LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Giuseppe Genna http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IL BLOCCO DELLO SCRITTORE E QUELLO DEL LETTORE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/02/18/blocco-scrittore/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/02/18/blocco-scrittore/#comments Wed, 17 Feb 2010 23:02:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1729 blocco-scrittoreMolti dei frequentatori di Letteratitudine sono (siamo) scrittori o aspiranti tali. Di certo sono (siamo) tutti lettori.
Il tema che vi propongo in questo post ha a che fare principalmente con la scrittura e con gli ostacoli che è possibile incontrare nel confrontarsi con la pagina bianca.
Veniamo al punto… (anzi, ai punti… di domanda).

Avete mai sentito parlare del cosiddetto “blocco dello scrittore”?

Vi è mai capitato di rimanerne vittime?

Come avete fatto a superare la crisi creativa?

Avete metodi da proporre (o da condividere)?

Ne ha parlato Stefano Salis sull’inserto “Domenica” de Il Sole24Ore, del 7 febbraio nell’ambito di un articolo intitolato “Penne in panne” (bel gioco di parole, vero?).
Stefano ha messo a disposizione di Letteratitudine questo suo pezzo (autorizzandomi a pubblicarlo) dove accenna alle esperienze di vari scrittori italiani: Alessandro Piperno, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Carlo D’Amicis, Elena Loewenthal, Paolo Giordano, Patrick Fogli, Giorgio Vasta, Ernesto Ferrero, Antonio Scurati, Giulio Mozzi, Andrea Vitali.

Addirittura, la nota autrice canadese Margaret Atwood – sul suo blog- ha “offerto” una sorta di decalogo per superare il famigerato blocco (trovate i “dieci punti” dopo l’articolo di Salis).

Con quali degli scrittori citati vi sentite più in sintonia (in merito, ovviamente, al tema del “blocco dello scrittore”)?
Quale dei “punti” proposti dalla Atwood vi sembra più convincente?

Ma andiamo oltre.
Abbiamo fatto riferimento alla scrittura… non dimentichiamoci della lettura.

Domanda secca: esiste un “blocco del lettore”?
Vi è mai capitato di arrestarvi, per un motivo qualunque, dinanzi a un testo che giudicavate importante senza riuscire a completarne la lettura?

Di più: vi è mai capitato, per un certo periodo di tempo, di non riuscire più a leggere? E in caso affermativo… come siete riusciti a superare “il blocco del lettore”?
Ne discutiamo insieme.

Massimo Maugeri

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PENNE IN PANNE
di Stefano Salis

da “Domenica” de Il Sole24Ore, del 7 febbraio 2010 – pag. 24

stefano-salisDi sicuro, lei, non ne ha bisogno. E poi, dopo decenni passati a scrivere libri e ad avere successo, deve essere routine, incontrare qualche piccolo blocco. Lei è Margaret Atwood, celebrata autrice canadese, più di trenta libri firmati, premi letterari a raffica, ogni anno, si dice, lì lì per vincere il Nobel. Il suo ultimo romanzo, “The Year of the Flood” è finalista all’Orange Prize e lei gira il mondo per promuoverlo. Non si annoia, però, anche perché è perennemente connessa e dialoga con i suoi fan su Facebook, con Twitter e con il suo blog. Dal quale, recentemente, si è divertita a dare qualche suggerimento su uno dei temi più spinosi (e tipici) che le vengono sollecitati dai lettori. Che fare quando non si riesce ad andare avanti col proprio libro? Come superare il «blocco dello scrittore», insomma?

La storia della letteratura è piena di esempi, di «bloccati» e di rimedi per andare avanti: dai classici Coleridge o Fitzgerald ai contemporaneissimi Jeffrey Eugenides o il nostro Alessandro Piperno che ha ammesso pubblicamente di essere in difficoltà a consegnare il suo secondo libro, difficoltà adombrate ancora qualche giorno fa sul «Corriere» con il lungo elenco di domande in occasione della morte di J.D. Salinger.
Abbiamo provato a far leggere a qualche autore italiano il decalogo della Atwood e a chiedere le loro istruzioni per l’uso. Ne viene fuori una decisa maturità dei nostri scrittori sul tema e uno spirito assai garibaldino nell’affrontare la questione. Per iniziare, Giuseppe Genna (che ha appena chiesto sul web ai lettori di “votare” per quale editore pubblicare e torna in libreria a marzo) va controcorrente: «Il blocco dello scrittore è un momento di santità e di liberazione. Non credo esista la necessità della letteratura. Ritengo che chi ha vissuto avvertendo di continuo il blocco dello scrittore, e in realtà non smettendo un attimo di scrivere (mi viene in mente Kafka), abbia sfiorato la libertà dal mondo». Idee simili rivendica Nicola Lagioia, editor e autore in proprio del bellissimo Riportando tutto a casa(Einaudi): «È un falso mito. Uno scrittore di prim’ordine non lotta con la sindrome della pagina bianca ma con i complicati, faticosissimi, talvolta insuperabili problemi che il progetto in cui si è già lanciato comporta. Abbiamo un’indole prometeica, e il problema non è mai spiccare il volo ma come sfracellarsi al suolo con un certo stile». Addirittura Carlo D’Amicis (ultimo libro La guerra dei cafoni) esalta il blocco: «Se la macchina ogni tanto non parte, non si inceppa, non sbaglia strada, vuol dire che qualcosa non funziona. Mi fido, insomma, molto di più dei miei dubbi, dei miei attriti, delle mie “false partenze” (come le chiamava La Capria) che non dei momenti in cui mi sembra che tutto fili liscio».

C’è chi teme l’inizio e non se lo nasconde. Elena Loewenthal, finalista all’ultimo Campiello, sa ormai come aggirarlo: «La pagina bianca mi incute sempre paura. Quando non so come cominciare – e so che una volta cominciato, il più è fatto – mi alzo, faccio il giro della stanza. Il cioccolato aiuta, ma solo se è almeno un 80% di cacao. Ha ragione la Atwood: a mali estremi, estremi rimedi. La doccia, ad esempio. Aiuta eccome. E comunque, uno stato di assoluta solitudine».
Di reclusione, invece, ha bisogno Paolo Giordano, il fenomeno letterario italiano degli ultimi anni, con La solitudine dei numeri primi (presto al cinema). «Alle passeggiate decongestionanti», come propone la Atwood, «io preferisco la cattività. In caso di blocco, mi costringo nella stanza, orbito attorno al computer acceso, mi tormento e sì, pilucco qualunque cibo vi sia nei paraggi (ma di cioccolato non ne ho mai). Finché, ore più tardi, lo sfinimento mi porta un sonno liberatorio. Al risveglio, ancora intontito, attacco a scrivere, in modo sconclusionato, sciattamente, senza preoccuparmi dei legami con il paragrafo precedente. Un pensiero in testa c’è comunque, poco interessante, confuso, bizzarro che sia. Di questa stesura disperata non sopravviverà quasi nulla, ma rileggendola farò almeno una scoperta. Ogni blocco della scrittura è solo l’incubazione di un’idea sorprendente».

Per il giallista Patrick Fogli (da leggere Il tempo infranto) l’importante è sapere quando è il momento esatto di partire. «Non ho un elenco di punti come la Atwood. Ho una strategia sola. Non scrivo fino a quando non ne posso fare a meno. Fino al momento in cui devo sedermi alla tastiera e buttare giù la storia. E questo accade, di solito, quando mi gira già in testa da diversi mesi e ha cambiato aspetto almeno una decina di volte».
Anche Giorgio Vasta, rivelazione con Il tempo materiale, ci tiene a distanziare il problema. «Il “blocco dello scrittore” si colloca tra quelle piccole mitologie che probabilmente sono integrazioni indispensabili della pratica letteraria. Se la scrittura fosse solo puro flusso immediato, del tutto estraneo al tormento e alla crisi, risulterebbe poco reale e poco credibile». E però, «considerato che tutte le indicazioni della Atwood sono sensate e ironiche, mi permetterei di aggiungerne una: scrivere in forma di lettera». Ernesto Ferrero (premio Strega per N. nel 2000) sposa i consigli della Atwood. «Di solito le difficoltà stanno nella partenza: trovare la concentrazione, il tono, il ritmo giusto. In corso d’opera, il blocco è una specie di segnale che qualcosa nel meccanismo non gira. E può riuscire utile, un invito a ripensare tutto. I consigli della Atwood sono pratici e condivisibili. Una passeggiata resta il modo più efficace di favorire la riflessione. E il cioccolato fondente il miglior fornitore di energia pulita».

Antonio Scurati, scrittore e polemista di razza, suggerisce qualcosa d’alternativo. «Potrà suonare scontato, o forse desueto, ma secondo me il blocco della scrittura si smuove con la sua gemella: la lettura. Se non si riesce a scrivere, niente di meglio che leggere. Libri preferibilmente alti e lontani, di chi con la scrittura ha tentato grandi imprese, in epoche remote e in terre a noi straniere. E tanti libri. Poi, magari, tornano anche buoni. Magari uno scopre che lo scrittore, come l’artista contemporaneo, spesso non fa il quadro ma le cornici».
Giulio Mozzi (ottimo il suo Sono l’ultimo a scendere) la vede in modo ancora diverso: «Mai sofferto di “blocco”. Ho pubblicato un libro nel 2001, una raccolta di cose vecchie nel 2005, e poi tre libri in un colpo a fine 2009. Non ho mai pensato di esser condannato, poiché avevo fatto un libro a farne degli altri. Quando viene, viene. Tutto qui. Peraltro, negli anni nei quali, secondo alcuni, sarei stato senza scrivere, ho scritto moltissimo. Ho scritto il mio diario in rete, che poi è diventato un libro, articoli per giornali, centinaia di pezzi per il mio blog, “vibrisse”. Conosco scrittori che se stanno due anni senza fare un libro, gli viene l’ansia. Temono di scomparire. A me quest’ansia non viene: ci sono tante altre cose, nella vita». Chissà, magari, anche il giardinaggio, per distrarsi dalla momentanea pausa, come suggerisce il prolifico Andrea Vitali (in uscita da Garzanti, La mamma del sole) con la sua consueta ironia: «Sto proprio vivendo uno di quei momenti di blocco. Una storia che si è infilata in un vicolo cieco e quindi, in quanto tale, non riesco a vedere come se ne possa venir fuori. Allora, dopo aver più volte picchiato la testa contro il muro del suddetto vicolo, ho messo nel cassetto la storia e mi sono dato al lavoro fisico: essendo, per parte di padre, di origini campagnole posseggo per fortuna un poco di terra e ho cominciato a prepararla per le semine future: siamo in febbraio, tempo di seminare cipolle. Le due cose mi danno pace, ho messo il romanzo nel cassetto e le cipolle sotto terra: vediamo chi germinerà prima».

Male che vada si consolerà con una succulenta zuppa di cipolle. Ma siamo sicuri che non saranno i suoi (tanti) lettori a restare a bocca asciutta.

P.S. Tutti gli scrittori interpellati hanno risposto con velocità e generosità. Il mio amico Flavio Soriga (ottimo scrittore), contattato via mail, mi aveva promesso, con entusiasmo, un suo parere. Non è arrivato nulla. Che sia un classico caso di blocco dello scrittore?

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IL DECALOGO DELLA ATWOOD

In molti continuano a chiedermi consigli circa il “blocco dello scrittore”. Ecco alcuni suggerimenti, un decalogo di pronto intervento.

1. Uscite a fare una passeggiata, fate il bucato, o mettetevi a stirare, o piantate dei chiodi. Andate a fare una nuotata in piscina, fate uno sport, qualunque cosa che richieda concentrazione e comporti una ripetuta attività fisica. Al limite: fate una bella doccia, o un bel bagno.

2. Prendete in mano il libro che rimandavate da tempo.

3. Scrivete, ma in qualche altra forma: anche una lettera, o una pagina di diario, o la lista della spesa. Lasciate che quelle parole fluiscano attraverso le vostre dita.

4. Formulate con precisione il vostro problema, e quindi andatevene a dormire. Il mattino dopo potreste avere la risposta.

5. Mangiate del cioccolato. Non troppo. Deve essere scuro (almeno il 60% o più di cacao), organico, biologico.

6. Se state scrivendo fiction: cambiate il tempo verbale (dal passato al presente, o viceversa).

7. Cambiate la persona (prima, seconda, terza).

8. Cambiate il genere (maschile/femminile).

9. Pensate al vostro libro in progress come a un labirinto. Avete incontrato un muro. Tornate al punto dove avete sbagliato direzione e ripartite da lì.

10. Non siate arrabbiati con voi stessi. Fatevi, anzi, un piccolo regalo di incoraggiamento.

Se nessuno di questi consigli fa effetto o funziona, mettete il libro in un cassetto. Potrete sempre tornarci su più avanti. E iniziate qualcosa d’altro.

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ITALIA DE PROFUNDIS, di Giuseppe Genna http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/05/italia-de-profundis-di-giuseppe-genna/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/05/italia-de-profundis-di-giuseppe-genna/#comments Tue, 05 May 2009 19:56:04 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/05/italia-de-profundis-di-giuseppe-genna/ È da tempo che meditavo di dedicare un post a questo nuovo libro di Giuseppe Genna: Italia De Profundis. Uno dei libri più recensiti degli ultimi anni: lodato dalla critica e amato dal pubblico dei lettori (è stato scelto come libro del mese dagli ascoltatori della trasmissione Fahrenheit).
Attraverso il racconto di vicende personali, trasfigurate nella narrazione, Genna canta il de profundis a un’Italia malata. Un’Italia cancerosa. Un paese affetto da un male simile a quello che divora i corpi. E il male tumorale che ha portato via il padre dell’autore, ora avvinghia la madre patria. Al punto che bisogna distaccarsene (forse) per non esserne trascinati a propria volta. Al punto che bisogna “disimparare ad amarla”, l’Italia.
Così come evidenzia la scheda del libro “si formano sotto i nostri occhi episodi di un’autobiografia impazzita, rivelazioni plausibilmente autentiche di quanto il personaggio «Giuseppe Genna» ha vissuto: il drammatico ritrovamento del cadavere del padre, in un’atmosfera lynchiana, una tardiva autoiniziazione all’eroina, l’esplosione dell’iracondia in una forma che guarda alla scrittura di Burroughs e l’intervento attivo e criminale nell’eutanasia di un caso simile a quello di Piergiorgio Welby. Fino all’avventura surreale in una estate solitaria presso un villaggio turistico in Sicilia, dove le tessere di questo racconto scomposto trovano una soluzione che è esilarante fino all’inabissamento finale.
Fiction reale o realtà finzionale, questo libro pretende e concede un atto d’amore assoluto, formulato come appello al lettore, affinché sia cancellato l’autore e si ascolti l’inquietante risata con cui Genna stesso e l’Italia vengono seppelliti
“.

Sul Riformista Andrea Di Consoli ha scritto: Italia De Profundis è un libro grandioso. E’ un’eruzione vulcanica, un’opera monstre, una potentissima deflagrazione dei saperi, dei generi letterari e della psiche. Non s’era mai letto un libro così potente, in Italia; un libro, cioè, dove ci fosse tutta la nostra contemporaneità: la depressione, l’ipocondria, l’ansia, la morte, l’amore, il sesso, il sadomaso, la disoccupazione, la letteratura, Milano, Palermo, le periferie, il lumpenproletariat milanese, l’eroina, l’autobiografia, la finzione, il villaggio turistico siciliano, la morte del padre, un’orgia transessuale, il sapere enciclopedico, il cinema, la Mostra di Venezia, David Lynch, Mantova, Berlino, Burroughs, Kafka, il narcisismo, l’autopunizione, l’agonia, l’eutanasia, il disprezzo, la pietà, gli ospedali, la psichiatria, il corpo, la difficoltà di amare e la sperdutezza”.

Subhaga Gaetano Failla, a cui ho chiesto di predisporre una recensione appositamente per Letteratitudine, mi scrive: “Dagli anni Ottanta in poi rari sono stati i libri di autori italiani per me così importanti.”

E poi c’è l’epigrafe prescelta da Giuseppe Genna. Sembra quasi una premessa al libro. È tratta da Petrolio di Pasolini. E dice così: “Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in effetti ho attuato qualcos’altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in me il senso o la funzione della realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà. (…)
Nello stesso tempo in cui progettavo e scrivevo il mio romanzo, cioè ricercavo il senso della realtà e ne prendevo possesso, proprio nell’atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo
anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire”.

Vorrei che discutessimo insieme di questo libro.

E poi, vi chiedo di fare il punto della situazione sui malanni d’Italia.

Secondo voi il nostro è davvero un paese-cadavere su cui recitare il de profundis?

Quali sono stati i “mali” che l’hanno ridotto in queste condizioni?

È possibile “risorgere”? Se sì, in che modo?

Di seguito le recensioni di Andrea Di Consoli e di Subhaga Gaetano Failla (che mi darà una mano a animare e moderare il dibattito).

Massimo Maugeri

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Il de profundis di Genna per un’Italia in metastasi
di Andrea Di Consoli
[dal quotidiano il Riformista]

Italia De Profundis (Minimum Fax, 348 pagine, 15,00 euro) di Giuseppe Genna (Milano, 1969) è un libro grandioso. E’ un’eruzione vulcanica, un’opera monstre, una potentissima deflagrazione dei saperi, dei generi letterari e della psiche. Non s’era mai letto un libro così potente, in Italia; un libro, cioè, dove ci fosse tutta la nostra contemporaneità: la depressione, l’ipocondria, l’ansia, la morte, l’amore, il sesso, il sadomaso, la disoccupazione, la letteratura, Milano, Palermo, le periferie, il lumpenproletariat milanese, l’eroina, l’autobiografia, la finzione, il villaggio turistico siciliano, la morte del padre, un’orgia transessuale, il sapere enciclopedico, il cinema, la Mostra di Venezia, David Lynch, Mantova, Berlino, Burroughs, Kafka, il narcisismo, l’autopunizione, l’agonia, l’eutanasia, il disprezzo, la pietà, gli ospedali, la psichiatria, il corpo, la difficoltà di amare e la sperdutezza. E’ un’opera-mondo, questa di Genna, sia pur costruita (felicemente) intorno a spedizioni punitive e conoscitive nei paraggi della propria vicenda personale. Il Genna che si sviscera e si scortica in pubblico, che pratica su di sé “installazioni”, e sperimenta sulla propria pelle pensieri e parole di inaudita intelligenza estremistica, è un Genna di intensità ed espressività ineguagliabile (che qui tocca il suo vertice). Questo libro è una totalità in cui l’autore milanese mette in scena se stesso, con pietà e con furore, in pagine di sconvolgente “indentramento”. Ogni parola, in questo libro, ha un costo altissimo (personale). Si parla, sia pure sotto l’effetto allucinogeno ed esaltante di una divina retorica, e di un mirabolante stile bellico e rabdomantico, di due cadaveri (l’autore, e l’Italia) che Genna scruta e “canta” con estrema freddezza autoptica. Genna fa autopsie poetiche. La superficie delle sue parole è calda di febbre, ma dentro, nel cuore di questo libro, c’è freddezza: la freddezza di chi percorre cunicoli e vene nascoste perché sente come scrittore il dovere di dire tutto, di sapere tutto, di non nascondere niente. Perché la verità, pare suggerirci Genna, bisogna guardarla negli occhi, anche quando si presenta sotto forma di orrore sociale, di malattia, di agonia: di cadavere. E non c’è mai moralismo, nel suo squallido attraversamento delle viscere della nostra Italia (lo dice lui stesso: Genna non è come D.F. Wallace, che si “nascondeva” nella letteratura). Genna espone ai miasmi della decomposizione la stessa letteratura, che ovviamente soffoca, e rischia di collassare. Italia De Profundis è un “canto” disperato e viscerale sull’Italia, e su un italiano preciso che si chiama Giuseppe Genna (protagonista del libro); un essere colmo di saperi ma privo di amore, un uomo che cerca la psiche e scopre (ripeto, a proprie spese) che la psiche è nel corpo “ferito a morte”; un essere che sa travestirsi, mistificare, depistare, esagerare, ricordare e dimenticare, cambiare, lamentarsi, commuoversi, ammalarsi e guarire, e che vive in un’accelerazione dei punti di vista che somiglia molto all’accelerazione impazzita delle cellule tumorali. Un libro, Italia De Profundis, sulla principale malattia dell’Italia contemporanea: il cancro. Su questo mostro che nasce dentro, e che si mangia il corpo vivo: un male spirituale, per Genna, un male dell’anima. Infatti il libro inizia con il racconto atroce della morte del padre (per cancro ai visceri); e racconta dell’agonia per cancro del padre della “fidanzata”. E’ come se Genna volesse dirci: l’Italia che ci è stata data è malata, e noi siamo figli di questa malattia. Ecco, Genna fa un lamento da “figlio”, sia pure incistandolo su un corpo da vecchio. La gioventù di Genna nasce già terminale e postuma; e fa rese dei conti senza aver vissuto a pieno quel che la vita sembrava promettere. C’è tutto, in questo libro: il disprezzo italiano per la poesia, la devastazione del paesaggio, la nevrosi somatoforme, la paura, l’odio, l’amore impossibile, l’autodistruzione commossa, una vita rapinosa vissuta al cardiopalmo. Tutte cose che imprimo alla scrittura di Genna “deformazioni” incredibili: ora più narrative e distese, ora più violente, fino agli esiti extreme dell’implosione totale (ci sono intere pagine quasi “illeggibili”). Qui non siamo più nella complessità moderna, ma nell’ultracomplessità caotica dei moventi, dei saperi, dei sentimenti, delle ragioni e dei torti. Un libro che fa male. Che punge come un siringa infetta. Che odora di quartieri periferici. Che odora di malattia: l’atroce malattia chiamata Italia, nel sintomo specifico chiamato Giuseppe Genna.

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Italia De Profundis di Giuseppe Genna
recensione di Subhaga Gaetano Failla

gaetano-failla.jpgItalia De Profundis di Giuseppe Genna è un libro molto bello, un libro importante.”

Così più o meno ho detto a molti amici. Nient’altro. Perché è difficile parlare d’un libro che ha un’anima. Temevo –  e temo – di dire qualcosa sull’indicibile. Perché d’un’anima non si può parlare. Proverò dunque a dire qualcosa di marginale, che rimane ai margini,  al limite d’un territorio indicibile.

Dono. Compassione. Autocontrollo.

Shantih shantih shantih

Con queste parole “mutuate dal finale del saggio di Wu Ming 1”, presente nel libro del collettivo Wu Ming intitolato New Italian Epic, si conclude Italia De Profundis

Datta. Dayadhvam. Damyata                                                  Shantih  shantih  shantih

Con queste parole si conclude The Waste Land di Eliot, a imitazione della chiusura rituale delle Upanishad.

Shantih. Dal sanscrito: Assoluta pace interiore e serena imperturbabilità. Mi lascia dubbioso il significato dato a Damyata: Autocontrollo. Un paradosso: la mente che controlla la mente. I mistici parlano di osservazione senza giudizio. Essere un puro testimone.
Poi si scorrono le pagine, fino alle ultime, fino ai ringraziamenti e all’indice, e perfino ai Titoli di coda, e troviamo, prima dell’indirizzo elettronico della minimum fax, queste estreme parole:
Non la finisco più di non iniziare.
Vi è forse in questo libro l’intuizione profonda d’una finzione: quella della definitiva conclusione. La finzione della morte. La finzione dell’inizio.
E la quarta di copertina riporta una frase estratta dalla prima pagina:
“Un luogo che ho disimparato ad amare.”
Molti anni fa avevo frequentato un corso di psicologia umanistica, che nelle intenzioni doveva essere costituito da sette incontri, guidati da una donna meravigliosa, Letizia Comba, psicologa e traduttrice di Gurdjieff, dal titolo I sette inizi. Ogni passo è il primo passo? E dunque qual è il primo passo? C’è un primo passo?
Nell’antica pratica buddhista, come ricorda anche Genna,  il discepolo, nella sua strada iniziatica, aveva il compito di contemplare le diverse fasi del disfacimento d’un cadavere.
Genna osserva il disfacimento d’un organismo chiamato Italia. Un luogo che ha disimparato ad amare. Con compassione. Nell’anelito del raggiungimento di shantih. L’io narrante Giuseppe Genna, come si legge nella prima parte del libro,  rimane per molto tempo accanto al cadavere del padre morto per infarto. Chiunque abbia assistito alla morte d’un genitore sa che quella morte è anche la sua personale morte. E Giuseppe Genna intuisce la finzione d’una estrema conclusione, della morte, perché intuisce la finzione di io.
“Io: chi sono?” chiede nel libro l’io Giuseppe Genna. Una domanda del tutto assurda. Una vertigine. Chi chiede a chi? Di questa vertigine è impregnato questo libro coraggioso.
Dagli anni Ottanta in poi rari sono stati i libri di autori italiani per me così importanti, un libro di cui dire dunque: mi importa.
La Diceria di Bufalino, l’eterea presenza di Pereira, Il vicolo blu di Bonaviri, la voce e il passo di Rigoni Stern nel suo Altipiano.
“… proprio nell’atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire.”
Così dice Pasolini nel suo Petrolio, così Genna, che utilizza in epigrafe queste parole, si avventura coraggiosamente verso “la buia notte dell’anima” di cui parlano i mistici. Quando l’oscurità sembra essere senza scampo, profondissima e infinita, e tutte le speranze d’una nuova alba ci abbandonano, allora, solo allora, giungerà il primo  (il primo?)  raggio ad illuminarci. La libertà più grande, la libertà da sé stessi.
Genna parla di io non disgiunto dall’io dell’Italia. Sa di essere sangue e carne dello stesso disfacimento. E non vi è disprezzo, ma compassione. C’è la contemplazione dell’organismo Italia in decomposizione.
“Non le sembra di avere un approccio un po’ pessimista, di legare la sua analisi a dei presupposti radicalmente negativi?” gli chiede Luca Vaglio in una recente intervista.
“Davvero restituisco questa impressione?” risponde Genna. “Non è una cosa in cui mi riconosco, certo rispetto allo stato di cose che ci circondano denuncio una negatività. Ma se non avessi dentro di me l’idea di una positività non parlerei in questo modo.”
Italia De Profundis è percorso da due ombre dense, due ombre letterarie che accompagnano il lettore nella discesa e nell’ascesa, mentre ciò che non è né io né Genna cerca né discesa né ascesa. Queste due ombre si chiamano Burroughs e il Fantozzi di Paolo Villaggio. L’incubo dei mondi e dei corpi che diventano vortici di terra e di carne in mutazione oscura, e il grottesco di minuscoli uomini di Gogol, così penosi, così orribili nell’odierna trasformazione in insetti kafkiani. Comprendo l’irruzione di personaggi fantozziani nelle pagine di Genna – Fantozzi, la  maschera che maggiormente rappresenta questi nostri anni italiani, una maschera ancora non del tutto riconosciuta nella sua grandiosa esemplarità. Ma Burroughs? Perché è tornato Burroughs nella nostra letteratura, e anche nelle pagine di Genna?
Burroughs ha saputo contemplare il suo stesso cadavere, e da esso ha riconosciuto la finzione della morte; dalla carne disfatta  – del suo corpo, del corpo dell’America – ha intravisto un bagliore.
“Hai mai letto Il paese dei ciechi di H.G.Wells?” chiede Burroughs in una lettera (raccolta nel libro Le lettere dello Yage) indirizzata al suo carissimo amico Allen Ginsberg. “È la storia di un uomo che rimane bloccato in un paese dove tutti gli abitanti sono ciechi da tante di quelle generazioni che hanno perduto il significato del concetto della vista. Perde le staffe. ‘Ma non capite che io posso vedere?’ ”.
Così Giuseppe Genna. Giuseppe Genna?

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8 DOMANDE SU SCRITTORI E POLITICA, parte II http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/16/8-domande-su-scrittori-e-politica-parte-ii/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/16/8-domande-su-scrittori-e-politica-parte-ii/#comments Tue, 16 Dec 2008 22:43:11 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/16/8-domande-su-scrittori-e-politica-parte-ii/ na-moravia-un-secolo.JPGEcco la seconda parte del post “8 domande su scrittori e politica”, proposto in collaborazione con il trimestrale Nuovi Argomenti fondato nel 1953 da Alberto Carocci e Alberto Moravia.
Come ricorderete alcuni scrittori contemporanei sono stati invitati a rispondere a otto domande sul tema “letteratura e politica”. In particolare: Rossana Campo, Paola Capriolo, Angelo Ferracuti, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Valerio Magrelli, Dacia Maraini, Melania G. Mazzucco, Valeria Parrella, Antonio Pascale, Claudio Piersanti, Elisabetta Rasy, Roberto Saviano, Antonio Scurati, Walter Siti.

Nel post precedente vi avevo proposto le prime quattro domande del “questionario”. Di seguito troverete le altre.
Vi invito a dare la vostra risposta, poi – nei prossimi giorni – inserirò le risposte fornite dagli scrittori interpellati, infine vi chiederò di individuare – tra le risposte degli scrittori – quella con cui vi sentite più in linea (o che sembra a voi più congeniale) spiegandone le ragioni.
Come ho già scritto nel post precedente, si tratta – per certi versi – di una sorta di gioco che offre una possibilità di confronto su un tema interessante.
Ed ecco le quattro nuove domande…

- Chi sono oggi gli Indifferenti nella società e nella cultura?

- Le forze politiche sembrano abbandonare progressivamente progetti legati a ideali e programmi di ampio respiro. Simmetricamente nei cittadini cresce la disaffezione per il dibattito politico. Per uno scrittore l’abbandono della res publica è un dato da cui partire o una degenerazione cui opporsi?

- La politica insegue sempre più esclusivamente il consenso, eppure governare a volte è anche fare scelte impopolari. Potrebbe indicare quali sono secondo lei tre cose da fare, impopolari ma giuste, anzi necessarie per il nostro paese?

- Che cosa succede se uno scrittore va al governo?

A voi la parola!

Massimo Maugeri

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AGGIORNAMENTO DEL 17 DICEMBRE 2008

Aggiorno il post inserendo una recensione – inviatami da Salvo Zappulla – del volume “Politica, le idee contano ancora?” di Giuseppe Matarazzo – Orazio Mezzio (Rubbettino editore).
Naturalmente giro la domanda anche a voi:
A vostro avviso, in politica… le idee contano ancora?
Invito Giuseppe Matarazzo e Orazio Mezzio a partecipare al dibattito generale e a quello relativo al loro libro (rispetto al quale Salvo Zappulla mi darà una mano ad animare e moderare il post).
Massimo Maugeri

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“Politica, le idee contano ancora?” di Giuseppe Matarazzo – Orazio Mezzio (Rubbettino editore)
recensione di Salvo Zappulla

libro-politica-le-idee-contano-ancora.JPGDue amici costretti a separarsi per motivi di lavoro (Giuseppe emigra a Milano dove esercita la professione di giornalista nella redazione del quotidiano “L’Avvenire”; Orazio rimane nel proprio paese, dove farà il sindaco per ben tre legislature) continuano a scambiarsi le loro opinioni via mail. Ne viene fuori questo gustosissimo volumetto, ( Rubettino editore, pagg, 60, € 8,00, a cura di Giuseppe Matarazzo e Orazio Mezzio) nel quale l’ ormai ex sindaco confida all’amico giornalista le sue considerazioni sulla vita politica italiana. Matarazzo, approfittando della vecchia amicizia, si diverte a punzecchiare l’uomo politico, a provocarlo, lo costringe a tirare fuori i propri sentimenti, anche le amarezze per il qualunquismo imperante, la scarsa informazione che non ha permesso ai suoi cittadini di conoscere a fondo la gran mole di lavoro svolta come amministratore. Sembra un re in esilio, eppure ha sempre vinto le elezioni, nessuno lo ha mai spodestato, confida che si sta dedicando alla pesca subacquea. E qui si potrebbe ironizzare a lungo sulla sua nuova attività: è andato a fondo? Sta preparando la grande risalita? Si prefigge di scalzare Poseidone dal suo trono? Preferisce avere come interlocutori i pesci? I quali, essendo muti, non possono contestarlo? Orazio Mezzio è un uomo dalle idee chiare, manageriali, lungimiranti, ha una concezione moderna della politica; si considera un ex sindaco di trincea, costretto a scontrarsi con meccanismi farraginosi e colpevolmente ostili che hanno cercato di ostacolare la sua attività. Eppure ritiene di aver dato tanto al suo paese, le opere realizzate sono visibili e incontestabili: Il Museo dei Pupi è una realtà di cui va particolarmente fiero, così come il completamento del nuovo Palazzo comunale; la caserma dei carabinieri, e tante altre ancora. Emerge una visione ampia di come va intesa la politica nella sua essenza più nobile. Qualcuno lo ha accusato di essere accentratore, troppo decisionista ed eccessivamente frenetico nel far ruotare i suoi assessori. Lui ribatte che la sua è stata solo legittima difesa, che gli interessi personali, le piccole prese di posizione, le misere beghe e l’attaccamento alla poltrona di qualcuno non potevano prevalere sugli interessi della collettività. Si parte dallo spunto di quanto accaduto in un piccolo paese della Sicilia per toccare tutti i grandi temi della politica: l’avvento della legge Bassanini, il federalismo, l’etica, il dopo tangentopoli, la questione morale, le riforme. Un’analisi estremamente lucida e dettagliata che fanno di questo libro un piccolo scrigno da tenere sempre a portata di mano. Non a caso porta la prefazione di Giovanni Puglisi, Rettore dell’Università IULM di Milano e la postfazione di Andrea Piraino, Segretario generale dell’AnciSicilia, Direttore del Dipartimento Diritto Pubblico dell’Università di Palermo.
Salvo Zappulla

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Gli autori

Giuseppe Matarazzo, 32 anni, lavora nella redazione economica del quotidiano Avvenire. Dopo la laurea in Scienze politiche, si è specializzato in Politiche territoriali all’Università di Urbino e ha conseguito il primo Master in Giornalismo della Mondatori a Milano. Ha collaborato con diverse testate, fra cui Panorama On line e Tv Sorrisi e Canzoni. Ha mosso i primi passi giornalistici nel quotidiano Gazzetta del Sud e nel settimanale cattolico Cammino. Per il Comune di Sortino ha diretto il periodico Notizie in Comune.

Orazio Mezzio, 41 anni. Laureato in Scienze politiche a Catania con una tesi sulle origini del movimento politico dei cattolici. Nel 1986 è stato eletto nel consiglio nazionale dei giovani delle Acli. Nel 1994, consigliere provinciale di Siracusa. Dal 1995 al 2007 è stato eletto direttamente per tre volte sindaco di Sortino (Sr). Ha ricoperto incarichi nelle associazioni degli enti locali (Anci, Uncem e Aiccre) partecipando alla fondazione dell’associazione nazionale delle Città del Miele e dell’Unione dei Comuni “Valle degli Iblei”.
Insieme, nel 1993, hanno curato Liberi, ogni giorno!, la prima pubblicazione antiracket della provincia di Siracusa.

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8 DOMANDE SU SCRITTORI E POLITICA, parte I http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/30/8-domande-su-scrittori-e-politica-parte-i/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/30/8-domande-su-scrittori-e-politica-parte-i/#comments Sun, 30 Nov 2008 00:07:53 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/30/8-domande-su-scrittori-e-politica-parte-i/ na-moravia-un-secolo.JPGVi propongo un post in collaborazione con il trimestrale Nuovi Argomenti, fondato nel 1953 da Alberto Carocci e Alberto Moravia.
Il numero dell’ultimo trimestre dell’anno scorso (n. 40, quinta serie, ottobre-dicembre 2007, “Moravia un secolo”) fu dedicato proprio ad Alberto Moravia in occasione del centenario (ne abbiamo discusso anche su Letteratitudine qui). Tra le altre cose, in quel numero, figura un interessante “questionario”. Premetto che il “questionario” è stato uno dei più caratteristici strumenti di indagine di Nuovi Argomenti sin dai suoi inizi. Il suo ideatore e promotore fu proprio Alberto Moravia. Anche per questa ragione, nel numero sopraindicato di NA, al sostantivo “questionario” è stato aggiunto l’aggettivo “moraviano”. Nella fattispecie alcuni scrittori contemporanei sono stati invitati a rispondere a otto domande sul tema “letteratura e politica”. In particolare: Rossana Campo, Paola Capriolo, Angelo Ferracuti, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Valerio Magrelli, Dacia Maraini, Melania G. Mazzucco, Valeria Parrella, Antonio Pascale, Claudio Piersanti, Elisabetta Rasy, Roberto Saviano, Antonio Scurati, Walter Siti.

In questo post propongo a voi le prime quattro domande del “questionario”; le altre quattro ve le proporrò in un post successivo.
Vi invito a dare la vostra risposta, poi – tra un paio di giorni – inserirò le risposte fornite dagli scrittori interpellati, infine vi chiederò di individuare – tra le risposte degli scrittori – quella con cui vi sentite più in linea (o che sembra a voi più congeniale) spiegandone le ragioni.
Si tratta, per certi versi, di una sorta di gioco che offre una possibilità di confronto su un tema interessante.

Ne approfitto per ringraziare il poeta Carlo Carabba, nuovo capo redattore del trimestrale, per avermi inviato il “materiale” che troverete in questo post (autorizzandomi a pubblicarlo).

Ed ecco le prime quattro domande…

1. Ha senso oggi parlare di impegno per uno scrittore? Cioè esiste una responsabilità specifica degli scrittori in quanto scrittori?

2. Qual è oggi l’equilibrio possibile fra interessi privati e responsabilità collettiva?

3. Se il governo assume a tecnica politica l’organizzazione culturale, la partecipazione di uno scrittore, il suo impegno, non si riduce a un contributo più o meno significativo alla creazione del consenso?

4. Vi sentite più vicini al pragmatismo pessimista di Sciascia o all’indignazione lirica e visionaria di Pasolini di fronte ai guai della società italiana?

In merito alla prima domanda, “letteratura e impegno”, segnalo che in occasione della visita di Stato del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si sono aperti a Gerusalemme i «Dialoghi italo-israeliani» tra scrittori, critici, letterati e traduttori dei due paesi. Il tema degli incontri (che sono durati tre giorni e si sono conclusi il 27 novembre) è stato – appunto - «Letteratura e impegno». Vi riporto uno stralcio dell’intervento di Giulio Ferroni (nella foto), critico e storico della letteratura italiana (potete leggere il testo per intero sul sito del quotidiano “La Stampa”):
“I rivolgimenti che si sono dati alla fine del XX secolo e gli sconvolgimenti con cui ha avuto inizio il nuovo millennio hanno categoricamente smentito le ipotesi politiche e rivoluzionarie su cui si era a lungo sostenuto l’impegno degli intellettuali: e in molti casi hanno mostrato la natura illusoria e mistificatoria di quell’impegno, le contraddizioni e gli equivoci che lo costituivano. (…)
Insieme al crollo del comunismo sono crollati gran parte dei presupposti di quell’engagement, mentre si è data una vera e propria saturazione della modernità, interpretata in termini incongruamente ottimistici dagli apologeti del postmoderno, ma prolungatasi come frana, deriva, accelerazione indeterminata, incontrollabilità dei processi, rigurgiti di pregiudizi e fondamentalismi, intreccio perverso tra violenza e virtualità. In questo percorso [...] un autentico impegno non può coincidere più con la collaborazione ad un percorso storico, ad una tendenza o ad una linea politica, ma può svolgersi solo come conoscenza e testimonianza, ricerca di verità, lotta contro la saturazione del linguaggio, attenzione a vicende che riguardano luoghi concreti, situazioni specifiche, persone reali, a conflitti che chiedono una conciliazione, un arresto della violenza e dell’orrore. Responsabilità dell’intellettuale sarà allora in primo luogo, come ebbe a suggerire Elias Canetti, «responsabilità per la vita che si distrugge», impegno a dar voce alla resistenza dell’umano e della natura, alle ipotesi di equilibrio e di razionalità che si sono faticosamente costruite nei secoli, alla salvaguardia delle vite e degli spazi dalle oppressioni che le attanagliano e dalle molteplici minacce che gravano sulle esistenze individuali, sullo spazio civile, sull’ambiente sociale e naturale.
In questa chiave, l’impegno della letteratura si trova necessariamente ad essere «a parte»; non può mai risolversi nell’adesione a qualche gruppo precostituito; e tanto meno può porsi dalla parte del presunto cammino della storia, di quelle che i media considerano le tendenze vincenti, gli orizzonti del futuro. Lo scrittore non può condividere in nessun modo la sfrontata aggressività di chi, credendo di aver capito quali siano le tendenze profonde verso cui si muove il mondo, pretende di farsene carico, di cavalcare quel movimento verso il futuro. [...]
All’evanescenza del reale, alla difficoltà di percepirlo, corrisponde peraltro la difficoltà di identificare la verità, di intendersi su quale sia la verità: può essere allora molto rischioso postulare uno stretto collegamento tra impegno della letteratura e ricerca della verità, in un universo in cui tra l’altro sono in conflitto molteplici verità, che spesso si considerano nemiche, tendono a combattersi e reciprocamente ad annullarsi. La letteratura, proprio in virtù del sapere accumulato nel proprio passato, può dar luogo a sempre nuovi confronti con la pluralità e la relatività della verità, conducendo necessariamente ad un’apertura verso più verità date e verso più verità possibili: in una negoziazione tra verità, che non può prescindere da un’ottica critica, da uno sguardo critico agli effetti che ogni verità possono avere sulla vita, al suo possibile contributo alla sua difesa dalle minacce che su di essa incombono. Non la verità come distruzione (era il sogno di tanto nichilismo rivoluzionario che ha ancora accecati adepti), non la ricerca di una trasparenza assoluta rivolta a squarciare i fragili veli su cui si regge l’equilibrio delle società umane, ma una scommessa per una verità plurale che aiuti a resistere alla distruzione, a difendere la vita minacciata degli individui, dei gruppi sociali, dei popoli, dell’intero pianeta. (…)”

E ora… a voi, come sempre, la parola.

Massimo Maugeri

P.s. Segnalo inoltre questo sito su “Nuovi Argomenti” (che è però ancora in fase di costruzione).

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AGGIORNAMENTO DEL 2 DICEMBRE 2008

Tempo fa mi ha scritto Sofia Assirelli, studentessa in Scienze della Comunicazione pubblica, politica e sociale dell’Università di Bologna:

Gentilissimo Massimo Maugeri,
mi chiamo Sofia Assirelli, sono una studentessa della Laurea specialistica in Scienze della Comunicazione pubblica, politica e sociale dell’università di Bologna. Per motivi di studio sto seguendo il progetto della collana editoriale Verdenero – Noir di ecomafia (www.verdenero.it) e delle attuali tendenze letterarie italiane nei confronti della società e dei suoi problemi.
Sarebbe molto interessante conoscere l’opinione dei lettori del suo blog su questa collana e in generale sul rapporto tra problemi sociali e romanzi o racconti di finzione. Pensa che sia possibile proporre una discussione di questo tipo?
La ringrazio per l’attenzione resto in attesa di un suo gentile riscontro.
Sofia Assirelli

A seguito di quella mail ho dato piena disponibilità a Sofia, invitandola a scrivere un “pezzo” che poi avrei utilizzato per avviare una discussione. Siccome questo post mi pare piuttosto “in linea” con la proposta della Assirelli, ho pensato di inserire il suo contributo qui di seguito (vi invito a leggerlo con attenzione):

Se il romanzo possa o meno raccontare la società e le sue ombre più inquietanti è una domanda che ci si pone dal momento in cui, a fatica, il romanzo è riuscito a vincere le diffidenze legate al suo essere/non essere veritiero e ad affermarsi presso un ampio pubblico. Questa riflessione ha poi sempre trascinato con sé alcuni corollari concettuali che riguardano il rapporto tra finzione letteraria e realtà, il ruolo degli scrittori tra intrattenimento e denuncia, il discorso sui generi e le retoriche, sulle loro ibridazioni e convergenze. Scema però intanto sempre di più la diffidenza nei confronti della fiction in generale e aumenta la consapevolezza del suo potere seduttivo, tanto che essa viene sfruttata – e a volte abusata – come grimaldello per catturare l’attenzione delle persone negli ambiti più differenti. Tra questi si può anche considerare la comunicazione sociale che ha iniziato proprio recentemente ad apprezzare e studiare criticamente le implicazioni dell’utilizzo di meccanismi come la fiction teatrale o cinematografica per ottenere nuove possibilità di accesso al pubblico.
Ora anche la fiction letteraria si occupa di comunicazione sociale: di novità e particolare interesse risulta infatti essere il progetto VERDENERO ideato dalla casa editrice “Edizioni Ambiente”, che propone proprio di utilizzare testi di narrativa di finzione di grandi firme italiane (Macchiavelli, Vinci, De Cataldo, Colaprico, Dazieri, Wu Ming …), come parte di un progetto integrato di comunicazione in collaborazione con Legambiente, per sensibilizzare il più ampio numero possibile di persone su un complesso di fenomeni criminali poco conosciuti che rientrano sotto il termine di “Ecomafia”.

Le ragioni dell’interesse di questo progetto sono molte. Innanzitutto la sua origine: “Edizioni Ambiente”, casa editrice specializzata in saggistica di tema ambientale ed ecologico, si è trovata a pubblicare il “Rapporto annuale Ecomafia di Legambiente”, riconoscendolo come uno strumento di conoscenza eccezionale, giacimento di molte storie che però restavano quasi completamente inascoltate e ignorate. Felice intuizione di “Edizioni Ambiente” è stata di provare a fare raccontare da autori molto conosciuti del panorama letterario italiano le stesse storie con i meccanismi tipici della finzione letteraria. Un’altra particolarità riguarda il processo di creazione delle storie, dal rapporto Ecomafia all’invenzione artistica: la casa editrice propone agli autori le storie e li accompagna sia nel processo di definizione dei contenuti (seppur lasciando ampie libertà all’interpretazione dell’autore) sia per quanto riguarda la raccolta delle informazioni (“Edizioni Ambiente” fornisce agli autori reportage, articoli, ricerche, incontri con specialisti). Infine, un altro punto da sottolineare (anche se ovviamente l’interesse della collana non si esaurisce in questi tre punti) è l’integrazione e l’interrelazione dei romanzi con molti altri strumenti comunicativi (identità visiva e grafica forte, sito, blog, manifesti, merchandising, organizzazione di eventi) che rendono la collana sia oggetto di un efficace marketing editoriale sia uno dei motori attivi e propulsivi di un’ampia campagna di marketing sociale.
Questi e molti altri elementi, oltre alle dinamiche virtuose che questo progetto editoriale ha innescato e gli ottimi risultati (in termini di vendite, di attenzione mediatica, di apprezzamento della comunità degli autori e dei lettori ecc.) rendono il progetto VERDENERO un esempio da studiare attentamente in quanto si presenta come occasione per sollevare varie questioni e avanzare proposte operative per il futuro della comunicazione sociale.
Quello che vi chiediamo è:
- Per chi ha letto uno o più titoli della collana, cosa ne pensate del progetto editoriale in generale e dei romanzi nello specifico?
- In che modo e con quali limiti i romanzi possono parlare dei problemi sociali?
- I romanzi possono essere strumenti di comunicazione sociale? Avete qualche esempio da portare?

(Sofia Assirelli)
Ecco… vi sarei grato se poteste provare a rispondere alle domande di Sofia. Inoltre ne approfitto per invitare a partecipare al dibattito il dr. Alberto Ibba, direttore commerciale di “Edizioni Ambiente”. ————————————–

Paola Avidgor dell’ufficio stampa di Guanda, invece, mi segnala l’uscita dell’Almanacco Guanda 2008 curato da Ranieri Polese (è già in libreria dal 13 novembre).
L’Almanacco Guanda 2008 (Guanda, euro 22, pagg. 192) si intitola “Il romanzo della politica. La politica del romanzo” ed è perfettamente in linea con questo post. Esso intende esplorare il fenomeno recente di un ritorno dei narratori italiani a temi-personaggi-questioni di politica, a cui risponde, specularmente, un altro ritorno: quello del giornalismo politico d’impianto fortemente romanzesco.
All’interno del volume troverete una riflessione a più voci sul tema proposto, con interventi di Bruno Arpaia, Gianni Biondillo, Marzio Breda, Fulvia Caprara, Alberto Casadei, Roberto Casalini, Franco Cordelli, Andrea Cortellessa, Giancarlo De Cataldo, Mario Desiati, Paolo Franchi, Giuseppe Genna, Ranieri Polese, Alberto Rebori, Gaetano Savatteri, Corrado Stajano.
Approfondimenti… qui.

Vi ringrazio per l’attenzione.

Massimo Maugeri

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