LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Lindquist http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 REMARE SENZA REMI. UN LIBRO SULLA VITA E SULLA MORTE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/17/remare-senza-remi-un-libro-sulla-vita-e-sulla-morte/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/17/remare-senza-remi-un-libro-sulla-vita-e-sulla-morte/#comments Sun, 16 Mar 2008 23:32:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/17/remare-senza-remi-un-libro-sulla-vita-e-sulla-morte/ Quando Chiara Tiveron, dell’ufficio stampa Marsilio, mi accennò all’uscita di questo libro, io dissi: sì, ne parlerò sul blog.
Il libro si intitola: “Remare senza remi” (Marsilio, 2008, pagg. 203, euro 15), l’autrice è Ulla-Carin Lindquist. Il sottotitolo è Un libro sulla vita e sulla morte.
Per certi versi torniamo all’argomento già trattato nel post letteratura e malattia, letteratura e morte.
Ora, voi potrete dire (e con ragione): ma che vuoi da noi?
Perché ci devi tediare con argomenti simili?
(Sono quasi certo che qualcuno lo farà).
Vi spiego. Non so se vi capita, ma – a volte – ho come l’impressione di vivere nel mezzo di una corsa… una corsa senza meta.

Vi capita?

Chi si ferma è perduto: lo disse anche Totò. Vero. Ma ogni tanto credo che fermarsi sia salutare. E libri come questo, in tal senso, possono essere d’aiuto.
Questo, almeno, è ciò che io penso.
Olivier Sacks, autore di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello ha definito il libro della Lindquist “emozionante, bellissimo, terribile e allo stesso tempo rassicurante.”
Secondo il Financial Times “la Lindquist scopre – e mostra con eleganza – come la mortalità e la gioia possono essere collegate”. Per The Daily Mail “nel trascrivere le sue impressioni sulla morte imminente, l’eredità della Lindquist è un inno alla vita.”
Per Il Foglio “Remare senza remi è una magnifica e umana risposta all’idea dell’eutanasia.”
Di seguito vi presenterò Ulla-Carin Lindquist. E poi riporterò (e ringrazio Marsilio per aver concesso l’autorizzazione) alcuni estratti del libro.
Vorrei che li leggeste e che scriveste qui – se vi va – le vostre impressioni (sul libro, sul tema), magari anche contraddicendo le motivazioni che mi hanno spinto a scrivere questo post.
Insomma, utilizzate questo spazio… come pagina bianca (giusto per citare il mio amico Pasquale).

Massimo Maugeri

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Ulla-Carin Lindquist (nella foto in basso), la più importante giornalista televisiva svedese, ha cominciato ad avvertire i primi sintomi della malattia il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Da quel momento la sua vita è cambiata e presto la diagnosi è diventata terribilmente chiara: sclerosi laterale amiotrofica (SLA), la peggiore tra tutte le malattie neurologiche. Non esiste una cura, non c’è miglioramento e la morte avviene rapidamente.
Remare senza remi è stato scritto durante questo breve periodo di malattia. Ulla-Carin racconta la sua esperienza faccia a faccia con la morte. Descrive i momenti ordinari come gli incontri con i medici, le conversazioni con le figlie che studiano al college, i pomeriggi passati con il marito e i due bambini più piccoli, ma anche quelli straordinari come il doloroso declino delle sue abilità fisiche.
Una storia commovente scritta da una donna coraggiosa che lotta con la morte incombente, e ci illumina sulla condizione fondamentale dell’essere umani: esistere, e sapere che non è per sempre.
Un libro indimenticabile che esplora il terrore, l’imbarazzo e il dolore della malattia e contemporaneamente affronta i temi universali della vita, della morte, dell’amore e dell’importanza della famiglia.

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Estratti dal libro “Remare senza remi” (Marsilio, 2008, pagg. 203, euro 15)

Questo è il mio debutto e il mio finale.
E si riferisce al mio finale.
Non si tratta di un libro di ricordi nel vero senso del termine. È più un diario che riporta pensieri e tuffi nella memoria. E anche diverse interviste e osservazioni di fatti.
“Nel mezzo della mia vita” sono stata invasa da una malattia poco comune, SLA, “sclerosi laterale amiotrofica”.
È una malattia che si sviluppa rapidamente e aggressivamente. Esiste un unico esito: la morte. Nessuna cura. Nessun miglioramento.
Cosa succede a un essere umano in questo caso?
Un anno fa lavoravo a tempo pieno come reporter per la tv. Oggi non sono più in grado di mangiare, di camminare o di lavarmi da sola.
Provo un profondo senso di dolore per tutto quello a cui non potrò assistere. E ancora di più perché presto dovrò lasciare i miei quattro figli.
Allo stesso tempo provo una grande gioia e mi sento fortunata per tutto quello che accade in questo momento.
Ogni giorno, la mia casa si riempie di risate.
Sembra strano?
Kråkudden, gennaio 2004

[…]

Cosa ho fatto di male per essere colpita da una malattia incurabile? Perché sono punita?
Dopo la diagnosi, provo un senso di vergogna. Per me le cose sono andate troppo bene. E non ho dimostrato sufficiente gratitudine. Esiste ancora un legame fra la malattia e il castigo per i peccati.
La parola inglese per dolore è “pain”, deriva dal greco “poinè” che significa castigo.
Credo profondamente che si debba essere puniti.
E tutto va bene se si è gentili, con le guance rosa e non si calpesta il pane.
«L’essere umano deve essere felice e buono in attesa della morte». Questa frase ricamata e incorniciata era appesa alla parete della cucina della mia bisnonna.
A chi non ho dimostrato abbastanza gratitudine?

[…]

Le parole rimangono impigliate nel naso. È come se si fosse formata una sporgenza di gomma. Come se il velo del palato si fosse afflosciato. La lingua ha un aspetto un po’ villoso e la punta non vuole più allungarsi come un serpente. Invece, lì c’è una piccola fossa di serpenti. Sono gli spasmi nervosi sulla lingua. E la bocca bofonchia nasalmente suoni incomprensibili.
È come un disco che gira alla velocità sbagliata. La SLA mi ha privata delle mie parole parlate. La mia voce. L’attrezzo del mio lavoro. Oggi nessuno ha sentito quello che ho detto. Rabbia.
Nella mia testa, le parole sono più chiare che mai. Sento la mia voce, la mia voce vera dentro di me. Una voce melodica e un’intonazione che sono state una parte importante del mio lavoro. Ma poi la voce passa attraverso la laringe, il filtro della SLA, ed esce soltanto un suono. Come un asino che raglia.
La SLA mi ha già sottratto la mano destra. Resta a riposo per l’eternità. Bluastra come un filetto di manzo ben frollato. Nella sinistra, tre dita riescono a muoversi sulla tastiera del computer. Ma sono rigide e l’acido lattico si forma rapidamente.
«Avresti potuto darmi due gambe paralizzate, invece!»
«Buon Dio, sii gentile con le mie tre dita e la mia lingua.»
La SLA è una risata sardonica e maligna.

[…]

Avere il tempo di qualcuno. Che qualcuno mi dia il suo tempo.
È un dono così grande, così enorme.
Un collega è venuto e mi legge un romanzo con una bella voce. È seduto sul letto dove sono distesa mentre il cibo viene pompato nel mio stomaco. C’è una candela accesa e io vorrei che il romanzo non finisse mai. Un altro collega mi chiede se può venire in compagnia di un’amica. «Ti farà bene incontrarla.»
Ho la possibilità di conoscere una donna con una grande esperienza della vita. Ho letto due dei suoi libri e ne sono rimasta affascinata. Adesso è seduta qui con me e io le prometto di comprare una macchina per il caffè espresso per la sua prossima visita.
(…)
Parla di due vie diverse da seguire: la paura e l’amore. Mi dico che forse è stato così che ho pensato quando ho deciso di non cedere all’amarezza, non lasciare che la malattia corrodesse i miei pensieri. Quando ho deciso di vivere giorno per giorno.
Parliamo di assaporare il buio, vederlo, toccarlo. Il buio è reale, ma non è tutto.
«Posso essere nel buio, ma non sono al centro del buio. Io sono molto di più» mi dice. «Io so che c’è altro; posso ritrovare un profondo senso di accettazione e posso aprirmi per il presente e per l’amore.»
Così mi dice Anita Goldman, che sta bevendo il mio caffè, e io penso le stesse cose.
Sta scrivendo un libro su Etty, una donna che è stata assassinata ad Auschwitz. Nel suo diario, Etty ha scritto:
Soffrire non è al di sotto della dignità umana. Quello che voglio dire è che si può soffrire con dignità umana e senza dignità umana. Quello che voglio dire è che gli occidentali non capiscono la capacità di chi soffre e invece si lasciano prendere da mille diversi tipi di angoscia.
[...] Dobbiamo accettare che la morte è parte della vita, anche la morte più orrenda. E non viviamo forse ogni giorno una vita completa, e quale importanza può avere se viviamo qualche giorno di più o di meno?

[…]

L’alba, il giorno prima della vigilia di Natale del 2003, sono sorpresa. La condensa fra i doppi vetri è gelata e attraverso i fiori di ghiaccio vedo i vapori del gelo levarsi dal mare.
È così straordinariamente bello.
Il cielo è colorato di rosa e porpora, e questa e quella stella risplendono ancora vagamente. Quando il sole si alza al di sopra della foresta di pini si forma un arcobaleno e i gabbiani sembrano più bianchi del solito.
Sono nuovamente a casa dopo quattro giorni nell’ospizio, una clinica per i malati terminali. La degenza media è di venti giorni. Metà dei pazienti muoiono lì.
«Posso vedere la camera ardente?» chiedo quando l’irrequietezza mi coglie.
Un po’ sorpresa, l’infermiera mi spinge in una stanza con una sorgente gorgogliante. Le pareti sono gialle, su una le nuvole sono dipinte con i colori della terra.
In un angolo c’è un angelo. Il pavimento è di piastrelle di terracotta e io sono convinta che sotto c’è un pozzo che mi fa ricordare la culla dove mio fratello, io e tutti i nostri bambini sono stati adagiati.
Però è molto più lungo. E senza fondo.
La stanza è tappezzata con un tessuto scuro, color ruggine, che arriva fino al pavimento. Mi fa pensare al mio nonno paterno e a quando mangiavo caramelle ai lamponi da lui invece di andare alle lezioni di piano da Anna Palmér in Nya Kyrkogatan a Kristinehamn.
Ancora oggi non sono brava a suonare il pianoforte.
Quando l’immagine di mio nonno che è morto si ritira, riesco a dire con voce nasale: «Perché?»
«Ti stai chiedendo perché è così piccola? Non c’è un letto. C’è posto per una bara.»
La stanza ha tre porte. Una è quella da dove siamo entrate, la seconda porta a una cella frigorifera e la terza a una rampa speciale all’esterno.
Ho difficoltà a calmare il pianto. C’è così tanto – così tanti – nella stanza. E lo spazio per la bara mi ha spaventata.
Ma sono felice di averla vista, la camera ardente.
La clinica è molto bella e mi ha fatta sentire gravemente malata. Cosa che di per sé è una realtà da molto tempo. Eppure, quando sono a casa posso dimenticare quei brevi momenti.
Il Natale è arrivato, e un anno fa quando cercavo di fare i pacchi maldestramente lo spettro mi aveva detto che era il mio ultimo Natale.
Si era sbagliato.
Le mie figlie e i miei figli mi sono vicini. Adesso sappiamo che è una cosa seria. Averli qua, pelle contro pelle, mi rende così felice che non ho bisogno di provare gioia.
I miei quattro figli, mio marito, Mimmi, suo figlio Hugo e io celebriamo il Natale insieme. Il tavolo natalizio è imbandito con aringhe marinate, prosciutto al forno, janssons frestelse, salmone, cavolo rosso, cavolo bianco, ravizzone, salsicce, polpette di carne, stoccafisso in umido, crêpe allo zafferano e sgocciolatura di arrosto che soltanto mia suocera assaggia. La stanza è piena di piccoli Babbo Natale e io sento l’odore del cumino, del melograno e dell’assenzio.
«Non capisco come tu faccia a rimanere seduta a tavola senza avere neppure la possibilità di assaggiare qualcosa» dice Mimmi.
Può sembrare strano, ma mi fa bene. Assaporo gli odori e ricordo le polpette speciali della mia infanzia preparate dalla cuoca della nonna paterna, con carne di vitello tritata e panna acida. Ricordo il prosciutto di Natale che veniva marinato con un misto di sale, zucchero, salnitro, peperoncini spagnoli, zenzero, lauro, cipolle rosse e pepe già alla prima domenica di Avvento per poi essere cotto alla vigilia di Natale. Bastava fino all’Epifania, e quando si formava un leggero strato scuro lo si rimetteva nel forno e lo si considerava nuovamente fresco.
Così allora. Adesso allacciamo un nastro di seta rosso intorno al tubo sterile della mia sterile soluzione nutritiva, e adorniamo con ghirlande argentate lo strumento.
Sono due mesi che non mangio un pasto normale, che non bevo. Il minimo sorso d’acqua finisce nel posto sbagliato. Ho problemi a inghiottire la mia stessa saliva, e quasi ogni sera l’assistente mi fa un’iniezione di morfina che blocca il muco e la tosse.
Un giorno arriva il pastore che spargerà la terra, mi porta una lanterna e un piccolo albero di Natale che ha ornato con biscotti allo zenzero che ha preparato lei stessa. Quando ci voltiamo, il labrador marrone di Mimmi li ha mangiati. Tutti meno uno.
«Il mio Rufs ha fatto la stessa cosa» mi consola il pastore e poi legge un brano del Vangelo seduta sul bordo del mio letto.
Molti vengono a farmi visita per Natale. È divertente, ma si comportano in modo diverso. Adesso non riesco più a parlare, ed è per questo che alzano la voce e articolano le parole il più chiaramente possibile. Ho perso una parte della mia mimica, e per questo, a volte, i lineamenti del volto sono contorti. Se dico qualcosa, anche se non dovrei, devo fare un tale sforzo da sembrare arrabbiata.
«Perché gridi in quel modo?»
E adesso mi fanno carezze sulle guance oppure, ancora peggio, sulla testa, come a una bambina. Lo detesto. Quella commiserazione con aria di superiorità.
Così lontana dalla compassione e dalla simpatia.
A Natale si può esprimere un desiderio, e io so quello che non posso avere a sufficienza.
Vicinanza, calore, verità e fiducia.
Voglio tanto che ricordiamo insieme cose e avvenimenti.
Non provare pietà per me. Sussurra segreti nel mio orecchio. I tuoi segreti. I nostri.
Lo dico seriamente.
Non sfuggire da me. Non avere paura.
Non è così pericoloso.
Siamo solo io e te.

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Ulla-Carin Lindquist è nata nel 1953 e ha avuto quattro figli, due femmine e due maschietti. Ha iniziato a lavorare nel 1988 come conduttrice a «Rapport», il telegiornale della sera svedese, diventando subito molto popolare. Nel 2000 si è trasferita in Canada con la famiglia ritornando due anni dopo come reporter. Il suo ultimo giorno di lavoro per la televisione svedese è stato nella primavera del 2003. È morta nella sua abitazione in marzo del 2004.
Questo libro è stato un best seller in Svezia, con più di 200.000 copie vendute. È già stato tradotto in: Inghilterra, Stati Uniti, Germania, Francia, Spagna, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Ungheria, Olanda, Polonia, Slovenia, Corea, Cina, Grecia.

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