LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » goethe http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove – di Francesco Roat http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/27/desiderare-invano/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/27/desiderare-invano/#comments Fri, 27 Feb 2015 16:48:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6694 Nel primo appuntamento del nuovo spazio di Letteratitudine dedicato alla “Saggistica Letteraria” diamo spazio al volume “DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove” di Francesco Roat (Moretti & Vitali).
Di seguito: una nota sul libro (tratta dalla postfazione di Flavio Ermini), un intervento dell’autore (predisposto in esclusiva per Letteratitudine,  in cui ci racconta qualcosa sul volume) e un estratto del libro.
Massimo Maugeri

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Dalla postfazione di Flavio Ermini

La leggenda del patto tra Faust e il demonio può essere letta come un mito: ovvero come una narrazione primordiale, grazie alla quale interrogarci sulla natura dell’essere umano e finanche sulla sua essenza.
È quanto fa Francesco Roat in Desiderare invano, seguendo passo per passo la vicenda narrata da Goethe, ma senza dimenticare – in frequenti, vertiginosi excursus – le tante altre opere letterarie, teatrali o musicali ispirate alla figura dello studioso che sottoscrive il più celebre dei patti stipulati tra l’essere umano e il diavolo. È lucidissima, a questo proposito, la riflessione che l’autore mette in campo intorno alle forme del desiderio e ai suoi aspetti irrisolti e paradossali.
Il desiderio di conoscere ogni cosa e di carpire tutti i misteri del mondo è un’ambizione che eccede l’umano e si traduce, come osserva Roat, “non già in un anelito sovrumano quanto disumano”! L’umanità sta da un’altra parte. Si rivela solo affrancandosi dalle illusioni.
Ritenere di poter sfuggire all’esperienza della morte e del dolore è perversione, è tradimento, è corteggiare un precipizio. Solo la coscienza della profonda unità del cosmo – alla quale siamo chiamati nascendo – può placare l’angoscia della caducità e può consentirci di abbracciare una visione della vita che sposti l’accento sul morire come legge dell’esistenza; può indurci a prendere consapevolezza dell’impossibilità di ogni assoluto, di ogni eterno piacere. Può consentirci di abbracciare i chiaroscuri di una persistente umbratilità.

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Francesco Roat ci “racconta” DESIDERARE INVANO

di Francesco Roat

F. Roat leggeIl mito di Faust nasce a cavallo tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna, ma la storia dell’uomo che ha venduto la propria anima al diavolo è riconducibile a un personaggio realmente vissuto, riferendosi al negromante e astrologo tedesco Johann Faust (1480-1540); anche se in essa non mancano rimandi a racconti e a mitologemi di derivazione ancora più remota.Nel mio saggio (“Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove”, edito da Moretti&Vitali) sostengo, sulla scia di André Neher, che quello faustiano sia “il mito dell’uomo moderno” per antonomasia, incarnando il suo protagonista il desiderio di affrancarsi dai retaggi dogmatici e l’urgenza di tendere in modo inesausto a superare ogni limite: atteggiamento spesso destinato a tradursi in velleitario desiderio d’onnipotenza, il quale trova la sua massima espressione storica non tanto nell’Übermensch nicciano, quanto nell’aberrazione che di tale figura ha prodotto il nazismo.
Faust è però anche l’anticonformista che vuole gustare ogni piacere, appagare ogni istinto o voglia. Al contempo egli esprime l’insoddisfazione dell’individuo perennemente inquieto e mai davvero pago di nulla. Il mito di Faust – è dunque la tesi del saggio − fornisce una chiave di lettura dell’uomo occidentale post/tardo-moderno agli inizi del terzo millennio: incline al disincanto e deluso da ogni “credo” ideologico, monade imbozzolata nella sua chiusura all’insegna d’un narcisismo tendente alla reificazione dell’altro da sé e tutto preso da una perenne tensione desiderante; quando non si lasci irretire dal tedium vitae o, peggio ancora, da un nichilismo mortifero.
Il mio libro intende perciò esplorare ciò che è sotteso all’inquietudine desiderante di Faust (lo Streben), ovvero una hybris antica quanto l’uomo o forse ancor di più. Non a caso il primo personaggio preso in esame dal testo è Lucifero, che – nell’ambito della cultura giudaico-cristiana – rappresenta la scaturigine del male in quanto espressione di somma tracotanza. Ѐ Lucifero infatti a indurre la coppia primordiale umana all’illusoria speranza di divenir pari a Dio. Seconda figura mitologica cruciale risulta – qui, accanto ad altre − quella di Prometeo, il cui titanismo/superomismo (espressione dell’eccesso e della dismisura) finisce per alienare l’uomo da ciò che gli è più proprio: il limite, la vulnerabilità e la caducità.
Vengono quindi analizzati due aspetti basilari del carattere faustiano: il nichilismo e la Stimmung melanconica. Tratti significativi dell’irrisolutezza e debolezza del “sentire” faustiano; e del bisogno d’ancorarsi a un alter ego che nel mito in questione assume i panni del demonio Mefistofele − secondo Goethe: “lo spirito che sempre nega” − istigando Faust a firmare col proprio sangue il noto patto, in seguito al quale egli sarà disposto a cedere l’anima al diavolo se riuscirà a gustare un del tutto appagante “attimo bello”.
Fulcro centrale dell’opera è costituito da un’ampia riflessione intorno al desiderio e ai suoi aspetti irrisolti e paradossali. Soprattutto nei confronti del desiderio per antonomasia, quello amoroso, che qui annovera tra i suoi estimatori personaggi che vanno da Orfeo a Don Giovanni, dalla Diotima del Convivio platonico a Elena di Troia: archetipo ineguagliabile di bellezza muliebre.
Dopo aver trattato dell’invidia quale contraltare patologico del desiderio, un capitolo è dedicato ai due volti antitetici della “cura” (angoscia e sollecitudine) prendendo spunto dalla lezione di Heidegger e facendo riferimento a una delle scene più inquietanti del Faust di Goethe. Mentre l’ultima parte del saggio è rivolta alla disamina della conclusione del capolavoro goethiano in cui compaiono figure allusive e simboliche, forti d’una intensissima espressività poetico-metaforica, in grado di accennare – come non può il discorso saccente della razionalità − all’indicibile della metafisica.
Per terminare infine la lettura del mito faustiano suggerendo la possibilità d’una terza via tra la hybris − tesa a oltrepassare ogni limite, illudendoci di poter abolire la weiliana necessità ineludibile − e l’inerzia sterile dell’autocompiacimento o del disincanto, auspicando la nascita di una nuova parola che sappia andare oltre logos e mithos senza però la tracotanza d’impossibili svelamenti definitivi. Poiché non si tratta più per noi di far chiara luce; piuttosto d’abitare i chiaroscuri di un’umbratilità destinata a rimanere tale in quanto mai totalmente illuminabile dal faro abbacinante della ragione o dalla visionarietà estatica.

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UN ESTRATTO di DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove” di Francesco Roat (Moretti & Vitali).

Riacquistare la giovinezza perduta

Nel capolavoro goethiano il primo intervento compiuto da Mefistofele
è una trasmutazione prodigiosa. Con una sorta di pseudomiracolo,
il demonio − nella “cantina di Auerbach a Lipsia” (Auerbachs
Keller in Leipzig) dove i due compari si sono recati − riesce
a far sgorgare del vino da un tavolo che egli ha perforato con un
“succhiello” (Bohrer). È una chiara allusione/profanazione rispetto
al primo miracolo compiuto da Cristo, quello delle “nozze di
Cana” (Gv. 2, 1-11), nel quale Gesù trasforma dell’acqua in vino.
Va tenuto conto che sin dall’Antico Testamento il vino – immaginificamente
– indicava il legame sponsale tra il popolo eletto e
YHWH, e nel Nuovo Testamento non si fa che ribadire come il
vino sia simbolo dell’amore di Dio e del Figlio verso gli uomini.
L’ultima cena, poi, segnerà l’apoteosi di questa antica metafora;
in quanto nell’eucarestia il Cristo, mediante la transustanziazione,
muterà il vino nel proprio sangue, offerto in dono ai credenti.
Mefistofele dunque appare qui come simia Christi, quale fraudolento
e goffo contraffattore evangelico. Il suo trucco illusionistico
però non soddisfa per nulla Faust, che non mostra stupore
o interesse per quella specie di “miracolo” (Wunder) da baraccone.
Anzi egli dice in modo sbrigativo al suo servitore di voler
allontanarsi dalla bettola: «Ora io avrei voglia di andar via». La
mera ebbrezza non riesce perciò ad appagare minimamente il magister
e il primo atto diabolico si conclude in un nulla di fatto. Da
qui la seconda carta giocata da Mefistofele, che è poi quella di far
ringiovanire Faust. Così i due si recheranno in una “cucina di strega”
(Hexenküche), dove l’attempato dottore berrà una magica “pozione”
(Trank) destinata a svecchiarlo in un baleno di vari decenni.
Il desiderio di tornare (o rimanere) giovani è forse antico quanto
l’umanità. A livello mitologico, presso diverse antiche culture
– tanto in Europa che in Asia, quanto in America −, è possibile
rinvenire numerose varianti relative alla ricerca della favolosa fonte
(o sorgente) della giovinezza, che consentirebbe a chi beve (o si
asperge) di quell’acqua l’ottenimento dell’eterna gioventù, della
salute e persino dell’immortalità. Tali leggende sono strettamente
legate al mito di Faust, il quale, grazie alla magia, ottiene
di ringiovanire: sogno oggi quanto mai vagheggiato da chi cerca
soluzioni altrettanto miracolistiche attraverso la chirurgia estetica
e la cosmesi o spera in utopistici prodigi biotecnologici. Ma la
realizzazione d’una più o meno perpetua giovinezza e/o il (per ora
solo fantascientifico) prolungamento ad libitum dell’esistenza potrebbe
comportare cosa? Se lo è chiesto anche Naief Yehya, in un
recente saggio intorno ai futuribili e inquietanti scenari del corpo
postumano, e questa è la sua risposta: «È indubbio che la prospettiva
di cambiare corpo come si cambia auto o appartamento è affascinante,
ma che ne sarà dello spirito umano in un mondo senza
vecchiaia dove si potrà comprare la vita eterna?». E abbozza una
risposta concludendo che la specie Homo sapiens: «Si definisce
attraverso la preminenza e l’irreversibilità dei cicli vitali. La mortalità
e la certezza del fatto che ogni istante è unico, e che la vita
è irripetibile e preziosa. In un mondo dal quale sia stata sradicata
la tragedia umana, morire senza lasciare traccia sarà forse l’unico
atto rivoluzionario».
Ma se non ci è dato sapere cosa accadrà all’Homo cyborg, siamo
però a conoscenza di quel che è successo a Faust, il quale, pur
riacquistando la giovinezza, non l’ha certo ritenuta appagamento
bastevole al suo Streben. Di conseguenza Mefistofele è costretto
a giocare una terza carta: quella con cui cercherà di saziare l’appetito
sessuale del suo protetto e altresì la brama di conquistare e
far propria una ragazza “così modesta e così virtuosa” (so sitt- und
tugendreich), quale l’inesperta Margherita. Ciononostante − come
potrà immaginare anche chi non conosca la trama del Faust − neppure
aver sedotto la giovane farà dire all’uomo: «Attimo: resta, sei
così bello!».
E la prima parte dell’opera di Goethe termina piuttosto con la
reiterata/scontata frustrazione/insoddisfazione del protagonista. A
ben poco è valso proporre al nostro dottore la troppo facile ebbrezza
della droga alcolica, farlo apparentemente/esteriormente
ringiovanire (è però possibile, a onta della magia mefistofelica, che
l’anziano accademico − tornato giovane solo nel fisico, ma rimasto
a livello mentale il vecchio magister di prima – sia davvero ringiovanito?)
e infine fargli sedurre una pur splendida adolescente. Unico
scopo raggiunto da Mefistofele è alimentare e far perdurare la spirale
perversa costituita dal reiterarsi di brama-appagamento-nuova
brama. Il misero Faust lo comprende perfettamente, ma l’averne
coscienza non basta a fare in modo che il circolo vizioso s’interrompa.
E: «Così trascorro dal desiderio al godimento, / e nel godimento,
anelo al desiderio», confessa il protagonista, incapace di
sottrarsi alla folle giostra del desiderare invano.

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Francesco Roat ­­­– narratore, saggista e critico letterario trentino ­–, già insegnante di lettere nella Scuola Secondaria e consulente editoriale, si occupa di cultura su quotidiani, settimanali e riviste. (Suoi interventi sono apparsi su: L’AdigeL’Alto AdigeAvvenimentiCartaCaffè EuropaCafè letterario di AliceChe libriDiarioIl ManifestoIl Mucchio selvaggioIl Nuovo, Il Sussidiario, Il Trentino, InchiostroLeggereLiberazioneLiberalL’ImmaginazioneL’Indice, Linea d’ombra, L’UnitàNautilusPickwickPulpStilosWeb Magazine, Wuz). Ha pubblicato il libro di racconti Tra-guardo (Argo) – i romanzi: Una donna sbagliata (Avagliano),Amor ch’a nullo amato (Manni), Tre storie belle (Travenbooks), I giocattoli di Auschwitz (Lindau), Hitler mon amour (Avagliano) – i saggi: L’ape di luglio che scotta – Anna Maria Farabbi poeta(Lietocolle), Le Elegie di Rilke tra angeli e finitudine (Alpha-Beta), La pienezza del vuoto ­– Tracce mistiche negli scritti di Robert Walser (Vox Populi). A gennaio del 2015 verrà pubblicato il nuovo saggio: Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove (Moretti&Vitali). Un suo romanzo (Tre storie belle), recentemente tradotto in tedesco, è stato presente  all’ultima Fiera del Libro di Francoforte. L’autore sta inoltre curando per l’Ed. Lietocolle una nuova traduzione delle “Poesie della torre”, di Hoelderlin. (Francesco Roat dedica inoltre gratuitamente parte del suo tempo al volontariato in ambito sanitario-assistenziale: presso l’Ospedale S. Chiara, l’Hospice, nonché il Centro diurno Alzheimer di Trento). La sua opera più recente è il romanzo “HITLER MON AMOUR” (Avagliano)

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STRANE COPPIE n. 2: GOETHE, FOGAZZARO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/02/strane-coppie-n-2-goethe-fogazzaro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/02/strane-coppie-n-2-goethe-fogazzaro/#comments Sun, 01 Mar 2009 23:02:24 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/02/strane-coppie-n-2-goethe-fogazzaro/ fogazzaro-goethe.JPGSeconda puntata de “Le strane coppie”, offerta dalla nostra Antonella Cilento.
Stavolta mettiamo a confronto Goethe e Fogazzaro. Accostiamo Le affinità elettive a Malombra grazie agli ottimi interventi di Giuseppe Montesano e Francesco Costa.
Cosa hanno in comune questi due libri in apparenza diversi?
Ce lo spiega Francesco Costa quando scrive: “In comune con le Affinità elettive c’è la decisione di Fogazzaro di mettere in scena un quartetto di personaggi che, come nel libro di Goethe, sono due donne e due uomini, e di stabilire fra loro delle interrelazioni magnetiche che porteranno tre di loro a tragica sorte. Come in Goethe, le figure sono contrapposte per età, per lignaggio e per tonalità cromatiche (…).
Di seguito avrete la possibilità di leggere l’introduzione di Antonella Cilento e gli ottimi contributi di Montesano e Costa.
Vi invito a discutere sui due classici “accoppiati” e sui loro autori prendendo spunto dai suddetti contributi.
E poi vi porgo le mie solite domandine collaterali…
In merito a Le affinità elettive Giuseppe Montesano scrive: “Secondo la chimica dell’800 le “affinità elettive” erano le forze misteriose che spingevano i corpi affini ad attrarsi, dissolvendo i legami precedenti e formando nuovi legami: esattamente ciò che è messo in scena nel romanzo. Ma la forza selvaggia della natura, che disgrega le coppie e le riforma nuove, si scontra in Goethe con la civiltà: il matrimonio, le convenienze, il dovere, la responsabilità.”
Vi chiedo…
A vostro giudizio esistono davvero le affinità elettive, o si tratta solo di un mito?
Ritenete che questo capolavoro di Goethe sia ancora attuale?
Che relazione c’è tra “amore” e “senso di responsabilità”?

Infine (riprendendo una frase di Montesano), esiste un mondo – o una dimensione – in cui l’amore non viene messo a morte dalla società?

Marina, protagonista di Malombra, è definita da Francesco Costa come “insoddisfatta, fremente, furiosa, (…) una parente non tanto alla lontana di Anna (Karenina) e di Emma (Bovary), delle quali spartisce una vocazione all’autodistruttività”.
Vi propongo una domanda che troverete nel testo di Costa.
Perché l’insoddisfazione delle donne ha ispirato gli artisti nel corso dei millenni?
E poi…
Chi, tra uomo e donna, riesce a sopportare meglio il peso – talvolta insostenibile – dell’insoddisfazione, della frustrazione?

A voi.

Massimo Maugeri

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Introduzione di Antonella Cilento

Cari amici de L’Ombra e la Penna,
eccovi la seconda puntata delle Strane Coppie, progetto in sei incontri dove sei coppie di autori contemporanei rileggono coppie di grandi classici italiani, francesi, spagnoli e tedeschi. Strane Coppie è un progetto di Lalineascritta Laboratori di Scrittura (www.lalineascritta.it) in collaborazione con Goethe Institut, Institut Français de Naples e Instituto Cervantes, che si tiene a Napoli con incontri aperti al pubblico da gennaio a giugno presso le sedi degli Istituti.
In questa seconda manche, tenutasi giovedì 19 febbraio, si sono confrontati Giuseppe Montesano e Francesco Costa, rispettivamente impegnati a raccontare Le affinità elettive di Goethe e Malombra di Antonio Fogazzaro.
Ringrazio Giuseppe Montesano per averci concesso l’articolo uscito su Il Mattino martedì 17 febbraio e Francesco Costa per aver voluto riassumere per noi il suo intervento.
Grazie e entrambi per la generosità e l’intensità.

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LE AFFINITA’ ELETTIVE
di Giuseppe Montesano

Si può raccontare la trama di un capolavoro? Proviamo. Una coppia felice vive in una villa circondata da un immenso parco. Edoardo e Carlotta si amavano da giovanissimi, poi lui è stato costretto dalla madre a sposare una donna più vecchia ma ricca e innamorata di lui, e lei un uomo altrettanto ricco e in fondo affascinante. Morti i rispettivi coniugi, Carlotta e Edoardo, che hanno intorno ai 35 anni e sono coetanei, si sposano: decidendo di vivere il loro grande amore in ritardo lontani dal mondo, l’uno per l’altra. Tutto è perfetto, nella villa e nel parco: e Edoardo, perché la gioia sia massima, implora Carlotta di accogliere in casa un suo amico fraterno, il Capitano; e, perché l’amico abbia compagnia, propone alla moglie di far venire a vivere con loro anche la figlioccia di Carlotta, la diciottenne Ottilia. E poi? E poi sono cominciate nel loro splendore sinistramente lunare Le affinità elettive, il più misterioso dei libri di Goethe e uno dei romanzi più ambigui e abissali della letteratura occidentale. Quello che accadrebbe al riunirsi delle due “coppie”, sarebbe ovvio in un romanzo di Moravia: Carlotta e il Capitano andrebbero a letto, e lo stesso farebbero Ottilia e Edoardo. E Goethe? Il cinquantottenne Maestro, che all’epoca si era innamorato di una diciottenne e aveva rinunciato alla ragazza, scrive una tragedia dove un erotismo intrattenibile viene coperto da un velo di eleganza suprema: scrive Le affinità elettive. Secondo la chimica dell’800 le “affinità elettive” erano le forze misteriose che spingevano i corpi affini ad attrarsi, dissolvendo i legami precedenti e formando nuovi legami: esattamente ciò che è messo in scena nel romanzo. Ma la forza selvaggia della natura, che disgrega le coppie e le riforma nuove, si scontra in Goethe con la civiltà: il matrimonio, le convenienze, il dovere, la responsabilità. A ogni pagina delle Affinità elettive il lettore moderno dice: basta, divorziate, e risolvete il problema! Ma Goethe non vuole lieti fine, né vuole tranquillizzare: vuole raccontare la misteriosa potenza dell’amore, il suo essere al di là del bene e del male, il suo essere un “pharmakon”, il veleno che uccide o che salva. E racconta la forza del caso, dell’occasione che mette in crisi ragione e morale. Un esempio? A un certo punto del romanzo c’è un capitolo superbo: è sera, in un corridoio Edoardo sta pensando a Ottilia, la desidera, vorrebbe andare nella sua stanza; ma la stanza della ragazza è lontana, sveglierebbe tutti; lì vicino, c’è la porta della camera della moglie; Edoardo allora, con un atto inconscio, bussa, sorprende Carlotta in camicia da notte, e dice che è venuto per baciarle “il piedino”; lei risponde che era da tempo che non lo faceva, i due si sfiorano al lume delle candele, e finiscono a letto facendo giochi erotici da amanti; ma al mattino Edoardo fugge, in colpa: sente di aver tradito insieme la moglie e Ottilia. E Carlotta? Carlotta ha accettato da brava moglie il piacere di una sera, ma, a sorpresa, scopriamo che un attimo prima dell’arrivo del marito, stava pensando con desiderio al Capitano, e quando ha sentito bussare alla porta ha temuto e voluto che fosse proprio il Capitano a farle visita: ha aperto tremante e sensuale, e si è trovata davanti il marito. In poco meno di cinque pagine sottili, essenziali, erotiche come un passo delle Relazioni pericolose di Laclos e leggiadre come un arredamento rococò, Goethe ha dispiegato tutta la sua potenza di scrittore. L’intero romanzo è così: un fiume di fuoco sotto una trasparente lastra di gelo, un affiorare di sensualità selvaggia sotto un’etichetta quasi stucchevole, l’ardere quieto dell’amore in cui Ottilia e Edoardo scordano il mondo: “Li univa un’indescrivibile, quasi magica forza di attrazione. Anche se non pensavano espressamente l’uno all’altra, presi ognuno dalle proprie occupazioni e distratti dalla compagnia, finivano per avvicinarsi. Se si trovavano in una stanza, non passava molto tempo che erano già vicini. Solo la vicinanza immediata poteva acquietarli: e tale vicinanza bastava, non servivano sguardi, parole, gesti, movimenti. Solo essere insieme.” Ma dalla parte di chi sta Goethe? Dalla parte del dovere coniugale o dalla parte dell’amore assoluto? Alla fine del romanzo (e basta, raccontare la trama: leggete o rileggete da soli Le affinità elettive, a scelta tra le due traduzioni migliori, di Paola Capriolo e Ada Vigliani) i due innamorati giovani, romantici e dissennati, muoiono, e non sono nemmeno riusciti a fare l’amore: come invece faranno, o forse hanno fatto, i più ragionevoli Carlotta e il Capitano. Allora Goethe punisce chi viola il matrimonio? Punisce la passione amorosa? Punisce gli innamorati eternamente giovani? Sì. Forse. No. Le ultime parole del romanzo dicono che Ottilia e Edoardo si risveglieranno un giorno per congiungersi in carne e anima, e quel giorno la loro felicità sarà indicibile. La resurrezione dei corpi del Cristianesimo viene piegata da Goethe a rappresentare il potere di Eros, l’amore che trionfa contro la morte e contro la legge: la promessa fatta dal vecchio Goethe a Ottilia è che deve per forza esserci un mondo nel quale l’amore non viene messo a morte dalla società. Dove sarà questo mondo? Quando comincerà questo mondo? Per il tardo Goethe il dove e il quando non importano più: lui sa che il mondo sperato nella disperazione, il mondo in cui gli amanti “vegliati da angeli affini” si uniranno, deve per forza esistere perché esista una vita vera. Ciò che importa, e che molti interpreti non hanno avuto il coraggio di vedere, è che non c’è nessuna religione della rinuncia in Goethe. Nelle Affinità elettive la rinuncia è forzata, non è una scelta; nel tardo Goethe non c’è nessuna passione spenta, nessuna olimpica freddezza, e nessuna pace fasulla è arrivata; ciò che in lui sembra conciliato, lo è solo nell’impossibile desiderio di sciogliere le contraddizioni senza annullarle. Con la ferocia che il Maestro in un’arte deve sempre avere, con l’infinita tenerezza di chi conservò fino all’ultimo una scheggia di paradisiaca infanzia erotica in sé, con lo sguardo stoico che non chiude gli occhi di fronte al male e al disordine se anche li odia, Goethe strinse nelle Affinità elettiva un nodo che ancora toglie il fiato, un sogno che ancora implacabilmente parla della nostra mancanza di sogni.

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MALOMBRA
di Francesco Costa

Quante parole si sono scritte sull’insoddisfazione delle donne, quanta indignazione ha suscitato questo tema, quante lacrime ha fatto versare. La donna guarda oltre, vede cose lontane, scalpita perché si avverino i sogni, freme di rabbia per l’impossibilità di intrecciare da sola i fili del suo destino. Guardava oltre, guardava cose invisibili agli altri anche Cassandra, figlia di un re destinato alla rovina, amata e compatita da Omero, e condannata dal crudele Apollo a vedere scetticismo e derisione addensarsi intorno alle sue profezie, e in un finale purtroppo modernissimo (basta chinarsi sui recenti, abominevoli fatti di cronaca in Italia) le tocca di essere violentata proprio sull’altare che fa da fondamento alla sua vocazione di profetessa inascoltata, e si può non trovare struggente il suo ultimo viaggio, quell’andare incontro ai pugnali che la trafiggeranno in Grecia, quando si pensa che neppure sulla nave che solca l’Egeo e l’avvicina inesorabilmente ai suoi carnefici sarà dato credito alla sua profezia di una morte violenta che attende sia lei che il suo carceriere?
Perché l’insoddisfazione delle donne ha ispirato gli artisti nel corso dei millenni?
Perché da sempre l’artista spartisce non poco con la condizione femminile (e non a caso Virginia Woolf afferma perentoria che l’artista non ha sesso), essendo condannato a far delle sue visioni uno spasso per ricchi in cambio di una minestra o di un tetto sulla testa e a pazientare perché esseri non di rado insensibili decidano quanto profitto si può trarre dalla sua ispirazione…
Ed eccoci allora a Marina di Malombra, che di Cassandra è una riconoscibile discendente, perché guarda a sua volta molto lontano, si perde in fantasticherie che danno le vertigini, e per sua sfortuna vive in un’epoca in cui questo dono si chiama nevrosi.
Insoddisfatta, fremente, furiosa, è così Marina. E’ una parente non tanto alla lontana di Anna (Karenina) e di Emma (Bovary), delle quali spartisce una vocazione all’autodistruttività che in queste ultime settimane, grazie al successo del film Revolutionary Road, tormenta e angoscia anche April Wheeler, casalinga statunitense di smisurate (e purtroppo mal riposte) ambizioni artistiche, inventata dallo scrittore Richard Yates con precisi riferimenti alla Bovary.
Come Emma, Marina vuole danzare, stordirsi a banchetti e feste, viaggiare verso lidi remoti, innamorarsi, sfuggire all’uggia della vita di provincia, trovare lenimento a un martellante fantasticare senza costrutto che alla fine la condurrà alla follia.
Per erodere alla base piramidi di noia che le si ergono davanti in tante giornate uguali a se stesse, in uno stato d’animo febbrile e prossimo al delirio che autorizza le più ardite fantasmagorie, Marina racconta a se stessa di essere la reincarnazione di un’ava, Cecilia, condannata come adultera a seppellirsi viva nello stesso maniero in cui, anni dopo, lei si vede ridotta a far la stessa fine, e senza neanche essersi macchiata di adulterio, visto che non le va di sposarsi con nessuno.
E’ breve il passo da lì a vedere nell’odiato zio che le lesina denaro e svaghi il doppio, il sosia dell’antenato che ha fatto morire la sventurata Cecilia. In una vita che non è vita, trapunta di ore in cui tutto è spento, Marina tramuta se stessa e gli altri in tanti revenants, ombre di esseri passati anni prima su questo pianeta, ed ecco che finalmente tutto acquista un senso, il cuore si gonfia di sensazioni eroiche, e la noia viene infine bandita perché la giovane s’è data un compito: quello di vendicare se stessa e la sua antenata.
In comune con le Affinità elettive c’è la decisione di Fogazzaro di mettere in scena un quartetto di personaggi che, come nel libro di Goethe, sono due donne e due uomini, e di stabilire fra loro delle interrelazioni magnetiche che porteranno tre di loro a tragica sorte.
Come in Goethe, le figure sono contrapposte per età, per lignaggio e per tonalità cromatiche: se Marina è l’oscurità (come lo è Fosca, l’eroina di un bel racconto di Ugo Igino Tarchetti, che è però brutta a livelli inimmaginabili, mentre la nostra Malombra è decisamente avvenente), la giovane tedesca Edith, bionda e celestiale, è la luce e appartiene alla categoria di quelli che devono sudare per buscarsi il pane. In modo analogo si fronteggiano i due uomini, lo zio di Marina e lo scrittore che s’innamora di lei, che sono l’uno attempato e molto abbiente, e l’altro giovane e squattrinato.
L’idea della reincarnazione, l’evenienza di poter tornare più volte sulla terra, i sussurri nel buio, la paura delle vendette femminili (agitata da Shakespeare quando catapulta sulla scena la sua Lady Macbeth), i castelli e le foreste, il lago e il delitto, l’anatema e il perdono: quest’armamentario messo in piedi da Antonio Fogazzaro nella seconda metà dell’Ottocento (1881) svela il suo amore per il romanzo gotico e l’amore per gli amici della Scapigliatura, sempre ubriachi e persi dietro le loro donne fatali, la passione per i rapporti morbosi e l’adesione a una visione che si potrebbe definire fumettistica della vita, e che oggi è universalmente vincente e molto apprezzata, se si considera il successo dei film di Tim Burton e di David Lynch, o dei romanzi di Anne Rice, con le loro atmosfere sarcastiche e opprimenti, il gusto del bizzarro e l’attenzione alle perversioni (sessuali e non), ma che all’epoca non poteva non attirare sull’incauto scrittore lo scherno dei critici. Non bastò a consolarlo il plauso dei lettori che fecero esaurire a tambur battente il tenebroso Malombra e neanche quello di un collega del peso di Giovanni Verga che, pur avendo scelto d’intraprendere altre strade dopo il comune assenso ai moduli della Scapigliatura, gli mandò per posta i suoi più vivi complimenti.
Il peggio, però, fu che su Antonio Fogazzaro piombò senza appello la condanna del Santo Uffizio: la sua ispirazione febbricitante, un po’ ingenua ma neanche tanto lontana dai notturni berlinesi narrati da Hoffmann, destava sospetti, autorizzava l’infierire dei censori, e storture nel giudizio, prevenzioni, prepotenze, abiezioni, finché un libro dello sventurato fu successivamente posto all’indice.
Questo spiega a sufficienza perché Malombra che avrebbe potuto aprire in Italia la strada al romanzo gotico, sul modello inglese che Jane Austen osa prendere amabilmente in giro in L’abbazia di Northanger, resta invece un caso decisamente isolato, che una cultura punitiva, di tono plumbeo e straordinariamente compiaciuta di se stessa si tolse il capriccio di mettere al bando.
Rimane però, in ogni caso, nella mente di chi l’ha letta la suprema capacità di seduzione di Marina di Malombra che condivide con la consanguinea Emma Bovary l’attrazione e l’amore quasi fisico in cui il suo autore l’avvolge. Se Flaubert amava talmente Emma da indossarne l’identità perfino in tribunale con quell’urlo doloroso che gli attira l’affetto degli artisti di ogni tempo (“Madame Bovary c’est moi!”), non è da meno Antonio Fogazzaro che accarezza, precede e segue l’affascinante Marina verso il baratro che l’attende al varco, descrivendone gli sdegni e il dolore, gli abiti fruscianti e le chiome biondo scuro, le collere e le lacrime, le passeggiate in barca e l’apparente pacificazione di attimi fugaci, ma soprattutto la voglia di perdersi in una passione che la incenerisca. Fogazzaro è davvero innamorato della sua eroina, e ci si chiede quante sorelle avrebbe potuto darle in opere successive che non sono mai nate. Con la punta di rimpianto che coglie il lettore all’idea delle tante eroine che sarebbero potute scaturire dalla sua immaginazione e si sono invece dileguate in aria, può consolare il fatto che almeno Marina di Malombra, continuamente ristampata, si configge nella mente di chi condivide le sue pene e non se ne distacca più. La prova del suo quasi diabolico potere di suggestione sono, per citare le opere migliori tratte dal romanzo, un magnifico film di Mario Soldati (con Isa Miranda) e un decoroso sceneggiato televisivo (con Marina Malfatti, casualmente omonima della sciagurata contessina). A dispetto dell’atmosfera sinistra che crea intorno a sé con la sola forza delle sue apparizioni, o forse proprio grazie a quella, un fatto rimane accertato: di Marina di Malombra finiscono con l’innamorarsi tutti.

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