LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » LETTERATURA E MUSICA http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IL TEMPO TAGLIATO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/03/il-tempo-tagliato/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/03/il-tempo-tagliato/#comments Fri, 03 Mar 2017 14:30:54 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7427 letteratura-e-musicaIl nuovo appuntamento del forum di Letteratitudine intitolatoLETTERATURA E MUSICAè dedicato al romanzo “Il tempo tagliato” di Silvia Longo (Longanesi). Di seguito, l’autrice in una conversazione con Claudio Morandini.

* * *

CONVERSAZIONE CON SILVIA LONGO: autrice de “IL TEMPO TAGLIATO” – (Longanesi, 2012)

A cura di Claudio Morandini

Con il romanzo “Il tempo tagliato”, uscito nella collana longanesiana “La gaja scienza” nel 2012, Silvia Longo racconta la storia di una donna, Viola, che di recente ha perduto il marito, celebre direttore d’orchestra dalla personalità insieme forte e fragile, del quale è stata per anni silenziosa vestale; e racconta della sua fuga imprevista, una sera, nel corso di un concerto in onore del coniuge, con un giovane tecnico del suono. Combattuta tra tentazione di abbandono all’avventura e desiderio di autocontrollo, Viola vive quella fuga, solo in parte sentimentale, come un allontanamento da tutto ciò che la tratteneva al ricordo ingombrante del marito, al suo bisogno perenne di ordine e equilibrio.
La musica c’è, a diversi livelli, in questo romanzo di grande finezza: è presente nella vita dei personaggi, che di musica vivono e si circondano, nei loro discorsi, addirittura nel loro modo di percepire il mondo; si intravede anche nella struttura del libro, nel titolo, perfino nella scelta del nome della protagonista. Sono motivi sufficienti per invitare Silvia Longo a una conversazione su un tema che ci sta a cuore, il rapporto tra scrittura e musica, tra parola e suono.

CM – La protagonista del tuo romanzo si chiama Viola. Una scelta che non mi suona casuale: la viola, tra gli archi, è lo strumento che di rado assume un ruolo di primo piano, e il più delle volte rinforza il tessuto armonico, lasciando liberi gli altri strumenti di fare i protagonisti. È uno strumento umile, ma indispensabile, senza il quale le altre parti perderebbero di significato. Anche tu lo hai inteso in questo modo?
SL – Hai centrato in pieno, Claudio. Presto molta attenzione quando si tratta di scegliere i nomi dei miei personaggi, seguendo gli insegnamenti dei Maestri: pensa al Manzoni, per esempio. Ne “I promessi sposi” i nomi dei personaggi rispecchiano il modo di essere e di agire, le qualità morali di ciascuno. Per la protagonista de “Il tempo tagliato” volevo un nome simbolico che ne rappresentasse l’umiltà (la viola è anche un fiore spontaneo che, quasi per pudore, cresce celandosi tra le foglie, alle radici di alberi maestosi), lo spirito di abnegazione per la buona riuscita di una causa, la capacità di adattamento alle necessità altrui. Come fa la viola in una orchestra: quasi mai è strumento solista e si può dire che lavori nell’ombra. Ma a un orecchio attento non sfugge quanto necessario sia il suo apporto.

CM – Sin dal titolo, “Il tempo tagliato”, il tuo romanzo è incentrato sul concetto di tempo, anzi sulle possibili declinazioni del concetto di tempo. Tecnicamente, “tempo tagliato” è la misura in 2/2, segnata con una C appunto tagliata, ma forse questo significato non mi pare determinante nel libro. Vi è invece, in senso più generale, il rapporto complesso con il passato (la vita con il marito direttore d’orchestra), il “taglio”, cioè la frattura determinata dalla morte di lui, il senso di spaesamento nel presente. Poi, sempre più insistente, si fa strada il tempo inteso come elemento centrale del linguaggio musicale: il marito, in quanto direttore, domina il tempo, lo scandisce, lo impone agli altri, ne ha bisogno in quanto gli garantisce controllo sul caos della vita, sulle sue paure più profonde. Il tempo si presenta a questo punto anche come ossessione, concretamente, nell’oggetto della sveglia dal ticchettio molesto. Liberarsi di quella sveglia, per Viola, diventerà un emanciparsi dal ruolo paziente e passivo messole addosso dal marito (e dalla famiglia di lui).
SL – Ho giocato con la parola “tempo”, sì. Cercando di usarla in quante più accezioni possibili, dato che la lingua italiana attribuisce a questo termine un ampio ventaglio di significati. Il tempo atmosferico, ad esempio, con i bollettini meteo che ho inserito all’inizio dei capitoli. Il maltempo che fa franare la strada alle spalle di Viola e del suo compagno di viaggio, e li blocca per una notte lontani da casa, dal circolo vizioso delle abitudini. Quanto al tempo di Viola, esso è tagliato perché con la morte del marito (che a sua volta necessitava di scandirlo e dominarlo, per mestiere e per nevrosi, e che ha avuto comunque la vita interrotta bruscamente da una cesura imprevista, l’infarto) – come hai rilevato – il suo percorso umano d’un tratto è diviso tra un prima e un dopo. Ma è soprattutto il suo tempo personale a essere tagliato, e cioè ridotto all’osso, poiché Viola ha scelto di dedicare la propria esistenza al servizio della famiglia, alle urgenze e alle velleità del marito e della figlia, trascurando le proprie. Che poi è la condizione in cui versano molte persone: chi ha un forte senso del dovere, e finisce con identificare la propria realizzazione con quella altrui. Infine c’è il concetto di tempo musicale, sì. Il 2/2 è un tempo che ha due movimenti marcati, il battere e il levare, che in qualche modo riproducono il prima e il dopo di cui ho parlato prima, il ticchettio di un orologio, l’inspirazione e l’espirazione, e anche il battito del cuore (nel libro a un certo punto parlo di battiti per minuto, bpm: termine che si usa tanto in musica quanto in cardiologia). Forse era questo il mio fine. Associare musica e vita, musica e amore, musica e scrittura. Creare un forte legame simbolico utilizzando l’idea di ritmo.

CM – Il repertorio del marito di Viola sembra prediligere la grande musica classica pre-romantica: non ama l’Ottocento, evita, si direbbe, ogni intrusione nel Novecento. C’è, in questa scelta, il desiderio di una musica che sia perfettamente ordinata, fondata su un attento, implacabile equilibrio contrappuntistico – una musica che ha trovato la sua più compiuta espressione in Bach?
SL – Esatto, Claudio. Per molti esperti (io non lo sono, posso solo definirmi una “amante” della musica) Bach è colui che meglio rappresenta l’idea di ordine, di perfezione. Pensa ai suoi canoni (alcuni dei quali pare fossero improvvisazioni su un tema), alla sua “Arte della fuga”: vi è una tale compiutezza in essi, e nel contempo una grande audacia nel cercare nuove soluzioni, sempre in quel preciso equilibrio di cui parli.  Pare che Bach avesse aderito al neopitagorismo, che credesse cioè in una stretta relazione tra matematica e musica, e tra musica e ricerca spirituale. I suoi canoni perpetui, in questa ottica, sono stati interpretati come la rappresentazione in musica del movimento delle stelle nelle loro orbite. Bach è dunque spesso associato alla teoria della Musica delle Sfere, e per me è impossibile non collegarlo a Dante, che vede nell’armonia cosmica la manifestazione del divino. Federico, il marito di Viola, ama questo genere di musica perché gli è di conforto: è un uomo colto, sensibile, spesso con la mente se ne va altrove, in un mondo tutto suo, una sorta di Iperuranio.

CM – Se il marito è una fuga di Bach, Viola musicalmente a quale forma corrisponde? La citazione posta in esergo fa riferimento al ricercare, come forma musicale antica e originaria, da cui si sarebbero sviluppate strutture più vincolate, come appunto la fuga. La si potrebbe applicare, con la consueta dose di approssimazione, anche alla ricerca personale di Viola di un suo suono, di una sua parte?
SL – Viola, nelle mie intenzioni, è il pop. O comunque un genere più “moderno”. A un certo punto parla dei suoi gusti, accenna ai Depeche Mode, a Bowie, ai Pink Floyd. Non è che non apprezzi Bach, ma non disdegnerebbe ogni tanto (anche sotto metafora) qualche nota meno canonica, un po’ di improvvisazione. Nella vita come nella musica. Ricercare era la parola con cui, in origine, si indicava la fuga. Ecco, qui ho giocato ancora, come con la parola “tempo”: credo si colga, nel romanzo, l’insofferenza che Viola ha covato per molto tempo, avendo scelto di vivere in funzione dei ritmi altrui, e trovandovisi poi incastrata. Ed è da tutto questo che, più o meno consciamente, decide di fuggire. Per smettere di scappare da se stessa, dalle verità che deve ammettere. Una fuga vera e propria, del tutto improvvisata, per ricercare se stessa.

CM – C’è, in questo riferimento al ricercare, anche l’indicazione di un metodo di scrittura? Perché effettivamente il tuo romanzo stesso pare mosso da un senso di ricerca, di esplorazione analogo a quello che spinge Viola, che lo tiene ben lontano da ogni prevedibilità, e che si coniuga bene con un senso complementare di fuga dal passato, o almeno di ridefinizione del passato.
SL – Approfitto di questa domanda, Claudio, per ringraziarti: hai letto con tale attenzione il mio libro che nulla pare esserti sfuggito, né della storia né del modo in cui l’ho narrata.
Sì, credo che la scrittura debba essere in continua evoluzione e che qualcosa sia ancora possibile re-inventare, in ambito letterario. Per questa ragione spesso, nel rileggermi, penso che quel passaggio lo modificherei, che quel periodo lo scriverei in modo diverso. Una storia può essere narrata in molti modi, ma solo uno – di volta in volta – è per me il modo giusto: quello che non solo si mette al servizio della storia, ma porta a essa un valore aggiunto. Quando ho preso a scrivere “Il tempo tagliato” sapevo che, tutto sommato, narrava una storia abbastanza ordinaria. Ma volevo fortemente raccontarla, attribuirle dignità letteraria (penso che nessuna esperienza umana sia banale, che ogni esistenza abbia valore). E allora ho deciso che me la sarei giocata anche sulla forma. Si parla di musica, in questo libro: ciò che ho fatto è stato tentare di attribuire al testo una cadenza musicale. La forma è importante tanto quanto l’intreccio. Lungi mille miglia dall’idea dell’effetto speciale, una scrittura fuori dall’ordinario può riscattare l’ordinarietà reale o presunta di qualsiasi narrazione.

CM – Allargando il discorso: come ritieni che la letteratura possa accostarsi alla musica, “raccontarla”, evocarla?
SL – Credo fermamente che le arti siano connesse tra loro, e trovo che ciò sia commovente. Quando scriviamo, per esempio, stiamo anche dipingendo ritratti e paesaggi. E stiamo dando tridimensionalità a personaggi e ambienti, come accade nella scultura. Il legame tra letteratura e musica, poi, è ancora più evidente, dal mio punto di vista. Penso a quanto sia importante che le parole, nel loro susseguirsi, abbiano un ritmo e un suono preciso. Il suono è tutto, perché ricrea nell’animo di chi legge una sensazione di armonia o disarmonia, a seconda delle situazioni che stiamo descrivendo. E la punteggiatura, non è forse una questione di ritmo e di respiro, come quando si canta? Descrivere la musica forse è più difficile, ma non impossibile. Per fortuna esistono le canzoni, che offrono la possibilità di una fruizione diretta del legame stretto tra musica e parola. Anche per chi non si intende troppo né dell’una né dell’altra.

* * *

Il libro

Nella luce di un giugno radioso e sfacciato, Viola sente crescere il vuoto delle sue giornate. Ha quarantatré anni, e per metà della vita è stata moglie devota di un acclamato direttore d’orchestra e madre di una figlia avuta da giovanissima. Nient’altro, nessuna concessione a se stessa, nessun inciampo, nemmeno ora che, con la morte improvvisa del marito e una figlia ormai adulta, le sue giornate sono scandite dalla solitudine.
Il pomeriggio del solstizio d’estate, durante un concerto in memoria del marito, Viola conosce un uomo e qualcosa accade dentro di lei: una breccia nel muro, un’infiltrazione d’acqua nelle crepe, un punto di sutura che si dissolve. Mentre nel chiostro assolato risuonano le note di Bach, un’impacciata Viola in abito da cocktail, il filo di perle al collo e i capelli raccolti, lascia il concerto e fugge in macchina con lui. La tentazione è quella di abbandonarsi, di lasciarsi portare dalla corrente, ma l’autocontrollo è la disciplina in cui Viola eccelle e quello che sta succedendo non è solo sconveniente: è assurdo. Eppure è tardi per tornare indietro, perché il viaggio è iniziato, e con quell’uomo lei sta andando esattamente dove desiderava da tempo: lontano. Lontano da tutto per avvicinarsi alla sua verità, semplice e scandalosa.

[Silvia Longo è nata a Cuneo nel 1965 e vive ad Alba con il marito e il figlio. Lavora presso una cooperativa che si occupa di disagio sociale.]

* * *

© Letteratitudine

LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/03/il-tempo-tagliato/feed/ 0
LE OPERE “BRUTTE” DI GIUSEPPE VERDI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/07/13/le-opere-brutte-di-giuseppe-verdi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/07/13/le-opere-brutte-di-giuseppe-verdi/#comments Mon, 13 Jul 2015 20:18:22 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6848 In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA

***

LE OPERE “BRUTTE” DI GIUSEPPE VERDI,  di Massimo Mila

Manni, 2015

a cura di Claudio Morandini

Massimo Mila (1910-1988) è stato, oltre che un musicologo importantissimo, uno scrittore valente. Il gusto della scrittura letteraria, mescolata in bell’equilibrio con la terminologia propria della disciplina, si sente nelle opere più celebri, nei vari saggi dedicati a Mozart come nelle pagine dedicate all’amico Bruno Maderna (Maderna musicista europeo, Einaudi 1999). Anche nella Breve storia della musica, consultato ancor oggi e periodicamente ristampato, capolavoro concentrato di sintesi di epoche e scuole, Mila riesce a evitare le trappole della sintesi e del sommario e inserisce momenti di puro gusto letterario, lo stesso sparso generosamente in L’arte di Béla Bartók (prima pubblicato da Einaudi, ristampato nel 2013 nella BUR) o in Compagno Strawinsky (Einaudi 1983, BUR 2012).

Potremmo continuare a citare titoli per un pezzo, perché Mila è lontano da ogni specializzazione, ha coltivato interessi che hanno attraversato ogni epoca della storia musicale, con un occhio di riguardo nei confronti della contemporaneità: con Nono, Berio, Maderna era in fitta corrispondenza e di loro sapeva intravedere inaspettate prolessi nelle opere di musicisti dei secoli passati, come se tutta la musica fosse un fitto dialogare di uomini e di opere.

Il gusto di Mila per la scrittura, al di là dell’oggettività puntigliosa della terminologia musicologica, si avverte forte anche nell’ultimo libro a suo nome, Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi, che Manni ha da poco pubblicato nella collana Studi con la cura di Tito M. Tonietti, che di Mila è stato allievo. Si tratta di dispense scritte per un corso universitario di Storia della musica e rimaste inedite fino ad oggi. Sul compositore di Busseto Mila aveva già pubblicato altro: La giovinezza di Verdi (1974) e L’arte di Verdi (1980, entrambe ora raccolte sotto il titolo Verdi sempre dalla BUR) si soffermavano con pienezza di analisi sulla produzione matura e sulle opere maggiori, ed erano opere compiute, pensate per le stampe, lavorate fin nelle virgole – e, come dire, diplomaticamente levigate nei giudizi più severi proprio per l’ampia destinazione editoriale. Diverso (e proprio per questo interessantissimo) è il caso del libro edito da Manni: dal momento che i destinatari erano gli studenti del corso accademico del 1963-4 e non i frequentatori del teatro d’opera, Mila è stato assai poco cauto ai limiti della ferocia nelle osservazioni critiche. In più, non ha portato a termine il lavoro sui dettagli formali, lasciando qualche ripetizione, qualche tournure faticosa, qua e là anche qualche incongruenza (Tonietti ne propone, con discrezione, delle correzioni), perché lo scopo di questi scritti era pratico e immediato. Eppure, anche in questo testo che per forza di cose non ha ricevuto l’ultima revisione dell’autore, si apprezzano quelle formule stilistiche con cui Mila ha impreziosito i suoi saggi maggiori, quell’apparato di metafore e similitudini con cui ha reso comprensibili alla semplice lettura le opere musicali – con cui ha espresso, in questo caso, l’idea di “bruttezza” di quegli  “anni di galera” (tra il 1843 e il 1849) secondo lo stesso Verdi, fitti di frettolosi melodrammi scritti di malavoglia per onorare alla meno peggio gli impegni e perciò discontinui nella qualità, troppo ossequiosi nei confronti delle comode convenzioni dell’opera lirica, poco attenti a tradurre in musica con audacia di soluzioni i moti dell’animo.

Mila, da posizioni debitrici a Croce, applica al vocabolario operistico verdiano i criteri di una “critica stilistica” che si focalizzi sulla “qualificazione drammatica della melodia”, vale a dire sull’espressione dei valori drammatici più congeniali al compositore, lontani da ogni scorciatoia retorica (Tonietti lo mette in luce nella Postfazione). Nelle opere degli “anni di galera” Verdi non ha saputo (non ha potuto, in parte non ha voluto) esprimere compiutamente in musica questi valori, o lo ha fatto solo a tratti, a momenti, talvolta, si direbbe, quasi per caso.

Mila, dicevamo, denuncia senza reticenze il cattivo gusto di certi momenti e le deleterie soluzioni musicali: a proposito di un “Duettino melodiosamente melenso” nell’atto terzo de La battaglia di Legnano, Mila scrive: “Scena letteralmente disgustosa, per il vacuo edonismo melodioso e il celestiale fremito di arpa che l’accompagna”. E dei Demoni nella Giovanna d’Arco si legge che “cantano vittoria sopra un sommario e brutale arpeggio, una specie di «Allarmi, siam fascisti!», scandito a tutta forza”. Nella medesima opera, “Giovanna risponde con un’atroce Cabaletta… su un accompagnamento dozzinale di tonica e dominante”. Diverse melodie (Cavatine, Cabalette, i bersagli preferiti di Mila) sono definite “perfetto esempio di oziosa coniugazione melodica”, “innegabilmente dozzinale”, “sciocca e fatua” oppure “tronfia e pomposa”, sempre “gaglioffa”, “pigra”, “francamente brutta”, “stiracchiata troppo a lungo”, “cincischiata”, “d’una lacrimevole banalità”, quando va bene “stentorea”.

“Un’altra categoria del brutto verdiano” (la prima è appunto quella della melodia oziosa e della sciatteria brutale dell’accompagnamento) sta secondo Mila nel suo opposto, in certe ricercatezze fini a se stesse, non calibrate sulle esigenze drammatiche, nel “gusto dell’ornato e del ribobolo”, nello sfoggio di una sapienza strumentale in realtà ancora da dimostrare. E anche in questo caso gli esempi non mancherebbero.

Più sottile, ma non meno tagliente, la perfidia con cui Mila giudica i numerosi momenti di puro ossequio alle convenzioni del teatro d’opera. A proposito di un pezzo de La battaglia di Legnano: “La Cavatina, d’espressione tenera ed affettuosa, è convenzionalmente canora, e non si può riconoscerle altro pregio che quello della brevità”. Oppure: “Risveglio, segnato da banale frase ascendente dell’orchestra”. Anche quando si arrende alle convenzioni del linguaggio musicale nel descrivere aspetti della natura Verdi attira le critiche di Mila: ne Il Corsaro: “Si annuncia una vela: il movimento di agitazione orchestrale che sottostà alle esclamazioni del coro inizia dapprima, in maniera piuttosto fastidiosa, con banali scalette di cinque note che sembrano esercizi pianistici per principianti”.

C’è un intento polemico, nel corso accademico e in questo libro, dichiarato più volte, e indirizzato contro gli esaltatori di tutto il Verdi, anche quello più corrivo e facile, che in quegli anni tornavano a farsi sentire dopo decenni di critiche severe su tutto Verdi da parte di detrattori (Mila li chiama “nemici” altrettanto snob). Mila prende di mira i primi, soprattutto, ma non manca di prendere le distanze dai secondi. Tutto Verdi va studiato, scrive il musicologo, ma non ha senso pensare di studiare dei capolavori, o di presentare le opere più acerbe e frettolose come recuperi di capolavori. La renaissance verdiana è proseguita nei decenni, e perdura ancor oggi, facilitata dai mezzi di riproduzione, ben attestata nei cataloghi (non solo quelli di repêchages, anche quelli delle etichette maggiori) e nei cartelloni delle stagioni liriche. Chissà che ne avrebbe pensato Mila, che all’epoca di questo saggio analizzava la musica di Verdi, in mancanza di altri supporti, basandosi per lo più sulle riduzioni per canto e pianoforte oltre che su sporadiche esecuzioni (le sue ipotesi sull’orchestrazione sono quasi sempre azzeccate, a dimostrare l’acutezza della sua analisi).

Mila, assai severo con il Verdi più scadente e arrendevole, sa però mettere in luce i dettagli di pregio, le soluzioni inaspettatamente riuscite, le zampate da leone, o meglio i prodromi di quello che in età matura, con piena consapevolezza di mezzi e con minori vincoli contrattuali addosso, Verdi avrebbe realizzato compiutamente. Ed è abilissimo, Mila, a dissezionare arie, scene, recitativi e momenti strumentali, alla ricerca della gemma di valore, spesso incastonata tra parti tirate via, progressioni armoniche banali, cliché operistici – delle “autentiche intuizioni drammatiche” perse tra “obbrobriose banalità”. Spartito alla mano, scava nella musica, distilla i momenti più nobili e anche quelli “adeguati” che nella mediocrità di tante scene fanno la figura di gemme anch’essi: perché è vero che il saggio è dedicato al Verdi “brutto”, ma è anche vero che si possono rintracciare, anche nelle opere più stanche e corrive, momenti che anticipano la potente originalità della produzione successiva (non solo verdiana: più volte è citato Mussorgsky, una volta addirittura Luigi Nono), e che rischiano, a una lettura o a un ascolto disattenti, di rimanere soffocati, di essere rovinati da quello che segue o da quel che precede. Mila parla proprio di “contabilità, data la presenza e la giustapposizione di parti riuscite e di parti malamente tirate via”: e aggiunge amaramente che in arte le seconde nuocciono alle prime assai più di quanto le prime possano giovare alle seconde.

Come si diceva, Massimo Mila non ha intenti polemici nei riguardi di Verdi, bensì dei verdiani a tutti i costi: e sa riconoscere al musicista i suoi meriti anche nella produzione meno felice; sa anche distribuire le colpe, che non sono del solo compositore, ma anche di impresari, librettisti svogliati o inadeguati, pubblico desideroso di sensazioni a buon mercato, cantanti schiavi di vanità da primedonne – tutte figure a cui Verdi di lì a qualche anno saprà imporsi.

* * *

© Letteratitudine

LetteratitudineBlogLetteratitudineNewsLetteratitudineRadioLetteratitudineVideo

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/07/13/le-opere-brutte-di-giuseppe-verdi/feed/ 0
CALISTO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/05/02/calisto/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/05/02/calisto/#comments Sat, 02 May 2015 11:14:04 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6768 In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “LETTERATURA E MUSICA

***

CALISTO, di Stefano Adami (Edizioni Effigi, 2015)

a cura di Claudio Morandini

Stefano Adami, nel breve romanzo “Calisto” (Edizioni Effigi, 2015), esplora le connessioni tra realtà e finzione, tra quotidianità e invenzione teatrale, e anche tra musica e parola. Lo fa con garbo, senza esagerare, senza rendere barocca a tutti i costi la vita quotidiana e senza forzare la contaminazione tra l’artificiosità del mondo del melodramma e le minuzie delle giornate dei diversi personaggi (con l’eccezione di un paio di momenti di cui parleremo più avanti).

L’occasione è data appunto da “La Calisto”, l’opera del veneziano Francesco Cavalli (1602-1676) del 1651 su libretto di Giovanni Faustini, ancor oggi riproposta a teatro. Cavalli, prolifico autore di melodrammi ispirati ai grandi miti greco-romani o agli eroi dell’antichità (citiamo un po’ a caso “La Didone” e “Gli amori di Apollo e Dafne”, entrambi su libretto del Busenello, “L’Elena” e “L’Egisto” su libretto dello stesso Faustini, “Il Giasone” su versi di Cicognini), è con Monteverdi il fondatore dell’opera barocca, e tra i primi a sperimentare certi stilemi che saranno sviluppati nei secoli successivi. “La Calisto”, ispirata a un episodio delle  Metamorfosi di Ovidio (II, 401-495), narra di amori di dei, ninfe e uomini. Calisto (Callisto, cioè) è appunto una ninfa seguace di Diana, vincolata al voto di castità, della quale però Giove s’incapriccia: per amoreggiare con lei il re degli dei si fingerà Diana, senza pensare troppo alle conseguenze. Quando Diana stessa e poi Giunone, moglie di Giove, scopriranno che Calisto è incinta, la ninfa sarà oggetto della vendetta di entrambe.

Travestimenti, equivoci, confusione di generi, lesbismo neanche tanto latente, voyeurismo: nella prima parte della versione ovidiana del mito compaiono tutti gli elementi che potevano rendere particolarmente perturbante l’episodio (elementi che solo in un’ambientazione precristiana era possibile preservare dalle censure), come è dimostrato anche dal dipinto di Tiziano “Diana e Callisto”, del 1556-59, conservato a Edimburgo, che è tutto un tripudio di nudità e promiscuità femminili.

Adami omaggia con discrezione la struttura del melodramma alternando movimentate scene d’assieme che potremmo equiparare a recitativi declamati, e pensosi e tormentosi monologhi che ricordano le arie, secondo un procedimento che proprio nelle opere di Cavalli si andava fissando.

Ma perché ispirarsi proprio a “La Calisto”? Che cos’ha di particolare quest’opera rispetto alle altre di Cavalli? Lo chiedo a Stefano Adami.

«Ho scelto “La Calisto” per due ordini di motivi, uno più generale, l’altro molto personale» mi risponde Adami. «In generale, perché “Calisto” è uno dei modelli paradigmatici di opera barocca, una storia piena di colpi di scena, di ironia. Una storia di trasformazione, di meraviglia, d’amore, d’inganno. Dove ci si chiede cosa è davvero l’amore. “Calisto” è, come dice il librettista stesso in un verso, “uno strano misto d’allegro e tristo”. Ed è sostanzialmente un’opera di trasformazione in senso biologico e filosofico: Calisto viene trasformata, Giove viene trasformato. Dal punto di vista personale, invece, “Calisto” è profondamente importante per me. Come l’Inghilterra degli anni ‘90. È la prima opera importante a cui ho lavorato. E ha alchemicamente trasformato anche me. Come spero che trasformi i lettori del romanzo.»

Nel romanzo di Adami si legge che, “dinanzi allo squallido presente che tutti i componenti del pubblico condividono giorno dopo giorno, lo splendore di questa storia, di queste parole, di questa musica, rappresenterà per loro l’esperienza più bella e più vera di una vita.” Sembra una dichiarazione sentita, anche se tutto, in questo romanzo, per influsso del fitto gioco di mascheramenti di derivazione teatrale e barocca, suona sempre virato verso sottintesi ironici che smentiscono nel momento in cui confermano, in un vortice di finzioni che accomuna il mondo dell’opera all’oggi (per dirne una, nemmeno Paul è il nome vero del protagonista, ma solo un alias datogli dal regista). Ma insomma, riteniamo di poter credere alla sincerità del personaggio del regista quando dice: “Un’opera che regala così tanta saggezza, così tanta bellezza, che può dare senso ad una vita, o almeno a una serata, meglio non esagerare. Voglio dire… è un’opera di travestimenti, di cambi di persona… Noi ci travestiamo tutti i giorni, cambiamo maschera tutti i giorni… per distruggere… distruggere rapporti, concorrenti, fiducia… Qui lo fanno per creare…” Il mondo della Calisto, del mito, è comunque più semplice, più giusto, meno ambiguo del nostro: gli errori sono puniti, gli inganni sono scoperti, i rei (Giove a parte) sono puniti; e alla fine tutto si sistema, attraverso un sistema di metamorfosi che trasforma ciò che era in qualcosa di completamente nuovo, al riparo dalle iniquità.

L’opera barocca, definita appunto nel romanzo “un pezzo d’oro di un mondo in cui gli sconosciuti erano dei, i pastori s’innamoravano delle divinità, e tutto il dolore si trasformava in stelle”, alterna momenti seri, drammatici, ad altri comici, fondamentali se si pensa che opere come questa andavano in scena nel periodo di Carnevale  (personaggi come Satirino e Linfea hanno proprio la funzione di alleggerire la seriosità dell’impianto, introducendo elementi scherzosi, parodici, che confermano con tono più lieve l’assunto alla base del dramma maggiore).

Sta proprio in questa complessa bellezza il fascino persistente dell’opera barocca? Lo chiedo ancora all’autore.

«La musica europea – e quella italiana in particolare – tra ‘500 e ‘600 ha dentro di sé una complessa, calda tessitura di saperi sull’uomo, sulle emozioni e sensazioni umane, di dono, che è davvero difficile da definire e da cogliere» mi dice Stefano Adami. «Le cronache dell’epoca ci raccontano che le signore bene svenivano dal turbamento ascoltando musica, o all’opera. Non è più solo musica, dunque, è alchimia, è magia, di estrema potenza.  E questo lo tocca con mano qualunque esecutore, direttore o ascoltatore di quella musica lì. È un tipo di musica che tocca davvero, e in grande profondità, certe corde interiori dell’essere umano. È il tipo di sapere musicale, di tocco, di cui parla spesso Sir Arthur in “Calisto”.

La potenza magmatica, vulcanica di quella musica si struttura poi meravigliosamente nell’opera lirica» prosegue Adami. «Perché l’opera barocca, mi chiedi dunque. Perché l’opera antica nasce come reinvenzione del teatro musicale greco. Perché nasce – nella Toscana del ‘500 – come alchimia, come esperienza catartica: per trasformare il piombo dell’umanità nell’oro dello spirito. Ed è un’alchimia – basta guardarsi intorno – di cui oggi abbiamo bisogno più che mai.»

Di quest’opera, in cui si racconta un mondo (due mondi, anzi, quello degli uomini e quello degli immortali) governato dalla forza irresistibile dell’eros, Stefano Adami racconta appunto le prove fino alla première, concentrandosi sulle fasi iniziali, quelle della lettura, del primo approccio interpretativo, attraverso il punto di vista del protagonista, Paul, che condivide con l’autore l’attività di ripetitore e aiuta i cantanti nella lettura e nell’interpretazione dei versi di Faustini. In questi episodi emerge con chiarezza quanto nell’opera seicentesca fosse importante il libretto, quanto il connubio tra parola poetica e musica fosse condizione essenziale (la voce, si legge a un certo punto, va “addomesticata” sulle parole). Il racconto delle sedute di lettura e di prova, assai gustoso e anche istruttivo, è fatto con competenza, dal momento che l’autore stesso ha collaborato, come si diceva, a diversi allestimenti di melodrammi, compresa la “Calisto”.

Adami, che ha contribuito anche con una voce sulla librettistica tra 1600 e 1750 al secondo volume dell’Atlante della Letteratura Einaudi, è attento a non strafare, dicevamo: cioè non allaccia legami troppo espliciti tra l’opera olimpica di Cavalli e la quotidianità dei suoi personaggi, non instaura parallelismi troppo evidenti. Però, certo, anche i suoi personaggi sembrano sballottati da Eros, per quanto sia un eros assai più modesto, e quel senso di ebbrezza del vivere che lo stile di Cavalli (assieme agli stilemi barocchi) stilizza e nobilita finisce anche per coinvolgere Paul e gli altri, sebbene in occasioni più dimesse.

E capita anche che dopo un po’ di prove il vissuto della compagnia si sovrapponga alla trama dell’opera, che interpreti e ruoli si confondano, e Calisto e Giove diventino i nomi anche di chi si calerà nelle parti sulla scena, e Giove si senta presuntuoso e strapotente come il re degli dei (riuscendo più che altro a fare una scenata ai danni della povera Calisto).

Due momenti si distaccano dal realismo del resto del racconto e assurgono a una dimensione allegorica, si impongono come una parafrasi del mito: il primo è il prologo, in cui un virtuoso di viola da gamba, solo sulla scena davanti a un pubblico venuto ad ascoltarlo, invece di suonare i pezzi in programma si lancia in un monologo dapprima misterioso e divagante poi sempre più chiaramente profetico sull’ipocrisia degli uomini e sulla loro responsabilità: quando profetizzerà la prossima distruzione del teatro gli daranno del pazzo – ma il teatro sarà colpito da un furioso incendio.

“L’azione” si legge nel romanzo “inizia proprio quando il mondo è distrutto da un fuoco devastante… no? Non viviamo tutto i giorni, oggi, nell’ansia della distruzione, nella passione della distruzione? Quest’opera ci dice cosa succederà dopo.” Nell’intreccio ovidiano, a cui è fedele anche l’opera di Cavalli, si tratta dell’incendio provocato dal figlio di Febo Fetonte, uno dei tanti traumi che resettano il mondo prima di una nuova rinascita.

Il secondo momento è costituito da un lungo episodio centrale in cui compare un nuovo personaggio di cui si è sentito parlare con reverenza già nelle pagine precedenti, sir Arthur. La centralità della scena (una cena-orgia nella villa di sir Arthur) pesa nel romanzo come, verrebbe da dire, il banchetto a casa di Trimalcione nel Satyricon di Petronio. Troppo importante, vasta, anomala, per passare inosservata, la scena ci vuole suggerire una chiave di lettura: segna la più evidente connessione tra presente e passato, tra sogno e realtà, tra tempo della storia e atemporalità del mito. Sir Arthur vi troneggia: all’inizio appare come un eccentrico e esuberante artista, interprete sopraffino, autorità riconosciuta da tutti, sostenitore ironico del potere salvifico dell’arte, un misto rabelaisiano di Zeffirelli, Ken Russell e Orson Welles, arbiter elengantiarum ben al di là del mondo della musica; ben presto il suo stentoreo cicalare diventa sintomo di una potenza sovrumana, da regista del mondo. Sir Arthur è Giove, insomma, un Giove calatosi dall’Olimpo a rimescolare le esistenze degli uomini, il depositario dei destini individuali, il giocoliere nelle cui mani diventiamo giochi. Evoca attraverso la musica (e gli strumenti, che della musica sono il tramite) Mozart, Bach, l’abate Casti, ed ecco che gli evocati sono lì, tangibili, presenti. Evoca l’amore come sola verità del mondo, ed ecco che una miriade di creature, mitologiche e non, appare a confermare concretamente la sua visione pansessualistica. Solo quando appare lui la combinazione tra l’aureo artificio del mito messo in musica e la nostra povera vita funziona, e appare evidente come la forza che governa ogni nostro gesto e pensiero e ogni elemento in natura sia un eros cui è impossibile opporsi.

Prima di concludere, chiedo a Stefano Adami qual è, secondo lui, il modo migliore di presentare oggi un’opera barocca, tra la proposta rigorosamente filologica e l’attualizzazione a tutti i costi.

«L’allestimento ideale per un’opera barocca è un po’ come il Santo Graal» mi dice Adami. «Ho avuto la fortuna di vedere dall’interno la preparazione di molti allestimenti di opere barocche. In “Calisto” ci sono varie, e divertenti, discussioni sugli allestimenti in generale, e sull’allestimento in particolare dell’opera che i protagonisti stanno preparando, “La Calisto”, appunto. Sono d’accordo con alcune delle cose che vengono dette in quelle discussioni. Direi, per esempio, che gli allestimenti attualizzanti hanno ormai stancato. È banale vedere, ormai, in scena, Zeus in divisa nazista o vestito come Berlusconi, Renzi o Obama. Dal mio punto di vista, l’allestimento ideale è invece quello che ha una linea sobria, essenziale, eleusina, che ricorda un po’ la mano del De Chirico del mito scarno, delle “Piazze d’Italia”.»

* * *

© Letteratitudine

LetteratitudineBlogLetteratitudineNewsLetteratitudineRadioLetteratitudineVideo

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/05/02/calisto/feed/ 0
Una casa editrice musicale: RueBallu http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/03/31/una-casa-editrice-musicale-rueballu/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/03/31/una-casa-editrice-musicale-rueballu/#comments Tue, 31 Mar 2015 18:00:46 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6729 Una casa editrice musicale: RueBallu
Conversazione con Gae Pisani

In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato a “Letteratura e musica
Entra nel sito della casa editrice musicale rueBallu - Musica e Teatro

a cura di Claudio Morandini

RueBallu è una piccola e coraggiosa casa editrice palermitana che dal 2007 pubblica testi di letteratura musicale, inseriti in collane dedicate a biografie, testimonianze, didattica o narrativa anche per ragazzi, e presenta un bel catalogo di titoli per niente ovvi. Abbiamo chiesto agli amici della redazione di rueBallu di illustrarci il loro progetto editoriale. Gae Pisani, a nome della redazione, ha risposto così ad alcune nostre domande.

- RueBallu Edizioni prende il nome dalla via parigina in cui si trovava lo studio di Nadia Boulanger. Si tratta di un riferimento forte a un’esperienza umana, didattica e artistica centrale nel Novecento. Che cosa è rimasto di quell’esperienza? Che cosa ci può ancora insegnare il magistero della Boulanger?

La forza del magistero di Nadia Boulanger è rimasta intatta nelle sue parole e nell’insegnamento trasmesso. In un filmato molto bello – Mademoiselle – di Bruno Monsaingeon, girato in occasione del novantesimo compleanno di Nadia Boulanger, è possibile entrare in relazione con il mondo di questa didatta straordinaria e sentirne in prima persona la profonda attualità per chiunque viva di musica e per la musica.

- L’Italia è una nazione di vasta tradizione musicale, ma, ahimè, di scarsa educazione e di scarsissima attenzione da parte delle istituzioni. Come si muove un editore come rueBallu in questo contesto poco favorevole, almeno all’apparenza, al discorso musicale?

La domanda è particolarmente pertinente, ciò che lei dice è profondamente vero, il progetto rueBallu non si muove in un contesto poco favorevole alla musica non solo apparentemente, ma nella sostanza. Il percorso della casa editrice, totalmente indipendente nelle scelte editoriali e nella ricerca delle risorse finanziarie, è ardito se si riflette con attenzione alla struttura dell’intera filiera editoriale. Un ruolo dominante, come è noto, viene esercitato dai grandi gruppi di distribuzione direttamente collegati alle grandi librerie, trovare degli spazi di visibilità non è un lavoro semplice, né tanto meno ricevere un’attenzione mediatica che ordinariamente viene riservata ai grandi gruppi editoriali. Il nostro lavoro, come quello di altre realtà analoghe, è un cammino controcorrente; anche se non amiamo molto parlare degli aspetti pratici del lavoro che stiamo portando avanti, né delle “evidenti assurdità” in cui siamo totalmente immersi. Preferiamo dar voce con dedizione e rispetto a chi ha manifestato qualcosa di veramente straordinario nella vita e nell’arte, mescolarlo con altro riteniamo non sia utile.

– Secondo lei, che cosa può fare la letteratura per aiutare (diciamo così) la musica colta a superare lo scollamento drammatico con il grande pubblico di questi ultimi decenni e tornare ad allacciare un rapporto di reciproca curiosità?

La letteratura in generale ha sempre svolto nel corso del tempo una funzione di elevazione culturale. Nelle sue massime espressioni ha sempre dato la possibilità di attivare uno sguardo non ordinario sulle cose. Noi stiamo cercando di prestare attenzione anche al pubblico più giovane; riteniamo infatti auspicabile che possa avvenire l’incontro, anche in tenera età, con donne e uomini straordinari, che si possa contribuire a nutrire il sentimento e la mente dei giovani lettori alla ricerca di qualcosa di più profondo e autentico. In generale, comunque, quando usiamo la parola “musica”, lo facciamo nel senso etimologico. Ci riferiamo al concetto di musica nell’antichità classica, dove la musica, l’arte delle Muse, comprendeva poesia, musica e danza.

- All’estero (in Francia, in Gran Bretagna, in Germania, negli Stati Uniti…) sembra esserci una maggiore attenzione alla letteratura musicale. Che cosa possiamo imparare da quanto viene da altre tradizioni culturali, in questo senso?

La maggiore attenzione alla letteratura musicale nei paesi che lei cita non è casuale. Germania, Francia, Stati Uniti, ad esempio, hanno una solida tradizione musicologica, la musicologia è disciplina molto feconda in questi paesi. Il resto, secondo noi, è una conseguenza.

- “Raccontare” la musica è sempre una scommessa: due linguaggi si confrontano, si incontrano, talvolta si inseguono. Si va dall’approccio biografico o autobiografico a quello filosofico, da quello più propriamente musicologico a forme ibride di contaminazione narrativa o poetica tra i due linguaggi. Quale può essere il modo più proficuo di incontrarsi delle due discipline artistiche? Qual è quello privilegiato da rueBallu edizioni?

Pensiamo che, al di là dei linguaggi, ci siano delle opere letterarie o musicali che portano con sé una grande forza che rimane intatta nel tempo. E ci siano uomini e donne che questa forza riescono a trasmettere, qualunque sia poi il veicolo che scelgono di privilegiare. Il nostro compito, l’obiettivo che ci siamo prefissi, è dare spazio alla straordinarietà.

- Oltre alla Boulanger, un altro punto di riferimento forte, e non solo musicale, mi sembra essere Yehudi Menuhin, di cui avete pubblicato “Musica e vita interiore”: la sua idea della musica come forma di dialogo e di conoscenza, come garanzia di universalità, suona particolarmente urgente in questi anni.

- Ciò che lei dice è profondamente vero. Condividiamo a pieno le parole di Moni Ovadia che ha curato la prefazione del volume che lei cita, quando dice che la visione universalista di Menuhin si manifesta particolarmente nella sua grande apertura alle diversità culturali sentite come ricchezza e opportunità. Nel suo pensiero, la musica, nella vastità delle sue molteplici espressioni, è linguaggio e interiorità che deve costruire una relazione di comprensione intima fra gli uomini. Menuhin ha incarnato mirabilmente la figura dell’artista intellettuale ebreo cosmopolita, figura paradigmatica della migliore cultura europea e occidentale dall’incorruttibile fibra morale, ma alieno da ogni moralismo, che ha saputo essere simultaneamente il migliore interprete della cultura nazionale in cui ha avuto la ventura di crescere e, al tempo stesso, ha saputo esprimersi come pensatore e cittadino universale nutrito da un irrinunciabile umanesimo, dalla passione per la dignità dell’uomo, per i suoi diritti, e da una vocazione radicale per la pace.

- Quale libro di ispirazione musicale vi piacerebbe pubblicare? Quali titoli avete in mente come prossime uscite?

Sicuramente sarebbe interessante e bello pubblicare qualcosa su Mstislav Rostropovich, Sviatoslav Richter, Rosalyn Tureck, personaggi che hanno fatto della musica un mezzo per raggiungere qualcosa di straordinariamente importante. Figure emblematiche al servizio di qualcosa più grande. Prossimamente pubblicheremo un volume di Jacques Chailley, musicologo, fondatore della prima cattedra di Storia della Musica alla Sorbona, allievo tra l’altro di Nadia Boulanger. Il titolo del volume è Storia della musica medievale. I primi passi della musica moderna. Il libro spezza alcune salde certezze di chi vede nel Medio Evo semplicemente l’età oscura di transizione tra l’Antichità e i tempi moderni; per Chailley, invece, lo stesso termine Medio Evo è un non senso, frutto di orgogliosa ignoranza di un periodo storico che è un immenso laboratorio, in cui le solide tradizioni della teoria musicale ellenica e i maestosi monumenti della musica gregoriana sono uniti da solidi ponti. Un libro in cui si parla di musica, ma emerge anche l’importanza del Medio Evo negli altri ambiti della conoscenza umana.
E poi ci saranno ancora dei libri, secondo noi preziosi, dedicati ai ragazzi, che avranno al centro protagonisti come Fryderyk Chopin, Gioacchino Rossini, Emily Dickinson. Questi lavori li abbiamo condivisi con autori sensibili e straordinariamente preparati: Matteo Corradini, Lina Maria Ugolini, Beatrice Masini.

* * *

© Letteratitudine

LetteratitudineBlogLetteratitudineNewsLetteratitudineRadioLetteratitudineVideo

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/03/31/una-casa-editrice-musicale-rueballu/feed/ 0
AL FEMMINILE – Trio des Alpes e Dacia Maraini in concerto http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/01/31/al-femminile-trio-des-alpes-e-dacia-maraini-in-concerto/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/01/31/al-femminile-trio-des-alpes-e-dacia-maraini-in-concerto/#comments Sat, 31 Jan 2015 10:29:24 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6668 Trio des AlpesAL FEMMINILE – Trio des Alpes e Dacia Maraini in concerto

di Massimo Maugeri

Nell’ambito del forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, vi propongo un’iniziativa musical-letteraria molto interessante che coinvolge un trio di ottimi musicisti (il Trio des Alpes) e Dacia Maraini. Si tratta di un progetto dedicato alle donne compositrici del Novecento e contemporanee.

Il Trio des Alpes ha già più volte avuto modo di suonare queste musiche in concerto, anche in Brasile e

negli Stati Uniti, e compositrici contemporanee hanno scritto appositamente per loro. Il 20 marzo suoneranno parte del materiale moderno al Festival Cinque Giornate a Milano, poi ancora numerose volte per tutto il 2015. Hanno anche inciso un CD a Zurigo che sta per uscire per Dynamic con le musiche di Amy Beach e Rebecca Clarke, due autentiche pioniere del primo Novecento.

Ne discutiamo con il pianista Corrado Greco, una delle anime del trio.

-Caro Corrado, come nasce il “Trio des Alpes”?

Nasce dall’incontro, cinque anni fa, tra tre professionisti della musica – la zurighese Mirjam Tschopp (violino e viola), il ticinese Claude Hauri (violoncello) e il sottoscritto al pianoforte. Viviamo e lavoriamo a cavallo delle Alpi e il nome del trio richiama le nostre radici, in termini di dislocazione geografica, ma anche di formazione accademica e cultura.

-In cosa consiste il vostro progetto artistico? E quali sono gli obiettivi?

Io e i miei colleghi abbiamo carriere solistiche consolidate, ma condividiamo una grande passione per la musica da camera. Siamo diversi per carattere e scuola ma ne facciamo il nostro punto di forza, confrontandoci di continuo alla ricerca di soluzioni condivise. La nostra esigenza è quella di scavare a fondo il testo musicale per trarne coesione e intesa; ci piace molto elaborare progetti musicali originali; abbiamo molta curiosità per la musica nuova e per quella ingiustamente dimenticata.

-Come ho già accennato, avete avviato questo progetto dedicato alle donne compositrici del Novecento e contemporanee. Potresti darci altre informazioni?

Siamo stati folgorati dall’incontro con le musiche per trio di Rebecca Clarke e Amy Beach, due compositrici del primo Novecento i cui nomi sono quasi del tutto assenti nelle programmazioni concertistiche. Abbiamo deciso di inciderne le musiche e di eseguirle in concerto assieme a quelle di un’altra donna vissuta negli stessi anni, la sfortunata Lili Boulanger. Allo stesso tempo abbiamo pensato di allargare il progetto alle compositrici di oggi: abbiamo chiesto di scrivere per noi, e abbiamo suonato queste musiche in Italia, Svizzera, Brasile e Stati Uniti. Presto le incideremo in un secondo disco. La musica “al femminile” non ha connotazioni estetiche diverse da quella scritta da uomini, ma le donne possiedono altrettanta ricchezza, sensibilità e talento e non vogliamo siano trascurate.

-Nell’ambito di una vostra iniziativa musicale-letteraria, avete coinvolto Dacia Maraini. Ti andrebbe di parlarcene?

Ho conosciuto Dacia Maraini anni fa, suonando in un originalissimo “Carnevale degli animali” per il quale aveva scritto un testo originale recitato da Arnoldo Foà. Sapendo quanto le sia caro il tema della creatività femminile ho immaginato di coniugare queste musiche al suo straordinario talento di affabulatrice. E le ho scritto. Ha accettato subito e con grande disponibilità.

-Dove suonerete nei prossimi giorni?

Domenica 1 febbraio suoneremo al Teatro di Chiasso, in Svizzera. In questa occasione sarà con noi anche il soprano Lorna Windsor, che ha partecipato al nostro progetto discografico cantando le liriche per voce e strumenti di Amy Beach. Il giorno successivo suoneremo all’Università dell’Insubria di Varese. In entrambe le date incorniceremo l’intervento della signora Maraini su “Musiciste e scrittrici in epoca di patriarcato”. (Per ulteriori dettagli, cliccate qui - n.d.r.)

-Altri progetti per il futuro?

Continueremo a diffondere questo progetto per tutto il 2015 ma ci aspetta anche molto altro: nel 125° della nascita di Bohuslav Martinů, vero genio del Novecento, suoneremo il suo Concertino per Trio e Orchestra d’archi al Festival di Lubjana e per diverse istituzioni italiane; poi riprenderemo un progetto dedicato a musiche di ispirazione popolare, e allargheremo la nostra formazione includendo importanti solisti nei repertori di quartetto con pianoforte, anche con canto o clarinetto. Il nostro sito internet www.triodesalpes.com è costantemente aggiornato con la nostra attività e invitiamo quanti fossero interessati a conoscerci meglio a visitarlo.

-In bocca al lupo, caro Corrado.

* * *

© Letteratitudine

LetteratitudineBlogLetteratitudineNewsLetteratitudineRadioLetteratitudineVideo

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/01/31/al-femminile-trio-des-alpes-e-dacia-maraini-in-concerto/feed/ 0
COME MACCHINE IMPAZZITE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/01/09/come-macchine-impazzite/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/01/09/come-macchine-impazzite/#comments Fri, 09 Jan 2015 14:30:50 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6642 letteratura-e-musica

Nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.

* * *

Gianpiero Capra e Stephania Giacobone
Come macchine impazzite
Agenzia X, 2014

di Claudio Morandini

kinaÈ un’interessante operazione “Come macchine impazzite”, scritto a quattro mani da Gianpiero Capra e Stephania Giacobone attorno a quello che il sottotitolo definisce “il doppio sparo dei Kina”: “doppio” nel senso che l’avventura musicale del gruppo punk di Aosta viene tracciata con cordiale precisione da Capra, che della band è stato uno dei fondatori e il bassista, mentre in capitoli alternati a questi di Capra la Giacobone racconta, più narrativamente e anche con maggiore enfasi, la scoperta dei Kina diversi anni dopo e la ricerca delle loro tracce attraverso dischi, cassette, ma anche riviste, fanzine, testimonianze di conoscenti comuni.
Per essere precisi: Stephania nasce “un anno dopo l’uscita del secondo album dei Kina”, “tre anni dopo il primo album dei Kina e quattro anni dopo i loro primi concerti del 1983”. Scegliere di amarli “è stata una lotta in provincia e in città” (cioè in Valle d’Aosta e a Torino): “quelle lotte che aprono gli occhi, creano divari, scelgono per te, ti insegnano a tirare fuori i denti e a strappare la carne dai tendini per nutrirti”. Il libro è insomma la ricostruzione fedele di due momenti storici assai simili: il passare degli anni non ha reso distanti o distaccati i due testimoni-scrittori. Nell’accostare i due piani temporali, “Come macchine impazzite” rivela quanto poco sia cambiato nella provincia tra le Alpi: rivela anche quanto le inquietudini cantate dai Kina non appartengano all’archeologia, ma siano ben radicate e in un certo senso endemiche.
A questo proposito, chiedo un po’ provocatoriamente a Stephania Giacobone se si può considerare “storicizzata” l’esperienza dei Kina e di altri gruppi affini, se la si può leggere solo attraverso il ricordo, o se invece prosegue anche oggi.
“L’esperienza dei Kina” mi risponde Stephania “a mio parere ha subito un processo di storicizzazione diverso dal consueto sedimentarsi nel ricordo di generazioni che ormai si vergognano di cosa erano e cosa ascoltavano. Durante la mia ricerca di tracce e testimonianze ho potuto vedere negli occhi di chi raccontava uno slancio di vitalità che prosegue anche oggi. I Kina non suonano più ma vivono ben oltre il solo ricordo. Spero che in questo senso la struttura che abbiamo scelto per la stesura del libro e la presenza di una voce, la mia, anagraficamente distante dagli inizi dei Kina, possa dimostrare quanto sia ancora vivo, urgente e necessario questo genere di musica.”

Tra le righe, nell’esperienza seminale dei Kina rivissuta dalla Giacobone si coglie un intento “pedagogico” che contraddice tanti cliché sul punk. Stephania nota come le fasi cruciali di una vita siano sempre segnate da un disco: per lei, il disco kiniano dell’iniziazione, o meglio della rivelazione, è stato “Questi anni”: autoproduzione, autogestione, antagonismo, sono concetti che l’adolescente Stephania sente già propri e che trovano nell’esperienza dei Kina un riferimento trascinante.

Stephania racconta dapprima di una Courmayeur, suo paese natale, ben diversa dalla località promossa dalle strategie di marketing: ne fa un luogo svuotato, “spoglio, in cui le mezze stagioni erano l’isolamento da tutto e da tutti”. Risale a questa fase iniziale una sorta di sensibilità al rumore che finirà per assumere quasi una funzione proustiana e il valore di un’epifania: “Il rumore dell’acciaio” della pistola del padre lasciata cadere “sul pavimento di legno era un’eco metallica sorda. Avrei ritrovato lo stesso suono nei giri di batteria di alcune canzoni punk”. E, poco prima: “Avevo bisogno di una musica che diventasse il grido che avevo soffocato e la rabbia mai espressa”. E soprattutto, a proposito delle interminabili domeniche in famiglia, scandite dai rumori della televisione e dei programmi sportivi: “Spaccavo il ghiaccio a morsi. Mi piaceva il rumore che faceva, mi piacevano i rumori striduli e spaventosi. Il rumore della pistola sul pavimento di legno. Il rumore della mamma del mio migliore amico Diego che urlava di dolore e lanciava la bottiglia contro il muro.” È insomma il racconto di un’iniziazione al “rumore” come dotato di spessore semantico e la scoperta di una vocazione (Quei rumori… “mi hanno fatto capire che la via di fuga era nascosta nel mio stesso inferno”).
Come Courmayeur, anche Aosta, in cui la Giacobone si traferisce qualche anno più tardi, è descritta come un non-luogo, una città solo di nome, o “per errore”, di fatto un paese di poco più grande di quello da cui proveniva, e allora “una camera anecoica”.
“All’epoca della mia adolescenza” mi dice Stephania “avevo solo Aosta come città di riferimento, volevo tutto e subito, volevo spazi, rumore, festa. E non c’era nulla di tutto questo. Ecco il motivo della mia definizione della città di allora come camera anecoica e il mio estremo bisogno di suono. Poi, la città di riferimento negli anni dell’Università per me è cambiata, è diventata Torino, dove il rumore non mancava, non mancavano gli spazi occupati, la vitalità del teatro, della musica, della cultura. Dopo otto anni di Torino, tornare ad Aosta è stata inizialmente una scelta obbligata, poi una piacevole riscoperta. Aosta è anecoica come sempre, forse peggio, ma io ho trovato il suono che voglio ascoltare, quando voglio, e se mi va di sentirlo suonare dal vivo, Torino è vicina.”
Emerge sempre più chiara la definizione di un punk che rompe gli schemi e libera energie represse, assimila le paure e le angosce e ne cava qualcosa di nuovo e di vero, rappresenta una “via d’uscita e un antidoto al veleno del presente”, e diventa infine, nella sua fase matura (con “Parlami ancora”, del 1992) una sorta di sintesi consapevole delle ribellioni e le lotte di tutti i tempi. Vale la pena citare le parole con cui i Kina presentavano l’LP al momento della sua uscita: “Le idee e le battaglie ci parlano ancora: noi proviamo ad ascoltare l’eco di ieri per costruire nuovi suoni oggi, sperando che questo disco parli ora e in futuro a te e a coloro che verranno”. È una dichiarazione di poetica e di politica, insieme ambiziosa e umile (“proviamo”, “sperando”), in cui il legame con il passato nutre la ricerca del presente e del futuro e che travalica ogni definizione di genere. “È l’essenza del punk hardcore” mi conferma Stephania. “È quel che mi ha formata da sempre. Sono le idee e le battaglie che ho fatto mie negli anni. E come ho fatto io, avranno fatto molti altri.”
La musica dei Kina finisce per avere una funzione insieme terapeutica e catartica: scatena l’urlo, e insieme “cuce le ferite e cura gli ematomi”; evoca gli angosciosi e mai rimossi “rumori” sintomi di ingiustizia e allo stesso tempo li formalizza e li ricompone in un tessuto che li spiega e li domina: esalta e appiana. Musica e testi dei Kina sono inframmezzati al racconto e collegati a momenti della vita dell’autrice come se ne avessero previsto lo svolgimento o come se la scoperta di quei testi rappresentasse l’indicazione di una svolta, la rivelazione che quello che le accadeva non riguardava solo lei, ma era tappa di un percorso comune.
Quanto ai dettagliatissimi capitoli firmati da Capra, vi notiamo grande determinazione, insoddisfazione e caparbietà (nel senso migliore), desiderio di imparare e mettersi in gioco continuamente, fino allo sfinimento; io vi leggo anche l’elogio dell’onestà intellettuale, della sincerità, anche (paradossalmente) della pazienza. Il suo resoconto è privo di quel macchiettismo fin troppo facile a cui molti ricorrono in casi simili, eppure è divertente, schietto nel descrivere prove, concerti, cambiamenti di formazione, fondazione dell’etichetta indipendente Blu Bus, e soprattutto la serie impressionante di concerti in giro per l’Europa.
“Ci sarebbe bisogno anche oggi di qualcuno come i Kina” mi confida Stephania. “A livello musicale ci sono nuovi gruppi punk hardcore non male in Italia e all’estero. La crisi dovrebbe essere terreno ancora più fertile per far nascere il conflitto, la dissidenza e la voglia di produrre musica in linea con l’attitudine della protesta. In realtà molti gruppi, fortunatamente non la maggioranza a mio parere, si abbandonano a un cinismo musicale, anziché riportare in vita quella che era l’agitazione del punk hardcore, perché sembrano dire «Se è morto, non sarò io a risuscitarlo».”

© Letteratitudine

LetteratitudineBlog/ LetteratitudineNews/ LetteratitudineRadio/ LetteratitudineVideo

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/01/09/come-macchine-impazzite/feed/ 0
FRANCESCO CUSA e la tentazione della letteratura http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/12/16/francesco-cusa-e-la-tentazione-della-letteratura/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/12/16/francesco-cusa-e-la-tentazione-della-letteratura/#comments Tue, 16 Dec 2014 18:45:19 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6621

letteratura-e-musica

Nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.

* * *

FRANCESCO CUSA e la tentazione della letteratura

di Claudio Morandini

Bisogna intendersi sul termine “tentazione” – e cercheremo di farlo. Francesco Cusa è innanzitutto un musicista, un batterista, uno dei fondatori dell’etichetta indipendente “Improvvisatore Involontario” e – ecco la parola giusta – un agitatore culturale. Gli album a suo nome e i progetti in cui è coinvolto o di cui è l’ispiratore sono parecchi e ben rappresentati su disco e in rete (Skrunch, Skinshout, The Assassins, Jaruzelski’s Dream, Try Trio, nemmeno ci provo a elencarli tutti); ancora più numerose le collaborazioni con altri artisti del circuito del jazz più alternativo, quello che fatica a dirsi jazz e con il jazz ha parecchi conti in sospeso. Lì sta la matrice di Cusa, direi: nell’anima più profonda e irriducibile del jazz, nell’improvvisazione intesa come sfida, come superamento di limiti, come antagonismo rispetto alla materia trattata e alle attese dell’ascoltatore. Bene: un po’ ovunque, nella sua musica, comunque sia declinata, in qualunque organico sia eseguita, si sente una forte, non accidentale liaison con la parola letteraria, e questo ci intriga. Così, in attesa Di scoprire che cosa ci riserverà “Love”, il prossimo album del collerico progetto jazzcore The Assassins (con la tromba di Flavio Zanuttini), previsto per il 2015, proviamo ad ascoltare alcuni dischi di Francesco Cusa, concentrandoci sui titoli del gruppo Skrunch, che comprende, oltre a Cusa, Paolo Sorge alla chitarra e Carlo Natoli al basso, più altri ospiti – o complici – occasionali.

http://www.jazzitalia.net/recensioni/immagini/lartedellaguerra.jpgNell’album “L’arte della guerra”, pubblicato da Improvvisatore Involontario nel 2007, quel senso di sfida è enunciato sin dal titolo, e le citazioni da Sun Tzu declamate nel Prologo e nell’Epilogo diventano intenzioni programmatiche, dichiarazioni di poetica militante – quanto alla musica, pastosa, ritmica, appare ancora strutturata su modelli riconoscibili e autorevoli di jazz avanzato e “colto”. D’altra parte la guerra, in questa dimensione, è appunto un’arte, l’esercizio della tensione è una disciplina.
Più sperimentale e provocatorio, sin dal titolo, è “Psicopatologia di un serial killer”, del 2004, che si presenta come colonna sonora di un noir urbano immaginario assai perturbante – così perturbante che ci sfiora l’idea dell’iperbole parodistica: al tempo stesso l’album, nel “raccontare” in musica ciò che avviene nella mente di un criminale e nell’evocare gli ambienti che frequenta, è così ossessivo, dissonante, oscuro, elettrificato, notturno, contaminato di voci che ringhiano o bisbigliano, di sospiri e risolini e rantoli e gorgoglii, in una parola così vivido, che potrebbe anche essere usato come prova in un processo per omicidio. La copertina, poi, suggerisce, almeno nello spirito, un legame con certe sperimentazioni noir di John Zorn. Però, a ben vedere, il disco è “anche” e soprattutto (almeno nelle intenzioni) una psicopatologia: cioè una collocazione in una casistica, in un sistema di riferimenti e modelli. Alla fine non è tanto la voce diretta del serial killer che sentiamo, ma quella dello psichiatra che lo sta registrando e studiando (e che in buona parte ne resta affascinato).

E ancora: negli ammiccamenti di certi titoli come “Opinioni di un clown” ne “L’arte della guerra”, o “Buzzati’s Capture” in “Psicopatologia”, ci pare di notare, soprattutto, un ricorrente, anche giocoso richiamo alla letteratura nel processo generativo della musica. De “L’arte della guerra” abbiamo già parlato. In un album del 2010, “Jacques Lacan. A True Musical History”, l’appiglio letterario-filosofico è subito chiaro, assieme all’intento umoristico (e umorale) dei titoli fondati su giochi di parole o su accostamenti spiazzanti e, almeno all’apparenza, pretestuosi: “Le can can de Lacan”, “Le Lancôme de Lacan”, “Lacan on the Bitch” (sic)… La musica, insomma, rimanda sempre a un’idea di conflitto, di disagio, di tensione, di sfida, di beffa anche. E a fare le spese – musicalmente parlando – del particolare sense of humour di Cusa e degli altri suoi correi, oltre a certi stilemi della musica per film o del jazz come il vocalese, è anche l’hard rock più enfatico (in “Lacan Boys”).
“A true musical history”, il sottotitolo del disco, ci dà comunque, credo, una possibile chiave di lettura della poetica di Cusa: la musica “è” racconto, narrazione obliqua, allusione a strutture narrative che si nutrono di ogni possibile suggestione (letteraria, musicale, cinematografica): ed è true, cioè suona “vera”, ironicamente, proprio perché è “falsa”.

Ma la tentazione della letteratura in Francesco Cusa si manifesta anche in una forma più propriamente scritta. Sto pensando alla raccolta “Novelle crudeli”, ripubblicate da Eris nel 2014, un saporito catalogo di efferatezze e sgradevolezze in cui sarebbe difficile trovare lacune. Cusa ne sta proponendo, in una serie di concerti-spettacolo, delle letture pubbliche. La musica, di Cusa stesso e dei musicisti conniventi (Nicola Fazzini, Emilio Galante, Gabriele Evangelista: cercate le loro performance su youtube), non può aggiungere molto a testi già così espliciti, che nei video sono ulteriormente amplificati dalla recitazione di Alessandro Cevasco: e si limita a postillare qua e là, a puntualizzare in interventi che sembrano note a piè di pagina.

http://www.lapisnet.it/foto/e16099.jpg
Ecco allora teratologie raccapriccianti, abbondanti spalmate di grottesco (“Nordmende Zappalà”) volentieri coprolalico (“Salvatore foderato di mestruo”), brutalità stilizzate da cinema americano tra fratelli Coen e Tarantino (“Desmond e Jack”) mescolate con tirate filosofiche, sipari levati d’improvviso su tabù infranti, e poi paure infantili (“Preghiera”) e lati oscuri adulti (“Contro la femmina”), sguardo dilatato sui dettagli che, ingranditi, diventano mostruosi, sarcastiche vendette musicali di sapore zappiano (“101 storie zen sul jazz”, a modo suo davvero crudele, musicalmente parlando, contro ogni deferenza al jazz).
Anche qui si intuisce una volontà di sistematizzare, studiare, filtrare – sembra di sentire, come si diceva prima, più che la voce dei casi clinici, quella dello studioso di casi clinici, per quanto affascinato della materia trattata.
Questa tensione violenta, irrisolta, plateale, virgolettata e incoerente come in certe sequenze di David Lynch, pare a volte trovare una sua dimensione, un equilibrio – proprio come in Lynch, attraverso l’immersione in una dimensione meditativa e contemplativa. La musica diventa allora il “racconto” di questa ricerca, di questa immersione: il racconto del successo o, a seconda dei casi, del fallimento. Lo si avverte in particolare nelle intenzioni di un progetto come “Tan T’Ien”, con Luca Dell’Anna alle tastiere e Ivo Barbieri al contrabbasso (quello insomma che in altri contesti chiameremmo un trio).
Nel recentissimo “Body-Soul-Spirit” (sempre Improvvisatore Involontario, 2014, e sempre attribuito al progetto Skrunch) questa dimensione contemplativa si delinea con chiarezza inedita: i titoli non giocano, non ammiccano (sono, semplicemente, numeri secondo un ordine non consequenziale, a cui talvolta si aggiungono tra parentesi parole-emblemi, “Darkness”, “Light”…). L’irrequietezza che in altri album sembrava sfogo incontrollato, raptus violento (pur strutturato in una forma e secondo un linguaggio), ora diventa ricerca di una dimensione nuova, tensione verso un equilibrio magari precario ma funzionante. Non vi è parodia, non vi è ammiccamento cinematografico, non sono più avvertibili allusioni letterarie, sovrapposizioni o sottotracce. Gli strumenti cercano, rovistano a lungo nei suoni, sembrano trovare un’intesa, sembrano andare alla ricerca di un linguaggio comune e insieme nuovo, lontano da ogni modello o da ogni riferimento.

© Letteratitudine

LetteratitudineBlog/ LetteratitudineNews/ LetteratitudineRadio/ LetteratitudineVideo ]]> http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/12/16/francesco-cusa-e-la-tentazione-della-letteratura/feed/ 0 LE ROCKSTAR NON SONO MORTE, di Valerio Piperata http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/10/18/le-rockstar-non-sono-morte-di-valerio-piperata/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/10/18/le-rockstar-non-sono-morte-di-valerio-piperata/#comments Sat, 18 Oct 2014 12:04:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6543 letteratura-e-musicaNel nuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini, ci occupiamo del romanzo d’esordio di Valerio PiperataLe rockstar non sono morte“, edizioni e/o, (con una recensione dello stesso Morandini).

Massimo Maugeri

* * *

LE ROCKSTAR NON SONO MORTE, di Valerio Piperata (edizioni e/o)

di Claudio Morandini

Veloce e buffo come un cartone animato, il romanzo d’esordio di Valerio Piperata, “Le rockstar non sono morte” (e/o, 2014), è un tributo insieme sincero e ironico al culto del Dio del Rock – evocato più volte, e qua e là, nei momenti difficili, pure nominato invano. Il giovanissimo autore, e l’io narrante che credo debba qualcosa alle esperienze di batterista dell’autore, un po’ credono un po’ no a questo Dio, di cui si sentono i Giobbi, sempre presi di mira, messi alla prova, perseguitati senza una ragione.
“Il Dio del rock me lo sentivo sotto la pelle, dentro al cuore” dice il liceale romano Davide Fagiolo, il protagonista, con slancio da integralista. “Mi dava coraggio, mi ci faceva credere. Perché siamo pochi, noi eletti dal Dio, ma siamo stati scelti da Lui per la forza e la costanza che abbiamo dimostrato di avere, nel nome del rock. Siamo disposti a superare ogni ostacolo, difficoltà, date a cachet zero, pur di arrivare dove vuole portarci Lui: la destinazione di questo viaggio la ignoriamo, sappiamo solo che, indipendentemente da quello che succede, dobbiamo continuare a camminare.”
Davide Fagiolo è batterista; o meglio, vorrebbe esserlo, aspira a esserlo, e non è detto che lo sia davvero: ma insomma, suona una batteria da quattro soldi in una band raccogliticcia che sembra un concentrato di tutte le aspirazioni, le illusioni, le bellezze e le goffaggini del rock (oltre che un significativo campionario antropologico di certa gioventù italiana di oggi, irrimediabilmente marginale). Il suo riferimento ideale sta in Ringo Starr, non certo in uno dei virtuosi della batteria che hanno imperversato in tanti gruppi degli ultimi decenni del Novecento: e questo suo ruolo, questa predisposizione verrebbe da dire caratteriale, se non genetica, gli consente di avere un punto di vista laterale, defilato, periferico, e appunto ironico, sulle vicende narrate. Fagiolo è il motore di tutto, il cuore del gruppo, la base su cui tutto il resto si tiene: eppure il suo ruolo, come quello di tanti altri batteristi, da Ringo Starr in su, non è riconosciuto. I batteristi stanno in fondo, di solito non si agitano eppure faticano più degli altri, vengono intervistati meno degli altri, sul palco dei concerti sono nascosti dall’agitarsi delle prime donne, nei video rischiano di rimanere comparse, se non macchiette. Ecco, Fagiolo è un po’ così, ma non sembra che gliene importi molto. Sa che in realtà senza la base ritmica (costante, anche se approssimativa) garantita dal batterista la musica suonata dagli altri non ha più senso. Il vero leader non è il frontman che si sgola e si scalmana davanti a tutti, ma lui, il negletto batterista in penombra – così, almeno, in un misto di modestia e megalomania, pensa il nostro protagonista.
Chiunque abbia vissuto, da ragazzo, l’esperienza di mettere insieme un gruppetto per suonare rock conosce quel misto di esaltazione, ostinazione, ansia e frustrazione che colora le giornate e agita le notti: i problemi tecnici, i locali improvvisati, l’acustica tremenda, il pubblico scarso e ostile o, peggio, indifferente, le cene offerte dai gestori a base di pastasciutta, le località sconosciute in cui nessuno ha fatto pubblicità al concerto – e la bellezza di certi momenti in cui miracolosamente tutto sembra andare per il verso giusto, il pubblico arriva e gradisce, e di colpo la fatica e i dissapori scompaiono, e si ha la sensazione di trovarsi dinanzi a un’inaspettata epifania. Ecco, c’è tutto questo nel romanzo di Piperata, ed è fresco e immediato come se fosse in presa diretta, improvvisato sul palco, senza tanti aggiustamenti in postproduzione.

Il rock di cui si fanno paladini i quattro del gruppo è paratattico, diretto, semplice; e anche lo stile e la lingua di questo romanzo lo sono. Frasi veloci, squadrate: zero subordinate o quasi, qualche periodo sgangherato che dia un tono di sincerità anche brutale, un tot di luoghi comuni che suggeriscano l’immediatezza del parlato. È una semplicità schematica ma vivace, coltivata nonostante gli studi dell’autore (e del personaggio, che sta finendo il liceo classico, il che vorrà pur dire qualcosa).
L’idea di rock che emerge nel romanzo di Piperata è istintiva, pulsionale: il rock è una musica che non è necessario saper suonare, è un culto più che un linguaggio – in ogni caso basta riuscire a balbettarlo per evocarlo. Volerlo suonare, nella logica semplicistica e appassionata di Fagiolo e dei suoi amici, equivale a praticarlo davvero: “beccare le note giuste” non è importante quanto sognare di farlo.
Il rock dei personaggi di Piperata è fieramente (ma, allo stesso tempo, si direbbe, inconsapevolmente) controcorrente: non si sente a suo agio nei giorni nostri, proprio non ci si ritrova. Forse per questo sta scomparendo, o “morendo”, interessa a sempre meno giovani, anzi non è più sentito dai giovani come il loro linguaggio. La vitalità diretta del rock è messa in un angolo dall’artificialità della musica digitale più commerciale, ancora più squadrata e elementare (musica che non si ascolta davvero, non si suona davvero). I maestri del rock, e anche quelli della canzone d’autore, intesi come riferimenti, modelli, padri ispiratori, profeti, o sono morti o sono anziani – e sgomitano in un pantheon sempre più affollato. Nel mondo dipinto da Piperata (e non solo da lui) il rock è fuorimoda: e a questo punto, i protagonisti possono rivendicare questa condizione di inattualità come un motivo di orgoglio, fino al punto di chiamare il proprio gruppo “I vecchi”.

Come il rock, il romanzo di Valerio Piperata scorre diretto, enfatico ma senza veri drammi. Piperata ama certa comicità fatta di nomi storpiati come in certe storie di Topolino (i celebri Setfiba, Vecchiotti, Caparotta, Peppino d’Elba, Negro d’Avola, Articolo 8, i temibili critici musicali Stroncatutti, Sgamasòle, Maria Castrante…), di accumulazioni e iperboli (e qui, nell’eccesso di caricaturalità, il modello sembrano essere, più che gli albi di Topolino, certe teratologie sociali del Paolo Villaggio dei tempi di Fantozzi: si pensi a località come Cecio Marittimo, Santa Maria Cosciona, San Pizzino, San Scatarro). Al Fantozzi dei bei tempi rimandano anche le elencazioni dell’abbigliamento tragicamente o mostruosamente casuale e inadeguato con cui il gruppo si presenta per la prima volta sulla scena, oltre alla descrizione dell’iperbolico megaedificio del supermanager discografico Ottavio Pilato. Forse avremmo fatto a meno di certi dettagli e certi nomi che sembrano scorciatoie troppo facili verso la risata (che so, un Nicola Latrina, un Mario Chiavica, o i già citati San Scatarro e Santa Maria Cosciona…), ma qui prevale un gusto per la corporalità che è proprio del carattere irriducibilmente infantile dell’Italia, e forse è proprio questo che vuole suggerirci Piperata.
Niente drammi, si diceva, in questo romanzo: niente conflitti dilanianti, insomma, non a scuola, dove pure il protagonista è trattato regolarmente a pesci in faccia dai coetanei, e di sicuro nemmeno in famiglia, dove anzi i genitori, ognuno a modo suo, finiscono per appoggiare con affetto, un pizzico di rassegnazione, una discreta dose di ammirazione e un po’ di rimpianto per le proprie occasioni perdute il sogno del figlio di costituire una rock band e di arrivare al successo (obiettivo che per un po’ sembra possibile). E anche quando la delusione per il mancato successo sembra interrompere per sempre il sogno di Fagiolo, anzi, proprio in quel particolare momento, gli affetti e l’ottimismo finiscono per rafforzare i legami e ricostruire la speranza. In fondo (non è una sorpresa, ma suona sempre bene), non è il successo in sé a contare, ma il lungo percorso che si fa per raggiungerlo.

© Letteratitudine

LetteratitudineBlogLetteratitudineNewsLetteratitudineRadioLetteratitudineVideo


]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/10/18/le-rockstar-non-sono-morte-di-valerio-piperata/feed/ 0
TRA MUSICA E POESIA: conversazione con Alessandra Trevisan http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/10/06/tra-musica-e-poesia-conversazione-con-alessandra-trevisan/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/10/06/tra-musica-e-poesia-conversazione-con-alessandra-trevisan/#comments Mon, 06 Oct 2014 13:30:05 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6465 letteratura-e-musicaNuovo appuntamento con il forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, coordinato con il supporto dello scrittore Claudio Morandini.  Oggi ci occupiamo del rapporto tra “musica e poesia” attraverso questa conversazione con Alessandra Trevisan (foto in basso).

Massimo Maugeri

* * *

Tra musica e poesia: conversazione con Alessandra Trevisan

di Claudio Morandini

Torniamo ancora una volta sul tema che sta a cuore a tutti coloro che frequentano questo forum, quello cioè del rapporto tra letteratura e musica, e facciamolo attraverso il contributo di Alessandra Trevisan, attivissima in entrambi i campi come autrice e come animatrice culturale.
Alessandra Trevisan (Mestre, 1987) ha conseguito la laurea magistrale in Filologia e letteratura italiana con una tesi dal titolo “Goliarda Sapienza (1998-2013): una voce intertestuale” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Suoi saggi e contributi su Goliarda Sapienza sono apparsi in antologie, riviste e presentazioni. Si è formata partecipando alle attività del collettivo mestrino “Spritz Letterario” e al Festivaletteratura di Mantova. Dal 2011 è parte della redazione del litblog “Poetarum Silva” (poetarumsilva.com) e cura con Anna Toscano per Radio Ca’ Foscari il programma “Virgole di poesia” (www.radiocafoscari.it/virgole-di-poesia). È ufficio stampa nell’ambito degli eventi culturali e jazz (Associazione Culturale Caligola, nusica.org, Festival dei Matti di Venezia) e press agent di alcune formazioni jazzistiche (XYquartet, Piero Bittolo Bon Jümp the Shark, Domenico Caliri Camera Lirica). Partecipa al progetto UnkNwn (inditronica, trip-hop, electronic live band).

alessandra-trevisan

Ecco di seguito la trascrizione della conversazione, assai ricca e piacevole, con Alessandra Trevisan.

CM – Alessandra, in quali modi hai sperimentato il connubio tra musica e parola? Da animatrice culturale, sul litblog “Poetarum Silva”, e nella conduzione del programma “Virgole di poesia” con Anna Toscano su Radio Ca’ Foscari, hai senz’altro avuto modo non solo di riflettere sulla questione, ma anche di affrontarla concretamente.

AT – Grazie Claudio. Credo la questione si sia posta prima ancora delle due esperienze che tu citi e che hanno amplificato le possibilità di esplorazione di questa ‘relazione’ per me cruciale. Mi riferisco al fatto d’esserci passata dapprima attraverso il corpo, con il canto (ma di questo parleremo poi).
Ma il rapporto parola e musica si è rivelato ‘due volte evidente’ soprattutto attraverso la poesia dal 2010, l’anno d’inizio di entrambi i progetti. La poesia ha presentificato la mia voracità nei confronti della parola e della musica: a “Virgole di poesia” soprattutto grazie alla presenza della ‘voce’ mia, di Anna e dei poeti ospiti delle tre stagioni che abbiamo condotto; ogni puntata ha avuto come colonna sonora della musica strumentale (jazz, minimal, ambient). La voce in radio è ancella e protagonista. Su “Poetarum Silva” invece, ho spesso cercato di affrontare il connubio su due piani: con la lettura critica di certa poesia contemporanea, tenendo in considerazione il rapporto parola-musica e voce; dall’altro, intervistando alcuni artisti con l’intento di manifestare un’attenzione sempre molto alta e altra nei confronti della voce. In entrambi i casi dico ‘voce’ in senso lato ma non dimentico di porre l’accento sull’unicità che caratterizza i tipi di espressione di cui mi sono occupata.

CM – Nella musica strumentale dell’XYquartet e del Piero Bittolo Bon JÜMP THE SHARK, che tu segui come press agent, mi è sembrato di cogliere, soprattutto grazie ai titoli, una sorta di narrazione, che attraversa e si sovrappone alla struttura della composizione. Questo mi suggerisce un paio di domande che mi frullano in testa da parecchio tempo. La prima è: la musica può raccontare qualcosa, secondo te, oltre se stessa?

AT – Stimolante questa domanda. Sono felice, da pochissimo, di aver accettato anche di seguire il progetto di Domenico Caliri “Camera Lirica” (in uscita per Caligola Records).
Nel caso di quest’ultimo – e soprattutto di XYquartet – trovo la narrazione si manifesti nella forma della ‘composizione’, certamente in modo differente. Nicola Fazzini (X) e Alessandro Fedrigo (Y) hanno a lungo ragionato sulla ‘narratività’ della composizione non in forma di suggestione ma di struttura, sintesi, espressione di un’idea che sta nel titolo del brano (ad esempio). Nel caso del progetto di Piero Bittolo Bon credo vi sia una maggiore libertà, dovuta alla diversità di intenzione sottesa al progetto che ha una chiara matrice free del tutto estranea all’XYquartet, facente parte invece dell’esperienza di Caliri ma direi ‘liberamente interpretata’ – se c’è – in quest’ultimo progetto.
Ho molto riflettuto sulla sostanza musicale in termini di significato (attraversando il significante) e resta una questione irrisolta, da secoli. Ma tu mi chiedi di andare oltre, di guardare ciò che resta dopo la composizione. Allora ti dico che, secondo me, la musica racconta solo al presente, qui e ora, dal vivo. Non voglio assolutizzare il concetto ma trovo sia così. Il disco è documento. La vera importanza narrativa di certa musica (dal jazz all’elettronica) è, invece, il suo ‘farsi racconto’ al presente, la gamma di possibilità che mette in gioco nel momento dell’ascolto live. È sempre sorprendente.

CM – E invece, come si può raccontare la musica, secondo te?

AT – Come si possa raccontarla, è un nodo altrettanto irrisolto: io so di non aver ancora acquisito gli strumenti per trattarla in termini musicologici e teorici puri, e di utilizzare soltanto i miei strumenti critici ‘narratologici’, con i quali approccio anche altre forme artistiche. Parlando per me e soltanto per me, credo si possa raccontare la musica soltanto leggendola come la trama di un tessuto: mi piace ricordare che fondamentale nel mio caso sono stati la lettura e lo studio de Gli imperdonabili di Cristina Campo. E poi, essere sempre pronti a mettersi in difficoltà (prima), cercando di acquisire nuovi strumenti, nuovi parametri, nuovi criteri critici più ‘giusti’.

CM – C’è qualcosa che la musica può invidiare alla letteratura? E c’è qualcosa che la letteratura può invidiare alla musica? Parlo di invidia riallacciandomi a quanto diceva Manganelli conversando alla radio negli anni ottanta con Paolo Terni: “la capacità del discorso musicale di non dovere neanche… affrontare l’onta del significato: questo è un privilegio che il letterato non può non invidiare continuamente…”.

AT – Altro nodo capitale questo che io ho dovuto affrontare, ad esempio, dopo la lettura di Filosofia della musica di Massimo Donà. Ed è vero. La musica è un’arte talmente ‘democratica’ nel suo non avere pretese di significato ed è questa la vera cosa che la letteratura deve invidiarle, come già diceva Manganelli. Interessante che questa sua idea sia emersa durante una conversazione radiofonica. Non credo di ripetermi se tento un approccio che dia centralità ancora allo ‘strumento-voce’, e allora dico che un’altra cosa che la letteratura invidia alla musica è la capacità di dare corpo alla parola e farlo al ‘presente’, nell’hic et nunc.
Parto dalla seconda domanda per giungere alla prima, molto più difficile, e tento una risposta; si tratta del mio punto di vista che può facilmente essere messo in discussione. Mi sono interrogata a lungo sul valore del documento musicale, specialmente dopo averne sentito parlare a lungo in questi anni in cui mi trovo vicina per lavoro e per passione al jazz, ad esempio. I jazzisti sanno benissimo che l’importanza del documento è limitata a quel momento e a quel luogo; tutto l’irripetibile non riemergerà o potrebbe rivelarsi poi migliore o peggiore, in futuro. Dipende da molti fattori, non solo musicali. E non perché tra gli elementi costitutivi del jazz ci sia l’improvvisazione: questa cosa va al di là. Ma il jazz è del Novecento, così come il rock è del Novecento: la loro estetica ma anche la loro ontologia credo si possano dire legate a un concetto ‘rotto’ (infranto) di tempo che colpisce soltanto in parte la letteratura. Mi spiego: qualunque opera letteraria ha e avrà sempre pretese di eternità, anche il bestseller; non sono sempre esplicitate né espresse, ma l’opera letteraria è ontologicamente documento. Lo dico in un senso forse un po’ generalista ma trovo sia così. La musica jazz no. La musica rock no. La musica elettronica no. Vivono nel live. Quest’esigenza estrema del presente è la peculiarità che la letteratura invidia. Se a un reading ascoltassimo un autore modificare dal vivo il suo testo ne usciremmo sconcertati, mentre ci appare come ‘la norma’ poter ascoltare riarrangiamenti, nuovi assoli, nuove linee melodiche di voce, anche quando stiamo ascoltando delle canzoni che conosciamo a memoria. Gioca anche molto l’intenzione, cosa che nella letteratura è potenziale, nella musica un dato di fatto.

CM – Nelle composizioni del duo vocale TW/ Two Women e della band UnkNwn hai privilegiato, come vocalist e autrice delle liriche, la lingua l’inglese. Quali qualità dell’inglese ti hanno spinta a questa scelta?

AT – È una domanda che mi è stata sempre posta. Il progetto TW è iniziato come un duo chitarra-voce con dei brani di chiara ispirazione folk, un po’ retrò (anni Sessanta e Settanta-area statunitense), tradizionali ma con la pretesa di un approccio contemporaneo credo, dato anche il modo in cui abbiamo sviluppato certe idee, con loop ed effetti, in seguito. Personalmente mi sento più vicina all’inglese perché è una lingua che risuona meglio nella mia voce, e mi concede la libertà di prendermi degli spazi di improvvisazione più leggeri e meno pretenziosi rispetto all’italiano, lingua che merita un approccio diverso, che non le appartiene ‘vocalmente’. Mi riferisco all’improvvisazione in TW, in un senso ‘jazzistico’ quasi, non al vero e proprio ‘scat’ ma a qualcosa di simile, a una reinterpretazione di esso. Direi la stessa cosa del francese.
In generale, anche per quanto concerne la band di cui faccio parte, UnkNwn, trovo l’italiano sia la lingua nella quale nascono sia l’idea sia i versi (prima – è la lingua in cui penso) ma, per cantarli, ho bisogno di tradurli, perché li sento ‘vivi abbastanza’ solamente in inglese. Non è desiderio di mascheramento: è necessità di sentirli più veri al mio orecchio. Cantare in italiano è molto difficile per me, lo è sempre stato. Chissà che, un giorno, non decida comunque di tentare questa strada linguistica per un nuovo progetto.

CM – Uno degli elementi più forti (non l’unico, ci mancherebbe) della musica jazz è l’improvvisazione: un’improvvisazione controllata, certo, ma, comunque, uno svincolamento dalle rigidità della scrittura. Secondo te, c’è spazio per l’improvvisazione, o per qualcosa di analogo, anche in poesia?

AT – L’improvvisazione in poesia credo sia qualcosa di estremamente difficile nella nostra lingua. Parlo per esperienza. Sono a conoscenza (ma non ho mai del tutto approfondito) del fatto che esistano molti autori che portano avanti un tentativo di dare una forma performativa in senso anche improvvisativo, ai loro testi. Alcuni esperimenti interessanti, tra quelli che conosco, sono quelli di Ida Travi, che ho avuto modo di ascoltare a Roma in occasione di “Ritratti di poesia 2013”: Travi, attraverso la sua voce, i cambi di registro, gli intervalli, gli accenti, riusciva a veicolare il significato del suo testo (cosa che in qualche modo, come abbiamo detto, manca alla musica) in termini di ‘improvvisazione’ secondo me. C’era un lavoro a monte ma, ne sono quasi certa, ogni lettura è e sarebbe stata differente. Una cosa simile l’ho sentita fare da Silvia Salvagnini e da Giacomo Sandron, due poeti veneti; Sandron scrive in dialetto e partecipa a molti Poetry Slam, una forma imprescindibile di avvicinamento all’improvvisazione in poesia che sappiamo essere nata con la Beat Generation. Diciamo che riconosco in questi autori un tentativo di scrittura che porta verso la performance, più o meno incisiva. Altro discorso si potrebbe fare con il freestyle nell’hip hop; non sono ferrata, ma devo ammettere che mi piace molto come arte. Nel mio piccolo sostengo Endi, mc veneto molto sagace e caparbio, anche nei contenuti.

CM – E che cosa potrebbe corrispondere, nella scrittura tutto sommato solitaria della poesia, all’interplay, che è un’altra delle caratteristiche principali del jazz?

AT – L’interplay è, a mio avviso, il rapporto particolarissimo che si stabilisce con il pubblico durante i reading, i poetry slam, le occasioni pubbliche; può manifestarsi in forme di rara bellezza se l’ascolto è alto e il poeta incisivo con la propria voce. L’interplay per la poesia è una relazione ‘viva’ e che si fa ‘live’.

CM – Anche la letteratura oggi, come la musica, soffre di una tendenza alla standardizzazione. La musica che pratichi e segui sconvolge invece i confini tra i generi e supera ogni etichetta. Quale spazio di manovra (e di ascolto) c’è per chi vuole fare ricerca muovendosi al di là delle convenzioni, secondo te?

AT – Non sono del tutto certa di uscire dagli standard ma ti ringrazio per le tue parole; diciamo che ci provo con forza, cercando di smussare alcuni angoli, dando inclinazioni diverse ad alcuni approcci che utilizzo nel canto. Ad esempio, mi piace molto la forma del parlato, anche nell’elettronica, perché fa parte di me la forma di enunciazione che non sia solo ‘canto’. Ognuno deve provare quale sia l’abito che gli sta bene addosso anche in termini di contenuto, non solo di forma, che è comunque sostanza.
Mi ritengo una persona curiosa che tenta di valicare i limiti di ascolto (anche), mettendosi in crisi: sono onnivora ma non bulimica; non mi piace tutto ciò che ascolto. Amo particolarmente la musica sperimentale, vocale e non, ma dal vivo mi piace molto anche, chessò, il death metal. Quando parlo di ‘sperimentazione’ mi riferisco, ad esempio, ad artisti quali Alessandro Bosetti, Mat Pogo, ma anche Debora Petrina, Amy Kohn, più indietro Laurie Anderson, diversissime dai due precedentemente citati. Sono tutti artisti che ho ascoltato soprattutto negli ultimi anni.
Nutrire il proprio orecchio e la propria conoscenza di nuovi stimoli e l’unico modo per portare una piccola fetta di originalità nel proprio lavoro, anche se si sta tentando un progetto ‘pop’. Parleremo sempre con le parole degli altri (o con le note degli altri) ma bisogna essere ‘aperti’ e onesti, secondo me, per cercare di innovarsi: aperti al nuovo e al diverso, anche a ciò che turba e spaventa. Ad esempio, non sono una fan degli Swans, ma ascoltarli dal vivo è stato un’esperienza sonora incredibile: il loro noise ha aperto delle finestre di ascolto, per me, che non pensavo si potessero addirittura sfondare. Anche il post-rock (e lo slowcore), mai comparso tra i miei ascolti adolescenziali (molto mainstream) è stata una scoperta degli ultimi anni: ho compreso il valore della lentezza in una forma molto diversa da quella impartita dalla musica classica, contemporanea o jazz. È qualcosa di più simile a una lentezza generazionale, antropologica, culturale.
Amo fare scoperte da me e amo quando sono gli altri a darmi dei consigli. Non mi piacciono le rigide imposizioni, non mi piacciono molto le mode, anche la ricerca di artisti particolari solo perché sconosciuti e quindi osannarli: siamo tutti condizionati da fattori esterni ma dobbiamo continuare a essere noi stessi sino in fondo, a fare le nostre scelte, stratificandole, motivandole e attribuendo ad esse il significato che riteniamo più coerente con il nostro percorso. Io non sarò mai infedele a Billie Holiday: resterà sempre una di quelle voci che amerò alla follia fino alla fine; così vale per lo scat di Anita O’Day. Mi hanno insegnato che l’intenzione può essere tutto, ed anche il senso del tempo, lo starci sopra, sentirlo, dargli corpo, con la voce. Bisogna aspirare a quella ‘perfezione’ per poterla realizzare, o almeno provarci.

CM – Ci confidi qual è il tuo personale canone poetico? E quello musicale? Tra le fonti di TW/ Two Women citi ad esempio Joni Mitchell, Rickie Lee Jones, Joan As Policewoman, Tune-Yards, Cristina Donà, Carmen Consoli, e in ambito letterario Cristina Campo, Lalla Romano, Patrizia Cavalli, Fabrizia Ramondino, Anna Maria Carpi, Goffredo Parise, Italo Calvino…

AT – Mi ritengo un’autrice lirica, sia in poesia sia in musica. Non riesco a definirmi altrimenti. Per questo il cantautorato mi appartiene in modo viscerale. Credo nella forma canzone ma credo anche che, in certi casi, mi stia un po’ stretta. Allora tento di romperla come meglio posso, restando coerente ai miei ascolti ma anche alle vampe del momento.
Gli autori letterari che citi sono stati fondamentali per la mia formazione; salvo la Campo di cui ho parlato poco fa, Calvino mi ha messa in difficoltà con la sua particolare ed estesa predilezione nei confronti dell’”occhio” a discapito della voce, tema di cui comunque la sua opera tratta. Calvino è il piacere della storia ma anche un punto di svolta critico, per me, mentre gli altri autori sono in prevalenza lirici puri, in prosa e poesia.
La musica cantautorale, il cosiddetto songwriting, è stato il (se si vuole banale) mio incontro con il connubio parola-musica. Eppure, Carmen Consoli, che ora ho abbandonato, mi ha portato a costruire una discussione attorno alla scelta della parola ‘esatta’ sin dall’adolescenza; Rickie Lee Jones mi ha posta di fronte alla difficoltà di interpretazione (questo suo modo di cantare un po’ nasale, sbiascicato, fanciullesco, mi intriga e respinge allo stesso tempo); Joni Mitchell è il mio grande amore per i lyrics folk perfetti, compiuti, mentre Joan As Policewoman la vedo come la figlia americana di Cristina Donà, l’unica vera cantautrice rock che abbiamo in Italia. Tune-Yards, invece, mi ha fatto capire che musica è anche gioco, ritmo, uso di effetti. Mi piacciono molti i suoi arrangiamenti; si vede che ha un senso della tradizione proveniente da differenti culture ed epoche, ma anche la genialità di chi rischia, con dei testi molto intelligenti, e una propensione alla giocosità musicale e della parola insieme, per creare qualcosa di nuovo, inaudito.

© Letteratitudine

LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/10/06/tra-musica-e-poesia-conversazione-con-alessandra-trevisan/feed/ 0
DIBATTITO SU LETTERATURA E MUSICA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/06/25/letteratura-musica/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/06/25/letteratura-musica/#comments Fri, 25 Jun 2010 21:52:21 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2270 imageQuesto post si è trasformato, nel tempo, in uno spazio permanente dedicato al dibattito sul rapporto tra letteratura e musica.
Si discuterà periodicamente su alcuni libri che rientrano nella tematica, coinvolgendo – laddove possibile – i rispettivi autori.
Ringrazio lo scrittore Claudio Morandini (consiglio la lettura di questa intervista sul blog “La poesia e lo spirito”), che mi darà una mano ad animare e moderare la discussione.
Massimo Maugeri
(11 ottobre 2010)

———-

POST ORIGINARIO DEL 25 GIUGNO 2010

letteratura-e-musicaVorrei avviare un nuovo e (spero) interessante dibattito su un tema particolare: il rapporto tra letteratura e musica…

Un rapporto che – a mio avviso – ha origini antichissime: basti pensare alla “musicalità” dei versi poetici o di certi testi narrativi (perché anche un romanzo deve “suonare” nella testa del lettore). Ma non mi riferisco solo a questo.
Mi piacerebbe poter prendere in considerazione, per poi analizzarli, i romanzi che si sono occupati di musica (e viceversa)… che hanno fatto vivere la musica all’interno delle loro pagine.

Di conseguenza, mi pongo (e vi pongo) alcune domande…

Che cosa hanno in comune letteratura e musica?
In cosa si differenziano nettamente?

In quali occasioni la musica è “entrata” nella letteratura (con particolare riferimento alla narrativa)?
Quali titoli di romanzi vi vengono in mente?

E in quali occasioni, viceversa, la musica ha “rappresentato” la letteratura?

Quale romanzo eleggereste come il più rappresentativo del rapporto tra musica e letteratura?

Per partecipare alla discussione inviterò alcuni autori che hanno scritto, di recente, romanzi che in un modo o nell’altro hanno a che fare con la musica.

Primi ospiti di questo forum (che spero possa diventare “permanente”) sono: Marta Morazzoni, Claudio Morandini e Achille Maccapani. Discuteremo dei loro nuovi libri e degli argomenti proposti.
Di seguito, le schede sui suddetti libri… e il contributo di Nicolò Carnimeo sul romanzo della Morazzoni.
Claudio Morandini mi darà una mano ad animare il post.

Mi raccomando… aspetto i vostri contributi.

Massimo Maugeri

————–

Il più recente romanzo di Marta Morazzoni si intitola “La nota segreta“, ed è pubblicato da Longanesi.
Questa, la trama del libro….

Nel monastero di Santa Radegonda, nella Milano del 1736, vive una ragazza dallo straordinario talento musicale. Il suo nome è Paola Pietra, una giovane contessa in clausura per imposizione della sua illustre famiglia. La voce di contralto, scura e potente, è la sua unica ragione di vita; ma la passione per la musica rappresenta una minaccia per la badessa del convento. Oltre la grata, nel corso delle messe cantate, un diplomatico inglese in missione presso l’arciduca d’Austria nota la sua voce e non la dimentica. Nasce così, da una suggestione del canto, da profumi e immagini rubate, l’amore proibito fra la novizia e Sir John Breval, a cui farà seguito la fuga dal convento sino a Venezia e da lì il viaggio della ragazza per nave in un mare pieno di insidie… Romanzo d’amore, romanzo d’avventura, romanzo di rivendicazione femminile, La nota segreta è un fiume narrativo in piena, che scorre fra intrighi e colpi di scena; al centro, un personaggio femminile straordinariamente consapevole e attuale, nel quale l’autrice si confronta e si riflette in un continuo, sorprendente gioco di specchi.

Recensione/ intervista a “La nota segreta” di Marta Morazzoni (Longanesi)
di Nicolò Carnimeo

Una voce unica, inconfondibile, negli acuti dello Stabat Mater lancia un messaggio disperato attraverso le fitte grate del convento di clausura di Santa Redegonda nella Milano del 1736. Colei che canta non conosce a chi sono destinati i suoi sentimenti, eppure nel profondo dell’animo sa che qualcuno è pronto ad accoglierli. Il modo in cui sboccia l’amore tra Paola Pietra monaca di clausura e il nobile inglese John Breval ne “La nota segreta” (Longanesi 2010) di Marta Morazzoni, ha del miracoloso, ma la magia è che ci si crede davvero, come se nell’amore vi sia una componente di predestinazione, più forte di qualunque condizione avversa. Ancor più straordinario è che in ognuno di noi, nascosta sotto coltri di cinismo, c’è ancora la consapevolezza che ciò possa essere reale. La fascinazione del racconto ci ha spinto ad incontrare l’autrice.

Paola Pietra è realmente esistita, come si è imbattuta in questo personaggio? Cosa ha trovato straordinario nel suo carattere?
Ho conosciuto Paola Pietra leggendo il romanzo di Rovani, ma è stato per così dire ritardato l’approccio all’idea di raccontarne la storia. Per molto tempo non me ne sono curata, fin quando il soggetto mi è sembrato di colpo come già formato e scritto, pur scegliendo di modificare e inventare tanti particolari e dettagli e addirittura cose sostanziali, altre dalla storia vera di Paola Pietra. La mia non voleva essere una biografia e non ho condotto studi particolari su questo soggetto. È stato solo il la di un’invenzione.

Quale è il suo rapporto e cosa rappresentano per lei la musica e il canto? Nel romanzo si nota non solo una spiccata sensibilità, ma una conoscenza profonda…
Il mio rapporto con la musica è molto tenace e fa parte della mia storia da quando ero piccola. Del resto lavoro sempre ascoltando musica e per conto mio avrei davvero amato molto saper cantare; quindi nella passione e nella vocalità di Paola e della sua maestra ho messo molto delle mie tensioni e emozioni, della mia idea di voce come strumento dell’anima ma anche del corpo.

Quanto di vero c’è nella storia narrata? Può descrivere come nell’immaginazione di un autore riesce a generarsi un sentimento così particolare capace d’essere portato solo dalle note oltre le grate di un convento?
Di vero nella storia narrata c’è la fuga di Paola e il matrimonio con l’inglese che si è innamorato di lei, nella realtà in altro modo rispetto alla mia invenzione, come è vero e documentato lo scioglimento dei voto da parte della Penitenzieria di Roma. A me è piaciuto inventare una storia che partisse da una sensualità e sensibilità così marcata attraverso aspetti di solito poco considerati, la voce di lei, l’olfatto, il tatto, cose apparentemente minori su cui si costruisce una storia di intensa profondità. Non so se credibili e meno e non mi preoccupo della credibilità dell’incontro che ho immaginato. Sono per altro convinta che certe storie e certe passioni nascano nei modi più inattesi e sfuggano alla razionalità. Paola Pietra mi ha dato il destro di costruire un’ipotesi così apparentemente assurda, ma segnata da una tensione che nasce per entrambi dal loro corpo prima che dalla loro mente.

————-

claudio-morandini-rapsodiaIl più recente romanzo di Claudio Morandini si intitola “Rapsodia su un solo tema. Colloqui con Rafail Dvoinikov” ed è edito da Manni.
Questa, la trama del libro…

Nel 1996 Ethan Prescott, giovane compositore di Philadelphia, si reca più volte in Russia a incontrare l’anziano collega Rafail Dvoinikov, per una lunga intervista che è anche l’omaggio di un discepolo nei confronti di un maestro quasi dimenticato. Il titolo del progetto, Rapsodia su un solo tema, rimanda a una delle partiture più emblematiche di Dvoinikov.
Il vecchio rievoca infanzia e giovinezza, incontri, amori, umiliazioni, con la libertà e il disincanto di chi finalmente non deve più rendere conto a nessuno. La sua musica e le sue parole dimostrano che si può rimanere liberi, come artisti e come uomini, anche sottostando alle direttive di un potere oppressivo.
Schiudendosi come una matrioska, questo romanzo combina tentativi di saggio, pagine di conversazioni e di diario, verbali di interrogatori, trascrizioni da un pamphlet settecentesco, per raccontare di musicisti che parlano di altri musicisti che raccontano di altri musicisti che immaginano la vita di altri musicisti ancora.
In sottofondo, la Storia, spesso dolorosa ed enigmatica, del Novecento.

————-

Bacchetta in levareIl più recente romanzo di Achille Maccapani si intitola Bacchetta in levare (edito da Marco Valerio).
Segue un breve scheda del libro…

Un direttore d’orchestra di fama internazionale, sconvolto da una lacerante crisi personale decide improvvisamente di smettere con la carriera artistica.

Con una serie di colpi di scena che condurranno ad esiti imprevedibili, sarà invece il ritorno sul podio a svelargli la verità che ad ogni costo cercava di rimuovere dalla propria vita. E a riconciliarsi col mondo che lo circonda.

Un romanzo che ci introduce dietro le quinte del mondo della musica sinfonica.

—————-

AGGIORNAMENTO DEL 30 GIUGNO 2010
A proposito del rapporto tra letteratura e musica pop/rock, l’ufficio stampa della Fanucci mi ha segnalato il nuovo libro di Francesco Marchetti (già autore di saggi su Lucio Battisti). Si tratta di un romanzo, intitolato “Perdonami“, i cui protagonisti sono (musicalmente parlando) agli antipodi: Carlo è un giovane rockettaro (amante dei Deep Purple, degli AC/DC e dei Led Zeppelin); Marta, invece, stravede per Tiziano Ferro.
Di seguito, la scheda del libro. Invito Francesco Marchetti a partecipare alla discussione e a parlarci del suo romanzo.
Massimo Maugeri

——-

“Perdonami” di Francesco Marchetti (Fanucci, 2010)

Carlo è un giovane rockettaro, tutto Deep Purple e AC/DC, quello che si autodefinisce “un fan postgenerazionale dei Led Zeppelin”. Ma un giorno incontra Marta, ventitré anni, che ascolta solo Tiziano Ferro e che di musica non sembra affatto un’esperta, e proprio lui, che non pensava di poter ascoltare la musica “commerciale”, pur di conquistare il suo cuore si finge un estimatore del cantante. Con l’aiuto del suo migliore amico comincia a studiare la vita, le canzoni e ogni curiosità reperibile su Tiziano Ferro, e poco a poco fa breccia nel cuore di Marta. E mentre conosce meglio questa ragazza dal fisico perfetto e con una grande passione per lo sport, scopre che dietro l’apparenza c’è qualcosa di più: una storia personale tormentata dalla bulimia e dal difficile rapporto con una madre irraggiungibile e troppo bella. Nel cercare di capire Marta, Carlo finisce per spingersi troppo in là; e per riconquistarla potrà affidarsi solo alla musica che lei ama così tanto… perché “Un rockettaro che ascolta Tiziano Ferro è la fine del mondo”.

———–

AGGIORNAMENTO DEL 14 ottobre 2010

la-musica-e-il-mio-radar-nuzzoloAggiorniamo lo spazio inserendo notizie sul nuovo libro curato da Massimiliano Nuzzolo: “La musica è il mio radar“.
Tra fiction e realtà, diciannove autori famosi e meno famosi, giovani e meno giovani, scrivono di se stessi per rendere omaggio alla musica. Ne emerge un incredibile e variegato universo sonoro, a volte quasi impercettibile, pacifico e di sottofondo, altre volte dirompente e rumoroso, altre ancora divertente, spiazzante, ma sempre lì, a meno di un passo da noi, ben presente come un abbraccio, come un singolare compagno di viaggio dell’esistenza.
Dai dischi in vinile al mitico Walkman degli anni Ottanta, dalla musica come riscatto sociale e mezzo di comunicazione all’attuale processo di globalizzazione sonora e di saturazione del mercato, da Battisti, De Gregori e Tenco a Kurt Cobain e Bob Dylan, ricordi di infanzia, di tempi e luoghi lontani si mescolano in narrazioni oniriche e romantiche tra zarzuela e rock’n’roll.
Diciannove racconti che parlano di musica e di vita e di come la prima sia importante per la seconda, perché capace di legare imprescindibilmente a sé i momenti più indimenticabili dell’esistenza di ogni essere umano.
IVANO BARIANI – RICHARD BLANDFORD – FEDERICA DE PAOLIS – MARCO DI MARCO – RENZO DI RENZO – ELISA GENGHINI – TEO LORINI – ANDREA MALABAILA – IGNACIO MARTÍNEZ DE PISÓN – FEDERICO MOCCIA – RAUL MONTANARI – GIANLUCA MOROZZI – GIULIO MOZZI – PAOLO NORI – MASSIMILIANO NUZZOLO – TOMMASO PINCIO – MARCO ROSSARI – UGO SETTE – MAREK VAN DER JAGT

———-


ELENCO DI AUTORI E LIBRI CITATI NEL CORSO DEL DIBATTITO

Ho pensato che potrebbe essere utile inserire, in coda al post, un elenco aggiornato dei titoli citati nel corso della discussione. A ogni titolo corrisponde un link. Cliccandoci sopra si aprirà una pagina sul libro in questione.
Ringrazio Claudio Morandini che ha predisposto, dietro mia richiesta, l’elenco che segue.
Massimo Maugeri

  • Roberto Russi, “Letteratura e musica” (Carocci, 2005)
  • Thomas Bernhard, “Il soccombente”, Adelphi
  • Luciano Berio,“Lezioni americane” (Einaudi), e “Intervista sulla musica” (Einaudi)
  • Alex Ross “Il resto è rumore” (Bompiani)
  • Colloqui di Stravinskij con Robert Craft, Einaudi, poi Adelphi , le “Cronache della mia vita
  • Tiziano Scarpa “Stabat mater” Einaudi
  • Cristò “Come pescare, cucinare e suonare la trota” (ed. Florestano)
  • Minervini “Incanto classico” (Stilo)
  • Paolina Leopardi “Mozart” Il Notes Magico
  • Guido Conterio (”Città caffè”, “Fosca Bis”, entrambi Mobydick
  • Jean Echenoz “Ravel. Un romanzo”, Adelphi
  • Hélène Grimaud, “Variazioni selvagge” e “Lezioni private” , Bollati Boringhieri
  • Hella Haasse “La pianista e i lupi”, Iperborea
  • Patrizia Bisi “Daimon”, Einaudi
  • Thomas Mann, “Doctor Faustus”, Mondadori
  • Patrizia Rinaldi, “Piano Forte”, Sinnos
  • Bonnefoy “L’alleanza tra la poesia e la musica”, Archinto
  • Cortázar, “ Clone” in “Tanto amore per Glenda”, Guanda
  • Francis Scott Fizgerald, “Il Grande Gatsby
  • Matteo Di Giulio “Quello che brucia non ritorna”, Agenzia X
  • Toni Morrison, “Jazz”, Frassinelli
  • Paolo Maurensig “Canone inverso”, Mondadori
  • Nick Hornby “Alta fedeltà”, “Un ragazzo”, “Tutta un’altra musica”, Guanda
  • Murakami “Norwegian Wood. Tokio Blues”, Einaudi
  • Baricco, ”Novecento” e ”Le mucche del Wisconsin”, Feltrinelli
  • Andrea De Carlo, “Arcodamore”, Bompiani
  • Cecilia Chailly, “Era dell’amore”, Bompiani 1998
  • Renzo Rosso, “La dura Spina”, ISBN
  • Norma Stramucci, Paola Ciarlantini, “Il cielo leggero” Azimut 2008
  • Thomas Mann “Doctor Faustus”, Lev Tolstoi “La sonata a Kreutzer”
  • Thomas Bernhardt, “Il soccombente”, “Perturbamento”, “Ja”, Adelphi
  • Enzo Siciliano “Carta per musica” ,Oscar Mondadori
  • Enzo Siciliano ”I bei momenti”, Mondadori
  • Paola Baratto “Solo pioggia e jazz” e “Saluti dall’esilio”, Manni
  • AA VV “Mina, una forza incantatrice”, Euresis, 1998
  • R. Murray Schafer “Il paesaggio sonoro”, Unicopli/Ricordi 1985
  • Hans Werner Henze “Canti di viaggio”, Il Saggiatore 2005
  • Evan Eisenberg “L’angelo del fonografo”, Instar 1997
  • AA VV “Il silenzio” (a cura di Fabrizio Filiberti), Interlinea
  • AA VV “Dylan revisited – Racconti su Mr. Tambourine”, Manni 2008
  • Davide Sparti, “Suoni inauditi” e “L’ identità incompiuta. Paradossi dell’improvvisazione
  • Guido Michelone, “Mi ricordo il jazz. Guida bibliografica per “sfogliare” la musica
  • afroamericana”, Marcos y Marcos
  • Dino Buzzati, “Il musicista invidioso”, “La notizia”, “Paura alla Scala”, in “Sessanta
  • racconti”, e i libretti “Ferrovia soprelevata” – sic – e “Procedura penale” nei Meridiani Mondadori
  • Dino Buzzati, “Solitudini”, ne “Le notti difficili”, Oscar Mondadori 1971
  • Katò Havas “La paura del pubblico, Cause e rimedi – con particolare riferimento ai violinisti
  • Dino Buzzati, “Un amore”, Mondadori
  • Franco Marcoaldi “Sconcerto”, Bompiani 2010
  • Paola Capriolo “Il pianista muto”, Bompiani 2009
  • Giovanni Iudica “Il principe dei musici”, Sellerio, 2008
  • Giorgio Vigolo “Diabolus in musica – Prose ed elzeviri musicali”, Zandonai 2008.
  • Gert Jonke “La morte di Anton Webern”, Meridiano Zero
  • Antonio Pizzuto “Sinfonia 1923” Mesogea 2005.
  • Antonio Pizzuto “Sinfonia 1927”, Lavieri 2010
]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/06/25/letteratura-musica/feed/ 944
LETTERATURA E MUSICA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/10/letteratura-e-musica/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/10/letteratura-e-musica/#comments Wed, 09 Apr 2008 22:34:48 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/10/letteratura-e-musica/ I testi delle canzoni sono letteratura?

Quand’è che un testo musicale può considerarsi testo letterario a tutti gli effetti?

E ancora… il testo di una canzone può rientrare nell’ambito della cosiddetta grande letteratura?

Queste le domande che pongo nel post di oggi, incentrato sul tema “letteratura e musica”. Un post che pubblico anche a seguito della notizia dell’attribuzione del premio Pulitzer a Bob Dylan.

Come ha scritto Enzo Gentile su “Il Mattino” del 9 aprile: “A questo punto, quando canterà per l’ennesima volta che i «tempi stanno cambiando» ci sarà da dargli ancora ragione. Mentre il Nobel per la letteratura è ancora dietro l’angolo, a Bob Dylan arriva ora uno dei riconoscimenti internazionali più prestigiosi, quel Pulitzer che da 65 anni segnala le eccellenze nel campo del giornalismo e delle arti e che nella sua storia non aveva mai premiato un rocker, esponente di una musica ritenuta in passato barbarica e sovversiva. L’artista di Duluth è stato insignito dell’onorificenza alla carriera con una motivazione secca, che non lascia spazio agli equivoci: «Per il profondo impatto sulla cultura e la musica d’America grazie a composizioni liriche dallo straordinario potere poetico». (…)

I giurati del Pulitzer hanno inteso indicare con Dylan un cardine, una sorta di periscopio della cultura contemporanea, una voce e un testimone senza confini.”

-A proposito di Bob Dylan, vi segnalo che nel 1972
la Newton Compton ha pubblicato per la prima volta in Italia una raccolta di suoi testi, Blues, ballate e canzoni.

Una raccolta – riproposta in edizione economica (a 5 euro) – dove compaiono le tematiche di impegno politico e sociale, di accusa e di disperazione che hanno reso Dylan un’icona del Movimento di contestazione, nonostante egli non vi si identificasse appieno.

Il volume è introdotto dall’esperta di letteratura americana Fernanda Pivano.

Di seguito avrete modo di leggere i contributi di Francesco Di Domenico ed Enrico Gregori, che hanno affrontato – rispettivamente – i temi: “letteratura e musica italiana” e “letteratura e musica straniera”.

Massimo Maugeri

___________

___________

LETTERATURA E MUSICA ITALIANA

di Francesco Di Domenico

dido.JPG

“E’ giunta mezzanotte/ si spengono i rumori si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffé
le strade son deserte/ deserte e silenziose, un’ultima carrozza cigolando se ne và.”

Probabilmente con questa strofa di “Vecchio Frack”, di Domenico Modugno comincia la storia dei cantautori in Italia e la musica comincia ad avere una sua categoria “colta”.Già in Francia molti poeti avevano cantato, e tre su tutti, Brassens, Brel e Leo Ferrè, veri artisti multimediali, avevano fatto diventare questa materia musicale una vera e propria categoria letteraria. Di lì a poco, in Italia, tutta una generazione di musicisti insofferenti, che avevano una proposta non solo melodica ma comprensiva anche di testi poetici e letterari, avrebbero rivoluzionato un certo modo di proporre la musica. Erano quasi tutti di provenienza da studi classici.       

Comincia Modugno che narra in tre minuti, gorgheggiando a modo suo, il racconto di un suicidio, circoscrivendolo in un ambiente da “telefoni bianchi”. E’ un racconto vero o quantomeno il suo explicit. La musica da quel momento può narrare e poetare in senso non volgare, come  era successo fino ad allora, dove i testi erano stati un semplice complemento per usare la voce come strumento, per veicolare il motivo, la melodia. I componimenti dei cantautori cominciano ad essere vere e proprie poesie a versi sciolti o a rima baciata, sovente usando anche la tecnica del Limerick anglosassone, la forma scherzosa e non-sense della poesia,  come ne  “Il Testamento” di De Andrè : “…per quella candida vecchia contessa che non si muove più dal mio letto/ per estirparmi l’insana promessa di riservarle i miei numeri al lotto/ non vedo l’ora di andar fra i dannati per rivelarglieli tutti sbagliati”. Gino Paoli, che canta “Il cielo in una stanza”, sembra rovesciare la tristezza delle stanze leopardiane, con un inno d’amore liberatorio. Veri racconti brevi irrompono nelle sale discografiche “minori”, cantati da scrittori e poeti che vogliono uscire dalla pagina scritta e narrarli accompagnati da chitarre, quando non da intere orchestre. Uno scrittore e poeta straordinario, che addiziona alle sue liriche una musica gradevole e colta appare, giusto come una nuvola barocca, sulla seconda metà del secolo breve: Faber De Andrè: “Benedetto Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da quest’età in poi, ci sono due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. Allora, io mi sono rifugiato prudentemente nella canzone che, in quanto forma d’arte mista, mi consente scappatoie non indifferenti, là dove manca l’esuberanza creativa.” Diceva così Fabrizio De Andrè, dovendo giustificare le insistenze dei giornalisti. Ma l’esuberanza creativa l’avrebbe avuta e come visto l’immensa produzione poetica e l’inserimento in moltissime antologie scolastiche dei suoi brani. Scrivono di tutto i cantanti-autori, persino saggi politici e invettive come Claudio Lolli ne “La piccola borghesia”:   Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia, non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia. Godi quando gli anormali son trattati da criminali/ chiuderesti in un manicomio tutti gli zingari e intellettuali. Ami ordine e disciplina, adori la tua Polizia tranne quando deve indagare su di un bilancio fallimentare. Sai rubare con discrezione meschinità e moderazione alterando bilanci e conti/ fatture e bolle di commissione. Sai mentire con cortesia con cinismo e vigliaccheria hai fatto dell’ipocrisia la tua formula di poesia.   

Francesco Guccini, poeta, scrittore e polemista fine, mette in musica dopo tante storie e racconti un polemico elzeviro contro i giornalisti che lo avevano accusato di imborghesimento: “L’avvelenata”,Una risposta feroce in rima: “Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni, voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni…
Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete, un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate!”

Quindi finanche giornalismo, mettendo alla berlina un personaggio “cult” del tempo, il giornalista Riccardo Bertoncelli.   “Se avessi potuto scegliere tra la vita e la morte, tra la vita e la morte avrei scelto l’America”, ne aveva già recitato tante di poesie, molto ermetiche, quasi montaliane, alcune di una delicatezza estrema (“E guarda l’amore che non ha commenti da fare, l’amore comunque che non ha paura del mare da attraversare.”)

Francesco De Gregori, ma con questa frase inserita nella “Donna cannone” riuscì persino a ragionare di filosofia citando la “non scelta” di Schopenhauer.

Ora, una medievalizzazione del gusto musicale, che cammina di pari passo con un “barbarismo” culturale che sta modificando i rapporti di forza tra comunicazione e letteratura sembra abbia bloccato queste deliziose commistioni; viaggia comunque, spedito e silenzioso come un fiume carsico un grande “raccontatore” che da oltre quarantanni ha narrato storie surreali accompagnato da un piano tanghèro e da un orchestrina jazz: Paolo Conte.

Le sue parole sono entrate nel frasario cult e colto delle generazioni susseguitesi: “Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti” e sull’amore : “Non perderti per niente al mondo lo spettacolo d’arte varia, di uno innamorato di te”.

I suoi racconti ci hanno narrato pezzi d’Italia, storie d’amore; ci hanno fatto vedere film’s d’amore. Se Conte avesse voluto allargare in romanzi scritti le sue ineffabili storie avremmo avuto sicuramente un po’ di letteratura in più.

p.s. ho omesso molti autori validi, ma ho dimenticato, volutamente, un autore che considero sopravvalutato: Luigi Tenco. Non fu un vero poeta, ma un presuntuoso e bravo musicista, che trascinò la sua arroganza culturale fino ad un gesto estremo di narcisismo, il suo personale autoannientamento con il suicidio. Era stato fortunato perché una sua bella melodia aveva fatto da sigla al formidabile sceneggiato su Maigret (“un giorno come un altro”), ma le sue erano belle canzonette, come dice umilmente Bennato, la poesia è altro.

Francesco Di Domenico

___________

 LETTERATURA E MUSICA STRANIERA

di Enrico Gregori

greg.JPG

Oltremanica e oltreoceano i testi delle canzoni (almeno dagli anni 60 in poi) si sono ispirati alla rivendicazione sociale e/o alla trasposizione della realtà in una sorta di “poetica”.
Non credo sia utile, in questa sede, citare i “soliti” Dylan, Coen, Baez o Simon, in quanto autori celeberrimi.Tentiamo di (ri)scoprire chi, per esempio, si affidò a un paroliere quasi suo clone per mettere nero su bianco il suo dolore, il suo disagio, la sua infelicità interrotta solo episodicamente da scorci di gioia.Tim Buckley, per esempio, musicista e cantante pressochè insuperabile, che si affidò sempre al paroliere Larry Beckett. Come nella “Song to the siren” (Canzone alla sirena).

“…Sono confuso come un bimbo appena nato
Sono turbato dalla marea:
Devo fermarmi tra i distruttori?
Devo giacere con la morte mia sposa?
Ascoltami cantare “nuota da me, nuota da me, lasciati dire:
Sono qui, sono qui, aspettando di poterti abbracciare”.
Paradossale la vita di Tim Bucley, morto per eroina dopo che si era disintossicato. Una “una tatum” talmente pura che lo stroncò.
Suo figlio, Jeff, musicista anche lui, morirà annegato. Un’altra coppia padre-figlio accomunata nella morte, esattamente come Bruce e Brandon Lee. 
Ma se intorno a noi c’è solo odio, guerra, distruzione e infelicità. Si può fuggire e ritrovare se stessi.
Una trasposizione quasi metafisica di Peter Hammil e dei suoi “Van der Graaf Generator” nella epocale “Refugees” (Fuggitivi) dove l’Ovest altro non è (forse) che un sogno da raggiungere e coltivare per avere ancora la speranza.

“…..L’Ovest sono Mike e Susie
L’Ovest è dove io amo
 
Là noi passeremo gli ultimi giorni delle nostre vite
Racconteremo le solite vecchie storie
Bene, almeno abbiamo tentato
Andremo verso l’Ovest, con il sorriso sui nostri volti……”

L’infelicità di chi in teoria ha tutto, tranne se stesso.
Nick Drake, autore di tre capolavori ufficiali.
Figlio di un ricco diplomatico inglese, Nick non ha mai voluto rassegnarsi alla vita da figlio di papà.
Un artista enorme e (all’epoca) trascurato.
La sua celebrità, come spesso accade, comincia in un giorno del lontano 1974.
Quando la madre trova Nick, 26 anni, stroncato da un’overdose di tranquillanti.
Oggi Nick Drake significa ristampe, cover, colonne sonore, cult.
L’esatto contrario di ciò che lui (per sfregio) sentiva di essere nei confronti della vita. “Parasite” (Parassita).

 …”E guarda, puoi
vedermi per terra
Perché sono il parassita di questa città
Danzando una giga
in una chiesa con campane
Un segno dei tempi odierni
E non sentendo nessuna campana
da un’altra guglia
La gente tutta in costernazione
Cadendo così in basso su
un cucchiaio d’argento
Prendendo in giro la luna
E cambiando la fune per
una misura troppo piccola
Tutta la gente viene appesa
Guarda e mi vedrai passare
Perché sono il parassita che viaggia in coppia
Quando togli la maschera
a un pagliaccio del luogo
E ti senti già come lui…”

Ascoltare i testi di pezzi americani o inglesi è stata sempre un’arma a doppio taglio.
Magari ci si è innamorati di una musica senza accorgersi che il testo fosse di una banalità sconcertante.
O, più spesso, la stessa bellezza della musica ci ha fatto trascurare le parole.
Qui ho fatto tre esempi, a pioggia, i primi che mi sono venuti in mente tenendo come filo logico il disagio. Ma tanto, volendo, ci sarebbe da scoprire nei testi dei Procol Harum o dei King Crimson, tanto per fare due esempi di gruppi che nelle note di copertina avevano il giusto orgoglio di inserire tra i componenti del gruppo a tutti gli effetti Keith Reid (Procolo Harum) e Pete Sinfield (King Crimson)
Il loro “strumento?”. “Words”… parole.
Per chi vuole “leggere” oltre che ascoltare.

 Enrico Gregori

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/04/10/letteratura-e-musica/feed/ 169