LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » laterza http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 CRISTINA TAGLIETTI con “Risvolti di copertina” (Laterza) in radio a LETTERATITUDINE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/07/23/cristina-taglietti-con-risvolti-di-copertina-laterza-in-radio-a-letteratitudine/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/07/23/cristina-taglietti-con-risvolti-di-copertina-laterza-in-radio-a-letteratitudine/#comments Tue, 23 Jul 2019 17:43:53 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8224 CRISTINA TAGLIETTI con “Risvolti di copertina.Viaggio in 14 case editrici italiane” (Laterza), ospite del programma radiofonico Letteratitudine trasmesso su RADIO POLIS (la radio delle buone notizie)

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In streaming e in podcast su RADIO POLIS

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e postproduzione: Federico Marin

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Ospite della puntata: Cristina Taglietti con cui abbiamo discusso del suo libro intitolato: “Risvolti di copertina.Viaggio in 14 case editrici italiane” (Laterza).

Cristina Taglietti lavora al “Corriere della Sera”, dove si occupa di libri ed editoria per le pagine culturali e per il supplemento “la Lettura”.

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Sellerio, E/O, L’orma, Giunti, il Mulino, Zanichelli, Einaudi, Bao, Il Castoro, NN, La nave di Teseo, Feltrinelli, GeMS, Mondadori: un viaggio in 14 case editrici italiane, per scoprire come e chi progetta i libri, ne cura i testi e le immagini, ne disegna le copertine, li promuove presso i lettori.

Le case editrici sono, prima di tutto, case. I tavoli per le riunioni sostituiscono i tavoli da pranzo, gli sgabuzzini diventano piccole cucine, le cantine archivi, biblioteche o studi di registrazione per gli audiolibri. Piccoli marchi in appartamenti di poche stanze, holding che occupano interi palazzi o che occupano sedi pensate su misura. Questo libro parte da qui: accompagna il lettore dietro quei portoni, mostra chi abita quelle stanze, in quali spazi si pensano e si realizzano i libri che leggiamo, come arrivano i grandi bestseller internazionali sui tavoli degli editor o qual è la strada che percorre un dattiloscritto per arrivare nelle librerie. Da Palermo a Milano, da Roma a Bologna e Torino, un viaggio per raccontare dall’interno marchi storici o sigle appena nate, piccole imprese artigianali e grandi gruppi editoriali.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e post produzione: Federico Marin

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La colonna sonora della puntata: “You learn”, “Thank you”, “Ironic” di Alanis Morissette.

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VANNI SANTONI (con “La stanza profonda” – Laterza) a “Letteratitudine in Fm” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/06/07/in-radio-con-vanni-santoni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/06/07/in-radio-con-vanni-santoni/#comments Wed, 07 Jun 2017 19:32:02 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7539 VANNI SANTONI (con “La stanza profonda” – Laterza) ospite del programma radiofonico Letteratitudine in Fm di lunedì 5 giugno 2017 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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Con Vanni Santoni abbiamo discusso del suo nuovo romanzo – tra i 12 libri dell’edizione 2017 del Premio Strega – intitolato “La stanza profonda” (Laterza) e delle tematiche a esso legate.

Nella seconda parte della puntata abbiamo discusso della collana “Romanzi” che Vanni Santoni dirige presso l’editore Tunué.

Di seguito, informazioni sul libro.

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Libro La stanza profonda Vanni SantoniLa stanza profonda” di Vanni Santoni (Laterza)

Una piccola città di provincia, un garage. Un gruppo di ragazzi che ogni martedì si incontra per giocare di ruolo. Per vent’anni, mentre fuori la vita va avanti, il mondo cambia, la provincia perde di senso e scopo. Desiderio di fuga o forma di resistenza? Quel continuo tessere mondi prende i contorni dell’opposizione a una forza centripeta che, come il “Nulla” della Storia infinita, divora il fuori, vaporizza la città, il paese, le relazioni, le vite. Un romanzo ibrido, tra il memoir e l’affresco sociale, per raccontare la storia di un passatempo nato esso stesso in un garage e arrivato a gettare le basi non solo di un immaginario divenuto egemone ma anche di una parte consistente della realtà che viviamo ogni giorno semplicemente usando Internet.

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Vanni Santoni (Montevarchi, 1978) vive a Firenze. Dopo l’esordio conPersonaggi precari (RGB 2007, poi Voland 2013) ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), In territorio nemico (minimum fax 2013, da coordinatore), Terra ignota (Mondadori 2013) e Terra ignota 2 – Le figlie del rito (Mondadori 2014).

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

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La colonna sonora della puntata: The Lord of the Ring “opening theme”; “The Foggy Dew” di Sinéad O’Connor & The Chieftains.

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

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MARIA ATTANASIO e GIOSUÉ CALACIURA a Letteratitudine in Fm http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/07/26/in-radio-con-maria-attanasio-e-giosue-calaciura/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/07/26/in-radio-con-maria-attanasio-e-giosue-calaciura/#comments Tue, 26 Jul 2016 19:17:04 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7231 MARIA ATTANASIO con “Blu della cancellazione” (La Vita Felice) e GIOSUÉ CALACIURA con “Pantelleria. L’ultima isola” (Laterza) in radio a Letteratitudine in Fm di lunedì 25 luglio 2016 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

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Sono stati Maria Attanasio e Giosuè Calaciura gli ospiti della puntata di Letteratitudine in Fm di lunedì 25 luglio 2016.

Con Maria Attanasio abbiamo discusso della sua nuova raccolta di poesie intitolata Blu della cancellazione” (La Vita Felice).

Con Giosuè Calaciura abbiamo discusso del suo nuovo libro intitolato Pantelleria. L’ultima isola” (Laterza).

Di seguito, dettagli sui due libri.

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Maria AttanasioBlu della cancellazione” (La Vita Felice)

Blu della cancellazione è il libro della piena maturità di Maria Attanasio, quello in cui la musica si fa più fonda come il blu di una notte o di un’acqua che inghiotte tutte le cose non necessarie. È un libro in cui il passato è indistinguibile dal presente perché – come sempre in questa scrittrice che dovrebbe, per passione e sapienza narrativa, scalare le classifiche – riesce a sedimentarsi e crescere sulla parola. Così la bambina, la madre, la guerra, la denuncia dello sfruttamento attuale ma eterno, tutto si legge tra le crepe di un corpo-pietra cretto di fiume secco, ricordo raggrumato.

(dalla Presentazione di Antonella Anedda)

Maria Attanasio è nata nel 1943 a Caltagirone, dove tuttora vive e lavora. Ha pubblicato le raccolte di poesie Interni (1979), Nero barocco nero (1985), Eros e mente (1996), Amnesia del movimento delle nuvole (2003) e Del rosso e nero verso (2007).
Per la narrativa ha dato alle stampe i romanzi Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile (1994), Di Concetta e le sue donne (1999), Il falsario di Caltagirone (2007) e Il condominio di Via della Notte (2013).
Nel 1998 è uscito il libro di racconti Piccole cronache di un secolo, nel 2008 ha pubblicato Dall’Atlantico agli Appennini, una riscrittura del racconto di De Amicis Dagli Appennini alle Ande e nel 2012 tre prose raccolte nel libro Della città d’argilla.

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Giosuè CalaciuraPantelleria. L’ultima isola” (Laterza)

Sospesa tra noi e l’Africa, drammatica e soave, inquietante e dolcissima, nera di lava e d’ossidiana, verde di uva di Zibibbo, di capperi e ulivi, azzurra di lago, indaco di mare, Pantelleria è un’isola limite.

Pantelleria è bellezza. Esuberante di venti, di mare, di odori. Di vulcano. La sua natura estrema, nei millenni, ha costretto a trovare soluzioni, a contendere, pietra dopo pietra, terra alla lava, a opporre intelligenza alla ferocia dello scirocco e del maestrale. Isola di approdi perenni: è stata fenicia, romana, bizantina, araba, normanna, spagnola. Pantelleria è un confine non solo geografico, è una frontiera che accoglie, è un luogo che ci ricorda quanto sia fragile e al tempo stesso eccezionale la condizione umana.

Giosuè Calaciura, scrittore e giornalista, ha pubblicato i romanzi Malacarne (Baldini & Castoldi 1998), Sgobbo (Baldini & Castoldi 2002, Premio Selezione Campiello), La figlia perduta. La favola dello slum (Bompiani 2006), Urbi et orbi (Baldini & Castoldi 2007) e la raccolta di racconti Bambini e altri animali (Sellerio 2013). È tra gli autori della trasmissione Fahrenheit di Rai Radio3.

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La colonna sonora della puntata: “Isole del sud” di Claudio Baglioni; “On An Island” di David Gilmour

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

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ANTONELLA CILENTO e VANNI SANTONI ospiti di “Letteratitudine in Fm” di mercoledì 1 luglio 2015 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/06/30/in-radio-con-antonella-cilento-e-vanni-santoni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/06/30/in-radio-con-antonella-cilento-e-vanni-santoni/#comments Tue, 30 Jun 2015 17:00:09 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6833 ANTONELLA CILENTO e VANNI SANTONI ospiti di “Letteratitudine in Fm” di mercoledì 1 luglio 2015 – h. 9:10 circa (e in replica nei seguenti 4 appuntamenti: venerdì alle h. 06:00 e alle h. 13:00, domenica alle h. 06:00, martedì alle h. 00:30)

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Sono Antonella Cilento e Vanni Santoni gli ospiti della puntata di “Letteratitudine in Fm” di mercoledì 1 luglio 2015.

Nella prima parte della puntata, con Antonella Cilento, discuteremo di “Bestiario napoletano” (Laterza).

Nella seconda parte della puntata, con Vanni Santoni, discuteremo del romanzo “Muro di casse” (Laterza).

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Bestiario napoletano“Bestiario napoletano” di Antonella Cilento

Strade, case, fantasmi e napoletani in carne e ossa, esseri infimi e celesti, scrittori, pittori, musicisti, belve, insetti, dinosauri e diavoli, madonne, angeli e asini.
Se siete stati lettori di fiabe lo sapete: ogni luogo magico, sin dall’antichità, è abitato da bestie.

La zoccola, le balene, i chiattilli, le civette, il monaciello, le mosche d’oro, le teste di cavallo, i coccodrilli, i nuovi migranti, i grandi scrittori, l’immancabile diavolo, i calzolai, gli acquafrescai, i magnafoglie. E poi palazzi, strade, persone, mestieri raccontati con penna da scrittrice. Dai giovani ‘prostituti’ d’oggi, passando per Cervantes, alla scoperta dei sagliuti, i nuovi arricchiti, dalle PR a Sartre, dalle madonne che camminano ai dinosauri nascosti nelle chiese. Le categorie umane e animali che abitano Napoli e la percorrono, nel tempo e nello spazio, prendono forma in una girandola di tipologie, dove i riti antichissimi di una città eterna – il coro dei santi con cui si dialoga come fossero parenti, i sangui che si sciolgono e le capuzzelle dei morti venerate come divinità protettrici – accompagnano il lettore dentro e oltre i tanti luoghi comuni della napoletanità e di quell’umanità speciale che da sempre la abita.

Antonella Cilento, finalista al Premio Strega 2014 con Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori, in via di traduzione in numerosi paesi) e vincitrice del Premio Boccaccio 2014, ha pubblicato: Una lunga notte (Premio Fiesole, Premio Viadana), NeronapoletanoL’amore, quello veroIsole senza mareAsino chi legge per Guanda; La paura della lince per Rogiosi; Il cielo capovolto per Avagliano; Non è il Paradiso per Sironi; Nessun sogno finisce(Premio Giulitto) per Giannino Stoppani. Insegna scrittura creativa dal 1993 in tutta Italia per “Lalineascritta Laboratorio di Scrittura” (www.lalineascritta.it). Ha scritto testi per il teatro, fra cui Itagliani! per Margherita Di Rauso, Cafone!per Gea Martire, L’angelo della casa – Omaggio a Emily Dickinson (Napoli Teatro Festival 2012), e alcuni cortometraggi. Organizza “Strane Coppie”, incontri di letteratura europea, e collabora con “Il Mattino”.

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Muro di casse“Muro di casse” di Vanni Santoni

Perché sognare un quarto d’ora di celebrità se potevi prenderti dieci o venti ore al centro dell’universo? E la bellezza. Potevamo creare ovunque la bellezza: in ogni angolaccio, sotto a ogni cavalcavia, poteva sgorgare una fonte di meraviglia. Ogni periferia, ogni cittadina di provincia senza più guizzi poteva tornare a splendere e ribollire per una notte. E non parlo solo dei posti dove andavamo: il fatto che andassimo in alcuni faceva sì che tutti, in potenza, custodissero la bellezza.
Quindi, la speranza.

Cosa è stata questa ‘cosa’ sfuggente, multiforme ed entusiasmante avvenuta in Europa tra il 1989 e oggi – una cosa lunga dunque un quarto di secolo? Proprio dalla consapevolezza che nessun dato potrà mai avvicinarsi al significato profondo del rave, del trovarsi lì, a ballare davanti a un muro di casse fino al mattino (e sovente fino a quello ancora successivo) in quelle industrie abbandonate, in quei capannoni, in quei boschi, in quelle ex basi militari, fiere del tessile, ballatoi, vetrerie, depositi ferroviari, rifugi montani, bunker, uffici smessi, pratoni, centrali elettriche, campi, cave, rovine di cascinali, finanche strade di metropoli quando venne il momento della rivendicazione, è nato questo libro – perché, sia pure con una forte impronta documentale, in casi come questo il romanzo è il più potente strumento di analisi e rappresentazione della realtà.

Vanni Santoni (Montevarchi, 1978) vive a Firenze. Dopo l’esordio con Personaggi precari (RGB 2007, poi Voland 2013), Premio Scrittomisto 2007 per il miglior libro tratto dal web, ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), Premio selezione Scrittore toscano dell’anno 2009 e finalista Premio Zocca, In territorio nemico (minimum fax 2013, da coordinatore), Terra ignota (Mondadori 2013) e Terra ignota 2 – Le figlie del rito (Mondadori 2014). È fondatore del progetto SIC – Scrittura Industriale Collettiva.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

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La colonna sonora della puntata è composta dai seguenti brani musicali: “Canta appress’a nuie” di Edoardo Bennato; brano di musica techno


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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

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LOREDANA LIPPERINI ospite di “Letteratitudine in Fm” di mercoledì 10 dicembre 2014 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/12/09/in-radio-con-loredana-lipperini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/12/09/in-radio-con-loredana-lipperini/#comments Tue, 09 Dec 2014 20:32:20 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6603 lipperini-queto-trenino-a-mollaLOREDANA LIPPERINI ospite di “Letteratitudine in Fm” di mercoledì 10 dicembre 2014 – h. 9 circa (e in replica nei seguenti 4 appuntamenti: venerdì alle h. 06:00 e alle h. 13:00, domenica alle h. 06:00, martedì alle h. 00:30)

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

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Protagonisti di questa puntata: Loredana Lipperini e il suo nuovo libro edito da Laterza (collana Contromano): “Questo trenino a molla che si chiama il cuore. La Val di Chienti, le Marche, lungo i confini
Si parla di doppio, di luoghi di attraversamenti e di confini, dell’identità dei luoghi e del rischio che tale identità venga perduta. Si parla della storia di un eteronimo (Lara Manni) e delle opere di una scrittrice che ci ha lasciati prematuramente (Chiara Palazzolo).
Nella seconda parte della puntata Loredana Lipperini legge un estratto del suo romanzo.

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Trovare un’identità nei luoghi che appartengono al passato, proprio nel momento in cui quei luoghi la stanno perdendo per sempre.

«La Valle è abituata al doppio. Doppia è l’erba che spunta nei prati della Valle e che le donne sapienti usavano per dare concordia o sconcordia a seconda di quale parte veniva usata, e se cresceva verso l’alba o verso il tramonto. Doppie sono le antiche divinità dei luoghi, doppio è il confine, perché l’Umbria annoda le sue curve con le Marche senza che il paesaggio cambi: semmai è la superstrada che sta rompendo quelle curve, tagliando in due le gole con i piloni e i viadotti.»
Anche la scrittura è fatta di confini, e la vita stessa di chi narra e che in quei luoghi è tornata negli anni della maturità, per ragionare su cosa significhi essere due in una, e su cosa intendeva Pessoa quando sosteneva che non c’è nulla di più reale di un personaggio di finzione.

Loredana Lipperini, giornalista e scrittrice, collabora da anni con le pagine culturali de “la Repubblica” e conduce Fahrenheit su Radio Tre. Dal 2004 scrive sul blog www.lipperatura.it. Tra i suoi libri: Ancora dalla parte delle bambine, Non è un paese per vecchie e Di mamma ce n’è più d’una per Feltrinelli; Morti di Fama (con Giovanni Arduino) per Corbaccio; il racconto per ragazzi Pupa per Rrose Sélavy. Per Laterza ha pubblicato: “L’ho uccisa perché l’amavo” Falso! (con Michela Murgia).

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

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ARRIVA LA FINE DEL MONDO (e ancora non sai cosa mettere) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/02/18/arriva-la-fine-del-mondo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/02/18/arriva-la-fine-del-mondo/#comments Mon, 18 Feb 2013 16:50:11 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4774 Rimetto in primo piano questo post dedicato alla “fine del mondo” (secondo i Maya, ma non solo) per dare l’occasione alle autrici e agli autori dell’antologia ULTIME NOTIZIE: FINE DEL MONDO (Navarra editore) di dire la loro sull’argomento.

Massimo Maugeri

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Post del 18 dicembre 2012
Arriva la fine del mondo (e ancora non sai cosa mettere)Cari amici, ci siamo. Secondo i Maya, la fine del mondo si verificherà il prossimo 21 dicembre. Se ciò dovesse essere vero, questo potrebbe essere l’ultimo post di Letteratitudine. Uso il condizionale perché, nel caso in cui la fine del mondo iniziasse di sera, farei in tempo – venerdì mattina – ad accogliere in radio Melania Mazzucco (prossima ospite di “Letteratitudine in Fm”) e a pubblicare il relativo post. Voi, naturalmente, fate il vostro dovere per disinnescare la profezia mayana (o mayese?). Toccate ferro, o “altrove” (se è il caso). Andate a caccia di cacche di cane sui marciapiedi e schiacciatele con coraggio. Insomma, impegnatevi al massimo per scongiurare la catastrofe.
Che poi, a pensarci bene, come dovrebbe verificarsi questa fine del mondo? Improvvisa inversione dei poli? Arresto della rotazione terrestre? Pandemia? Impatto con un asteroide? Esplosione di una supernova? Queste domande le ho prese in prestito dalla scheda del volume di Roberto Alajmo intitolato “Arriva la fine del mondo (e ancora non sai cosa metterti)” (Laterza, 2012).
La funesta profezia del 21 dicembre 2012 è solo un esempio”, ci dice Roberto Alajmo. “L’ultimo, se i Maya avevano ragione. Il fatto è che periodicamente l’umanità si prepara a sloggiare dal pianeta Terra. Millenarismi di ogni tipo per secoli hanno attirato la credulità popolare, e ogni scampato pericolo è sempre servito solo come carburante per la profezia successiva. In particolare, però, è la generazione di noi contemporanei quella che sta coltivando con maggiore convinzione l’idea di essere l’ultima della Storia del Mondo. Dopo di noi, il diluvio: e pazienza per i posteri. Potrà essere un collasso finanziario, oppure un drammatico stravolgimento climatico. Forse un’ondata migratoria devastante. Uno tsunami di spazzatura. Una guerra mondiale. La fine delle risorse petrolifere. Oppure tutte queste cose assieme, senza escludere i classici del cinema: impatto con un meteorite o invasione di extraterrestri. Se pure i Maya avessero torto, un’Apocalisse sembra davvero alle porte. Se non altro la fine del mondo così come siamo abituati a viverlo da qualche secolo a questa parte. Ecco lo specifico contemporaneo: ci sentiamo talmente sicuri di un’imminente Apocalisse che ci siamo convinti di non poter fare nulla per fermarla. Se ne ricava la più classica delle profezie che si autoverificano: siccome la fine del mondo ci sarà, ci sarà la fine del mondo”.
Troverete un approfondimento sul libro di Roberto Alajmo cliccando qui. Cliccando su LetteratitudineNews, invece, avrete la possibilità di leggere un testo messo a disposizione da Roberto appositamente per questo dibattito.

In ogni caso non c’è dubbio che la profezia dei Maya abbia fatto presa sull’immaginario collettivo del pianeta Terra. E che tale suggestione sia stata fonte di ispirazione anche nel mondo della fiction. Come te la immagini la fine del mondo? Questa, per esempio, è stata la domanda alla base del progetto editoriale delle “Cronache dalla fine del mondo”: un’antologia di racconti, curata da Laura Costantini per i tipi di Historica edizioni, che ha coinvolto ben 25 autori ai quali è stato chiesto – appunto – di “immaginare” la fine del mondo. Su LetteratitudineNews, avrete la possibilità di leggere la prefazione di Maurizio de Giovanni.

Vi propongo di approfondire la conoscenza dei due libri citati, approfittando della partecipazione al dibattito degli autori coinvolti. Per favorire la discussione, provo a formulare qualche domanda “in tema”.

1. Che tipo di emozione, o reazione, ha suscitato in voi l’apprendimento della notizia della “fine del mondo” profetizzata dai Maya?

2. La diffusione della notizia della profezia ha causato davvero una sorta di psicosi collettiva, oppure no? Qual è la vostra percezione?

3. La popolazione del 2012 è più “immune” dal rischio di “superstizione apocalittica” rispetto a quella delle generazioni dei secoli scorsi, oppure – paradossalmente – la facilità della circolazione delle notizie e la maggiore possibilità di interazione (anche online) rendono tale rischio ancora più alto?

4. Domanda/gioco a) – giusto per sdrammatizzare. Vi viene chiesto di scrivere un messaggio, un testo breve. In caso di “fine del mondo” solo il vostro messaggio potrà essere salvato dall’oblio a beneficio di ipotetici posteri o di eventuali extraterrestri curiosi. Cosa scrivereste?

5. Domanda/gioco b) – giusto per esorcizzare. Se dovesse arrivare la fine del mondo, che abito indossereste?

Grazie in anticipo per la partecipazione.

Massimo Maugeri


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L’ARTE DI ANNACARSI, il viaggio in Sicilia di Roberto Alajmo http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/30/arte-di-annacarsi-roberto-alajmo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/30/arte-di-annacarsi-roberto-alajmo/#comments Tue, 30 Mar 2010 21:50:15 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1864 Ultimata la lettura de “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” (Laterza, 2010) ho pensato: credo che questo sia uno dei migliori libri (se non il migliore) di Roberto Alajmo. E di ottimi libri – tra romanzi e saggi – Alajmo ne ha già scritti parecchi. Ricordo: Un lenzuolo contro la mafia (1993); Repertorio dei pazzi della città di Palermo (1995); Almanacco siciliano delle morti presunte (1997); Notizia del disastro (2001, Premio Mondello); Cuore di madre (2003, Premio Selezione Campiello, finalista al Premio Strega); È stato il figlio (2005, Premio Super Vittorini e Super Comisso); La mossa del matto affogato (2008); Le ceneri di Pirandello (2008) e – sempre per Laterza – 1982, memorie di un giovane vecchio; Palermo è una cipolla.

Prima di accennare ai contenuti di questo volume, vorrei soffermarmi sul brano scelto come epigrafe. Si tratta di un testo estratto da “La luce e il lutto” di Gesualdo Bufalino, che recita così: «Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui è tutto mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale. Una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio…»

La citazione riportata in epigrafe finisce qui, anche se poi – subito dopo – , in “La luce e il lutto”, Bufalino fornisce una sua risposta alla domanda “Tante Sicilie, perché?”
Bufalino risponde così: «Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male.»
Un bene o un male, dunque? Chi lo sa? Forse Goethe aveva le idee un po’ più chiare, giacché ebbe modo di sostenere (come è noto): «L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito: soltanto qui è la chiave di tutto».
Certo, per credere che soltanto in Sicilia ci sia la chiave di tutto ci vuole molta immaginazione. Del resto, come sosteneva Sciascia: « L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione? »
E di immaginazione, a volte, ce ne vuole tanta… come quella che mosse il sommo Dante per la scrittura della sua Commedia:

«E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo… »

(dal Paradiso, canto VIII)

(Magari vi chiederò quale preferite, tra le suddette citazioni… e magari potreste proporne altre).

Ma torniamo a “L’arte di annacarsi”. La prima domanda che il lettore (non siciliano) deve necessariamente porsi nell’affrontarne la lettura, è la seguente: cosa significa annacarsi?
In verità, per trovare la risposta non dovrà faticare molto; basterà girare il volume e leggere quanto scritto in quarta di copertina:
“Annacare/annacarsi = affrettarsi e tergiversare, allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo di spostamento”.

Un esempio calzante dell’arte di annacarsi – lo evidenzia lo stesso autore – è fornito nell’ambito delle feste religiose… dove Madonne, santi e canderole vengono portati in processione con un andamento danzante, ondeggiante, non necessariamente (e comunque non solo) in avanti, ma spesso di lato e senza disdegnare piccole retromarce. Forse si potrebbe dire che l’arte di annacarsi (per rimanere nell’ambito della metafora danzesca) è una sorta di sintesi tra una appariscente tarantella e il ballo della mattonella. Insomma, ciò che conta è produrre, appunto, il massimo del movimento, con il minimo di spostamento. In linea, peraltro, con la celebre frase de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ecco: il cambiamento immutevole è un ossimoro che è ben contratto nel termine “annacarsi”.

L’arte di annacarsi, dunque. Un titolo che sintetizza le apparenti contraddizioni e gli immobili mutamenti di una terra multiforme dove però è possibile trovare la chiave di tutto con un po’ di immaginazione: Marsala, Palermo, Ustica, Porto Palo, Favignana, Agrigento, Siracusa, Tindari, Catania, Gela, Taormina, Messina (sono solo alcune delle tappe di Alajmo). Un viaggio che si tramuta in racconto ironico e sferzante, ma che – in fin dei conti – ha sullo sfondo l’amore per questa terra: “un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.

Che il siciliano sia avvezzo all’ironia lo sosteneva anche Cicerone (in Verrem – Actio Secundae – Liber Quartus – De Praetura Siciliensi) : “Numquam est tam male Siculis, qui aliquis facete et commode dicant (Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani, essi lo commenteranno con una battuta di spirito).
Ma l’ironia di Roberto Alajmo non si ferma alle classiche battute di spirito, o ai giochi di parole; essa – viceversa – si espande in ragionamenti volti a evidenziare paradossi, contraddizioni e situazioni ai limiti dell’inverosimile. È un’ironia intelligente e pessimista, quella di Alajmo; precisa e affilata come un bisturi, capace al tempo stesso di stigmatizzare facendo sorridere, lasciando tuttavia spazio alla speranza: “Ma esiste anche una parte di Palermo la cui coscienza non è ancora del tutto anestetizzata. Proprio quando tutto sembra annacquato e perduto, ecco che dal nulla, miracolosamente, la speranza rinasce. E a farla rinascere sono i pazzi. I famosi pazzi di Palermo. Quelli veri e quelli che vengono fatti passare per pazzi. Pazzo è colui che non si adegua allo stato delle cose, che non si lascia trascinare dalla corrente, che si rifiuta di portare coscienza e cervello all’ammasso. I talenti che nascono fuori dai circuiti convenzionali. I giovani che riescono ogni tanto a fare breccia nel deleterio scetticismo cittadino e a creare un movimento di opinione in grado di trasformarsi da un momento all’altro in autentica rivolta morale”. (cfr. pag. 30 – “L’arte di annacarsi” – Palermo. Teoria e tecniche dell’annacamento).

Non mi dilungo ulteriormente e vi rinvio alla bellissima recensione di Simona Lo Iacono (che ho coinvolto in questo post chiedendole di scrivere di questo libro e di darmi una mano a moderare e animare la discussione che ne seguirà). In chiusura del post… la prefazione del libro, gentilmente concessami dall’autore.

Per incentivare la discussione provo a porre qualche domanda:

- Ai siciliani (scrittori e non): vi ritrovate nell’arte di annacarsi? Ovvero… vi annacàte? E tra i due significati del termine, in quale vi ritrovate di più? (Questa domanda è finalizzata a sorridere un po’ insieme)

- Ai non siciliani che non hanno mai visitato l’isola: che percezione avete della Sicilia?

- Ai non siciliani che hanno visitato l’isola: la percezione che avevate della Sicilia, ha trovato riscontro nella vostra visita? Cos’è che vi ha colpito di più?

- La Sicilia rappresentata nei libri, nel cinema, nella televisione è rispondente alla realtà?

- Tra le citazioni sulla Sicilia (riportate sopra), quale vi sembra la più calzante? Ne avete altre da proporre?

Di seguito, l’articolo di Simona Lo Iacono e la prefazione del libro.

Massimo Maugeri

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Roberto Alajmo: “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”
recensione di Simona Lo Iacono

Maupassant venne in Sicilia attratto dalla Venere conservata a Siracusa.
L’aveva vista per la prima volta nell’albo di un viaggiatore, in fotografia. “Fu probabilmente lei che mi decise ad intraprendere il viaggio; parlavo di lei e la sognavo in ogni istante, prima ancora di averla vista. (…) è la donna così com’è, così come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere. (…). La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne.
Anche la Sicilia è donna. Anche la Sicilia è il simbolo della carne.
Affrontare un viaggio in Sicilia, dunque, da straniero o da isolano, da pellegrino o da esule, non è che affondare in quella carne. Percorrerne le cavità, i promontori. I vuoti. Con vista da amante. Con paura d’amante. Con la consapevolezza che prendere la Sicilia è anche lasciarla, o farsene abbandonare. È l’atto finale e disperato dell’amplesso là dove persino la compattezza dell’isola è un’illusione.
E possederla vuol dire frantumarla, farne scaglie. Resti.
Così Roberto Alajmo ne “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”.
Annacarsi per un siciliano è più che affrettarsi. È anche prendere tempo senza fare realmente qualcosa, vivendo una sospensione mista di perplessità, noia, mancanza reale di voglia. E sembrerebbe forse assurdo a chi crede che la lingua sia un perfetto assioma e che le parole debbano avere un senso (e uno soltanto), che in una locuzione coesistano due significati tanto opposti quanto in “annacarsi”.
Andare, ma anche restare. Volere. Ma anche non volere. Non avere tempo. Ma anche averlo, allungarlo, impigrirlo. Vivere, in sostanza. Ma anche morire.
E tuttavia questa assurdità non stupirebbe mai un siciliano. Non chi – come noi – al tutto, e al contrario di tutto, si abitua fin dall’alzata dello sguardo su questa terra, e all’affioro dei sensi percepisce: no. Ma che vuol dire sì. E il mare. Che vuol dire anche cielo. E l’isolamento. Che vuol dire anche stare al centro del mondo.
Nessuno più del siciliano è triste e contento di esserlo, orgoglioso ostentando pietà, ostile palesando ospitalità, individualista fingendosi indignato di non far parte del tutto.
Contraddizione, o meglio adattamento, al caso, alle circostanze che mutano rotta, ai destini capovolti e poi di nuovo ristabiliti, a un andare della storia al rovescio e poi di nuovo al dritto, ma senza mai veramente sapere cosa è dritto e cosa è rovescio.
Una baldoria dell’uomo e delle sue oscenità, dei suoi vizi e anche delle sue debolezze, o forse solo ostinazione alla sopravvivenza. All’incosciente vivere oggi senza soppesare un futuro. Ché il futuro, alla fine, non è mai dipeso da noi.
Sorrido vedendo che Roberto ne “l’arte di annacarsi” elenca i “luoghi comuni” allumandoli di luce buona, di storia, di spiegazioni. Facendo crollare le certezze di ogni buon turista che approdando qui in cerca di fichi d’india, carretti siciliani, coppole e lupare, più di ogni altra cosa sarà segnato dalla luce e dall’ombra, dalle colature dei tramonti. Dagli scenari di certe città che si aprono come un sipario (Noto) e si svuotano di notte per non vivere che lontano dalle quinte. Che si parano a festa in sontuosi abiti da processione (Trapani), allungando il Venerdì Santo per tutto l’anno. O che edificano stadi del ghiaccio (Catania) a un passo dall’Etna che bolle.
Di Siracusa, non dirò, da buona siracusana, perché assaporo le parole che Roberto ha dedicato a piazza Duomo, alla sua luce bianca, lattea, di una qualità riservata agli dèi e alle creature dell’aria. Mi soffermerò invece su Avola, o su Portopalo, tutti territori facenti parte della giurisdizione del Tribunale che dirigo e da cui mi provengono quelli che io chiamo i “processi del mare”: clandestini ammarati e pescati dalle reti. Pesci con gambe e occhi scuri, sopravvissuti alle onde. Viandanti senza scalo e giunti a me senza nome.
Roberto ne raccoglie le storie riferite ai crocicchi di vie, sulle albe di pescherecci che rientrano. Racconta di quella notte del Natale ‘96 in cui si persero 300 naufraghi che s’inturbinarono tra le correnti. I loro fantasmi si aggirano ancora da queste parti, senza pace e senza sepoltura, forse rigettati in mare una volta ripescati dall’acqua.
Un discorso a parte merita Palermo, dove la decadenza degli edifici viene coltivata come un fasto e dove a ogni sbrecciatura più o meno grave di intonaci, a crepe e lineature del tempo, è facile rimediare con una decisione provvisoria che fa presto a diventare definitiva, o con una panacea adatta a ogni male: la transenna.
E poi l’effigie di madre. Che la Sicilia sa mascherare di reverenza al marito, ma che s’infratta dietro apparenze di remissività. Sorrido davanti alla buffa immagine della “madre ebrea” a cui sono assimilati, nel libro, i siciliani. Che non dice al figlio: se non mangi ti ammazzo. Dirà piuttosto, senza preoccuparsi di dissimulare il ricatto: se non mangi mi ammazzo.
E mi balza dal passato l’immagine di mia nonna, spannata come un’anima e drittissima su gambe che sostenevano una figuretta di nemmeno un metro e venti. Diceva: facite chiddu ca vulite (fate quello che volete). Tanto, poi, si faceva sempre quello che diceva lei.
La mafia, infine. L’unico luogo comune che esiste per davvero. E che ha invece l’abilità di fingersi irreale e fantasioso, più una leggenda eroica da brigante. Con molti ragionevoli motivi, in fondo, per esistere.
Un fumo, più che una mentalità. O piuttosto una ventata di quelle gustose, che portano odore di soffritto e padella, e che segui incantato come da una Circe. Salvo poi a scoprire che non provenivano dalla cucina.
Più che la sua abilità nel nascondersi colpisce la nostra capacità di non vederla, di non farsene toccare come se invece che cosa nostra, fosse sempre cosa d’altri.
Solo quando approda nei tribunali sembra assumere consistenza, materia, sangue.
Fino a che, dalle grate, torna a uscire fuori come un filo di fumo.
Roberto Alajmo non tace responsabilità. Non sorvola sulle ataviche ribaltature di ruoli. Lo stato che manca e lo stato che punisce. Che dà e che ritira la mano. Che non sa amare e che si sente in colpa.
È forse un siciliano verace, uno di quelli che per viaggiare resta al suo posto, e che per inforcare le lenti e guardare sa che non è necessario andare troppo lontano. Di certo, è un siciliano che ama pur sapendo che quell’atto d’amore è morte, discesa agli inferi, eremitaggio.
Se ammanta con ironia le mancanze, è solo perché – in fondo – sa che l’unico modo per sopravvivere, qui, ora è sempre, è svolare con leggerezza di acrobata, o con levità di illusionista.
Un circense, il siciliano. Che transuma di vita in vita, e che cambia solo in apparenza. Che forse è come quella “passiata” sullo stretto. Sempre in bilico tra due mondi. Su una soglia.
E allora meglio l’arte di “annacarsi”, di fare e non fare. Di allungare e accorciare.
A ben pensarci, annacarsi viene da “naca”, che è la culla del neonato che pencola lentamente.
Un buon modo per dire che oscillare è forse l’unico ormeggio alla terra ferma.

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LE MANI AVANTI: PREMESSA

di Roberto Alajmo

roberto-alajmoCircola con insistenza l’idea che la Sicilia e i siciliani siano diversi, rispetto al resto d’Italia. Diversi e più complicati. La risposta può essere articolata pirandellianamente: no, ma credono di esserlo, e questo li rende diversi e più complicati. In ogni caso, però, a ogni passo di ragionamento si rischia di essere fraintesi, per cui meglio sgomberare il campo dai possibili equivoci. Non si tratta di una diversità rivendicativa. Non è la diversità della Catalogna o dei paesi Baschi. O meglio: certe volte sì, ma solo nelle sue manifestazioni più esteriori e velleitarie. Nella casistica più interessante il sicilianismo non è orgoglio, ma rimorso. La Sicilia si sente diversa dal resto d’Italia, e nei suoi abitanti migliori questa diversità si trasforma in senso di colpa. Perché si tratta di una diversità contagiosa, che col tempo ha infettato il resto del paese. Nemmeno più tanto una diversità, quindi, ormai. Da quando Leonardo Sciascia aveva preconizzato lo spostamento verso nord dell’ideale linea della palma, la sicilianizzazione del paese ha proceduto speditamente, fino a raggiungere l’arco delle Alpi. E ancora procede: è in corso una seconda passata, destinata a rendere il paese più omogeneamente arretrato.
Il viaggio in Sicilia rappresenta allora una indagine sull’identità nazionale. Indagine metaforica, a cannocchiale rovesciato. Se è vero quel che diceva Goethe, che non si può capire l’Italia senza vedere la Sicilia (“è qui la chiave di tutto”), attraversare il continente siciliano significa indagare il collasso di tutta la nazione. In questo senso, il viaggio può rappresentare una discesa agli inferi.
Anche per godere della bellezza più recondita è necessario immergersi in quell’abisso che è la Sicilia. Non si può fare a meno di ravvisare la bruttezza diffusa, il sistematico disprezzo per gli spazi comuni, l’incapacità delle persone anche migliori di fare rete e porre rimedio a queste distorsioni. Viaggiare attraverso la Sicilia significa sporcarsene. E si tratta di uno sporco persistente, di quelli più difficili da trattare.
Per chi in Sicilia ci è nato e ci vive, intraprendere un viaggio attraverso la propria terra è un modo di fare autoanalisi. Di scoprire tutta una serie di cose che già sapeva senza saperlo. Persino il viaggiatore interno ha sentito molto parlare di quest’isola, i luoghi comuni agiscono anche sul suo modo di vedere le cose. Ciò che rivede, in un certo senso, è come se lo rivedesse per la terza volta; le prime due attraverso i propri occhi e attraverso gli occhi del mondo. Si viaggia certe volte con l’intento di essere confermati nelle idee ricevute da altri. Oppure si viaggia per approfondire un viaggio precedente. E però capita pure un’altra cosa: di certi posti non ci si sazia mai. Ci si alza dalla tavola imbandita prima di essersi saziati del tutto, tenendo da parte un po’ di fame per la volta successiva. Oltretutto saziarsi di Sicilia è rischioso; significa un po’ pure sdegnarsene.
Raccontare l’esperienza di un viaggio in Sicilia è una responsabilità che nei secoli si sono assunti in parecchi, ognuno a modo suo, con risultati che ognuno è libero di giudicare in autonomia. Al Idrisi, il geografo. Ibn Giubair, il funzionario. Gregorovius, lo storico. Houel, il pittore. Brydone, lo scienziato. Swinburne, il poeta. Goethe, Maupassant e Dumas, gli scrittori. Questi solo per citare quanti hanno lasciato tracce nelle opere, del loro viaggio nell’estremo lembo meridionale d’Europa. Anche alla luce di questi precedenti, è inutile provare a essere oggettivi; e velleitario risulta provare a essere soggettivi. Bisogna tenere conto dell’occhio di chi legge, che in cambio dell’attenzione si aspetta qualcosa. Giusto. Questo però rende ancora più tormentoso il compito di chi viaggia e racconta la Sicilia essendoci nato. Perché i siciliani hanno la tendenza diventare apprensivi, quando devono rendere conto agli estranei di sé e della propria terra. Sanno che devono misurarsi con una quantità di luoghi comuni che vanno dalla mafia allo scirocco, e molto altro ancora.
Come se non bastasse, ci sono pure i luoghi comuni posticci. Per esempio, quelli che vanno sotto l’etichetta di invenzione della tradizione. È comodo per lo straniero credere, e per i siciliani lasciargli credere, una serie di cose. E la natura dà il suo contributo al consolidamento dei luoghi comuni più infondati: il paesaggio siciliano è ovunque contraddistinto da una pianta, il ficodindia. In ogni angolo, in ogni connessione fra roccia e roccia si trova un ficodindia. Non esiste una pianta più caratteristica. Eppure non è endemica, non è neppure di origini mediterranee, visto che l’importarono gli spagnoli dal centroamerica. E se la natura si permette queste integrazioni della realtà, perché gli uomini non dovrebbero travisare a loro volta? Ecco allora l’astuzia del fotografo che durante la mattanza mafiosa dei primi anni ottanta correva da un posto all’altro per documentare i morti ammazzati nelle strade. Per muoversi più rapidamente si muoveva in vespa, e sul predellino trasportava un vaso con un piccolo ficodindia. Arrivato sul luogo del delitto, disponeva il vaso in modo che almeno una pala della pianta entrasse nell’inquadratura. Sosteneva che i giornali del Nord in quel modo comprassero le foto più volentieri.
Altro equivoco che viene assecondato: il carretto siciliano. Ormai in giro se ne vedono pochissimi, e quelli che si vedono o sono dentro un museo o vengono adoperati come attrazione turistica: una foto sul carretto, sulla piazza di Monreale, vale cinque euro. Modica cifra per qualcosa che siamo portati a immaginare come genericamente antico. Eppure il carretto siciliano, così colorato e impennacchiato è un’invenzione che ha poco più di cento anni. Più che antico, al massimo può essere considerato vecchio. E nemmeno significativo, dato che il temperamento dei siciliani prevede pochi colori e ancor meno impennacchiamenti: quelli estroversi sono i napoletani.
Lo stesso discorso vale per il dolce più siciliano che ci sia, la cassata: un’invenzione pure quella. Ecco come nascono le leggende. C’era un pasticcere palermitano, tale Gulì, che alla fine dell’Ottocento decise di specializzarsi. Nel suo laboratorio di corso Vittorio Emanuele si mise a produrre quasi esclusivamente frutta candita. Come molti siciliani di tenace concetto, aveva deciso di contraddire l’opinione più radicata. Allora come oggi, tutto il mondo nutriva nei confronti della frutta candita un sentimento comune: la ripugnanza. Non la voleva nessuno. Se c’era, veniva scartata accuratamente. Non si conosce il motivo per cui Gulì si convinse del contrario, che ci fosse all’orizzonte un boom di richieste per la frutta candita. Sta di fatto che il suo laboratorio si ritrovò in breve tempo intasato di zuccata e mandarini imbalsamati. Col magazzino pieno e sull’orlo della bancarotta, ebbe un’intuizione che gli consentì di riciclare tutto quel ben di dio. Prese spunto da un dolce di origini molto più antiche, la cassata, quella che oggi viene chiamata cassata al forno: un involucro di pasta frolla ricoperto di cannella e zucchero a velo che custodisce il cuore di ricotta e cioccolato. Su questa base lavorò di fantasia, imbarocchendo il tutto con glassa di zucchero, pasta di mandorle e naturalmente montagnole di frutta candita a fare da guarnizione. Libero ognuno, poi, di scartare la decorazione e assaporare il resto. Il risultato venne prontamente denominato cassata siciliana in modo da sbaragliare anche l’ombra della concorrenza da parte dell’umilissima cassata originale, che si trovò da un momento all’altro privata della propria identità.
La fortuna del nuovo dolce e del suo inventore fu quella di trovare subito un formidabile veicolo promozionale. La facoltosa famiglia dei Florio, che a Palermo ospitava regnanti e aristocratici di tutta Europa, fece della nuova cassata il suo dono di rappresentanza. Questi ospiti partivano da Palermo come altrettanti involontari testimonial, convinti che quel coloratissimo coacervo di zuccheri rappresentasse la Sicilia più vera. E ne incarnava, invece, soltanto la facciata.
Tutta questa premessa sui luoghi comuni serve a introdurre il luogo comune per eccellenza. Meglio affrontarlo subito, però, prima che cominci a impestare l’aria: la mafia. Il resto del mondo tende a credere che in Sicilia i mafiosi se ne vadano in giro col cartellino di riconoscimento o con la lupara a tracolla. Al contrario, quasi sempre tengono un profilo basso, confidando in un genere di riconoscibilità più sottile. Si palesano se questo si rende necessario, confidando che chi deve sapere chi sono, lo sa già. Per il resto, la mafia è un odore. Una puzza. Qualcosa che avverti senza necessariamente sapere da dove proviene. È come la puzza di qualcosa che uno dei tuoi ospiti ha calpestato. Tu non sai esattamente chi, ma sai che qualcuno l’ha calpestata. Magari per discrezione non sollevi il problema, perché pare scortese. Ma dovresti, invece, perché altrimenti sarai costretto a subire quell’odore per tutto il tempo che i tuoi ospiti si tratterranno. Quel che succede nella realtà di tutti i giorni.
Se si sforza un po’, tuttavia, anche l’osservatore più superficiale in certe situazioni può riconoscere la puzza che a zaffate ogni tanto gli capiterà di avvertire. È l’odore di un’apocalisse che è italiana e siciliana al tempo stesso. Quello che si profila come il Grande Collasso Nazionale è destinato a cominciare dal sud. O forse è già cominciato. Rimane da stabilire se sarà un’apocalisse climatica o sanitaria, un’ondata anomala di spazzatura o un’escalation criminale. E rimane da stabilire pure esattamente da dove comincerà: Campania o Sicilia. Le due regioni guardano alle rispettive piaghe con una torva, reciproca forma di consolazione, che confina con l’insidiosa formula del tanto peggio, tanto meglio. Tempo fa successe che a Napoli le casalinghe presero a pietrate i poliziotti che tentavano di arrestare alcuni rapinatori, e il questore commentò: Scene del genere non le ho viste nemmeno a Palermo. Questo smosse un bel po’ di suscettibilità fra la popolazione isolana, dove pure circostanze del genere si ripetono di frequente: come si permette questo signore di adoperare la Sicilia come parametro del peggio? Ma il questore aveva ragione: fra Napoli e Palermo si disputa una corsa al male maggiore.
Se anzi in tutto il meridione scene come quella delle pietrate ai poliziotti avvengono di rado, è solo perché lo Stato ha rinunciato a esercitare il proprio controllo su zone di territorio sempre più vaste, dove la polizia non prova manco a intervenire. In Sicilia se viene rubato un ciclomotore ci si fa una croce sopra, oppure si paga il riscatto per averlo restituito dalla stessa persona che l’ha rubato. La denuncia viene considerata un’usanza desueta perché c’è stata, nel corso del tempo, una tacita cernita dei reati perseguibili. La fase repressiva viene esercitata quasi solo se è destinata a ottenere il consenso generalizzato della popolazione. Quando in passato si sono fatte spettacolari retate di posteggiatori abusivi di colore, lavavetri o di prostitute extracomunitarie, è successo che la gente abbia persino applaudito allo spiegamento delle forze dell’ordine. Diverso è se si tratta di uno spacciatore indigeno. In questo caso scatta, per la morale comune, l’attenuante generica di sempre: Mischino, è patrifamigghia.
In fondo Sicilia e Campania sono figlie entrambe dello stesso Stato assistenziale, caratterizzato dall’essere allo stesso tempo troppo e troppo poco presente. Lo Stato si comporta col meridione come quei genitori che per farsi perdonare le proprie assenze compra un sacco di regali al figlio. In questo modo pensa di essersi lavato la coscienza, e si sorprende quando poi scopre che il figlio è cresciuto male, diventando un delinquente. Allora gli dà uno schiaffo, e si sorprende ancora di più quando il figlio glielo restituisce, lo schiaffo. Ecco, Palermo e Napoli sono figli dello stesso padre. Solo che questo padre ormai ha rinunciato a provarci, coi ceffoni. Un trattamento che riserva solo ai figli degli altri.
Non molto tempo fa i giornali si sono occupati di una ricerchina universitaria condotta nelle scuole di Palermo, un sondaggio dal quale risultava che per la maggior parte degli alunni, interrogati in forma anonima, la mafia era tutto sommato un male se non necessario, almeno accettabile. L’opinione diffusa che veniva fuori era un luogo comune più radicato di quanto si creda, almeno in Sicilia: la mafia dà lavoro. Non appena i dati vennero resi noti, si scatenò una tempesta di indignazione. Si andava dall’accusa di poca significatività del campione sondato, a un’altra più generica di scarsa sensibilità antimafia. In sostanza: gli autori della ricerca erano colpevoli quantomeno di aver lasciato agli studenti la possibilità di esprimere un’opinione del genere senza dar loro nemmeno una sculacciata. I titolari dell’indignazione erano intellettuali, magistrati, deputati, parenti di vittime della criminalità organizzata, e il risultato fu che il sondaggio venne seppellito dallo sdegno generale.
Era stato toccato un nervo scoperto. La coscienza delle persone perbene si rifiutava di accettare un’opinione tanto politicamente scorretta. Fu l’occasione mancata per avviare una discussione su questo semplicissimo argomento: oltre che spiacevole, è anche vero o no, che la mafia dà lavoro? Forse era l’occasione per ammettere che l’opinione maggioritaria emersa da quel sondaggio non era poi tanto inverosimile. Per chi in Sicilia ci vive, basta guardare alla realtà con disincanto per accorgersi che è proprio vero: è la mafia che distribuisce il poco lavoro che c’è. Durante le conversazioni in Sicilia capita di sentirselo dire nelle più svariate circostanze, soprattutto dalle persone culturalmente meno avvertite, che di questa affermazione non colgono anche la grossolanità e la superficialità. Il riflesso condizionato è di liquidare chi esprime un’opinione del genere con una dose di civile insofferenza. Ma a pensarci bene, non hanno torto. Anche quando materialmente è lo Stato a praticare un’assunzione, paramafioso è il sistema di reclutamento: a meno che non si creda che la mafia sia solo il braccio affiliato della mafia stessa. La condizione in cui l’aspirante lavoratore viene tenuto è di oppressione mafiosa. E la diffusione delle forme di lavoro a garanzia diminuita, con il lavoratore tenuto sulla corda praticamente in eterno, non fa altro che incrementare lo spirito di sudditanza: ciò che maggiormente fa il gioco della mafia, trasformando in favori quelli che veramente dovrebbero essere diritti. Applicate in terra di Sicilia – in assenza di una cultura d’impresa che sia veramente radicata, e veramente cultura – le regole del liberismo attengono sì alla sfera economica, ma vengono alterate da quella antropologica.
In Sicilia e nelle regioni del meridione d’Italia lo Stato ha deciso, più o meno consapevolmente, di delegare la funzione dell’ufficio di collocamento. Cercare un lavoro significa chiederlo agli amici, e tenerselo stretto significa tenersi cari gli amici. Per questo il precariato è un’arma nelle mani di chi altera il mercato del lavoro: rappresenta una garanzia di fedeltà. Gli amici contano. È sempre un amico quello che si cerca quando un parente viene ricoverato in ospedale, quando si vuole comprare un’automobile, quando si cerca un prestito e in cento altre occasioni quotidiane, dalle più innocenti in giù.
Anziché spiegare alle scolaresche che la mafia è brutta e cattiva, allora, sarebbe il caso di spiegare come davvero stanno le cose: la mafia dà lavoro, sì, ma lo fa pagare a un prezzo estremamente alto. Il prezzo da pagare è il sottosviluppo. Bisognerebbe spiegare una volta per tutte che l’arretratezza del meridione d’Italia è un’arretratezza creata artificialmente, che si nutre della secolare pioggia di finanziamenti regionali, statali ed europei. Spieghiamo che la mafia dà lavoro dopo aver personalmente creato la mancanza di lavoro. Spieghiamo che senza spezzare questo circolo vizioso la mafia continuerà a detenere il monopolio del mercato dell’occupazione. Spieghiamo che la mafia, ai siciliani, in un certo senso piace. Piace ai commercianti e agli imprenditori, che in cambio del pizzo ottengono dal racket servizi migliori di quelli dello Stato, e inoltre temono i costi e i tempi lunghi di un’insurrezione morale. Piace a tutti i siciliani, che assuefatti ai favori concessi alla loro sudditanza, sono disposti a rinunciare ai diritti della cittadinanza, ne hanno anzi persino dimenticato l’esistenza. Spieghiamo, infine, perché mai lo Stato ha ritenuto di cedere alla mafia la gestione del diritto al lavoro. E chiediamoci se per caso ha voglia di riprenderselo, prima o poi, questo famoso diritto.
Che la mafia dia lavoro è, in Sicilia, un luogo comune. Ma di una sottospecie particolarmente insidiosa: un luogo comune fondato. E di una sotto-sottospecie ancora più insidiosa: un luogo comune fondato su convinzioni superficiali. Nelle vignette del disegnatore Gianni Allegra, l’idea-immagine più forte è rappresentata da un omino appeso a un filo. È una specie di acrobata disperato: forse c’è stato un tempo in cui camminava sul filo, anziché aggrapparcisi. Magari in passato quell’omino è stato un’attrazione circense, capace di arrivare da un capo all’altro del suo filo con brillantezza e spavalderia. Ora l’omino a quel filo rimane appeso con una sola mano, a stento riesce a restare immobile senza precipitare di sotto.
L’omino appeso al filo è uno dei simboli più azzeccati della condizione di chi vive in Sicilia. L’omino si sforza di rimanere aggrappato al filo, di arrivare da un capo all’altro della sua esistenza, ma di nulla può essere certo. Deve stare attento pure alle risposte che dà al suo interlocutore, il grosso topo che nelle vignette rimane sul ciglio del burrone. L’omino si quartìa, come si dice: tende a tutelarsi. Istintivamente si sarebbe indotti a parteggiare per lui, se non altro per ripulsa nei confronti del topone. Ma colui che osserva farebbe bene a non scegliere, fra i due antagonisti. Di certo non può piacergli il topone, ma anche la condiscendenza nei confronti dell’omino appeso al filo non ha una vera ragion d’essere.
Anzi, sarebbe bello se una volta o l’altra quel filo si spezzasse, e che l’omino precipitasse. Che si schiantasse. Che per una volta il suo quartiarsi non fosse premiato con una forma di stentata sussistenza. Chi osserva, se non è un politico, non deve rispondere a un elettorato quartiandosi a sua volta, per cui è libero di rifiutare la solidarietà al più debole solo perché è il più debole. Dal più debole è giusto pretendere che aiuti se stesso in una maniera che vada oltre il semplice quartiamento. Troppe volte si sono visti omini che dopo essere rimasti più o meno a lungo a dondolare appesi a un filo, finivano per accettare l’aiuto del topone. Il quale topone, poi, non li salvava nemmeno: li rimetteva magari sopra il filo, ossia in una condizione di precarietà appena migliore di chi sta sotto. Quella condizione di precaria stabilità che ai toponi serve per guadagnarsi la gratitudine e il consenso.
Ecco, per questo sarebbe bello che una volta per tutte il filo si spezzasse, o che le forze abbandonassero l’omino lasciandolo precipitare. Perché ciò che nelle vignette di Allegra non si vede è quanto veramente sia profondo il baratro che si trova sotto ai suoi piedi. Potrebbe pure trattarsi solo di un piccolo salto, un saltello dopo il quale l’omino sarebbe in grado di camminare da solo, grazie alle sue gambe. Senza doversi quartiare di fronte a nessun topone.
Tutta questa desolazione non sarebbe poi tanto grave se riguardasse solo il nostro presente. Ma in realtà è il futuro che stiamo ipotecando. Ossia il tempo che lasciamo ai nostri figli. L’incubo delle persone perbene, in Sicilia è che il proprio figlio possa decidere di fare il negoziante, o l’imprenditore. Dovere di un buon padre è quello di educare il proprio figlio a non cacciarsi nei guai, ma una volta che c’è finito, cercare in ogni modo di tirarlo fuori. Al proprio figlio non si può raccontare la favoletta tutta teorica dell’antimafia e prescrivergli il coraggio di non pagare. Specialmente perché è nostro figlio e specialmente perché si tratta di questo Paese e di questo momento storico. A parte il fatto che il coraggio non è un medicinale che si possa prescrivere.
Se un ministro dichiara che con la mafia bisogna convivere, è facile che altrove la cosa venga classificata come l’ennesima boutade governativa e, nella confusione generale, presto liquidata. Ma a questo serve sparare molte cazzate: che poi qualche cazzata importante rischia di passare inosservata. A chi vive in Sicilia, la semplice frasetta pronunciata dal ministro un sacco di tempo fa è arrivata come arriva a valle, in forma di valanga, una palla di neve che qualcuno a monte ha lanciato per malignità o anche semplice noia. E vale più del lavoro di centinaia di insegnanti che per anni e anni si sforzano di inculcare agli alunni il senso della legalità. È facile che il dubbio se lo faccia venire un ragazzo che si appresta a entrare nella vita produttiva: è più giusto ascoltare uno sfigato insegnante sottopagato, teorico astratto dell’antimafia, oppure un autorevole ministro?
Il dubbio nasce pure dal fatto che le istituzioni hanno un atteggiamento schizofrenico, nella lotta alla mafia. Da un lato la fase repressiva: se non puntualissima, almeno volenterosa. Dall’altro un lavoro capillare nelle scuole, come educazione alla legalità. In mezzo, per quanto riguarda la fase propositiva, se si esclude l’antimafia da parata: zero assoluto. Anzi, tutta una serie di segnali in controtendenza, ostentati perché intenda chi ha orecchie per intendere.
In fondo anche in Sicilia vale la legge del mercato: il cittadino si rivolge a chi gli offre la miglior qualità di servizi. E moltissimi servizi istituzionali sono stati in quest’isola più o meno esplicitamente privatizzati e delegati a Cosa Nostra. Questo ottiene il negoziante in cambio del pizzo: servizi. Protezione, licenze annonarie, gestione controllata della concorrenza, prestiti agevolati, allacciamenti abusivi di luce, acqua e gas. Nemmeno tanto poco.
Che poi siano servizi illegali, regole distorte, e che illegale e distorto sia il metodo di applicazione, è un altro discorso. Così come è un altro discorso che a trovare molto comodo pagare il racket sia la grande maggioranza dei negozianti. Si fanno affari, col racket. Ci si marcia.
Bisogna purtroppo ammettere che lo Stato non rappresenta un’alternativa credibile. Non in Sicilia, dove Stato e Cosa Nostra si sovrappongono in continuazione. Per capire la frustrazione dei siciliani meglio intenzionati bisogna pensare al personaggio di Giancarlo Giannini in Mimì Metallurgico. Per non sottostare alle vessazioni del capomafia locale, che è Turi Ferro, caratterizzato da un triangolo di nei sulla guancia, Mimì si rivolge al maresciallo dei carabinieri, che però è impersonato sempre da Turi Ferro, sempre con i tre nei sulla guancia. Allora scappa al nord, ma anche qui il procacciatore di lavoro è Turi Ferro coi tre nei. Allora va al sindacato, ma persino lì c’è Turi Ferro con i suoi nei. E così via.
La mafia è come l’acqua, prende la forma del contenitore che la accoglie. E se il contenitore della mafia sono le istituzioni, anche ammettendo che un livello fisiologico di inquinamento sia inevitabile, mai in tempi storici si ricorda una capienza di questa portata. La forma dell’acqua mafiosa oggi è un grande lago tranquillo, talmente fermo da risultare stagnante.
Malgrado qualche segnale in controtendenza, il negoziante onesto viene messo nelle condizioni di chi esce dalla trincea e si lancia nel territorio avverso impugnando la bandiera della legalità, ma una volta in campo aperto si ritrova solo. Solo, malgrado tutte le rassicurazioni e i telefoni antiracket di questo mondo. Per cui la sensazione è che vada crescendo il numero di coloro che pensano, a torto o a ragione: né con questo Stato, né con Cosa Nostra.
Certo, i siciliani, tramite elezioni, hanno abbondantemente contribuito alla deriva di questo Stato e di queste Istituzioni. E altrettanto certo: ci sono i segnali di una prossima, nuova ondata antimafia, che arriva soprattutto dai giovani che hanno riempito i muri di Palermo di adesivi contro il racket e poi hanno fondato Addiopizzo, ricordando che proprio sul fatalismo, sul pessimismo è fondato il sottosviluppo che strangola la Sicilia.
Ma il dovere delle persone perbene è andare oltre la retorica e affrontare i nodi strutturali. È comprensibile che la mafia abbia interesse a tenere nascosta alla pubblica opinione la realtà del mercato del lavoro e quella delle estorsioni: la detenzione del potere passa attraverso la gestione di un profilo basso, senza ostentazioni. Meno comprensibile è che tante persone di provata militanza antimafia non accettino di ammettere quello che è uno stato di fatto. Nessuna persona perbene, se conosce le cose di Sicilia dovrebbe scandalizzarsi a sentir dire che la mafia dà lavoro, o che in certi ambienti pagare il pizzo risulta conveniente. Prendere atto della realtà è il passo preliminare verso qualsiasi ipotesi di soluzione del problema. Per riuscire efficacemente a spremersi un brufolo, bisogna prima procurarsi uno specchio e avere il coraggio di guardarci dentro.
Il viaggio più difficile è quello che si inoltra fin dentro lo specchio.

© Roberto Alajmo – Laterza
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L’INFANZIA È UN TERREMOTO di Carola Susani http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/31/linfanzia-e-un-terremoto-di-carola-susani/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/31/linfanzia-e-un-terremoto-di-carola-susani/#comments Fri, 31 Oct 2008 12:51:54 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/31/linfanzia-e-un-terremoto-di-carola-susani/ Parliamo di terremoto. Lo facciamo oggi, a poco meno di due mesi da una ricorrenza importante: il centenario del terribile, devastante terremoto di Messina del 28 dicembre 1908. L’occasione ce la fornisce questo bel libro di Carola Susani: “L’infanzia è un terremoto” (Laterza, 2008, euro 9, pagg. 142). Un libro che si presta a diversi livelli di lettura.
Di seguito potrete leggere la recensione di Miriam Ravasio (in esclusiva per Letteratitudine) e gli articoli di Francesco Gambaro e Giovanni Russo, apparsi rispettivamente su Repubblica-Palermo e sul Corriere della Sera.
Vorrei che discutessimo di questo libro della Susani e degli argomenti a esso correlati. Già un primo punto di domanda potremmo trarlo, forse, dallo stesso titolo del volume, che si presta a una doppia interpretazione: quando e perché l’infanzia è un terremoto?
E poi…
Il terribile terremoto del Belice, avvenuto quarant’anni fa, è solo un ricordo?
Che tipo di tracce ha lasciato (se ne ha lasciate)?

Gambaro scrive: “A pensarci bene il Sessantotto in Sicilia è cominciato in anticipo a causa del terremoto, connotandosi prima come un grande movimento di solidarietà, poi con la rabbia di chi assisteva all’ambiguo e ritardato spargimento di denaro pubblico, a ricostruzioni balzane, ad appropriazioni indebite di materiali di ogni genere, compresi quelli fotografici che, anziché finire nei centri di documentazione, hanno abbellito le università italiane benedicendo carriere”.
E l’arte? E possibile immaginare una connessione tra “arte” e “ricostruzione”? Tra “arte” e l’esigenza di “riemergere dalle rovine”?
Miriam, nella sua recensione, ha estrapolato dal libro queste frasi/domande: “Ho pensato a Gibellina come a un pamphlet dell’antintellettualismo, un Candide, la dimostrazione della pochezza, dell’inanità dell’arte. Che cos’è l’arte? La cacatina di un uccello presuntuoso. Chi presta attenzione all’arte? Nessuno. Perché dovrebbe? Che ragione c’è? Può giusto servire a richiamare turisti e intellettuali, gente che si diletta di cose senza senso, gente senza problemi”.
Già. Cos’è l’arte? A chi interessa davvero?
Questo e molto altro si evince dall’ottimo volume della Susani. Come scrive Giovanni Russo “L’infanzia è un terremoto è ricerca, biografia, memoria, vicende personali e pubbliche. È una testimonianza dell’idealismo che muoveva tanti a stare nelle baracche, tra i resti dei paesi distrutti”.

Vi invito a discutere di questo libro, magari prendendo spunto dalle domande poste sopra. L’autrice parteciperà al dibattito (Miriam mi aiuterà a coordinarlo).
Infine vi ricordo la già citata ricorrenza: il centenario del terremoto di Messina.
Qualcuno di voi mi ha chiesto di ricordarlo, di parlarne insieme.
Credo che questa sia l’occasione giusta.
Massimo Maugeri

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“Il terremoto è un mito, la vita di prima è preistoria”
di Miriam Ravasio

L’infanzia è un terremoto di Carola Susani è un testo difficile da recensire, perché è un insieme di cose diverse: biografia, ricerca, analisi, storia, politica ed anche un diario di viaggio. I luoghi sono quelli privati della memoria e quelli pubblici del disastroso terremoto della Valle del Belice.
Scritto più per capire che per dire, l’autrice ritorna ai suoi primi anni, quando i genitori, due architetti veneti, si trasferirono nella baraccopoli del Belice, impegnati attivamente nel progetto di Danilo Dolci e Lorenzo Barbera. Lo stile ricorda Savinio, perché è il lettore, che con i suoi strumenti di conoscenza, ricompone l’esperienza, colmando lo spazio temporale che dista dai fatti, 1968 -1972 e dalla loro rivisitazione, oggi. Sta lì, nella nostra memoria il senso del vuoto che muove quel bisogno di verifica che, a molti anni di distanza, spinge l’autrice al “ritorno”; ad intraprendere il viaggio, in compagnia del marito e del figlio. Lei, ora mamma, ricorda i giochi con i bimbi siciliani, i pasti della mensa comune e i discorsi dei grandi, che immaginiamo estenuanti e infiniti. Perché lì, si sperimentava una nuova idea di città, ideale e utopica, che voleva eliminare il centro e la periferia, ricchezza e povertà, azzerando il passato (già azzerato fisicamente dalla natura).
Dalle rovine di Montevago, e poi da Gibellina e dal Cretto di Burri, si avvia il racconto di Carola Susani, con una riflessione sull’arte, sulle idee, sul delirio entusiastico dell’utopia. Le “rovine” schiacciate nella terra dal peso immenso dell’opera di Burri, sono descritte da due diversi punti di vista; quello dell’autrice, che nel Cretto riconosce l’intento poetico e quella degli abitanti che al contrario vivono la grande colata bianca come un inganno al ricordo, alla vita stessa che in quel luogo non sarà più, mai più. “Ho pensato a Gibellina come a un pamphlet dell’antintellettualismo, un Candide, la dimostrazione della pochezza, dell’inanità dell’arte. Che cos’è l’arte? La cacatina di un uccello presuntuoso. Chi presta attenzione all’arte? Nessuno. Perché dovrebbe? Che ragione c’è? Può giusto servire a richiamare turisti e intellettuali, gente che si diletta di cose senza senso, gente senza problemi.”
Gibellina come la coda lunga di Yale? E l’Ises (istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale responsabile della ricostruzione) attrattore dei sogni e delle utopie di un mondo in movimento? Sì, fu così. “ L’infanzia si diletta di trionfi. E’ vero questa non è tutta l’infanzia, l’infanzia non disdegna la commozione, le tenerezze, l’amore. Però nell’infanzia c’è anche questa fascinazione per le rovine”. A quale infanzia si riferisce Carola? A quella dei suoi quattro, cinque, sei anni o a quella delle idee assolute, che lei bimba, ha lucidamente riconosciuto nei “nostri adulti”che sacrificando la creatività dell’arte all’ideologia originarono solo teoria e poi esperienza spericolata: il terremoto è un mito, la vita di prima è preistoria.
Nomi noti, della politica, ma non solo, di ieri e di oggi, si intrecciano in relazioni complesse: un giovane Don Rigodi, il colonnello Dalla Chiesa, Bruno Zevi e Ulriche Meinhoff. Il sessantotto e il suo mito stanno lì, sorprendentemente, nella Valle del Belice, nel racconto e nella ricostruzione di quella esperienza; nei frammenti, diversi, esposti come in una mostra a tema, che potrebbe anche essere itinerante perché il pensiero che animava la Comune fu, appunto, comune a molti e, nella sua versione architettonica lo fu per molto tempo ancora.

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Un’infanzia nel terremoto
di Francesco Gambaro

Quarant’ anni fa, il 14 e il 15 gennaio, il terremoto. Ore 2,34 minuti e 3 secondi, 8° grado e dopo 12 secondi 9° grado. Ore 17,43: l’ ultima scossa di 9° grado ebbe la durata di 52 secondi. Della valle del Belice rimase poco. Montevago, Gibellina e Salaparuta quasi interamente distrutti. Di Poggioreale rimasero in piedi alcuni muri. Crolli e morti anche a Santa Margherita Belice, Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi.
Carola Susani ne “L’ infanzia è un terremoto” sostiene, correttamente, che dopotutto il numero dei morti fu contenuto rispetto all’enormità del devastamento territoriale e urbanistico. La memoria riporta i feriti, le braccia dei soccorritori che tiravano come corde altre braccia dalle macerie, dal fango, dal freddo ventoso. Quelle ferite hanno tardato a rimarginarsi tra i sopravvissuti della valle del Belice, si sono moltiplicate e sono state trasmesse ai figli. Negli anni successivi quei feriti hanno continuato a vagare come zombie tra le baracche di Salemi, o cani spaventati tra le enormi piazze di Gibellina nuova, che architetti forestieri hanno voluto mutare in un paese di pianura. A pensarci bene il Sessantotto in Sicilia è cominciato in anticipo a causa del terremoto, connotandosi prima come un grande movimento di solidarietà, poi con la rabbia di chi assisteva all’ambiguo e ritardato spargimento di denaro pubblico, a ricostruzioni balzane, ad appropriazioni indebite di materiali di ogni genere, compresi quelli fotografici che, anziché finire nei centri di documentazione, hanno abbellito le università italiane benedicendo carriere. Avvinghiata a queste memorie Carola Susani tenta in questo libro una scommessa difficilissima: quella di coniugare la sua visione di bambina di quattro anni – venuta in Sicilia insieme ai suoi genitori architetti per partecipare, con Lorenzo Barbera e Danilo Dolci, alla ricostruzione del Belice – con quella della scrittrice matura e osservatrice. I puntuali sopralluoghi – «il ramo matriliniare della mia famiglia ha preso l’abitudine d’incontrarsi in agosto, anche per pochi giorni, in Sicilia» – hanno data vita a un’inchiesta nutrita di testimonianze ma, soprattutto, nutrita dei suoi occhi di bambina. Una scommessa difficilissima e atipica, perché testimoni, protagonisti e autrice si conoscono, sono come una grande famiglia allargata e l’inchiesta diventa un romanzo i cui nomi sono quelli veri e i fatti quelli realmente accaduti. Da questo libro lo storico potrà recuperare dati precisi – dalle ragioni fratricide della scissione e della fine del Centro studi Valle del Belice (dalla rottura insomma con Danilo Dolci qui decrittata bipolarmente), alla costruzione della diga dello Jato, per anni considerata dalla popolare ignoranza causa di danni aggiunti a quelli del terremoto, alle contestazioni del diritto all’enfiteusi. È tuttavia nei dettagli percettivi che si coglie una specie di oro documentario: cosa oppone, per esempio, Gibellina a Montevago e, di conseguenza, i rispettivi abitanti? Il Cretto di Burri, poco amato anche dai gibellinesi – che pure resta un esempio inarrivabile di lapide alla memoria di una cosa e non di una persona – opposto alla soglia di un palazzo distrutto di Montevago dove ancora, incartapecoriti, giacciono giornali e scarpe di quarant’anni fa, non usati ma erosi dal tempo. Ma se Montevago è l’anti-Gibellina è anche perché è riuscito a ricrescere su se stesso, a riavere i suoi ricordi, i suoi bar: «Il bar ha un odore di ricotta dolce bruciata che su di me ha l’effetto di una vertigine. Divento euforica, è l’Urbar della mia coscienza. Odore di stanzoni enormi e banconi minuscoli. Odore di lusso e povertà. Odore di: questo è quel che abbiamo, è tutto, altro non c’ è». Il cuore della Susani e il cuore del suo libro sono in questi scarti emotivi: se la documentazione pesa, pesano di più le emozioni. Tutto quello che si scrive sulla Sicilia finisce per impastarsi di retorica. Ci sono i progetti che non sono andati in porto, quasi che fossimo esperti in progetti che non devono andare in porto. Ci sono idee che non vanno in porto, ma che vengono trasformate, nostro malgrado, in altro. Carola Susani, traendo i conti e raccontando «com’è andata a finire», a un certo punto scrive: «Dopo l’ estate del ‘70 c’era stato il lungo presidio davanti a Montecitorio che aveva portato all’approvazione della legge che esonerava dalla leva i residenti in zona terremotata. Questa vittoria, che nella percezione del Centro studi di Partanna era minima, che smorzava il conflitto ed eludeva la questione vera, cioè l’applicazione della legge per la ricostruzione e lo sviluppo, forse è stata vissuta con maggior sconforto, anche se con minor dolore, del tradimento di Tanassi. Come capita quando si dà inizio a qualcosa, quando si agisce, che le cose prendano la loro strada e l’esito sia imprevisto, così il rifiuto della leva per i giovani del Belice era uno strumento di lotta per la ricostruzione e lo sviluppo, fallisce lo scopo e diventa una pietra miliare nel processo che porta all’introduzione in Italia dell’ obiezione di coscienza». Successi trasversali, che pure hanno impedito di continuare la lotta. Anche se le baracche non ci sono più, Gibellina è diventata una città d’arte, Montevago ha una bella biblioteca, Vita non ha più giovani e possibilmente non festeggerà i suoi cinquecento anni, Salemi non saprà approfittare del suo deserto senza cammelli: «Non sarà un caso – conclude la Susani – che nella mia memoria gli eventi terribili si concentrino. Alla fine i miei genitori cedettero, rinunciarono a fare i pendolari, si risolsero a stabilirsi a Palermo, cercarsi un lavoro più sicuro». Parabola del Sessantotto.
(articolo pubblicato su Repubblica del 09 gennaio 2008, pagina 1, sezione: PALERMO)

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Arte e rovine: il Belice trema ancora. Le illusioni degli intellettuali, la solitudine delle nuove città
di Giovanni Russo

Con Carola Susani, l’autrice di L’infanzia è un terremoto, sono tornato, dopo quarant’ anni, nei paesi e nei luoghi del terremoto del Belice. Ero arrivato il giorno dopo. A Partanna, al centro di uno stanzone affollato di feriti che serviva da ospedale, era distesa su una brandina una donna appena estratta dalle macerie. Accovacciati intorno ai fuochi, sui bordi delle strade, nelle piazze, bivaccavano gli scampati, con negli occhi le immagini della tragedia e il terrore che la terra ricominciasse a tremare. Tra le rovine ancora calde si aggiravano i sopravvissuti ricoverati nelle tendopoli che cercavano di recuperare un po’ dei loro beni davanti alle case spaccate, alle travi contorte. I terremotati a Gibellina, Montevago, Salaparuta, Santa Ninfa tornavano a cercare la «roba». Questa vita che ferveva tra i ruderi, questo affannarsi come formiche che razzolano tra i detriti finì dopo qualche giorno, e calò il silenzio. Quando anni dopo sono andato a Gibellina e a Santa Ninfa dove avevo fatto amicizia con l’allora giovane parroco don Riboldi, ho provato le stesse sensazioni che mi ha dato la rievocazione poetica e l’inchiesta intelligente e appassionata della Susani. Per scrivere un libro sul Belice terremotato, è ritornata con il marito e la figlia a Montevago e a Partanna dove aveva vissuto da bambina in baracca con i genitori architetti, venuti dal Veneto per collaborare alle iniziative per la ricostruzione e lo sviluppo del centro studi di Danilo Dolci e Lorenzo Barbera. L’autrice riferisce i suoi incontri con chi, come sua madre, continua a lavorare nel Belice per attuare i progetti dell’Unione Europea, e descrive le rovine di Montevago che «ci si parano davanti piatte orizzontali tra i lampioni e la chiesa, il grande piazzale di marmo». Viene fuori la solitudine di queste città nuove ma morte quasi come le rovine. Con l’occhio adulto vede anche gli errori e le illusioni che animavano i volontari, rincontra gli amici dell’infanzia, i collaboratori di Lorenzo Barbera, confronta con lui le sue impressioni. A Montevago l’accompagna un amico della madre, Giuseppe Triolo, che è tornato nel paese natale per lavorare ai progetti dell’ Unione Europea. Giuseppe critica l’opera di Burri Il Cretto – una colata bianca di cemento che copre le macerie di Gibellina – che invece piace all’autrice, perché la ritiene una sorta di monumento funebre per ricordare che qui una volta c’era una città. Ma per Giuseppe, per i figli dei terremotati è come se avesse espropriato la loro identità. Gibellina è disseminata d’opere d’arte, da Burri a Consagra, per iniziativa del sindaco Ludovico Corrao. Susani ci dà l’eco delle polemiche da lui suscitate per aver trasformato la città distrutta in un luogo d’incontro d’artisti. Anche a me quelle sculture d’avanguardia sembrarono sovrapposte su una tragedia e ad essa estranee. Barbera e Dolci riaffiorano come certe ombre dei gironi danteschi. Erano loro gli animatori delle lotte per la ricostruzione, ma poi si divisero. Dolci considerava le manifestazioni di protesta come testimonianza dei bisogni dei terremotati e non voleva che le assemblee si trasformassero in un giudizio popolare, in un processo allo Stato. L’infanzia è un terremoto è ricerca, biografia, memoria, vicende personali e pubbliche. È una testimonianza dell’idealismo che muoveva tanti a stare nelle baracche, tra i resti dei paesi distrutti. Emergono i nomi di Bruno Zevi, di Evtuscenko, le illusioni degli intellettuali e fatti inquietanti come l’arrivo nella baraccopoli di due bambine tedesche, le figlie della terrorista Ulriche Meinhoff, la presenza ambigua della mafia. Tutto è raccontato con partecipazione, ma anche con giudizio critico e ironia, come quando rammenta a proposito dei comunisti «uno sformato di riso a forma di falce e martello che era immangiabile». C’è il ricordo dei bambini, che giocano sulle rovine: «Nelle città morte ci sguazziamo, la decomposizione non ci fa paura. A Partanna, a cinque anni, io e Luca disegnavamo scheletri addobbati con crinolina e cappelli a larghe tese», perché «nell’infanzia c’è anche questa fascinazione per le rovine». Intanto gli adulti preparano le pratiche, o progettano le case dei nuovi paesi ispirandosi ad un’idea urbanistica che voleva eliminare la distinzione fra centro e periferia per far cessare le divisioni di classe, «né ricchi né poveri». Il risultato dell’utopia dell’ Ises (l’Istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale responsabile della ricostruzione), sono i palazzi anonimi, tutti uguali, e gli stradoni di marmo. L’ autrice rievoca le battaglie per non pagare le tasse e per non fare il servizio di leva, i colloqui con il colonnello Dalla Chiesa che allora comandava i carabinieri in Sicilia, e le false promesse del ministro della Difesa Tanassi. La trasformazione della società dopo il terremoto ha cancellato quel mondo contadino e ha portato la valle del Belice nell’era postindustriale ma, per merito de L’infanzia è un terremoto, quel mondo scomparso ci resta nel cuore.
(articolo pubblicato su “Il Corriere della Sera” del 16 gennaio 2008, pag. 41)

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1982 di Roberto Alajmo http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/27/1982-di-roberto-alajmo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/27/1982-di-roberto-alajmo/#comments Thu, 27 Mar 2008 21:23:52 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/27/1982-di-roberto-alajmo/ Ogni anno ha il suo fascino. Ogni anno ha le sue luci e le sue zone d’ombra. Eppure ci sono anni che riescono a infilarsi meglio di altri nelle pieghe dell’esistenza. Per Roberto Alajmo il 1982 rientra nella suddetta categoria.
1982” (pagg. 167, euro 10) è il titolo di un volume edito di recente da Laterza e che fa parte dell’ottima collana “Contromano” dove Alajmo, peraltro, è già presente con “Palermo è una cipolla”.
In queste “Memorie di un giovane vecchio”, questo il sottotitolo, l’autore siciliano passa in rassegna il suo personale 1982 per spaziare, poi, dalla politica al cinema, dallo sport alla televisione, dalla musica alla letteratura, disegnando abilmente una fitta rete di incroci tra le esperienze del singolo e fatti e avvenimenti di interesse collettivo.
Non v’è dubbio che in Italia, quando si parla di 1982, il pensiero corre al Mundial spagnolo vinto dalla mitica nazionale di Bearzot. E agli azzurri campioni del mondo è dedicato un importante capitolo, sebbene l’autore del volume – come racconta egli stesso – fu costretto a seguire alcune delle partite più importanti attraverso una misera radiolina “su una torretta a fare la guardia al nulla”. Sì, perché il 1982 è anche l’anno in cui Alajmo presta il servizio di leva; quello in cui i capelli cominciano a incanutirsi e la ragazza gli volta le spalle.
Anno importante, si diceva. Passano a miglior vita gente del calibro di Philip K. Dick, Gilles Villeneuve, Ingrid Bergman, Grace Kelly. Nascono i calciatori Adriano, Kakà, Gilardino, Cassano, la valletta Eleonora Pedron e il motociclista Marco Meandri. Vanno in onda i canali televisivi Italia 1 e Rete 4. Debutta Radio Deejay. Viene al mondo il primo bambino in provetta, va sul mercato il compact disc, mentre la rivista “Time” assegna il titolo di uomo dell’anno – con tanto di foto – a un personaggio particolare: il computer.
Alajmo dimostra ancora una volta che è possibile scrivere ottimi libri affidandosi a una scrittura leggera, frizzante e ironica (persino autoironica). Una scrittura che sa essere lieve anche quando si misura con il racconto di storie dure e traumatiche: dalla guerra delle Falkland a quella del Libano, dall’omicidio di Pio La Torre a quello di Carlo Alberto dalla Chiesa, dallo scandalo del Banco ambrosiano al suicidio di Roberto Calvi.
Notizie, quelle citate, che sfiorano l’autore senza riuscire a coinvolgerlo fino in fondo. Effetto dei risvolti alienanti del servizio militare; almeno fin quando un esaurimento nervoso “salvifico” (“Se mi date un’altra volta un fucile in mano, io mi ci sparo”) non riesce a sottrarlo dalle grinfie della caserma.
“Che poi”, scrive in chiusura Alajmo, “a pensarci col senno di poi, non è stato affatto così tremendo. Malgrado tutto il resto, la mia vita è risultata tutto sommato felice, a partire da quell’anno e per tutti gli anni che sono venuti di seguito, discendendo, per quanto mi riguarda, proprio dal 1982. Ecco, in sintesi, come è andata a finire. O era del mondo, che vi interessava sapere?”
Massimo Maugeri
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1982 di Roberto Alajmo
Laterza, Contromano, 2007
pagg. 167, euro 10
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Cari amici,
vi invito a intervenire in questo post:
- dialogando con Roberto Alajmo, in merito al suo libro;
- provando a raccontare il “vostro” 1982 nello spazio di un commento
(cos’è stato quell’anno per voi? avete ricordi particolari? aneddoti o esperienze da raccontare?).


Di seguito avrete la possibilità di leggere il primo capitolo del libro che presentiamo.

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E poi un’anticipazione sul nuovo romanzo di Alajmo che uscirà a breve per Mondadori. Il titolo è: “La mossa del matto affogato”. Un romanzo dove, con implacabile leggerezza e ironia, si racconta la disfatta di un avventuriero, mostrando l’estraneità improvvisa che talvolta possono riservare i rapporti affettivi.
Ho letto qualche brano del libro e vi assicuro che è davvero molto particolare, anche per via della scelta tecnica di improntare la narrazione con l’uso della seconda persona.

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(PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE LATERZA, PUBBLICHIAMO IL PRIMO CAPITOLO DEL LIBRO “1982 – MEMORIE DI UN GIOVANE VECCHIO”, DI ROBERTO ALAJMO)

PROLOGO

NON È UN CAPELLO

In questi casi, il classico dei classici è svegliarti una mattina, andare in bagno, sciacquarti la faccia e scrutare nello specchio. Dopodiché accorgerti di qualcosa e avvicinarti ancora un po’ alla tua immagine riflessa per accertarti di aver visto bene. Non può essere. Sì che può essere.
Sì, effettivamente.
C’è.
Il capello bianco. C’è. Il capello bianco c’è.
Dev’essere spuntato durante la notte. Non c’è altra spiegazione possibile, perché ieri non c’era e oggi invece sì. Cerchi di consolarti pensando che prima o poi doveva succedere. Minimizzi, ti sforzi di prenderla con ironia. Certe volte funziona. Dipende. Rimane comunque da stabilire come regolarsi ora che è successo. Poi verrà il tempo delle eventuali tinture, ma lì per lì l’istinto porterebbe a prenderlo con due dita e cercare di estirparlo, prima che la sua presenza possa contagiarsi agli altri capelli, rinviando così almeno di qualche giorno la svolta psicologica che si prospetta nella tua vita, una soglia paragonabile al compimento dei venti, trenta, quarant’anni. Quando scopri che ti è spuntato il primo capello bianco sei portato a fare riflessioni di un certo spessore, stilare bilanci, formulare propositi. Se non ti viene in mente nulla di significativo da tramandare almeno a te stesso vuol dire che sei davvero povero di spirito. Strano: dai capelli bianchi ci si aspetta che siano forieri di saggezza, oltre che di depressione.
Oppure, se riesci a resistere al primo istinto distruttivo, dopo avere individuato e preso fra due dita quell’unico capello bianco, ti fermi a indugiare sulla sorte che deciderai di destinargli. E alla fine lo lasci vivere, nel ricordo di quella scaramanzia che intima: sette capelli bianchi ricresciuti per ognuno strappato via. La rappresaglia tricologia funge da deterrente, ma i sette capelli bianchi dopo una settimana probabilmente ti spunteranno lo stesso, crudeli come certi nazisti da film, che malgrado il sacrificio dell’eroe, davano ordine di procedere lo stesso con la fucilazione degli ostaggi.
Così succede, di solito. Comunque si voglia reagire, il giorno della scoperta del primo capello bianco è di quelli cruciali, da segnare nel calendario della tua vita a caratteri maiuscoli. Neri e maiuscoli.
Nel mio caso, però, la dinamica è diversa. Niente risveglio, niente specchio, niente soprassalto alla scoperta del singolo capello bianco, né tentazione di strapparlo via. Tutto è successo in un periodo in cui non mi guardavo mai allo specchio. Diciamo quasi mai. Mi trascuravo un po’, o forse la cura dell’aspetto fisico era diventata meno importante. Da qualche mese la mattina avevo ridotto al minimo le abluzioni e persino le funzioni corporali per cercare di guadagnare tempo e presentarmi puntuale all’adunata del mattino. Perché sì: era il periodo del servizio militare. Non che mi piacesse indugiare a letto dopo la sveglia. Tutt’altro. Anzi, quando mi capitava di svegliarmi anzitempo, correvo in bagno e mi lavavo prima degli altri. Questo perché dieci minuti dopo il suono della tromba, nei bagni si creava un ingorgo umano cui cercavo sempre di sfuggire, provando a scansare la pesantezza dei primi scherzi da caserma della giornata.
Il mio sistema consisteva nell’indossare la divisa prima ancora di lavarmi. E solo poi, quando la maggior parte degli altri era intenta alla vestizione, quando l’ingorgo si scioglieva, andavo in bagno e mi immischiavo ai ritardatari ancora in mutande, io che già indossavo persino il basco d’ordinanza, per non lasciarlo in camerata col rischio che me lo fregassero. Si fregavano tutto, pure i baschi. Per non bagnare i vestiti mi lavavo alla meno peggio, limitando al massimo il contatto con l’acqua gelata, oltre che coi commilitoni. Non mi piacevano i commilitoni. Per niente. Né loro, né la situazione in cui mi trovavo. E per la verità, sospetto, nemmeno io piacevo a loro.
Insomma, in quel periodo allo specchio mi guardavo poco, e malgrado l’ora di punta ai bagni fosse passata, mi restava poca voglia di indugiare nella cura del dettaglio estetico personale. Inoltre, per il motivo che ho detto, quando mi capitava di guardarmi allo specchio, il più delle volte indossavo il berretto. Quindi, il giorno in cui il famoso Primo Capello Bianco ha deciso di spuntarmi sulla testa, io me lo sono perso in pieno. Non ho dovuto mai affrontare il dubbio strappo-non strappo, per il semplice motivo che quando me ne sono accorto, i capelli bianchi erano diventati già troppi per essere affrontati in termini di sterminio collettivo.
Non è neppure escluso che possano essere diventati bianchi tutti assieme, magari in un momento di particolare stress. Dicono che succeda. O almeno succede nei romanzi dell’orrore: vedi un fantasma, e all’improvviso ti si imbiancano i capelli. Per quanto riguarda me, tuttavia, non c’è stato nessun fantasma, nessun istante di stress particolare. Si tratta di un momento difficile da individuare, perché tutto quel periodo era di particolare stress. La chimica che presiede a questo genere di mutazioni è imperscrutabile, e difatti non ricordo un inciampo particolare o uno di quegli spaventi che provocano, secondo la leggenda, l’imbiancamento repentino Può darsi che sia stato così: ma non lo so; per il semplice motivo che, non guardandomi allo specchio per lunghi periodi, non potevo accorgermene.
Né potevo sperare che se ne accorgesse qualcuno dei miei compagni d’arme; guardarsi reciprocamente, notare un dettaglio nell’aspetto personale di un altro era non proibito, ma di sicuro fuori luogo, indizio sicuro di effeminatezza. Ergo: né io guardavo gli altri, né gli altri guardavano me. Vivevamo con un paraocchi che ci ostruiva ogni visione laterale. Potevamo vedere solo gli oggetti che ci si presentavano frontalmente, individuare solo i beni di prima necessità e soddisfare solo bisogni primari: bere, mangiare, respirare. Stop: anche gli altri bisogni primari, come vedremo, potevano essere sospesi. Solo esercitando un letargo dell’intelligenza e dello spirito potevamo garantirci l’unico obiettivo possibile, nel contesto, ossia arrivare alla fine dei trecentosessantacinque giorni che ci toccava trascorrere in caserma. Cioè, sopravvivere. Ogni altra attività si configurava come un lusso e dunque, ancora, come indizio di effeminatezza. Leggere era effeminato, ascoltare musica era effeminato, persino andare in chiesa era considerata una manifestazione di effeminatezza. Guardare i capelli degli altri sarebbe stato il massimo dell’effeminatezza. Per cui non so se qualche mio effeminato commilitone si è accorto del fatto che i miei capelli erano diventati bianchi. Di sicuro nessuno mi ha detto niente, finché sono rimasto in caserma. Nemmeno io l’avrei fatto. Se mi fossi accorto di una mutazione del genere su un mio commilitone, me ne sarei stato zitto. Non volevo certo passare per effeminato.
È stata la mia fidanzata di allora, Maria, che se ne è accorta quando mi ha rivisto dopo quasi un mese, in occasione della prima licenza. Mi ha guardato senza espressione e ha detto:
- Hai i capelli bianchi.
Così ha detto. Senza un punto esclamativo alla fine, senza ironia o tenerezza. Senza allarme o compatimento. Come una pura e semplice constatazione. Io sono caduto dalle nuvole:
- Che dici?
Naturalmente sono corso allo specchio più vicino per verificare l’entità del danno. Lei non mi ha seguito, è rimasta ad aspettarmi in soggiorno. Il suo restare, contrapposto all’ipotesi di seguirmi con amore, avrebbe dovuto rivelarmi molte informazioni che per il momento era meglio ignorare. Un problema per volta. Sono andato in bagno da solo e ho guardato i miei capelli. La proliferazione di quelli bianchi era molto più avanzata di quanto potessi immaginare, tanto che mi sono chiesto distintamente come avessi fatto a non accorgermene prima. Ho mosso la testa passando le dita fra i capelli per verificare che non fosse uno scherzo della luce riflessa, ma no: quelli bianchi erano davvero moltissimi. Non proprio maggioranza, ma di sicuro, almeno, minoranza più che qualificata. Spiccavano sul nero in maniera uniforme, senza zone di concentrazione. Impensabile procedere a un’estirpazione individuale.
Ho immaginato che fosse successo la notte prima, ma ho dovuto ammettere di fronte a me stesso che non era affatto probabile. Poteva essere successo una notte qualsiasi del mese precedente, oppure anche un poco alla volta, nell’arco dello stesso periodo. La sostanza non cambiava. La sostanza era che i miei capelli avevano cominciato a imbiancare in maniera drastica.
La scoperta è bastata a rovinare l’incontro con Maria, incontro che pure avevamo (avevo) desiderato con spasmi di passione inediti, se si considerano i precedenti del nostro rapporto. Lei stessa, che nei primi tempi fra noi era quella più innamorata, stentava a riconoscere quella retorica passionale di cui farcivo le lettere che le spedivo dalla cattività. A Orvieto, dove espiavo il periodo del cosiddetto CAR, vivevo in una solitudine animalesca, circondato da creature primordiali, prive di qualsiasi sensibilità umana. In quei trenta giorni mi ero aggrappato al ricordo di Maria in maniera disperata, fino a capovolgere i ruoli consolidati nel nostro rapporto, dove fino ad allora io ero stato la parte più sfuggente. Per forza: lei era tutto ciò che rimaneva del mio passato di essere umano per cultura e sentimenti. Lei era la mia ancora di salvezza. Lei e I., naturalmente. Ma quello di I. è un altro discorso, che affronteremo al momento opportuno.
Quando sono tornato in soggiorno Maria era ancora dove l’avevo lasciata. Io ho detto solo:
- E’ vero, sono tutti bianchi.
Al che mi sarei aspettato che lei rispondesse: Ma no, ma che dici, non tutti, sono solo un po’ bianchi. Invece lei non l’ha detto. Non ha nemmeno abbozzato qualcosa che somigliasse a una forma di consolazione. Mi ha risposto:
- Eh, te l’ho detto.
Dopodiché la conversazione fra noi ha preso altre strade, strade più convenevoli, tralasciando del tutto la scoperta dei capelli bianchi. Col senno di poi, posso dire di non ricordare nulla, di quel che abbiamo detto. Posso anzi dire di non avere mai saputo nulla, di quella conversazione. Non si ricorda, tecnicamente parlando, qualcosa che all’inizio si ricordava: ma non è questo il caso. Lei parlava e io non ascoltavo. Ero distratto. La mia mente era dirottata su quell’unico binario possibile: i capelli bianchi. Mi erano venuti i capelli bianchi.
Nella maniera certo approssimativa dei ventenni, mi rendevo conto di avere appena varcato una soglia biologica impercettibile e fondamentale, però. Il mio corpo aveva cominciato a invecchiare. Stavo mutando. Era cominciata una metastasi incruenta che però sempre metastasi risultava. E il destino di quella mutazione sapevo quale sarebbe stato. Il destino innominabile, lontanissimo, eppure, a partire da quell’indizio che avevo appena scoperto, un po’ più vicino.
Mentre Maria parlava, io pensavo ai fatti miei. Per la precisione: cercavo di capire che cosa avesse provocato quella proliferazione di capelli bianchi. Doveva per forza esserci un motivo scatenante. Doveva esserci e dovevo scoprirlo. A un certo punto la mia ragazza – il mio ingrizzo, si diceva a Palermo in quegli anni – mi ha richiamato all’ordine dei discorsi che stava facendo. Discorsi più che impegnativi, che riguardavano la fine dell’amore e altri dispiaceri di minor conto. Le circostanze mi spingevano ad abbandonare l’indagine sui motivi della canizie. Ma una parte di me, mentre Maria mi stava lasciando, non smetteva di ruminare. Non vale la pena di pensarci, mi dicevo. Ormai è successo, amen. Ora la mia ragazza mi sta dicendo che ha deciso di lasciarmi, concentriamoci su questo. Fin quando, effettivamente, Maria ha ottenuto la mia attenzione ed è riuscita a farmi il discorsetto che si era preparata, alla fine del quale mi sono ritrovato single, oltre che vittima di una canizie già in stato di avanzamento. È stato allora che ho scelto di stabilire delle priorità, lasciando perdere le riflessioni sui capelli e concentrando piuttosto ogni sforzo per rimediare al nuovo stato di solitudine sentimentale.
A distanza di tempo, tuttavia, mi viene il sospetto di aver sbagliato nella selezione delle priorità. Forse, se non avessi lasciato perdere, se avessi proseguito le indagini nell’immediatezza dei fatti, sarei riuscito a scoprire il motivo per cui avevo cominciato a invecchiare. Addirittura, una volta scoperto il movente, avrei potuto intervenire sulle cause e risolvere il problema alla radice, restando giovane ancora per un po’, se non per sempre, come allora credevo possibile. Non l’ho fatto, e ancora me ne dispiaccio.
Arrivano però momenti della vita in cui bisogna tornare indietro e riflettere. Come quando in autostrada si scopre che bisognava imboccare una certa uscita. Ormai è troppo tardi, siamo andati troppo avanti, non si può tornare a marcia indietro. Tuttavia è possibile uscire dall’autostrada successivamente e tornare indietro percorrendo strade secondarie. Strade, certe volte, addirittura divergenti rispetto alla nostra destinazione. Non solo è possibile tornare indietro, ma addirittura bisogna farlo. Non c’è altra possibilità. Chi l’ha detto che ormai è troppo tardi? Non è passato poi troppo tempo. Non stiamo parlando di un passato talmente remoto da non poter essere ricostruito, almeno per sommi capi.
Per cui, ho deciso. È arrivato il momento di portare a termine l’indagine lasciata in sospeso a suo tempo e capire perché i miei capelli sono diventati bianchi proprio allora. Scoprire dove è cominciata la mutazione, e con la mutazione la china discendente. Dove io ho sbagliato a imboccare l’uscita dall’autostrada. E forse non solo io: è il genere umano, l’intero pianeta terra che a partire da quel momento ha iniziato a perdere la sua innocenza. È ora di tornare indietro, al dove, al quando e al perché.
Cominciamo a inquadrare l’anno.
Era il millenovecentottantadue.

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