i vieti modi e la moda passatista, un mondo immoto inconsciamente e irresponsabilmente in corsa verso il precipizio.
È una derelizione che Tomasi preconizza sin dal momento dell’arrivo del principe e della famiglia a Donnafugata. Prima ancora che don Ciccio Tumeo insorga e dichiari “una porcheria” lo sproposito che un Falconeri sposi una Sedara, presagio della fine dei Falconeri e degli stessi Salina, è la popolazione (la stessa che, pensando a una preterizione, dubita circa la sincerità del suo invito a votare l’annessione) a trovare il principe cambiato quando gli sente dire che la sera vorrà incontrare tutti gli amici e che si augura la pioggia: l’eccessiva cortesia indebita mostrata ai contadini viene vista come segno del declino del suo prestigio, giacché mai il principe aveva ricevuto villani né gli era importato nulla che piovesse o meno.
Tomasi intende allora il suo romanzo storico, al cambio di un’epoca con un’altra, come testimonianza personale di un mondo del quale è egli stesso l’epigonale sopravvissuto rimasto con le dita prive di anelli e titoli senza valore. E non sa se identificarsi appieno in esso, dal momento che a volte parla della Sicilia scrivendo “da noi” e a volte “in quel remoto paese”. Né sceglie un tempo narrativo continuo e progressivo, perché si serve molto dell’analessi, preferendo il recupero di fatti già avvenuti e il ritorno al passato anche prossimo, e della prolessi anticipando pure di moltissimi anni vicende che non verranno mai riprese. Il romanzo appare agitato da una febbre e da un intento di documentazione storica che volendo essere quanto più oggettiva – di qui il velo di ironia, a volte malriuscita – si rivela piuttosto estremamente sentita e partecipata. Tomasi vuole da un lato, per riferirsi al suo presente e all’esiziale futuro di casta, dipingere un’epoca con i suoi drammatici rivolgimenti e da un altro dare lustro alla propria casata, elevando lodi agli avi santi e gloriosi. E questo fa in realtà per coprire un lato oscuro della propria genealogia, sul quale tace ma che sente come una vergogna più che una colpa. Il Gattopardo può essere dunque anche un’operazione a nascondere nel proposito di far pendere da un lato la bilancia del fas et nefas. C’è una storia di casa e di casato che il romanzo, pur preferendo fare in esergo quella complementare ma esornativa di padre Pirrone, lascia fuori ma che pure è ben dentro il suo tessuto e la sua scaturigine. La gran mole di studi dal 1958 ad oggi ha pressoché ignorato questo fondo di rimandi, che tuttavia merita di essere tenuto presente e indagato. Lo stesso Tomasi cercò in tutti i modi di tenere sepolto l’umiliante segreto di famiglia, ma dovette fare, forse inconsciamente, i conti con esso. Sicché è bene parlarne apertis verbis.
Tomasi non andò certamente a Simancas, dove dal Cinquecento è attivo il più grande archivio militare dell’epopea spagnola, perché se l’avesse fatto avrebbe trovato quanto un altro palermitano, Giovanni Marrone, pubblicherà nel 1995 in appendice al suo Città campagna e criminalità nella Sicilia moderna (Palumbo): gli atti del processo che nel 1583 fu celebrato contro tale Mario de Tomasi, un capitano d’arme di Licata di cui Marrone fu pronto a rilevare l’“esemplare carriera”, perché comune a quella dei masnadieri che si resero famigerati per nefandezza ed efferatezza e che prepararono la campagna siciliana alle future bande mafiose dei campieri. Un processo concluso (nonostante la documentata pratica delittuosa esercitata dalle compagnie d’arme come mezzo di controllo poliziesco per conto di Carlo V) con una blanda condanna all’inabilitazione e perciò servito a porre le remote premesse ai patti di collusione tra Stato e mafia.
Mario de Tomasi era il peggiore dei suoi pari e Marrone vide bene elevandolo a campione della risma con una fedina da brivido: «Autore di infiniti abusi e di crimini che, in un crescendo continuo, andavano dalle estorsioni alle concussioni, ai furti, fino alle crudeltà più impressionanti, provocando la morte di numerosi infelici, accumulò un patrimonio valutato intorno a ventimila scudi». Un patrimonio provento della sua più lucrosa attività: il commercio delle teste di banditi alla macchia, ognuna delle quali poteva valere fino a mille scudi perché legalmente e abitualmente accettata come partita per liberare un prigioniero pur’anche da designare. Marrone però non si avvide o non volle avvedersi che il “tale” Mario de Tomasi altri non era che il capostipite dei Tomasi di Lampedusa, lo stesso Mario Tomasi che nel 1987 era comparso in cima all’albero genealogico pubblicato da Andrea Vitello nella sua ponderosa biografia omonima dello scrittore uscita da Sellerio.
Epperò, in un gioco di continue distrazioni, nemmeno l’acribitico Vitello, pure lodevole per il frutto della sua ricerca (che partiva già nel ’63 da Flaccovio con I Gattopardi di Donnafugata: dove però si taceva ancora la vera natura del capostipite), capì con chi avesse a che fare o più probabilmente finse di non capire: e, definendo Mario Tomasi appena «un oscuro armigero», si limitò a segnalare che aveva sposato, proprio nell’anno del processo, una Francesca Caro, baronessa di Montechiaro e signora di Lampedusa. È infatti con l’attribuzione di “primo barone di Montechiaro” che il capostipite scrive una memoria difensiva di almeno due volumi indirizzata al re di Spagna e rivolta contro il “visitador” regio che istruisce il suo processo, perché ne sia impedita la prosecuzione. Ne avrà, come si ricava dal testamento del figlio Giovanni, la condanna anche all’esilio – un caso fallito di ricorso all’autorità superiore, costume molto diffuso nell’altera nobiltà siciliana che si rivolgeva a Madrid per scavalcare Palermo.
Il frontespizio del lungo ricorso costituirà la seconda illustrazione del libro di Gioacchino Lanza Tomasi Biografia per immagini di Tomasi (Enzo Sellerio, 1998) ed è proveniente dai documenti di casa Tomasi andati in gran parte distrutti nel bombardamento del ’43. Giuseppe Tomasi non poteva dunque non conoscerne l’esistenza né ignorare che artefice della “razza di santi” lampedusiana e dell’ingente fortuna accumulata fosse stato un delinquente della peggiore cotta. Se dunque non andò mai a Simancas fu perché non aveva bisogno di sapere oppure non voleva sapere di più, ipotesi che è più verosimile. Le indagini di Andrea Vitello permisero di accertare che Lampedusa ne parlava tuttavia al cugino Lucio Piccolo, dal quale qualche confidenza è arrivata poi a uno studioso di Capo d’Orlando, attento al proprio anonimato. Ma cosa sapeva esattamente Lampedusa circa il suo capostipite? Certamente era al corrente del processo e dunque (se ha avuto in mano la mole dei documenti andati perduti) di tutte le accuse, compresi gli eccessi del cacciatore di teste.
Se le cose stanno così, Il Gattopardo ci appare sotto una luce nuova e spiega la celebre frase che suggella la parabola dell’aristocrazia siciliana al fondo di un’esperienza personale, quella del principe: «Noi fummo i gattopardi, i leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene», immagine dove animali necrofagi sembrano evocare uomini come il capostipite negli «smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati» e nella «doppia fila di antenati corazzati e infiocchettati». Un peccato originale che integra una nemesi, la condanna all’estinzione di una stirpe che cova il germe dell’illecito e della nequizia? La domanda deve trovare risposta nella rilettura dell’opera complessiva di Lampedusa.
Vitello volle scorgere l’ombra di Mario Tomasi nel commento di Lampedusa al Caesar di Gundolf sul mensile “Le Opere e i Giorni”, dove l’autore del Gattopardo teorizza il diritto ad una seconda biografia, «senza confini di tempo o di spazio, che narri l’aggirarsi dell’ombra» e le «conseguenze delle sue apparizioni». Il riferimento alla macchia originaria può sembrare esplicito se di Lampedusa si accoglie l’idea di un uomo che del travestimento e della finzione fa uno stile di vita, tanto da nascondere a se stesso e agli altri il tumore che lo ucciderà. La “naturale tendenza” del principe di Salina «a rimuovere ogni minaccia alla sua calma» è perciò la stessa di Lampedusa che rifugge la realtà e la verità, così come per esempio è sua abitudine gettare via la posta senza nemmeno aprirla, rispondendo a un ideale elusione del presente che è il cuore del Gattopardo. Più che il bisnonno Giulio Fabrizio, il principe ci appare allora lo stesso Lampedusa, trasposto nella coscienza dell’ultimo discendente cui spetta con la propria morte, tanto «corteggiata» e ricercata, di interpretare un destino generazionale ubbidendo al credo in una ananké. Don Fabrizio è il «primo ed ultimo di un casato» tenuto in spregio che nutra dichiarato «disprezzo per i suoi parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano». Lo stesso Lampedusa si sente alla deriva e nell’opera di annichilimento che compie del proprio mondo dorato individua un simbolo della caduta degli dei, per quanto scrive nella lettera al suo amico Enrico Merlo, in Bendicò, che è per lui la chiave del romanzo. Il cane, i cui resti impagliati resistono quasi trent’anni per poi disfarsi nell’aria, salvo ricomporsi nella postrema sagoma di un gattopardo, è «il personaggio» laterale e scorciato che assiste a tutte le vicende incombendo come uno stemma o uno stigma, il segno che l’elemento di maggiore consistenza e durata non appartiene alla natura umana. Nella stessa lettera del ’57 a Merlo Lampedusa rivela anche: «Angelica non so chi sia, ma ricorda che Sedàra, come nome, rassomiglia molto a Favara». E Favara è la roccaforte nella quale il capitano d’arme Mario de Tomasi guida per 22 giorni un saccheggio senza risparmio. Sicché sui modi volgari di Sedàra si possono sovrapporre quelli del primo Tomasi, barone per solo effetto del matrimonio e villano senza emuli: nessuno dei Lampedusa porterà infatti – e non a caso – il suo nome.
Del resto quando, inopinatamente, Lampedusa scorge negli occhi di Concetta «un bagliore ferrigno» e le riconosce «il sangue violento dei Salina», il loro «impeto rabbioso», non può che pensare a Mario Tomasi, il cui spirito nefasto si è trasfuso nell’unica figura di casa Salina che è vista con sfavore (ma anche il figlio Francesco Paolo è gradito appena per la sua «balordaggine», entro un intento di derelizione della propria linea ereditaria a vantaggio invece di quella collaterale propria di un Tancredi il cui sangue è immune da ogni veleno, l’uomo nuovo che «avrebbe potuto essere l’alfiere di un contrattacco che la nobiltà, sotto mutate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico») e che finirà per addirsi al mercimonio di reliquie compiendo dunque, se non reiterando, un reato che suona come rifiuto della vocazione alla santità dei Lampedusa. La «fine di tutto», se tale dev’essere, non può che colpire tutti i componenti di una schiatta nata con un male inestirpabile. E di un male incurabile Lampedusa infatti muore, senza sapere che il romanzo più volte rifiutato avrà un successo al di sopra di ogni aspettativa, ma porterà alla scoperta di una macchia indelebile proprio in capo all’albero genealogico.

© Gianni Bonina

(È vietata la riproduzione anche parziale)

* * *

[Tutte le puntate di Leggerenza sono disponibili cliccando qui]

* * *

© Letteratitudine

LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo

Seguici su Facebook e su Twitter

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/04/28/il-gattopardo-di-giuseppe-tomasi-di-lampedusa/feed/ 0
OMAGGIO A GIUSEPPE BONAVIRI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/13/giuseppe-bonaviri/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/13/giuseppe-bonaviri/#comments Tue, 12 May 2009 22:01:10 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/04/giuseppe-bonaviri/ POST DEL 22 MARZO 2009

Ho appena appreso la notizia. Giuseppe Bonaviri, uno dei più grandi scrittori del Novecento, è morto ieri sera (21 marzo 2009) all’età di 84 anni. L’avevo incontrato di recente – nel mese di maggio dell’anno scorso – presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania. Giorno 19 marzo l’aspettavamo al Palazzo della Cultura in Via Museo Biscari 5, a Catania, per un pubblico omaggio organizzato da Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla in occasione della ri-edizione de «La ragazza di Casalmonferrato», (romanzo del 1954) – La Cantinella. Le condizioni di salute non gli hanno consentito di essere presente.
A lui il mio e il nostro pensiero…
Non aggiungo altro. Ripropongo il post pubblicato martedì, 4 novembre 2008: Omaggio a Bonaviri.
In coda potrete leggere una lunga intervista esclusiva che Giuseppe Bonaviri ha rilasciato a Massimiliano Perrotta (che ringrazio per avermela concessa).
Grazie, Giuseppe, per le grandi opere letterarie e i bellissimi scritti che ci hai lasciato.
Massimo Maugeri

P.s. In data 15 settembre 2011, questo post è stato tradotto in lingua estone e pubblicato qui.

————–

Post di martedì, 4 Novembre 2008
giuseppe-bonaviri.jpgÈ con molto piacere che dedico uno spazio “speciale” a uno dei grandi autori del Novecento letterario italiano: il più volte candidato alla vittoria del Premio Nobel, Giuseppe Bonaviri.
Sarah Zappulla Muscarà, nella sua prefazione alla nuova edizione de “L’infinito Lunare” (Bompiani, 2008, € 9,20, p. 264), lo presenta così: “Giuseppe Bonaviri è nato l’11 luglio 1924, “al canto delle cicale”, a Mineo, paesino alto su un monte, in provincia di Catania, fondato da Ducezio, re dei Siculi. Lì erano nati nel Seicento il padre gesuita Ludovico Buglio che, nel corso della sua lunga vita missionaria in Cina, pubblicò ben ottanta volumi, fra cui la Summa teologica di San Tommaso d’Aquino, in elegante lingua cinese; sempre nel Seicento il poeta Paolo Maura, autore del poemetto autobiografico in dialetto siciliano La pigghiata (La cattura); e nell’Ottocento Luigi Capuana, uno dei maggiori esponenti del Verismo, i cui interessi spaziarono dal giornalismo alla narrativa, alla critica, alla poesia, alla favolistica, al teatro, allo spiritismo. Da queste radici geografiche e antropologiche – “A Miniu li pueti a ccientu a ccientu / pirchì è lu mastru di lu puitari”, come suona il detto popolare – scaturisce il canto, sorretto dalle più variegate letture, di Bonaviri. Il suo esordio risale al 1954, con “Il sarto della stradalunga”, apparso nella collana einaudiana “I gettoni”. Da quel lontano romanzo che, come ben intuirono Vittorini, Calvino e la Ginzburg, rivelava nel giovane sottotenente medico lo scrittore di razza, Bonaviri non finisce di stupirci. “Le sue cortesie sono come i frutti del giardino di Armida, che ‘E mentre spunta l’un l’altro matura’”: così da Mineo il 24 giugno 1884 il conterraneo Luigi Capuana a Federico De Roberto. Lo stesso potrebbe dirsi dei dolci frutti di Bonaviri. Di quelle “possibilità infinite di conoscenza” che gli riconosce Sebastiano Addamo. Gli è che dalla mitica pietra della poesia dell’altipiano di Camuti, contrada di Mineo, odorante “di fior di nepitella e di iris”, “Parnaso siculo”, “Elicona dei rustici poeti”, l’omphalos dei greci, di cui narra anche il medico palermitano studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè, lamento doloroso e nostalgico, specola dell’anima, patria incorrotta della memoria, dalla madre donna Papè Casaccio, “decameron vivente”, dal padre don Nanè, l’ingenuo poeta de “L’arcano”, per misteriose, labirintiche vie ctonie e cromosomiche, Giuseppe Bonaviri ha ereditato il “potere di fare miracoli” che possiede il vecchio “Gesù a Frosinone”. Il potere incantatorio del narratore in grado di dar vita a quella suspension of disbelief di cui parla Samuel Coleridge.”

Mi piacerebbe organizzare un grande dibattito sulla figura di Bonaviri. E per farlo mi avvarrò del supporto della già citata Sarah Zappulla Muscarà (ordinaria di Letteratura Italiana nell’Università di Catania), e della sua prefazione a “L’infinito Lunare”, di cui avete già letto uno stralcio qui sopra; del critico e scrittore Subhaga Gaetano Failla (il quale, tra l’altro, mi darà una mano a coordinare e a animare la discussione), che ci offre un’intervista al celebre autore di Mineo (l’intervista, realizzata insieme alla sorella Valeria Failla, è apparsa sulla rivista cartacea “Orizzonti” n. 26, aprile-luglio 2005); e di Rawdha Zaouchi-Razgallah (italianista e docente di letteratura italiana presso l’Università del «7 Novembre a Carthage» di Tunisi), che ci offre un duplice spunto (e punto di vista) sulla scrittura di Bonaviri.

Nei prossimi giorni aggiornerò il post introducendo alcune immagini e un video da me realizzati nel mese di maggio di quest’anno presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Catania, in occasione di un pubblico incontro con Bonaviri.

Il dibattito è incentrato sulla figura di Giuseppe Bonaviri e sulle sue opere (cercherò di coinvolgere gli amici della Fondazione Bonaviri); ma ne approfitto per proporre un argomento di discussione collaterale che, in parte, abbiamo già avuto modo di affrontare in altre occasioni. Nella prefazione della Zappulla Muscarà a “L’Infinito Lunare” leggiamo il seguente stralcio virgolettato: “Credo che per colui che scrive non per mestiere ogni libro rappresenti come un immergersi in un labirinto di se stesso per entrare dentro, per mezzo delle parole, in un disagio vitale che soltanto con la pagina scritta si può curare”.
Esiste davvero un potere salvifico della scrittura? E fino a che punto la scrittura è in grado di curare il disagio vitale?

Non credo che Bonaviri avrà modo di partecipare al dibattito, ma di certo ne sarà informato in maniera dettagliata.

Massimo Maugeri

________________

L’INFINITO LUNARE – Bompiani, 2008, € 9,20, p. 264
introduzione di Sarah Zappulla Muscarà

Accomunati da un sottile filo rosso, il clima di fiaba, d’onirica, surreale, inquietante evasione dalla grigia e triste realtà quotidiana, in assoluta libertà d’immaginazione, i dieci racconti della silloge L’infinito lunare di Giuseppe Bonaviri, apparsa per la prima volta nel 1998. Teso a colmare, per il tramite di un novellare che è, come in un quadro di Chagall, “perpetuo inseguimento del desiderio”, la sua (e nostra) solitudine di vecchi prometei incatenati, in perenne lotta nell’inane tentativo di svincolarci dai ceppi dello spazio e del tempo. Specularmene vi coesistono le molte sue anime di scrittore, medico, scienziato. Così come dialetticamente vi coesistono sicilianità e universalità. Nella consapevolezza che “tutto è vano travaglio”, “‘noi siamo simili alle foglie che nascono e poi muoiono’ negli incantati boschi di mandorli e querce e pioppi e carrubi della Sicilia, circondata, di là dal comune mare, dall’Oceano che sempre risuona”, e inutili sono “i sillogismi della mente” in cerca di Dio, “ruotante natura”, “aura perfetta”, “Uovo-centrale”: “l’anima muore e rinasce da un gioco di pensieri e d’angosce”. Né vale imprecare “contro quel povero cristo dell’autore”, “uomo musolungo nato per vivere in solitudine”, vocato all’affabulazione, finito per sempre impigliato nel suo stesso teatrino di stupori, che fa confondere “fra realtà e sogno anche noi poveri spettatori”. È la sartriana morbosità di creare, “necessità primaria e univoca”, “fine assoluto e dirompente, di fronte al quale ogni altro accadimento si pone in sottordine”.
Al pari della tela di Max Ernst, L’occhio del silenzio, dove emergono prepotentemente, suggerite dall’inconscio, emblematiche, allucinate immagini di un insoffribile quotidiano, in Martedina il narratore, che s’identifica con l’autore, per quel forte tasso di autobiografismo che ne sorregge l’intera opera, per quel continuo intrecciarsi di piano del vissuto, piano della creatività, piano del fantastico, mal conciliando lavoro e denaro con il guardarsi dentro, col magmatico fluire degli umori, per narcisistico amore di sé votato all’unicità dell’arte, intraprenderà un viaggio interplanetario verso Plutone: “Credo che per colui che scrive non per mestiere ogni libro rappresenti come un immergersi in un labirinto di se stesso per entrare dentro, per mezzo delle parole, in un disagio vitale che soltanto con la pagina scritta si può curare”. La scrittura è sofferenza, ma sofferenza liberatrice, esplorazione dell’io e dell’universo, ricerca di felicità, seducente infermità eppure fonte inesauribile di guarigione, benefica terapia, “per il resto, è caduco il vivere”.
Abbandonata Mineo per sposare Martedina, una ragazza di Casalmonferrato (“‘Di Casalmonferrato?’ mi chiese mio zio Giuseppe quando lo seppe. ‘Sei il primo parente che sceglie la propria donna fuori Sicilia; in Piemonte, per giunta. In qualche punto, la nostra famiglia comincia ad incrinarsi’”), il medico Zephir (sotto il cui nome l’autore anche altrove ama celarsi) si trasferisce a Valfrancesca con la moglie, paga della sua semplice vita, affollata di gozzaniane piccole cose inutili. Ma, gravato dall’indomita inadeguatezza a vivere con colleghi venali, primari, assistenti, nei quali non si riconosce, tenta altre imprese. Liberatosi del lavoro in ospedale, fatto di “ore contate”, di “notti insonni”, di “uomini che muoiono”, per il fallimentare commercio di uova, galline, conigli, il riscatto dalla misera condizione giunge dal cosmo, da un folle volo su una navicella lanciata ai confini del sistema solare. Con gli altri astronauti tuttavia Zephir vive nel ricordo di quanto di più puro ha lasciato sulla terra, ora nostalgico dei domestici lari, degli affetti parentali, dei luoghi dell’infanzia, dei riti, dei profumi, della natura. Per l’inquieto medico (“Figlio, la tentazione non è perdizione, ma inquietudine. Chissà, se non ci sarà inquietudine anche nella morte”) e gli ardimentosi compagni nessun approdo possibile, perduti come sono nell’infinito silenzio della dimensione stellare, lontani anni luce dalla terra, naviganti tra “globi di fuoco candido. E poi vuoto e scuro. E ancora globi luminosi e circolari”, annichiliti infine da “una cascata di mondi e di sonno”: “Il sonno mi venne incontro col rombo di un fiume. (…) E chiamai ’Alqama, Runa, Giamil, Ayala. Mi parve che mio padre, al-Aggiàg, e il vecchissimo nonno Shimon mi venissero incontro dalla sotterranea Alcamuch (…) e di camminare addormentato su un carretto di là, a Zebulonia, il mio paese, verso il piano di Camuti, venendo da Vallenuova, in una notte in cui c’è solo uno scintillio di stelle, e Martedina e mia madre Alulia e i miei figli sono morti e non si sente nessuno, né il vento che chiama i pastori né l’uggiolio dei cani che viene dalle chiuse degli ulivi”.
Si assiste, in Martedina, ad una progressiva rarefazione del vivere. Gli intensi profumi ed i vivaci suoni del mercato, del fiume Liri, dei campi e delle strade di Valfrancesca, si scolorano nella bigia monocromia degli abissi spaziali, pervasi dal buio, dal silenzio, dalla fissità. Al calore della vita quotidiana, rinsanguata da semplici gioie e dolori, a minime e pur intense emozioni, si contrappone il gelo, progressivamente anche interiore, di un viaggio che vuole essere fuga ma che diviene itinerario di morte.
Il Viaggio astrale del “dormiente Zephir” che “dissolse nel sogno l’intricato reale” è ancora “un veleggiar verso la morte” (Arthur Schopenhauer), “inutile polvere stellare”, “annerita spirale” sulla quale si aggroviglia il pensiero speculativo dipanandosi da Eraclito a Platone, da Spinoza a Kant, dall’esistenzialismo al fenomenologismo, dalla teoria della razionalità scientifica all’anarchismo metodologico: “È una forza antigravitazionale che mi sospinge, figlio, / fuori dal dilettoso mondo, costretto io / ormai dall’espansiva ruota di galassie / e supergalassie, mari illimiti che rilucono / in distorsioni di tempospazio che ci intinge / e ci trasfigura, flusso di fotoni anch’io / in una equivalenza massa-energia / e in apparente simultaneità di ritmi stellari”.
L’insistito tema del viaggio, come la scrittura anch’esso sanità, è indomita ansia di conoscenza, inesausta esplorazione esistenziale husserliana, “antinoési”, “anti-pensiero”.
Altro viaggio nel cosmo Giovanni Verga sulla luna, “la commediola buffa” nella quale agiscono, con Verga e il suo immortale personaggio, mastro-don Gesualdo, moderni eroi dell’immaginario infantile, il cartone animato Sailor-moon, il bonario attore comico americano Ollio, un gruppo di cento bambini di cui capomanipoli sono Leopoldo e Niccolò, nipotini dello scrittore, gente comune di tutte le razze, esponenti di una società feroce, regnanti, magistrati, manager, artisti, uomini di malaffare. Un viaggio che ha luogo nell’anno 3223 e origina da quelle terre che “una volta si stendevano fra Vizzini, Licodia Eubea, Mineo, Francofonte, e giù andando verso Scordia e Palagonia” dove “non erano rimasti né boschi di ulivi, né solitari noci, né, altresì, siepi di polverosi fichidindia, o mandorli, o aranceti, né si vedevano volare, nel ventilare del mattino, falchi e sparvieri sui poggi rocciosi”.
In tensione fra essere e apparire, la Sicilia, terra di ancestrali contraddizioni e di stravaganti antinomie, non ha alimentato di sé un giuoco ironico volto a scardinare, o forse burlare, le leggi dello spazio inteso nella sua duplicità di spazio concettuale e spazio percettivo?
Un incessante trascorrere dalla sofferenza umana alla ricerca dell’essere, dall’individuo ai sassi, alle piante, agli uccelli, al firmamento, dal microcosmo al macrocosmo. Ma l’estraneazione dalla realtà, la vena fantastica, la dimensione magica, la metamorfosi, la trasmigrazione e trasmutazione nel tempo e nello spazio, sospinto da un mitico, epico e pur fragile ulissismo, una costante dell’opera in versi e in prosa di Bonaviri, non è disimpegno politico-sociale, giacché su Plutone o sulla Luna reiterati sono i riferimenti critici alla contemporaneità e persistono angosciosi interrogativi, aspirazioni, desideri, sofferenze, malinconie, solitudini. La mente corre al silente universo di Isaac Asimov. O alla “miseria aguzza come selci” dell’infanzia a Mineo, densa di tenaci memorie. E non solo. Caustica la denuncia delle iniquità dei Grandi della terra – “gli adepti alla Massima Associazione per l’incremento dell’Oro” che hanno organizzato “per il progresso della scienza” l’allunamento di violacee astronavi –, politici, le cui ambigue parole dai “toni lugubri” brillano di un “nero opale”, cardinali “che non amano Cristo”, industriali, ministri, mafiosi. Scopo della missione studiare le modalità per distruggere la Luna “di grosso ostacolo alle relazioni umane interplanetarie”; utilizzare i “picciriddi”, i “poveri children”, per i trapianti d’organi e per creare un circuito di clonazione degli “Eletti”; risolvere il problema “di milion di milion di milion di milioni” di disoccupati lanciandoli “nel sistema planetario e oltre”. Un potere col tempo sempre più spietato. Una satirica messa in stato d’accusa dell’umanità intera con swiftiano sguardo ilare e amaro come in La Beffària. Mentre “scrittori e scrittorelli, poeti e poetucoli, pittori e dipintori, scalpellini, scultori, attori, attrici e attricette pampanose”, cantautori “dalle chitarre ripiene di miliardi” sono preda di uno “sconfinato narcisismo” e Beethoven si rammarica di non aver mai pensato ad una “teoria musicale, con aggiunti pentagrammi, dei suoni fecali e stercoracei”, di certo “immortale per… la storia dell’uomo”.
In sovvertimento cronotopico, vi affiora il lucido farneticare della ragione e della fantasia della fiaba teatrale Giufà e Gesù, dove medesimi ingredienti – il narratore-cantore di cui si ode soltanto la voce, il cartone animato fatto con “carta, polistirolo, pongo, colori, creta, juta, sensori, fili e filetti intrecciati, resine, e terra d’ocra”, i bambini, con a capo Leopoldo e Niccolò, approdati sulla Luna stavolta per essere salvati, il musicista Beethoven, la commistione di prosa e versi – sono amalgamati con funambolica visionarietà e deflagrante accusa dei mali, delle storture, delle follie della società contemporanea.
Una sotterranea carica eversiva, umoristica, parodistica, percorre la scrittura bonaviriana. Come quando Ollio ricorda che i pescatori delle sue scogliere di San Francisco tiravano a riva reti piene, oltre che di gozzi, meduse, polipi, dentici, saraghi, saramaghi, pescispada, di “pesci-fo ridenti” e perfino di “pesci-d’alema con baffetti da cui nascevano i pensieri”; o racconta la fiaba di un mondo dove tutto succedeva alla rovescia, “se uno ammazzava dieci, venti, o quaranta persone facendo finta di pentirsi diventava collaboratore di giustizia e, a poco a poco, salendo nella scala gerarchica, giudice di prima istanza”; dove tutti volevano divenire miliardari e regnanti, una corsa all’oro che “si scovava anche fra la cacca degli uomini”; dove “i Regni si creavano e si ottenevano subito con le guerre”. Né mancano Elena di Troia, “oh, no, sbaglio, di Troina in provincia di Enna”, lady Diana Spencer, che “piange i suoi perduti amori nel buio della morte”, torte che parlano, “Skis, kisses, love, love, love! slaping, sfz sfrytstz”.
Ricorrente il vezzo, nel perpetuo travaso tra vissuto e immaginario, di ancorarsi a propagginazioni intrafamiliari e cromosomiche, di accennare insistentemente a sé, agli amici, di sottolineare date e particolari minuti della propria quotidianità, come a fissarne il ricordo, a difendere un intero patrimonio di affetti, emozioni, cultura, lentamente stratificatosi, dall’inesorabile trascorrere del tempo. Disperato ancoraggio ad un territorio interno che garantisca, con Salvator Dalì, La persistenza della memoria. Fotografie di sogni fatti a mano con l’intento di materializzare immagini irrazionali.
“Solo i saggi e gli stolti non sognano, mentre singolari sono i sogni di coloro che nutrono emozioni speciali, diverse, originali”, con Feng Menglong. Peculiarità del sogno l’analogia con l’esperienza passionale, con cui condivide l’illusoria libertà, che dilata e comprime tempo e spazio in modo irreale. Al fondo permane il mistero che il sogno solleva sulla nostra identità. “Il sogno ci rende libero l’animo” dichiara don Chisciotte nella “commediola in due atti senza epilogo” Il giovin medico e don Chisciotte dove al medico in un cronicario Michele Rizzo, impotente a curare, non rimane altro, “ragionier della morte”, che registrare “vecchi che muoiono e muchachos morti, mai nati”, vale a dire gestire oniricamente un camposanto.
Uno straniante orizzonte metaforico, un festoso guazzabuglio di citazioni e autocitazioni, una fantasmagoria linguistica che mescida insieme in un variopinto, stravolgente cocktail, stilemi e favelle diverse, trecentismi, arcaismi, aulicismi, dialettismi, neologismi, lessico scientifico, grecismi, inglesismi, spagnolismi, arabismi. E l’espediente della prorompente contaminatio, del divertito pastiche, l’accumulo scoppiettante di simboli, assonanze, onomatopee, è teso a cogliere segrete vibrazioni, intime risonanze, saporose sonorità. L’ironia (e l’autoironia) non può non investire pure l’inventività, l’originalità della scrittura, elusiva, allusiva, efflorescente, in virtù della quale le formiche guardano “in piagnimento” (giacché i suoi nipotini “non hanno mai visto delle formiche in pianto, ma in piagnimento sì”); i disoccupati “ – i jurnatari – aspettavano, zappa o zappulla in spalla, la mattina in piazza per essere ingaggiati”. E ancora, ma stavolta “dell’errore ebbero orrore e orripilarono i dottori in lettere”, la ranocchia “insegnante” nella “rabbiosa fretta sbagliando disse: Qual’è, qual’è, qual’è?” (Il popolo delle rane); e il corvo Cratete “si sarà a capofitto buttato, chiudendo volutamente le penne rematorie (non meglio ‘remiganti’?)” (Cratete ovvero Compilatio singularis di luoghi arpinati).
________________

INTERVISTA A GIUSEPPE BONAVIRI – dalla rivista “Orizzonti” n. 26, aprile-luglio 2005
di Subhaga Gaetano Failla e Valeria Failla

Devo l’incontro con le opere di Giuseppe Bonaviri ad un giorno fortunato d’estate di molti anni fa. Vagavo per le strade di Tropea con alcuni amici. In una libreria si vendevano libri a prezzi scontati. Guardai, mi impolverai le dita, ma nessun libro mi attraeva. Poi, un titolo mi catturò: La divina foresta di Giuseppe Bonaviri. Lessi il libro in una spiaggia assolata del Tirreno meridionale. In epigrafe aveva una frase di Empedocle: “Perché un tempo fui fanciullo e fanciulla, arbusto e uccello e muto pesce del mare”.
La scrittura magmatica, sontuosa, m’incantò e mi trasportò in un tempo immobile, sospeso.
Nelle settimane, nei mesi che seguirono, rivelai la scoperta ad un paio d’ amici e a mia sorella, con la quale ho preparato questa intervista. La passione per la scrittura di Bonaviri ci accomuna ancora oggi, simili a cercatori che parlano a bassa voce d’una lontana miniera d’oro. Finalmente, poi, quasi due anni fa, sono andato a Frosinone a far visita allo scrittore.
Abbiamo passeggiato insieme vicino alla sua casa, in un pomeriggio di fine estate. In tempi così carichi di stili aggressivi, di arroganza politica, di idiozie televisive incontrare un uomo siffatto, con un’aura di bontà, di semplicità e saggezza è davvero inconsueto. Alla mia partenza, mi ha atteso sulla porta per donarmi un sorriso e un ultimo saluto.
Giuseppe Bonaviri ha pubblicato oltre trentacinque opere, di prosa e di poesia, tra le quali anche un volume di saggi (L’arenario, Rizzoli, 1984), è stato più volte candidato al Nobel, tradotto in molte lingue, perfino in cinese e arabo, di lui hanno scritto in Italia Vittorini, Calvino, Sciascia, Manganelli, Gramigna, Manacorda, Pampaloni (mi fermo qui, l’elenco è lunghissimo), eppure egli oggi non ha qui da noi, a mio parere, un riconoscimento adeguato alla sua grandezza.
Bonaviri è nato a Mineo (Catania) l’11 luglio 1924, primo di cinque figli del sarto don Nanè e di donna Giuseppina Casaccio. Si laurea in medicina a Catania nel 1949, frequenta poi il corso allievi ufficiali a Firenze, è ufficiale medico a Novara ed in seguito viene trasferito a Casale Monferrato. Ritorna a Mineo, dove svolge la professione di medico prima, poi di ufficiale sanitario. Nel 1957 lascia la Sicilia per sposarsi con Lina Osario e trasferirsi in Ciociaria. Da allora vive a Frosinone, dove ha svolto la professione di medico cardiologo fino alla pensione. Ha due figli: Giuseppina ed Emanuele.
Su uno dei suoi primi ricettari di medico termina di scrivere Il sarto della stradalunga. Il romanzo viene pubblicato nel 1954 nella collana “I Gettoni” della casa editrice Einaudi curata da Elio Vittorini, il quale a proposito dell’opera sottolinea il “senso delicatamente cosmico col quale l’autore rappresenta il piccolo mondo paesano su cui c’intrattiene, trovando anche nelle erbe e negli animali, nei sassi, nella polvere, nella luce della luna o del sole, un moto o un grido di partecipazione alle povere peripezie del sarto e dei suoi”. Molti anni dopo Italo Calvino in Notti sull’altura (Rizzoli 1971) sembra ritrovare quel “senso delicatamente cosmico” di cui parlava Vittorini. “I personaggi del romanzo” scrive Calvino nell’Introduzione “si sparpagliano a raggiera sulla mappa di questa Sicilia fatta di tutti i tempi e tutti i luoghi, e decifrano come in una fitta rete di corrispondenze misteriche i segni dei minerali e le metamorfosi delle piante…”
La scrittura di Bonaviri “sente il fascino del divino”, osserva Luca Orsenico in una recente intervista, ed è intimamente legata ad “una sacralità non confessionale”, come dice nella stessa intervista l’Autore. Le sue narrazioni tornano interminabilmente alla sua natia Mineo e attingono a quegli “aspetti metafisici” dice Bonaviri “che noi bambini un tempo, sia quando andavamo in vacanza con la nonna che aveva perso ben diciassette figli su ventiquattro, sia quando andavamo a scuola la mattina verso l’alba, percepivamo con chiarezza, tanto è vero che scuotevamo gli alberi per svegliare gli spiriti che secondo noi stavano ancora dormendo”. E di aspetti metafisici è ancora intessuto, in una narrazione commossa, memorabile, l’ultimo romanzo Il vicolo blu (Sellerio 2003), mentre nella nuova raccolta di poesie I cavalli lunari (Scheiwiller 2004) anche il corpo umano diventa materia poetica, espressa con l’intensità di straordinarie illuminazioni.
Nella scorsa estate, a Mineo, in occasione dell’ottantesimo compleanno dell’Autore, si è svolto un convegno che ha ospitato traduttori dell’opera bonaviriana provenienti da varie parti del mondo, ed è stata inaugurata una “Fondazione Bonaviri” che si occupa dello studio e della valorizzazione della sua opera.
Nell’intervista che segue, svolta telefonicamente, il lettore perderà – inevitabilmente – l’ascolto della voce di Bonaviri, profondamente immersa in modulazioni siciliane, dolcemente musicale, simile ad un canto d’antichi poeti proveniente da un mondo d’armonia.
- Le sue biografie dicono che lei ha cominciato a scrivere a otto anni. Mi può parlare del suo incontro con la poesia e la scrittura?
Tenga presente che io sono nato a Mineo in provincia di Catania, un paese che si trova ad altitudine di 500 metri, e che Giuseppe Pitrè, il grande folklorista, definiva il Parnaso Siculo, in quanto tra contadini e artigiani e anche analfabeti c’era almeno il 20% di persone che poetavano. Per cui il mio impatto, il mio contatto, il mio primo incontro con la poesia è stato facile perché ce l’avevo attorno: tutti poetavano, mi sembrava una cosa usuale. E cominciai a scrivere qualche poesiola attorno agli otto anni. Poi, un certo criterio secondo me più qualificante, mi portò a incominciare a scrivere a quattordici anni tre romanzi, in uno dei quali, dal titolo “Un omicidio tra i selvaggi”, c’è la storia di un giovane che per una ragione amorosa ammazza il padre e la madre. Mi pare che anticipava ampiamente tutti questi massacri sia librari che reali che ci sono oggi. Le poesie a cui cominciai a credere iniziai a scriverle a quindici anni, a parte quelle scritte prima.
- Perché, nonostante l’iniziazione precoce alla scrittura, ha poi scelto di laurearsi in medicina?
Beh, a me pareva di poter imparare un mestiere di cui ero in quel momento affascinato. Forse perché ero in piena guerra quando mi sono iscritto, nel ‘43. Si avvicinava questa era tecnologica, nuova, ansiosa e ansiogena che ci è arrivata dopo il Cinquanta, dopo la fine della guerra. È stata forse una intuizione o meno, cioè fui affascinato dall’idea di fare una sperimentazione, delle sperimentazioni, sul nostro corpo: il mio sogno primo era di fare in modo che gli uomini – Dio ne liberi – non dormissero più, così si guadagnavano molte ore di attività, di psichismo, e così via.
- Il lavoro di medico ha sicuramente assorbito buona parte del suo tempo e poi c’era anche la famiglia da tirare su. Come è riuscito a soddisfare la passione per la scrittura?
È stato indubbiamente lavorare il doppio, ho faticato molto perché ho fatto sempre il medico. Tra l’altro non ho nemmeno diritto alla pensione, dopo tanti anni come specialista cardiologo nella Unità Sanitaria tra Frosinone e Ceccano. Eravamo considerati dei lavoratori autonomi esterni. Adesso questa legge è caduta. E quindi praticamente è stato un doppio lavoro. Non c’è rapporto tra la scrittura e il lavoro di medico. Il solo rapporto consiste nel fatto che come medico sono sceso – ho detto più di una volta – nei labirinti del dolore umano. Ho un’esperienza che tanti altri che sono scrittori qualificati, o tali si credono, non hanno assolutamente. Una vasta esperienza anche della gioia, della guarigione.
- Lei da quasi cinquant’anni risiede a Frosinone. Come vive questa distanza dalla Sicilia?
A lungo andare ci si crea un lavoro, una famiglia, dei nipoti che vengono a integrare gli affetti perduti. Ho perduto due sorelle, per ictus, mio padre, mia madre, mio fratello. Siamo rimasti in due: io sono il più vecchio. È come trasferire un albero da una zona ad un’altra zona. L’albero a poco a poco si adatta ai venti, all’humus.
- Nelle sue opere la trama narrativa è impregnata di elementi del mondo arabo. In che modo si è avvicinato a questa cultura?
Sono memorie infantili che mi arrivavano attraverso le fiabe di mia madre e così c’è anche il recupero, scorporato, di quello che è stato. È sottinteso che ormai non c’è quasi niente, tranne i residui archeologici. Il siculo di per sé non amava gli arabi, perché li considerava anti-cattolici.
- La morte nella cultura occidentale subisce un costante processo di rimozione, nelle sue opere invece è un tema ricorrente. Mi può dire qualcosa al riguardo?
È un tema ricorrente un po’ perché per natura sono pessimista e temo, temo, che per tutti al di là della morte non resti niente. Se noi potessimo raccogliere tutte le ossa di miliardi e miliardi di persone morte e lanciarle con dei razzi – oggi facili da avere – nel sistema planetario, tutte queste ossa (per darne un valore cosmico divino) diventerebbero miliardi, miliardi e miliardi di piccoli satelliti di Mercurio, di Marte, ecc. E io spero solo che la morte valga nel senso, non della memoria che lasciamo agli altri, ma d’un qualcosa che realmente ci fa sopravvivere come unità pensante, anche se per poco tempo. Non riesco ad aderire completamente alla visione soteriologica del cristianesimo.
- Il suo paese natale, Mineo, patria anche di Luigi Capuana, ha rappresentato, come mi diceva, una sorta di Arcadia Siciliana. Cosa è rimasto per lei di quella esperienza?
Sono vissuto in Sicilia fino a venticinque anni. Non sono mai uscito dalla Sicilia prima di quell’età. Allora era difficile anche avere il denaro per andare, fuori. Sono andato via per fare il corso di allievo ufficiale medico a Firenze e poi ufficiale medico in Piemonte. E stata una grande esperienza, in quanto ho conosciuto qualcosa di assolutamente nuovo e diverso dalla Sicilia. Ma l’infanzia è stata per me il Giardino delle Esperidi: tante deità che immaginavamo presenti negli alberi, nella pioggia, gli spiriti, i racconti, le fiabe di mia madre, la miseria, il senso filosofico dei poveri, i proverbi. Insomma, un mondo sconfinato.
- Nel suo più recente libro di poesie “I cavalli lunari” viene cantato il corpo umano nel suo aspetto biologico. Da cosa scaturisce questa scelta poetica?
Beh, un bel momento io mi son detto che la poesia sempre punta su temi apparentemente un po’ superiori a quelli che sono i momenti contingenti della nostra esistenza. In fondo ancora seguiamo, secondo me, un filone petrarchesco che pone sempre temi delicati, angelicati, superiori. Mentre ci sfugge che, per esempio, dentro di noi, dal cavo orale all’estremità anale, abbiamo circa un milione di miliardi di batteri. Essi sono con noi. E perché non guardare, non porre questo su un piano o su un tentativo di farne poesia, quando sono elementi unicellulari che vivono con noi? E perché non dare importanza al sudore del nostro corpo, al cattivo odore, ai buoni odori, cioè al corpo come corporalità, come un insieme di organi ben armonizzati tra di loro? (finché c’è la salute…).
- Gennaro Savarese afferma che il suo stile non può che provenire da “quel Mezzogiorno d’Italia dove (…) i confini tra scienza e fantasia, pensiero e immaginazione sono stati sempre assai più incerti che in altre aree culturali italiane”. Condivide questa analisi?
In passato indubbiamente era così. Ma adesso credo che sia tutto uniformato, ormai, tranne per quel che riguarda tradizioni locali oppure differenze di ordine socio-economico (di lavoro o meno) che esistono tra Nord e Sud, una certa educazione che al Nord è più “austriaca”, nel senso migliore della parola, e al Sud invece è più disordinata. Ma in passato presumo che – settanta o ottanta anni fa – questa linea sfumata, incerta c’era..
- Nella mia infanzia (sono di origine calabrese) c’era una sorta di divieto di uscire nella cosiddetta controra, nel dopopranzo assolato dell’estate. “Non andate in giro all’ora delle streghe” diceva mia madre a noi bambini…
Beh, anche per noi c’era questo divieto. Non dormire in campagna sotto i noci anche, perché altrimenti i noci ti portavano appresso. Voci strane, presenze improvvise di spiriti… E lo stesso vale per la controra. Era quasi come un uscir fuori dalla luce usuale che ci spetta, che è la luce del mattino. La controra inizia ad avvicinarsi al crepuscolo e alla sera, in cui tutto si rovescia, per cui anche il nostro modo di rapportarsi col mondo visibile o invisibile, ammesso che l’invisibile ci sia. C’è una grande linea discordante: la linea discordante tra spiritelli, voci, fantasmi, morti, essenza di morte.
- Definirebbe, come Pirandello, l’assegnazione del Nobel, a cui lei più volte è stato candidato, “una pagliacciata”?
Beh, una pagliacciata no, perché altrimenti tutte le cose della vita sono, gira e rigira, una pagliacciata. Anche presentarsi con una tesi di laurea e prendersi una laurea… è un premio a cui a poco a poco tutti hanno dato importanza, si è creata questa fama. Sono in 15-16 membri scelti e cooptati, dopo la morte di qualcuno sostituiti, ed hanno anche le loro amicizie, le loro simpatie, le conoscenze. Se tiene presente che non esiste un italianista, la lingua italiana non è conosciuta. Ecco perché spesso sono più favoriti quelli che scrivono in inglese. Poi, c’è una visione ancora un po’ tardo-antimarxista, una specie di borghesia illuminata che pensa sempre al testamento di Nobel, il premio si deve dare a coloro i quali dicono qualcosa di nuovo per la società, per far migliorare la società. Se si parla del cosmo, di spiriti, di un mondo pieno per l’appunto di presenze, di deità – vero o non vero – loro istintivamente si allontanano. Ed inoltre alcuni componenti cercheranno di imporre i loro giudizi in seno al collegio. È una cosa umana come tutte le cose umane. Il motivo per cui abbia assunto una tale importanza dipenderà dal fatto che l’uomo ha bisogno sempre che ci sia un qualcosa che diventi il vertice, il re, il genio. Noi uomini abbiamo sempre bisogno del padre, di puntare su qualcosa che sia il vertice della forma mentale, il vertice della cultura, il vertice della capacità guerresca, il grande guerriero, e così via.
- Nelle righe conclusive del suo ultimo romanzo “Il vicolo blu”, da me amatissimo, si legge: “E in un bel suono, Linuccia disse – Ritornerà la luce. Non la sentì nessuno, solo io e mio fratello, che ora non c’è più.” Avrebbe voglia di dirmi cos’è questa luce?
La luce… Mi devo un po’ rifare a quanto diceva il sarto: “…scrivendo, comprendere che il mondo dovrà migliorare” (dalle prime pagine del romanzo di Bonaviri, “Il sarto della stradalunga”, Nota degli Autori), cioè che ci possa essere un miglioramento nella visione culturale, religiosa, etica del mondo. Però, il solo fatto che mio fratello che era morto l’ha sentita e solo io poi sono rimasto a sentirla lascia una grossa banda di incertezza. Questa luce che arriverà o che dovrebbe arrivare… Spero questo non sia sfuggito: uno solo rimane a sentirla questa voce, e l’altro che l’ha sentita è morto, quindi già significa che c’è una zona di buio, di incertezza.

________________

LA SCRITTURA DI GIUSEPPE BONAVIRI
di Rawdha ZAOUCHI-RAZGALLAH

Bonaviri è un autore che fa riflettere sulla vita, sulla politica, sull’Italia, sulla metafisica, sulle relazioni umane, sulla natura, sulla scienza, sulla scrittura.
Nelle sue opere cerca di cogliere non la storia di un individuo o di un momento della civiltà, ma l’unico fare del mondo, di tentare la trascrizione di quello che solo la scienza ha appena toccato, di dare alla materia una credibilità poetica e di inventare infine, un supporto narrativo nel quale le luci ed i suoni, il cielo e la terra, gli animali e gli uomini si ci riparano.
Nei suoi scritti, introduce numerosi argomenti scientifici. Questo elemento potrebbe restituire all’uomo d’oggi, dopo la perdita delle certezze religiose, una conoscenza scientifica secondo la quale, nell’universo ciò che esiste, è destinato ad esistere anche se è opposto a continue ed imprevedibili metamorfosi.
Quanto all’itinerario linguistico di Bonaviri, è orientato verso la scoperta di un’unità primaria seppellita dalla superposizione di strati ed in questa discesa verso le zone profonde della vita e della psiche, lo scrittore deve recuperare una lingua immortale e quindi sente la necessità di inventarla per dare una forma poetica ai suoi fantasmi.
La valorizzazione di nuovi fonemi, il recupero di un lessico ai limiti del barocco, i prestiti chiesti alla filosofia, guidato da una vena ispiratrice quasi costante, riescono a dare vitalità ai racconti.
A ribadire la sua originalità di scrittore impegnato nella ricerca personale a carattere universale, possiamo dichiarare che G. Bonaviri non può essere schierato con nessun movimento letterario. L’autonomia di uno scrittore è quindi una costante nel discorso di Bonaviri. Lo scrittore, oggi, più di ieri, è chiamato ad esprimere la sua propria visione del mondo per non cedere a sollecitazioni non ubbidienti a ragioni profonde e che non possono trovare una giustificazione, morale e storica nell’ambito di una vocazione reale dell’atto di narrare.

________________

LA LETTERATURA FANTASTICA DI GIUSEPPE BONAVIRI
di Rawdha ZAOUCHI-RAZGALLAH

La definizione del fantastico nel dizionario Garzanti è prima di tutto: “che concerne la fantasia”, la seconda definizione è: “che è frutto della fantasia; per estensione irreale, strano o è una cosa che ha troppo del fantastico, per essere credibile”; dal senso antico, bizzarro, stravagante, dal latino tardo: phantasticus, dal greco phantastikós, deriva di phantάzein “far vedere, mostrare”.
La letteratura fantastica è un tipo narrativo che si basa sull’angoscia oppure sullo spavento causato dai fenomeni inspiegabili. Il fantastico nasce da una tensione tra realtà che serve da cornice al racconto e fenomeni che la scienza non può spiegare.
Il fantastico è l’hésitation provata da un essere che conosce soltanto le leggi naturali di fronte ad un avvenimento soprannaturale ad esempio, «I cavalli lunari che volano»: l’aspetto fisico dei cavalli lunari; «la femmina era fornita da una criniera azzurra; il maschio, da criniera rossa».
(…)
Dagli anni Sessanta, abbiamo visto un’evoluzione nell’interpretazione della letteratura fantastica. La critica, meno sotto l’influenza delle ideologie politiche, si è orientata verso un vero apprezzamento di una poetica specifica. Numerosi autori sono stati riscoperti o riletti sotto una dimensione nuova ponendo come base d’analisi il riconoscimento delle potenzialità creative del linguaggio.
La letteratura fantastica italiana e contemporanea ha visto la sfilata dei suoi massimi autori come Pirandello, Bontempelli, Landolfi, Calvino, Vigolò e Buzzati che sono stati incompresi dai lettori italiani. Questa letteratura faceva vivere, di nuovo, polemiche d’interpretazione e di critica. Non si arrivava a delimitare il “genere”. Da Todorov a Vax, a Caillois, a Bessière, a Ceserani e Lugnani, i critici ed i teorici del fantastico, nel sottolineare la sua problematica, insistono sul bisogno vitale di realismo di cui il fantastico ha bisogno per nascere e per sussistere. Ma, anche per dimostrare quanto il reale ha i suoi limiti.
A questo proposito, Leonardo Lattarulo, facendo uno storico dell’evoluzione del fantastico italiano, scrive:
L’autorità di uno scrittore celebre come Scott poteva dunque suffragare una persuasione che per altro era già largamente presente nella cultura italiana: quella del carattere essenzialmente nordico e germanico del fantastico e della sua difficile adattabilità alle condizioni culturali e morali italiane.
Nel cuore della crisi degli anni Sessanta, alla ricerca di un’identità nuova, il fantastico permette a numerosi scrittori di manifestare la loro preoccupazione e la loro insoddisfazione davanti alla realtà umana e quotidiana. Una nuova concezione del mondo si esprime in un idealismo magico in cui la vita subisce un dualismo permanente del mondo interno con quello esterno. Il bene ed il male s’intrecciano. Il malessere quotidiano induce l’autore a scrivere storie e novelle che trasportano il protagonista ed il lettore in un mondo diverso e bello con possibilità di interferenze tra il verosimile e l’inverosimile. E’ un’evasione liberatrice.
Fra questi autori, Giuseppe Bonaviri si singolarizza per la polivalenza dei suoi scritti. La loro varietà e la loro molteplicità ci fanno sentire l’estrema erudizione e vena narrativa dell’autore.
(…)
Molto spesso, Giuseppe Bonaviri inizia i suoi racconti con un’introduzione o con una nota come paratesto che utilizza per spiegare lo scopo della sua scrittura. Attraverso queste didascalie siamo illuminati dalle tappe della sua vita, dall’importanza che hanno i luoghi della sua infanzia (la Sicilia) ed i personaggi che l’hanno accompagnato durante la sua carriera. Vedremo come queste note caratterizzano la personalità dell’autore dove il ritorno alle origini è una costante nella sua biografia. “La nostalgia delle origini” è ricercata da numerosi scrittori ma in Bonaviri, è cosmica.
Vittorini, scoprendolo nel 1954 e presentandolo ai lettori, insiste su questa realizzazione dell’universo cosmico nell’opera di Bonaviri. La maturità narrativa gli permette di coniugare la verità alla fantasia. Con un dato reale, egli descrive un viaggio attraverso un paesaggio dando una conoscenza approfondita di tutti gli elementi che compongono la vita sulla terra e nel cosmo. L’uomo scientifico s’associa allo scrittore (Giuseppe Bonaviri è un chirurgo cardiologo). Questi due aspetti sono fondamentali nella vita dello scrittore.
Bonaviri è uno scrittore che ha la facoltà di dare elementi metafisici e trasmigratorie ad ogni creatura, ad ogni essere vivente una memoria di civiltà antiche seppellite. E giustamente, è in un fiore, in un albero, in un ramo che questi esseri viventi ritrovano il loro legame con il presente. La Sicilia, il suo paese natale, è la terra vivente e mitica dei suoi scritti. Tutto ritorna a questo mondo contadino che l’ha segnato profondamente. La nostalgia della felicità si traduce in lui nelle reminiscenze della sua infanzia, delle sue letture, delle persone care che sono vissute con lui. Franco Zangrilli ci conferma questo fatto:
La divina foresta (1969) apre un’altra fase della attività creativa bonaviriana. Ci presenta la visione cosmica di una natura consapevole a tutti i livelli. Una visione originale, sebbene si possano rintracciare lontani antecedenti nella Bibbia, in De Rerum Natura di Lucrezio, nelle Metamorfosi di Ovidio, e in Dante. E’ una favola che, a differenza di Martedina, persegue un viaggio di scoperta all’interno della natura sviluppando un religioso legame con essa. Si ambienta nel paesaggio naturale dei dintorni di Mineo, trasformato dalla fantasia dell’autore in un paesaggio primordiale. Mineo quindi viene qui scelta come località edenica, i cui primi abitanti anziché uomini sono dapprima il narratore Fermenzio, una particella appena cosciente, poi Senapo, una piantina di borragine, infine Apomeo, un avvoltoio, circondati da personaggi minori altrettanto coscienti. […] Si tratta di personaggi filosofi la cui meditazione si concentra spesso su idee universali.”
Italo Calvino, in una nota introduttiva a Le notti sulle alture di Giuseppe Bonaviri, presenta questo libro come “un delirio multicolore” dove si realizza un complesso e fantasmagorico universo che implica le materie difformi, dall’occultismo all’alchimia, dalla scienza all’etnologia con voli fantastici che non dimenticano mai le dimensioni del vero e del reale.
(…)
Gennaro Savarese nel suo articolo su Giuseppe Bonaviri lo presenta così:
L’interesse principale di Bonaviri non è l’uomo in sé, in chiave psicologica o naturalista o neorealista; ciò che l’attrae è un essere particolare che sente, immagina e indaga, tuffato in una natura scarsa, lontana dalle sue tre dimensioni tradizionali e messa a nudo nelle sue frontiere: quarta dimensione, campo di metamorfosi tra gli elementi ed i regni naturali, spazio tra vita e morte e viceversa.
Bonaviri stesso dice:
I miei orientamenti scientifici mi hanno dato di più la dimensione inquieta di uomo del nostro tempo. Chi conosce la possibilità e i limiti di una interpretazione scientifica del mondo, è preso in un primo momento da una vampa di conoscere quello che c’è oltre il visibile, ne vuole rielaborare i dati ricavati per impastare nuove possibilità; ma in un secondo momento si accorge che la suprema sapienza si trova in un nostro segreto equilibro circolarmente consonante col cosmo.
Certamente, il contatto con i malati gli è servito per entrare nei meandri dell’io, delle paure, dei sogni, delle trepide speranze, a contatto carnale con gli abissi dell’io piagato dal morbo.
Ci poniamo quindi la domanda: perché Bonaviri è uno scrittore che utilizza il fantastico nella sua opera? E’ il fantastico secondo i criteri di Heinrich Heine o Walter Scott. Tanti dibattiti intorno a questo genere sono stati discussi tra gli intellettuali italiani perché non si riesce a dare un’etichetta agli autori italiani di stampo fantastico. Gli scrittori italiani fantastici non sono simili a scrittori fantastici come gli autori americani, tedeschi o francesi (Poe, Hoffman, Maupassant o Kafka). I critici italiani l’hanno sentito e sottolineato nelle loro antologie critiche. Il genere fantastico italiano è diverso degli altri perché è poetico e basato su una cultura diversa e differente. Alessandro Scarsella pensa che si debba analizzare la letteratura italiana da un punto di vista nuovo: quello di una definizione trasversale. A questo proposito, egli dichiara:
A dispetto d’ogni più ragionevole criterio economico, la definizione prevalente del racconto fantastico si propone, nel suo complesso, come una costante di natura metastorica fissata nell’intersezione di più generi e sottogeneri narrativi. Mentre ciò che in qualche modo inibisce il ricorso alla pura storicizzazione è, evidentemente, l’aver identificato nel fantastico l’asse portante di una poetica, o come teoria della letteratura non mimetica ovvero, in ultima istanza, come confutazione dello sperimentalismo. Omogeneo ma divergente, questo atteggiamento si riscontra puntualmente nelle definizioni prodotte, con maggiore o minore incisività, da Calvino, Manganelli, Bonaviri, Sandro Canotto, Roberto Pazzi, in parte da Sgorlon e da Malerba, ed infine, ed a parte questa volta, da Ottieri. Vale a dire che, irriducibile ad una definizione di scuola, il fantastico si afferma trasversalmente come cifra di poetica duttile ed adattabile.
Giuseppe Bonaviri non è stato classificato ancora perché risponde a tutte le attese del lettore.

(tratto dallo studio di Rawdha ZAOUCHI-RAZGALLAH – LA SCRITTURA FANTASTICA DI
GIUSEPPE BONAVIRI in due opere: “La divina foresta” e “Il dottor Bilob”)

———————

AGGIORNAMENTO DEL 9 novembre 2008

Come promesso, aggiorno il post con un video e foto tratte da un incontro pubblico con Giuseppe Bonaviri (finalizzato ad omaggiarlo) organizzato il 30 maggio 2008 presso la Biblioteca Ursino Recupero della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania.
Nel video (purtroppo la qualità dell’audio e delle immagini non è ottimale) Giuseppe Bonaviri ringrazia per l’organizzazione dell’evento. Nelle foto, oltre all’ottantaquattrenne Bonaviri, sono riconoscibili – tra gli altri – Sarah Zappulla Muscarà e la scrittrice e poetessa Maria Attanasio.

bonaviri-1.jpg

bonaviri-2.jpg

bonaviri-3.jpg

———–

BONAVIRI CONTROVENTO

di Massimiliano Perrotta

Tutto comincia da Mineo. In questo piccolo paese siciliano Giuseppe Bonaviri era nato nel 1924 e proprio Mineo è il centro dell’universo letterario dello scrittore. Dopo la precoce rivelazione della sua vena poetica, nel 1938 si trasferì a Catania dove conseguì la maturità classica e si laureò in medicina. Nel 1954, scoperto da Elio Vittorini, Einaudi pubblicò Il sarto della stradalunga. Seguirono una trentina di volumi tra narrativa, poesia, teatro e saggistica.Nonostante il grande amore per
la Sicilia, dal 1958 visse a Frosinone esercitando la professione di medico. Sposato con Lina, ebbe due figli e quattro nipoti.

Bonaviri è uno scrittore complesso. In un certo senso è il tipo di autore che riscrive sempre lo stesso libro, in un certo senso è un artista dai volti numerosi. C’è Bonaviri lo scrittore moderno. Bonaviri il nuovista, lo sperimentatore, il romanziere che si diverte a  giocare con i codici narrativi.

C’è l’affabulatore bizzarro che inframmezza con notazioni stralunate e con nonsense le considerazioni filosofiche dei suoi personaggi. Un’ironia novecentesca, la sua, che da un lato alleggerisce il testo rendendolo più divertente, dall’altro lo complica aprendo la porta a non univoche interpretazioni.

C’è l’uomo contemporaneo curioso della scienza che verrà e c’è il custode della memoria familiare, ossessionato dai ricordi che chiedono di essere trasfigurati in simboli letterari.C’è il realista magico, il narratore funambolico, il poeta immaginoso…

C’è Bonaviri il siciliano, figlio di una generazione eccezionale: quella di Leonardo Sciascia, di Bartolo Cattafi, di Stefano D’Arrigo, di Angelo Maria Ripellino, di Sebastiano Addamo,  di Gesualdo Bufalino… Bonaviri siciliano fino al midollo che come tutti gli scrittori isolani sembra condannato dalla propria terra madre a parlare ininterrottamente di lei.

C’è il Bonaviri dormivegliante. In molte narrazioni, come nel dormiveglia da lui studiato e fantasiosamente romanzato, c’è una realtà riconoscibile i cui contorni progressivamente tendono a farsi  malcerti. Ci ritroviamo così in quella dimensione a mezza via tra sogno e veglia nella quale le visioni compaiono capricciosamente  e repentinamente svaniscono per lasciare posto ad altre visioni… C’è il Bonaviri nostalgico del tempo che fu, del piccolo mondo paesano nel quale aveva trascorso l’infanzia, della sapienza popolare che rendeva quel mondo umanamente ricco. Come gran parte degli scrittori moderni Bonaviri è in qualche modo un critico della modernità, di questo stadio della modernità. Il suo rievocare la dimensione mitica della Mineo contadina, con gli artigiani filosofi e ogni cosa intrisa di spiritualità, svolge una funzione critica nei confronti del presente fighetto e materialista. Il suo proclamare divina la natura si contrappone a certi abusi della scienza contemporanea nei confronti di essa. E poi c’era l’uomo. Bonaviri l’eccentrico, il timido, il solitario. Il malinconico dai lunghi silenzi interrotti da scoppi di umorismo lunare. Il collezionista di libri rari, il nonno affettuoso, il provinciale cosmopolita… Bonaviri visse a lungo autoesiliato nella bella casa di Frosinone che lasciava malvolentieri, restìo alle frequentazioni mondane. Uno stile di vita, il suo, poco adatto all’era degli uffici stampa e della vita pubblicitaria. L’intervista che segue, realizzata nel 2006 per il documentario Bonaviri ritratto, è stata ampliata con brani di interviste che mi aveva rilasciato precedentemente.Perrotta. Come nasce lo scrittore Bonaviri?Bonaviri. Tu sai che Mineo era un paese ricco di poeti vernacoli, c’era la pietra della poesia a Camuti, quindi sin da bambino il sogno mio era quello di diventare il poeta più importante di Mineo. A quattordici anni già scrivevo tre romanzi e ogni anno cercavo di fare tutti gli esami all’università specialmente per avere il tempo necessario per leggere e scrivere romanzi durante le vacanze. Ma il dato fondamentale, secondo me, resta uno: io sino a venticinque anni sono stato sempre in Sicilia, non mi sono mai mosso dalla Sicilia, per cui il primo contatto col mondo letterario importante l’ho avuto con l’Einaudi e con Elio Vittorini. Vittorini aveva in mano la collana dei Gettoni e gli piacque molto Il sarto della stradalunga. Pensa che quando l’ho incontrato, perché mi scrisse, a Bocca di Magra, pensava addirittura che io ero un operaio anziché un medico, cioè il nostro è stato un rapporto estremamente pulito.

Il sarto della stradalunga, che uscì nel cinquantaquattro ma era stato scritto nel cinquantuno, ebbe un buon successo critico: ricordo le recensioni di Tommaso Fiore, di Gaetano Trombatore… Insomma, questo giovane siciliano che non era mai uscito per  venticinque anni dalla Sicilia riuscì a immettersi con facilità nel giro dei maggiori letterati del tempo. Dopo l’Einaudi i miei libri sono usciti con
la Rizzoli, con
la Mondadori, con
la Sellerio.

Perrotta. Il sarto della stradalunga è ispirato alla figura di tuo padre, Settimo Emanuele detto Don Nanè.

Bonaviri. Mio padre da giovane faceva il sarto a Mineo nella stradalunga, ma purtroppo non fu fortunato nel suo lavoro e nel 1938 fu costretto ad emigrare in Abissinia a causa delle tasse eccessive. Scriveva anche poesie molto belle, con una certa capacità di narrazione del mondo,  ma le scriveva segretamente, di notte, perché era un uomo schivo, timido. Quando mia madre si metteva a letto e lo vedeva scrivere al lume del petrolio si chiedeva preoccupata: «Ma chi ho sposato, un pazzo?». Quando è morto ho trovato molte cartelle delle tasse sul cui retro aveva scritto delle poesie. Ho raccolto tutte quelle che ho trovato in un volumetto dal titolo L’arcano. Se ne trova una copia alla Biblioteca Nazionale di Roma.

Una delle sue poesie più belle parla della notte a Mineo. Allora l’illuminazione era fatta con pochi lampioncini per cui il paese verso le sei o le sette sprofondava nel buio. Quello che segnava l’arco del giorno, direi un limite quasi spirituale, spiritico, era la mezzanotte che era annunciata da cento colpi di campana. Ti cito alcuni versi: «Terribile la notte / oscura ed infinita; / mentre l’orologio batte / l’ora piu sciagurata».

Perrotta. Parliamo di Mineo, tuo paese natale e centro della tua opera.

Bonaviri. La formazione spirituale di ogni uomo è compiuta per le linee essenziali già a dieci/dodici anni, si è stati come insemenzati. Mineo ha lasciato dentro di me molti semi di memoria.

Il paese ha una lunga storia che rimonta a Ducezio. Io ho conosciuto
la Mineo di settant’anni fa, una cittadina molto povera ma umanamente ricca. La ricchezza maggiore consisteva nei proverbi e nella sapienza innata dei contadini. Molti di questi avevano una propensione alla filosofia e scrivevano poesie dialettali.

Perrotta. A Camuti, dove con la tua famiglia andavate a villeggiare e dove secondo la leggenda c’era la pietra della poesia, ogni anno aveva luogo un importante raduno di poeti dialettali.

Bonaviri. Fino al 1850, sull’altopiano di Camuti, si facevano delle gare poetiche che poi con l’unità d’Italia sono scomparse. Mentre le gare satiriche in piazza contro i partiti, contro il fascismo, si continuarono a fare fino al 1925 circa.

Perrotta.
La Mineo della tua infanzia era un paese povero.

Bonaviri. Ricordo un paese senz’acqua dove si mangiava pane e pane, un paese in cui gli uccelli volavano, specialmente gli sparvieri, sui monti… Ricordo il verde, le campagne, le fave, il grano… Ma anche l’estrema povertà e le condizioni igieniche molto difettose.

Perrotta. Nonostante il grande amore per
la Sicilia, da cinquant’anni vivi in Ciociaria. Come mai hai scelto di vivere qui a Frosinone?

Bonaviri. Mia moglie, che è di Marcianise in provincia di Caserta, ebbe l’incarico di dirigere una colonia estiva a Mineo, mentre io fui incaricato di fare il medico della colonia. Dopo esserci sposati ci trasferimmo a Frosinone perché avevo vinto il concorso di assistente ospedaliero. Allora c’era la divisione dei proventi: un primario prendeva il cinquanta per cento e l’assistente il sei per cento, figurati… È stata una vita piuttosto misera. Ho fatto sei anni di vita terribile, con guardie di trenta ore tre volte la settimana; poi, per la morte improvvisa di mio padre e per il mio grosso esaurimento nervoso, abbandonai l’ospedale ed entrai nell’Unità Sanitaria Locale. Ci sono rimasto trent’anni. Pensa che all’Unità Sanitaria Locale eravamo considerati dei lavoratori autonomi esterni e quindi non ho neppure diritto alla pensione.

Perrotta. Com’è vivere a Frosinone? Per il poco che l’ho visitata non mi ha colpito particolarmente.

Bonaviri. Frosinone è una cittadina a suo modo cosmopolita, ricca a livello agricolo e con un certo sviluppo industriale. Ma letterariamente non è molto sviluppata.

Perrotta. Tu vivi in una zona periferica della città.

Bonaviri. Ho vissuto sempre nella zona periferica di Frosinone perché mi ricordava un po’ la libertà dell’infanzia a Mineo.

Perrotta. In cosa differisce il paesaggio ciociaro da quello siciliano?

Bonaviri. Beh, il paesaggio qua è più ricco, più arboreizzato. Quello siciliano è un paesaggio secco, asciutto, pietroso.

Qua in Ciociaria i contadini, nei loro piccoli campi, hanno sempre accresciuto gli alberi, hanno accresciuto quella che è la civiltà della casa. Anche perché è una zona più ricca.

Perrotta. Come mai scegliesti di studiare medicina e non lettere?

Bonaviri. Verso i sedici anni sognavo di diventare uno scienziato biologico, ma purtroppo eravamo in piena guerra e miseria. Mi iscrissi in medicina per quell’ansia di ricerca tipica dello scorso secolo.

Del resto per me scrivere è anche sperimentare.

Perrotta. Come riuscivi a conciliare il lavoro di medico e la tua intensa attività letteraria?

Bonaviri. Era una vita affannosa, non gradevole, un continuo corricorri. La mattina lavoravo alla mutua, per la letteratura mi restava il pomeriggio. Talvolta mi capitava di scrivere o di leggere tra una visita e l’altra…

Perrotta. Veniamo ai tuoi libri. Come li presenteresti a chi non ti ha mai letto?

Bonaviri. I miei romanzi spaziano dal dato realistico al dato fantastico, dalla cultura mediterranea alla scienza medica della quale uso spesso molti termini cercando di renderli quanto più poetici possibile.

Perrotta. C’è qualcuno dei tuoi libri che ritieni più rappresentativo?

Bonaviri. I libri sono come i figli: di mamma tutti. Ognuno ha la sua storia, o pubblica o segreta.

Perrotta. Diversi critici hanno lodato la coerenza della tua opera. A te, dall’alto dei tuoi ottant’anni, come appare?

Bonaviri. Sento l’insieme delle mie cose come un tappeto persiano in cui fili e segni e intrecci si toccano, si distaccano, si ritoccano…

Perrotta. Mi piacerebbe tentare un’incursione nel tuo laboratorio creativo. Come nasce un tuo libro?

Bonaviri. Ogni libro ha una storia a sé. Può essere un nucleo di memorie che via via s’ingrandisce e diventa poi anche tela linguistica, può essere una cosa immediata che mi viene chiesta, può sorgere dal semplice desiderio di scrivere.

Perrotta. Come nascono i tuoi titoli così suggestivi?

Bonaviri. A volte spuntano da soli, a volte bisogna scegliere fra titoli diversi. Predomina la mutevolezza.

Perrotta. Le tue pagine hanno i colori dell’estate. Esiste un periodo dell’anno in cui scrivi meglio?

Bonaviri. L’estate mi dà più stimoli, è la mia stagione, forse perché sono nato in luglio.

Perrotta. Nella tua opera la dimensione del viaggio è centrale. E nella vita?

Bonaviri. Ti confesso che non amo molto viaggiare. Sono e resto un contadino con l’idea d’un punto fermo: il centro, la casa, il paese. Comunque dopo i cinquantacinque anni ho viaggiato molto.

Perrotta. Uno dei temi a te cari è la famiglia.

Bonaviri. Mio padre era il primo di sette figli, mia madre era l’ultima di ventiquattro fratelli: queste enormi famiglie tuttora me le porto dentro come un muro che ti circonda, che t’abbraccia. Cioè vorrei quasi  incarnare in me tutto questo mondo di parenti e farlo diventare carne della mia carne e sangue del mio sangue.

Perrotta. Sei molto legato anche ai tuoi nipotini.

Bonaviri. Gianluigi, Niccolò, Leopoldo e Raffaella per me hanno una grande importanza. In quasi tutti questi ultimi libri scritti sono presenti loro, anzi nel Vicolo blu addirittura li trasporto nel tempo come se fossero vissuti durante la mia infanzia e fossero miei compagni di giochi.

Perrotta. Un altro tema ricorrente è la morte.

Bonaviri. La morte è un’idea ossessiva universale. Poi, io facevo il medico…

Perrotta. A tuo avviso qual è, se c’è, la missione o la funzione dello scrittore?

Bonaviri. Scrivere è un lavoro come un altro, forse più meditato e coordinato e per il quale necessitano fattori predisposizionali. Secondo me le predisposizioni che noi abbiamo verso il mondo e verso noi stessi vengono trasmesse per via di DNA, cioè quell’elemento che si trova nelle cellule e che trasmette i fattori dell’ereditarietà. Oggi si pensa per lo più che la cultura sia un’elaborazione successiva al nostro sviluppo mentale, secondo me invece la base di fondo è e resta cromosomica.

Perrotta. Tu ti sei sempre tenuto ai margini della società letteraria italiana. Negli anni settanta hai perfino rifiutato il premio Campiello per il romanzo Dolcissimo.

Bonaviri. Si sapeva prima chi sarebbe stato il vincitore del superpremio finale. Valgono di più i soldi di un premio o il nostro no diretto contro un sistema di corruzione?

Perrotta. Insomma non ami i premi.

Bonaviri. Possono servire in piccolo (il viaggio, gli incontri, un che di liberatorio), ma non fanno storia.

Perrotta. Da diversi anni i giornali ti accreditano tra i favoriti al Nöbel…

Bonaviri. Il destino, quello che verrà dopo, è nelle ginocchia di Giove.

Perrotta. Quali sono stati i tuoi modelli letterari?

Bonaviri. La mia formazione infantile resta pre-libresca. Poeti contadini e vento di Mineo, fiabe raccontatemi da mia madre… quale miglior libro?

Perrotta. Dimmi allora quali sono i tuoi classici.

Bonaviri. Beh, a me affascinano i frammenti dei filosofi presocratici, quella è la massima espressione della cultura mediterranea. Poi tutto il filone della drammaturgia greca da Eschilo a Euripide. Tra gli italiani Leopardi, Pascoli, Gozzano.

Perrotta. Che te ne sembra della letteratura di oggi?

Bonaviri. Attualmente siamo purtroppo in una fase “filoamericana”, cioè più libri si vendono più l’autore è considerato importante. Si tratta di un grosso errore, anche perché spesso il lettore si trova tra le mani dei libri di una mediocrità assoluta.

Perrotta. Non ami i bestseller

Bonaviri. Sono fenomeni che sono sempre esistiti. Pensa per esempio all’Ettore Fieramosca di Massimo D’Azeglio, a Le mie prigioni di Silvio Pellico. Ormai per la nostra cultura sono ombre.

Perrotta. Tu sei stato amico di diversi scrittori siciliani della tua generazione, penso a Leonardo Sciascia o a Sebastiano Addamo, ma più volte hai affermato di sentirti estraneo al filone della letteratura siciliana.

Bonaviri. Beh, Leonardo Sciascia è uno scrittore civile, io sono un affabulatore. Tra me e Giovanni Verga ci sono di mezzo millenni, il suo mondo era assolutamente diverso da quello che abbiamo vissuto noi. In quest’ultimo cinquantennio s’è aperta una nuova fase storica per l’umanità: abbiamo messo il piede sulla luna, abbiamo scoperto un universo concreto fatto di astri che poi sono praticamente come la terra, grandi ammassi di pietre e di sostanze come metano, gas e così via. Quindi abbiamo allargato la nostra visione a una visione cosmica dalla quale non ci dovremmo allontanare, una visione secondo la quale l’uomo è una cellula ma è una cellula importante in quanto con la sua intelligenza riesce a entrare nei misteri del mondo.

Perrotta. La scienza oggi è ancora una speranza o è diventata anche una paura?

Bonaviri. La scienza per l’uomo comune è una paura, è una grande paura, perché se non è usata bene può causare dei disastri enormi, com’è successo con la bomba atomica. Nel mio romanzo L’incredibile storia di un cranio, uscito con Sellerio, questo aspetto viene preso in considerazione.

Perrotta. Parliamo dei tuoi estimatori illustri, cominciando da Italo Calvino.

Bonaviri. Di Calvino conservo molte belle lettere. A lui piacquero immensamente Il fiume di pietra, La divina foresta, Notti sull’altura… Altri estimatori sono stati Andrea Zanzotto, Carlo Betocchi, Mario Luzi, Libero de Libero… Tra gli stranieri ricordo il francese Guy Tosi, che insegnava alla Sorbona e via via tanti altri: in Russia, nella Repubblica Ceca, in Tunisia…

Perrotta. So che hai conosciuto Federico Fellini.

Bonaviri. Con Fellini ero in buoni rapporti, scambiammo qualche lettera, però il solo fatto di dover andare la sera a Roma a cena per me diventa un dramma. Per me è un dramma uscire fuori Frosinone, uscire dall’utero materno, dunque a un bel momento i rapporti sono caduti.

Perrotta. Un film di Fellini tratto da un romanzo di Bonaviri non sarebbe stata una cattiva idea.

Bonaviri. Per fare i suoi film Fellini aveva dei soggetti preferiti e incontrava anche difficoltà, sebbene fosse un grande regista cinematografico, a trovare i fondi.

Perrotta. Mi racconti della collaborazione col compositore Ennio Morricone? Insieme, nel 2001, avete scritto l’opera Ode in occasione dell’inaugurazione della nuova sede del Conservatorio di Frosinone.

Bonaviri. Ennio Morricone è una gran brava persona. Mi fu proposto dal senatore Massimo Struffi e dal direttore del Conservatorio di Frosinone di fare un poemetto sulla Ciociaria che sarebbe stato musicato da Morricone, cosa che avvenne. Solo che l’esecuzione, all’aperto, fu fatta in un giorno che c’era vento per cui Morricone non fu soddisfatto della registrazione e, tranne la copia che ho io, di quest’opera non c’è purtroppo altro documento.

Perrotta. Quali pittori contemporanei hai amato?

Bonaviri. Per quanto riguarda la pittura ho apprezzato diversi artisti, non so, Filippo Gentilini o Corrado Cagli, ma rapporti personali non ne ho avuti.

Perrotta. Bonaviri e la politica. Si sa che da giovane sei stato antifascista e comunista.

Bonaviri. Al ginnasio scrivevo temi antifascisti. Non perché fossi un antifascista convinto… era una specie di ribellismo, leggendo che Mussolini aveva sempre ragione o «Credere, obbedire, combattere!» mi disturbai e quindi scrivevo temi antifascisti. In quarta ginnasiale fui  rimandato ad ottobre, feci un bel tema e da allora in poi capii che la politica non bisognava toccarla.

Dopo la liberazione fui comunista: fui iscritto al movimento giovanile e al Partito Comunista per molti anni.

Perrotta. Collaboravi all’Unità.

Bonaviri. A Gaetano Trombatore piacque molto Il sarto della stradalunga e m’invitò a collaborare all’Unità. Ho collaborato per quattro o cinque anni alla pagina culturale; in seguito ho collaborato al Messagero, all’Avanti!, al Corriere della Sera e all’Osservatore Romano. La mia collaborazione giornalistica è molto estesa e poco conosciuta.

Perrotta. Anche della tua poesia si parla meno.

Bonaviri. Le mie poesie sono state tradotte in diversi paesi ma dovrebbero essere studiate e approfondite ancora di più perché sono un ramo dello stesso albero. Un ramo forse più vivace, più vivo.

Perrotta. Parliamo del Bonaviri privato. Come uomo godi fama di eccentrico.

Bonaviri. Se essere solitari… significa essere strani, lo sono.

Perrotta. Molti libri li hai dedicati a tua moglie. Leopardi aveva in Silvia la sua musa, per te Lina cosa ha rappresentato?

Bonaviri. Leopardi guardava la povera ragazza malata Silvia dalla finestra del palazzo… sposarsi, convivere, avere figli è un mondo con reazioni diverse.

Perrotta. Ci sono libri che non hai avuto ancora il tempo di scrivere?

Bonaviri. Ho ancora tanti pozzi di memorie, soprattutto dell’infanzia e dell’adolescenza. Bisognerebbe scrivere per secoli e secoli…

Perrotta. Che idea ti sei fatto del dopo?

Bonaviri. Siamo nel campo dell’incognito, la vita è un mistero. Tutto lascia pensare, secondo le nostre vedute biologiche (che potrebbero essere errate) che tutto finisce con la fine del nostro corpo biologico. Probabilmente, chiudendosi l’assillo di fuoco della nostra vita, si arriva nel vuoto spazio dove tutto è nulla e dove il nulla forse è il Tutto, ovvero il Dio che cerchiamo.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/13/giuseppe-bonaviri/feed/ 251