LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » gozzi http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 LETTERATURA E MALATTIA, LETTERATURA E MORTE: PHILIP ROTH, GIAMPIERO RIGOSI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/01/13/letteratura-e-malattia-letteratura-e-morte-philip-roth-giampiero-rigosi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/01/13/letteratura-e-malattia-letteratura-e-morte-philip-roth-giampiero-rigosi/#comments Sun, 13 Jan 2008 22:35:09 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/01/13/letteratura-e-malattia-letteratura-e-morte-philip-roth-giampiero-rigosi/ La letteratura si è confrontata molto spesso con la morte e la malattia. In questo post vi propongo due libri pubblicati da Einaudi che rientrano nel filone. Due libri diversi, eppure accomunati dalla presenza di patologie destinate ad avere esiti mortali.

Mi sto riferendo a Patrimonio di Philip Roth e a L’ora dell’incontro di Giampiero Rigosi.

Sul primo vi propongo una mia breve nota, sul secondo una recensione firmata da Barbara Gozzi.

Vi invito a discutere di entrambi i libri; magari c’è qualcuno che li ha letti.

Inviterò Giampiero Rigosi a partecipare al dibattito. Approfittatene per rivolgergli domande.

Poi vi pongo un paio di quesiti generici… e vi invito, ovviamente, a dire la vostra.

La letteratura può essere capace di esorcizzare morte e malattia oppure non può che limitarsi a rappresentarle, o – più semplicemente – a sfiorarle stigmatizzandone, con rassegnazione, l’ineluttabilità?

Può esistere un connubio tra “letteratura di morte e malattia” e “letteratura della speranza”?

Tra i vari romanzi che hanno affrontato i suddetti temi c’è n’è qualcuno a cui vi sentite particolarmente legati?

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PATRIMONIO di Philip Roth, Einaudi, 2007, pag. 192, euro 16,50, traduzione di Vincenzo Mantovani

Patrimonio non è – in senso tecnico – un romanzo, ma una storia vera raccontata da un grande romanziere.

Hermann Roth, padre di Philip, protagonista di un’esistenza caratterizzata da tenacia, determinazione e vitalità è costretto a piegarsi all’ (inevitabile) avvento di una malattia mortale. Ha ottantasei anni quando gli viene diagnosticato un tumore al cervello che segnerà la sua fine.

Philip racconta la terribile odissea della malattia, il calvario di un viaggio senza ritorno che questo padre deve affrontare accompagnato dall’amore di questo figlio fino alla soglia dell’agonia e dell’oblio. Perché un padre può anche avere ottantasei anni (età invidiabile) ma – per te figlio – non smetterà mai di essere padre, di essere colui che ti teneva per mano nelle tue passeggiate di bambino, di essere il depositario di ricordi e di esperienze famigliari che si perderanno con il suo trapasso.

L’immagine di copertina è una foto di famiglia che inquadra tre Roth: Hermann e i due figli. Come ci racconta lo stesso Philip, “Siamo in posa, in costume da bagno, un Roth dietro l’altro, sul prato antistante la pensione di Bradley Beach dove la nostra famiglia affittava una camera da letto con uso cucina ogni estate per un mese. È l’agosto 1937. Abbiamo quattro, nove e trentasei anni. Ci drizziamo verso il cielo formando una V, di cui i miei sandaletti sono la base appuntita e le spalle larghe di mio padre – tra le quali è perfettamente centrata la faccia furba da folletto di Sandy – le due imponenti terminazioni della lettera. Sì, quella che spicca sulla foto è la V di Vittoria: di Vittoria, di Vacanza, di retta e distesa Verticalità! Eccola, la linea maschile, intatta e felice, in ascesa dalla nascita alla maturità!”

Ma quell’ascesa non è eterna. È destinata a interrompersi, per poi intraprendere un percorso all’incontrario che prima o poi incrocerà il dolore e la perdita.

“(…) quando avevo voglia di piangere piangevo, e mai ne ebbi più voglia di quando tirai fuori dalla busta la serie di immagini del suo cervello: e non perché potessi identificare prontamente il tumore che glielo stava invadendo, ma solo perché era il suo cervello, il cervello di mio padre, che lo spingeva a pensare nel modo brusco in cui pensava, a parlare nel modo enfatico in cui parlava, a ragionare nel modo emotivo in cui ragionava, a decidere nel modo impulsivo in cui decideva. (…) Ero solo e senza inibizioni, e così, mentre le immagini del suo cervello, ripreso da ogni angolo, giacevano sparpagliate sul letto dell’albergo, non feci il minimo sforzo di controllarmi. Forse l’impatto non fu quello che sarebbe stato se avessi tenuto quel cervello tra le mani, ma era qualcosa di molto simile. (…) Avevo visto il cervello di mio padre, e tutto e nulla era stato rivelato.”

Il tempo ribalta posizioni e ruoli. Quel padre che teneva il figlio in braccio quand’era in fasce, quel padre che si alzava di notte a soccorrere i suoi pianti da culla, quel padre che lo portava in giro nelle giornate estive di luce, comincia a invecchiare, a regredire. E tanto più la ruota del tempo gira, quanto più posizioni e ruoli vengono ribaltati fino al punto che il padre diventa figlio (sebbene rimanga pur sempre padre) e il figlio diventa padre (sebbene rimanga pur sempre figlio).

E allora qual è, qual è il patrimonio significativo che riceve il figlio? Qual è il lascito, l’eredità profonda che deriva dalla dipartita di questo padre?

Troviamo la risposta in questo breve stralcio. Una risposta che, nella sua valenza metaforica, conferma la tesi del ribaltamento dei ruoli.

“Si pulisce la merda del proprio padre perché dev’essere pulita, ma dopo averlo fatto tutto quello che resta da sentire lo senti come mai prima d’allora. (…) Questo, dunque era il mio patrimonio (…): non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda.”

Philip Roth scrisse Patrimonio nel 1991, dopo la morte del padre. Un libro importante, pregno di narrazione, di amore, di dolore, di denuncia. Un libro che è un tributo al padre e, al tempo stesso, un raccoglitore di ricordi, ma che funge anche da fondamentale premessa per la scrittura di quel grandissimo capolavoro che è Everyman, il miglior romanzo – a mio avviso – pubblicato nell’anno 2007.

Massimo Maugeri

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L’ORA DELL’INCONTRO di Giampiero Rigosi, Einaudi, 2007, pagg. 446, euro 17,50
‘La vita può finire da un momento all’altro. E allora perché non andare in fondo alle cose, finché c’è tempo per farlo?’ (pagina.11)

La storia inizia. Intrigante. Sospesa. E in mezzo ai primi tessuti narrativi Rigosi infila questa frase che è un indizio. Su cosa sarà in realtà questo romanzo. Gli elementi per incuriosire ci sono tutti. Un oncologo sembra interessarsi intimamente (molto intimamente) ad alcune sue pazienti, malate terminali. Coincidenza? Stranezza? O qualcos’altro? E’ quello che si chiede Clara, personaggio controverso, discutibile tanto quanto l’oncologo che tenta in tutti i modi di incontrare e mettere alla prova. Tra Clara e il dottor Palmieri appaiono piccole meteore luminose, luci soffuse e suoni forti, stridenti. Personaggi che sembrano lì per caso ma che hanno tutti un motivo, per esserci e svelarsi. L’ex marito di Clara, distratto e nostalgico, il fratello, Paolo, musicista in cerca del ‘tocco’ perduto, Antonia, la madre di Clara e Paolo, che non è sicura di essere poi così vecchia e raggrinzita come la faccia che vede riflessa allo specchio. Rigosi pubblicò ‘Notturno bus’ nel 2000 e descrisse una Bologna frenetica, personaggi in perenne rotazione, quattro giorni incandescenti, cadenzati, dove le emozioni tendono a zittirsi per non perdere il ritmo, per non rimanere indietro. Eppure lì c’era l’inizio. Di un viaggio. Un viaggio che Rigosi porta a compimento con ‘L’ora dell’incontro’ rallentando i ritmi, dilatando gli spazi e i tempi. Gli intrecci maliziosi non mancano così come una certa morbosità latente verso una situazione fuori dal comune e per questo poco chiara, che si presta a molteplici interpretazioni. Rigosi non dimentica di far leva sul lato mediatico del lettore (che vive di telegiornali, news on line, giornali e dibattiti tv), non dimentica di solleticare il lato oscuro, insomma. Parte proprio da lì per scavare. E scava davvero, a fondo. I personaggi che tratteggia vivono tra le pagine in modo sorprendente. Ci sono capitoli talmente intensi da lasciare imbarazzato il lettore, sospeso in una narrazione pulsante dal sapore fin troppo reale. Antonia che davanti alla televisione, seduta nel salotto del suo appartamento silenzioso mischia il passato remoto con il presente deformato e dimentica dove abita e chi è. Clara che sotto la pioggia, in una notte buia e fredda si precipita a casa per baciare il figlio febbricitante, unico amore solido e stabile in una vita costruita sui silenzi e confusa da emozioni difficili da gestire. Paolo che sente la musica nella testa ma ne ha paura e si lascia intontire da alcol e sesso. Poi c’è lui.L’oncologo misterioso che solo verso la fine assumerà sembianze umane precise e aprirà una sottile fessura in quella che è la porta del suo mondo, protetto con ostinazione, e molto diverso dalle aspettative di Clara (e forse anche del lettore).

Tutto in questo romanzo ruota attorno alle attese. In un certo senso tutti aspettano qualcosa. Di smascherare le coincidenze. Di ricostruire una vita spezzata, sospesa. Di sapere se potrà vivere ancora. Di dimostrare al mondo chi è veramente, cos’è capace di fare. Di ritrovare l’amore perduto. Di tornare indietro, a quando tutto era più semplice. Di.

‘Perché nessuno ha quasi mai la forza per superare la breve distanza che lo separa da chi gli è vicino per toccarlo, fargli sentire la propria esistenza con un gesto, una stretta.’ (pag.385)

Verso la fine della narrazione eccolo. Un altro indizio. Su dove si concluderà il viaggio. Il romanzo è diviso in tre parti. Nella prima vengono presentati i personaggi principali, il lettore inizia a conoscerli e a entrare nelle dinamiche relazionali che riprenderanno con maggiore potenza e intensità nella terza parte dove tutti si intrecciano in un ultimo valzer solitario. La seconda parte è dedicata a una storia indipendente in un certo senso. Rigosi racconta un frammento della vita di una Laura come tante che scopre di essere malata in seguito a un tocco doloroso, una coincidenza. Inizia così un percorso terapeutico insidioso né più né meno di quello degli altri (malati). Rigosi sente fortemente la storia di Laura, entra nella sua vita di donna in carriera che ha una famiglia unita e felice eppure. Eppure il nodulo, la chemio e la pace. Temporanea quanto dolce in attesa del nuovo round, più duro e insidioso. In questa parte del romanzo i sentimenti sono i padroni della trama, restano alcuni punti di contatto con la narrazione principale ma sfuggono, si nascondono dietro alle terapie, i foulard e l’amore che Laura cerca con una tenacia straziante.

‘E’ solo grazie alla mia malattia che. […] Vedi, se domani mi annunciassero che il tumore è scomparso, che la mia vita può continuare come prima, non so cosa farei. Forse non riuscirei più ad accettare. Questa cosa incoerente. Assurda. Ma straordinaria, che mi sta capitando.’ (pag.201)

Stilisticamente è un romanzo immediato, fresco e trasparente. I dialoghi sono sospesi, lasciati volutamente incompleti come se la voce cedesse, si inclinasse. I capitoli sono brevi, flash intensi che descrivono scene precise come in un film proiettato lentamente, dove il lettore è anche registra proprio perché non ci sono vincoli. La brevità di ogni scena permette di staccare senza perdere il senso degli intrecci, la forza delle analisi che gli stessi personaggi svelano in primis a se stessi.

‘L’arte, come ha detto qualcuno, sono dieci minuti di ispirazione e parecchie settimane di paziente lavoro. Ma quei dieci minuti, cazzo, non puoi sprecarli a elaborare teorie, ipotizzare citazioni e omaggi, stratificare impalcature sempre più complicate. Così zavorri l’intuizione e la fai andare a fondo.’ (pag.50)

Non so se in queste frasi la voce di Rigosi stia consapevolmente parlando (anche) della scrittura, la sua, e di questo romanzo, davvero uno dei migliori che ho letto nell’ultimo anno. Non lo so. Eppure l’ho sentita, l’essenza di questo testo pieno, maturo e consapevole. Che parla di tumori, routine, sentimenti (tanti, sempre, ovunque, solo). Tratteggia storie di solitudine, ricerca, paure, disprezzo, separazioni e falsi stordimenti. Ma che lascia il lettore con la speranza che qualcosa c’è (a parte alzarsi ogni mattina, il caffè, il lavoro, mangiare, dormire…) e la consapevolezza che non sempre si può.

Barbara Gozzi

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UNA STORIA AI DELFINI di MariaGiovanna Luini (recensione di Barbara Gozzi) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/16/una-storia-ai-delfini-di-mariagiovanna-luini-recensione-di-barbara-gozzi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/16/una-storia-ai-delfini-di-mariagiovanna-luini-recensione-di-barbara-gozzi/#comments Tue, 16 Oct 2007 21:15:25 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/16/una-storia-ai-delfini-di-mariagiovanna-luini-recensione-di-barbara-gozzi/ MariaGiovanna Luini, ‘Una storia ai delfini’ (Edizioni Creativa all’interno della collana ‘Declinato al femminile’ diretta da Francesca Mazzucato).

Il primo romanzo di MariaGiovanna Luini è la storia di una donna.

Una donna tratteggiata da subito come ‘la pazza’ per le bizzarrie della sua attuale vita, quella che, nel momento in cui racconta, è diventata routine necessaria, stacco dal resto del mondo e dalla gente. Perchè questo romanzo è il racconto di Lucia, che vive sola in barca e ha disimparato a parlare. Viaggia e scrive. Finchè una pinna. Poi due, tre e così via. Un branco di delfini la segue e “sembrava che sapessero dove stavo andando, che lo sapessero meglio di me e volessero ricordarlo al povero cervello liquefatto dal tempo” (pag.17). Inizia così il viaggio, questo racconto che è in realtà il diario della protagonista con un intento ben preciso: “raccontare la mia storia non significa dirvi cose che non interessano più neanche a me. Significa forse spiegare ai delfini […] perchè vivo su una barca bianca ormeggiata in un porto qualsiasi, perchè ho perso la voglia di parlare e ascoltare, perchè non sono più io.” (pag.20)

Sono dunque gli occhi di una donna che narrano il passato arrivando a spiegare un presente all’apparenza solitario ma che cela profondi solchi, cicatrici indelebili di un’esistenza vissuta a due velocità. La scelta di un io narratore in prima persona diventa un espediente necessario per permettere al lettore di entrare nella vita della protagonista assaporandone odori e colori amplificati. Percepiti intensamente. La lunghezza stessa del romanzo facilita a mio avviso questo processo in quanto non stanca il lettore anzi, lo guida verso un viaggio pieno. Un assolo semplice ed efficace. Allo stesso tempo le descrizioni che fa Lucia dei luoghi che ama costeggiare, dove si ferma per visite veloci sono il tratteggio che serve al lettore per inserire la trama in un ambiente preciso tra il mare e Ponza, in netto contrasto con gli appartamenti milanesi sempre piccoli dove ha vissuto in passato. “Ponza è l’isola che placa il mio cuore” (pag.59) spiega Lucia.
La storia destinata ai delfini è dunque il viaggio di una donna tormentata. Contradditoria. Fragile e fiera. Una donna che vive molti anni nell’apatia, nell’accettazione di avvenimenti avvertiti nel profondo come sbagliati e disumani. Errori per sua stessa ammissione ai quali, però non si ribella, chiude gli occhi e ne aspetta la fine nel disperato quanto fallimentare tentativo di non perdere l’uomo che crede di amare. Da qui i silenzi, i pensieri abbandonati e “il lungo e freddo buio” (pag.44) che la porterà a disimparare il piacere fisico pur di non contraddire il marito. “Mio marito mi amava e io lo assecondavo in tutto. Proprio in tutto” (pag.47) chiarisce Lucia che arriverà fino a sprofondare in un’ “apatica accettazione della realtà” (pag.49) quando il marito tanto venerato si innamorerà di un’altra. Sarà una circostanza drammatica a scuoterla, a riportarla alla vita con la ferocia tipica delle malattie destinate ad annullare tutto, a spazzare via tempi e pause. Lucia prova a ignorare i segnali, si trincera dietro a finzioni sporadiche, blandi tentativi di congelare una realtà che non vuole, non accetta. Poi l’inevitabile, una ripresa lenta e nuove gioie. Fino al crollo finale e a un equilibrio fragile ma stabile che le permette di raccontarsi ai delfini con occhio critico ma consapevole. Perchè questo libro racconta un’intera esistenza e lo fa denudandosi, senza risparmiarsi niente, dando in pasto al lettore ogni emozione senza filtri e, come spesso accade nella realtà quotidiana, tracciando quelle rotte che mutano e ci portano ad amare e a perdere.
In tutto questo sentire e trasmettere, i delfini appaiono in distanza; sbucano in punta di piedi e sembra quasi che sorridano rassicuranti a Lucia che è l’unione di frammenti della MariaGiovanna scrittrice donna e medico. “Scriverò la mia storia e la regalerò a loro, insieme al ricordo straziante della mia felicità. Del senso perduto della mia esistenza.” (pag.71) E’ tutto riassunto in questa frase. Una felicità che strazia e un’esistenza perduta ma comunque vissuta, a due velocità come accennavo poco fa, ma pur sempre assaporata fino in fondo. Perchè Lucia è un personaggio mutevole, che passa dall’immobilità dell’accettazione passiva alla forza per riappropriarsi dei colori, di quegli aromi mai assaporati fino in fondo che diventano per lei linfa vitale. Lucia smette di operare e si dedica anima e corpo agli affetti e alla scrittura che diventa per lei valvola di sfogo, strumento di esternazione emozionale.

Credo che in questo libro si sentano i respiri dell’autrice in molti angoli. Non è un testo autobiografico per sua stessa ammissione però racchiude frammenti della MariaGiovanna Luini medico e della donna che in barca scrive, entra nei sentimenti altrui e li scava. Accoglie le gioie ma sopratutto i dolori come parte integrante di un vivere a pieno ogni giornata.
Ed è proprio l’accettazione del dolore la parte che più mi ha colpita. Un finale che vuole essere anche un messaggio senza la pretesa di insegnare o imporsi ma con l’intento delicato di lasciare addosso qualcosa al lettore che ha seguito fin lì i delfini.

“Quando fuggivo dallo strazio della disperazione le mie gambe correvano veloci e la ricerca affannosa dell’oblio consumava ogni energia […] Poi qualcosa ha rallentato i miei passi e l’andatura più lenta ha permesso al dolore di raggiungermi.” (pag.95). Ecco dunque l’essenza dello scrivere questa storia. Ma prima ancora del riflettere. Dell’accettare l’onda dolorosa e traziante perchè il dolore non si annulla né si può mescolarlo con altro nella speranza che la sua voce sia meno graffiante, “è inutile combatterlo” (pag.95).

La prefazione di Umberto Veronesi è straordinariamente pulsante. C’è l’uomo di scienza che osserva le sofferenze umane ogni giorno e cerca di alleviarle non senza fallimenti e “l’impotenza di fronte alla loro invasione nel nostro sottile e fragile filo esistenziale” (pag.11). Ma c’è anche l’uomo che si immerge nell’universo femminile e ne condivide fragilità e punti di forza.

‘Una storia ai delfini’ apre il cuore di una donna e lo mostra così com’è. Pulsante. Scalfito. Sincero e silenzioso. Immobile quanto frenetico. Innamorato e apatico. E’ una storia che si potrebbe etichettare ‘come tante’ ma sarebbe un tentativo ridicolo di sminuirla. E’ un romanzo che scava nelle profondità degli avvenimenti cercandone i nodi. Le emozioni più forti e nascoste.

La scrittura della Luini è scorrevole, la scelta delle parole è accurata. E la struttura narrativa lineare permette una lettura fluida e immediata. Per chi fosse interessato, segnalo i blog dell’autrice dove periodicamente vengono pubblicati piccoli racconti, flash narrativi:

 http://mariagiovannaluini.splinder.com/, http://mariagiovanna.typepad.com/.

Altri riferimenti web: Il sito della casa editrice, il blog della collana ‘Declinato al femminile’.

Barbara Gozzi

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Una storia di delfini di MariaGiovanna Luini

Edizioni Creativa, 2007

collana Declinato al femminile

pagg. 110, euro 10

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CLICK JEANS di Barbara Gozzi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/08/09/click-jeans-di-barbara-gozzi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/08/09/click-jeans-di-barbara-gozzi/#comments Thu, 09 Aug 2007 15:30:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/08/09/click-jeans-di-barbara-gozzi/ Nuova puntata di Giovani scrittori crescono (selezione under 30)”. Stavolta vi presento Barbara Gozzi, che molti di voi conoscono giacché è una frequentatrice assidua di questo blog. Il brano che leggerete è un estratto di Click jeans, pubblicato da Arpanet nell’ambito di CONCEPTS Moda, AA.VV ( euro 15.00). Inoltre vi invito alla lettura di un inedito della Gozzi, intitolato L’altra fame, pubblicato recentemente sul blog “Books and other sorrows” della scrittrice Francesca Mazzucato.

barbara-gozzi.jpgBarbara Gozzi ha 28 anni. È nata a Modena e attualmente vive in provincia di Bologna con la famiglia. Ha pubblicato ‘Progetto Butterfly’ (Editing Edizioni, novembre’06); ‘La casa della nonna’ (Nicola Pesce Editore, aprile’07); tre racconti nell’antologia ‘Scrivi con lo Scrittore’ curata da Ettore Bianciardi (Giraldi Editore, Maggio’07); ‘Click Jeans’ racconto lungo pubblicato su ‘Concepts Moda’ (Edizioni Arpanet, giugno’07). Da giugno’2007 è anche possibile scaricare gratuitamente l’Ebook ‘Spicchi’ (romanzo breve inedito) realizzato dalle edizioni Kult Virtual Press. Collabora con il progetto ‘The Sleepers’ e cura la rubrica ‘Contorsioni’ presso il blog Caffè Storico Letterario e l’EMagazine Historica di F.Giubilei. Entro fine anno uscirà il seguito di ‘Progetto Butterfly’. Ha appena concluso la versione beta di ‘Experiment’, pubblicato in atti sul blog come sperimentazione narrativa flash e ha due testi nel cassetto che attendono revisioni spietate. Attraverso il suo blog (www.progettobutterfly.splinder.com) è possibile rintracciare testi, esperimenti, segnalazioni e composizioni scomposte. E- mail:gozzib@tiscali.it 

CLICK JEANS

di Barbara Gozzi

Ispirato da: i jeans che ho tenacemente portato nel corso delle scuole superiori come unica alternativa al nulla.

IV. Cinque mesi e un giorno dopo (l’inizio)

Quando riesco a tenere gli occhi aperti, l’orologio sul comodino segna le dieci e quaranta. Poco male. Oggi è domenica. Sbadiglio e mi rituffo tra il tepore rassicurante del piumone. Non ho voglia di alzarmi. In effetti, non mi va di fare alcunché. Ripensandoci, mi capita spesso, di recente. Sono stanca di essere stanca. Potrei abbandonarmi a una risata, per via del gioco di parole involontario, ma mi muore in gola. L’anno scorso, mi svegliavo alle sette per andare a correre con Lingualunga, il mio cucciolone la cui lingua perennemente a penzoloni ha fatto storia nel quartiere. Il nome è imbarazzante, me lo dicono tutti, ma non ho saputo dire di no alla bimba della mia vicina.

Mi sono ricordata di lasciargli da mangiare, ieri sera?

Mi alzo in fretta, con il pensiero del povero Lingualunga, affamato da più di dodici ore. Aspetto che la testa smetta di girare, poi mi avventuro lungo le scale per raggiungere il garage e lo apro. Lui è lì, davanti a me, con la coda che disegna figure geometriche e quell’aria felice, quella che ha sempre quando mi vede.

Come può essere contento, se l’ho tenuto a digiuno?

Gli verso una porzione generosa di bocconcini e lo accarezzo, mentre lui divora avidamente ogni pezzetto come fosse l’ultimo. Mi viene la tentazione di scusarmi ad alta voce, ma mi sento una stupida e desisto.

Non si parla con gli animali, è da suonati.

Eppure, ho la netta impressione che lui saprebbe capirmi molto meglio di tanti esseri umani. Quando rientro in casa, vedo la borsetta abbandonata sul divano e una luce si accende nella mia mente. Ieri notte, ero così stanca che mi sono addormentata, dimenticandomi del regalo.

Mi siedo con cautela tra i cuscini imbottiti. La testa mi gira ancora, appena un po’. Dovrei fare colazione, ma la curiosità è più forte. E poi, una tazza bollente con dentro un filtro di tè verde non è poi così allettante, stamattina.

Chissà cosa mi hanno regalato, quelle matte!

Lo libero dalla borsa e strappo la carta colorata, un po’ incerta. Le mie amiche non fanno mai niente per caso. Ma non è il mio compleanno!

Mi ritrovo tra le mani un mini album, di quelli che contengono al massimo dodici fotografie, ma che sono molto comodi perché si possono portare in giro senza ingombrare troppo. La copertina è morbida. Blu e azzurra. Nel centro, ci sono delle onde che si infrangono sulla spiaggia. Le osservo meglio alla luce del giorno e noto che, se cambio angolazione, le onde si muovono. Mi scappa un sorriso. Alzo le gambe e le incrocio sul divano, nel mezzo appoggio l’album e inizio a sfogliarlo. Il passato mi risucchia con la forza di un tornado.

Sono circondata dai compagni di classe e sorridiamo in modo scomposto. Dietro di noi, si intravede il Ponte dei Sospiri. E la prof. di italiano, la signora Rinaldi-tutto-a-memoria. Avevamo diciassette anni ed eravamo in gita. Le mie guance erano tonde.

Abbasso lo sguardo.

Mia sorella si nasconde dietro di me in modo goffo. Stiamo festeggiando il compleanno di mamma nel piccolo salotto di casa. Simona ha quattordici anni. Ed è già più alta e lunga e di me. Anche le sue guance erano tonde. Meno delle mie, ovviamente.

Volto pagina.

Sul lettino, le mie amiche sono sedute sopra di me. Facciamo delle smorfie strane all’obiettivo. Se non ricordo male, stava scattando Maria. Weekend lungo a Riccione. Io avevo superato i venti da un po’. Mia sorella è rimasta in piedi a fissare il mare. Il suo corpo sembra la metà del mio. O di quello di una qualsiasi delle mie amiche.

Abbasso lo sguardo.

Eleonora. Serena. Rossella. Maria. Io. Tutte attorno alla torta, con alcune candeline mezze storte. La mia faccia sbuca da dietro il quartetto con l’accendino, ma qualcuno scatta, prima che io riesca ad accenderle.

Quella sera ci siamo divertite come matte. Non avevo ancora compiuto i trenta.

Volto pagina.

Simona a capodanno. Con i jeans elasticizzati e un top aderente. Si vedono le ossa. Il seno e i fianchi sono scomparsi. Emergono solo i jeans, gli stivali col tacco, il top luccicante e il trucco pesate. Non riesco a trattenere le lacrime. Tre mesi dopo è morta. Aveva ventidue anni.

Abbasso lo sguardo.

Io, all’uscita del solito pub, due settimane fa circa. Un pugno in piena faccia. Non sapevo che le ragazze mi avessero scattato questa foto. Sto pagando il conto alla cassa. Si vede la camicetta corta che ho comprato per l’occasione. Le altre mi sono tutte troppo larghe. Il seno che spunta è il nocciolo di una prugna. C’è un fianco che sporge da dietro il tessuto dei jeans. E il resto della ciccia, dov’è? Sto piangendo e mi si appanna la vista. Ma c’è ancora un’ultima foto dietro. Tremo.

Volto pagina.

 Natale ‘94. Simona e io in giro per il centro con gli amici di allora. Abbracciate. Luccicanti. Spensierate. Bellissime. Le nostre guance sembrano assomigliarsi. Anche il luccichio negli occhi.

Il mio naso cola. Ho la faccia bagnata e i singhiozzi mi fanno sussultare.

Click.

Uno solo, ma sufficiente a farmi perdere un battito. Il secondo punto di svolta in pochi mesi.
Rivoglio quel luccichio. Subito.

E una brioche. Anche senza marmellata. Purché sia calda e croccante.

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