LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » marsilio http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 MICHELANGELO IN PARNASO di Gandolfo Cascio http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/05/12/michelangelo-in-parnaso-di-gandolfo-cascio/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/05/12/michelangelo-in-parnaso-di-gandolfo-cascio/#comments Tue, 12 May 2020 09:24:05 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8487 Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato al volume “Michelangelo in Parnaso” di Gandolfo Cascio (Marsilio)

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di Massimo Maugeri

Gandolfo Cascio insegna Letteratura italiana e Translation Studies all’università di Utrecht. Si occupa di poetica, ricezione  estetica e filologia digitale. Ha pubblicato Un’idea di letteratura nella «Commedia», Società Editrice Dante Alighieri, 2015; Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori, Marsilio, 2019; Il mestiere della persuasione. Scritti sulla prosa, Giorgio Pozzi Editore, 2019. Per i suoi saggi ha vinto il premio Elsa Morante, il premio Proserpina e il premio G.A. Borgese.

Ho invitato Gandolfo Cascio a discutere del suo volume dedicato alle Rime di Michelangelo: “Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle Rime tra gli scrittori” (Marsilio). A corredo dell’intervista pubblichiamo un paragrafo del libro che riguarda Stendhal.
Michelangelo scrisse le “Rime” per affrontare di petto temi su cui, come artista, non poté esprimersi come voleva, e per farlo scelse una lingua aspra, distante dalla limpidezza del Cinquecento. In genere la critica si è mostrata cauta, sovente scontrosa, verso questo suo “secondo mestiere”; mentre di tutt’altra qualità è stata la ricezione tra gli scrittori che ne intuirono la caratura. Questo volume indaga il rapporto tra diversi autori (Varchi, Aretino, Foscolo, Wordsworth, Stendhal, Mann, Montale, Morante e altri) e i versi buonarrotiani e, attraverso delle severe analisi dei testi, illustra perché Michelangelo occupi nel Parnaso un posto più nobile di quello che la storiografia ha tramandato.

- Gandolfo, quando e perché hai cominciato a interessarti alle Rime di Michelangelo?
Ricordo con una certa nostalgia che durante il primo esame di Letteratura italiana, all’università di Palermo, venni interrogato su Michelangelo poeta. È da quei lontani anni che le Rime continuano a girarmi in testa.
Quello che tuttora mi sorprende è che, nonostante Michelangelo fosse un uomo tutto d’un pezzo, era leggendaria la sua “terribilità”, nei versi pare che abbia potuto trovare lo spazio e il mezzo per esprimere le proprie inquietudini sull’esistenza, sull’amore, su Dio. L’ha fatto con una lingua aspra e difficile, sovente comica e, in non pochi casi, dolcissima, com’è nella rima 98 dove, audace e ardente, allude al nome dell’amato Tommaso de’ Cavalieri, con la consapevolezza che chiunque avrebbe riconosciuto l’amico romano:

maraviglia non è se nudo e solo
resto prigion d’un cavalier armato

Ecco, tutto ciò ha fatto sì che Michelangelo diventasse uno dei “miei” autori, cioè uno di quelli a cui ci si rivolge, sicuri di poterli interpellare per sentirsi dire qualcosa d’inaudito.

- Quando e perché è nata l’idea di questo libro? Quando, cioè, hai ritenuto di dover “rendere giustizia” all’opera poetica di Michelangelo?
Quando presentai il progetto per il dottorato, pensai che quella fosse l’occasione buona per approfondire un tema che, appunto, mi stava a cuore. Da quel momento e per qualche anno, in pratica, ho vissuto con Michelangelo: era il mio primo pensiero al risveglio, di giorno ci lavoravo, andavo a letto con lui. Dopo la conclusione di quel percorso mi persuasi che fosse giudizioso prenderne per un po’ le distanze. In quel periodo mi sono dedicato a un altro mio pensiero fisso: Dante. A un certo punto capii che dovevo ritornare a Michelangelo e, allora, mandai il dattiloscritto a Marsilio che ha una dei più stimati cataloghi di saggistica. Cesare De Michelis mi rispose subito, proponendomi di pubblicare il libro. Mi diede una profonda soddisfazione sapere che un lettore finissimo come lui aveva apprezzato i miei sforzi, e poi ero davvero contento di venire accolto nella collana che aveva pubblicato Giacomo Debenedetti.

- Cosa puoi dirci sull’attività di studio e ricerca propredeutiche alla scrittura del testo? È stata appassionante? Hai incontrato difficoltà?
Dà sempre un piacere particolare iniziare una nuova ricerca. Quello che eccita è l’idea, direi platonica, di poter trovare qualcosa che sta lì ma che rimane nascosta, e che va riportata in superficie; in olandese, ad esempio, ricerca si dice onderzoeken, che significa proprio «cercare sotto». Ti confesso però che il momento più emozionante non è stato, diciamo così, quello della scoperta intellettuale ma uno squisitamente fisico. Mi riferisco al soggiorno fiorentino all’archivio di Casa Buonarroti, dove esaminai i manoscritti lì conservati. Non credo di poterti dire bene l’emozione che ebbi a tenere in mano quelle carte, a osservare quella grafia, i mirabili segni del Divino Michelangelo.
Naturalmente ci sono state anche alcune difficoltà. Michelangelo in Parnaso è uno studio innovativo: nessuno, difatti, s’era ancora occupato della ricezione delle Rime, meno che mai tra gli scrittori. Se il mio punto di riferimento, per quanto inarrivabile, è stato Gianfranco Contini, nello specifico, però, non avevo dei modelli cui rivolgermi. La sfida, perciò, è stata quella d’inventarmi un metodo, di scoprire da me delle strategie per le indagini che volevo portare avanti. Tuttavia, è altrettanto vero che quella medesima situazione di smarrimento iniziale mi ha concesso una gran libertà.

- Proviamo ad approfondire questo punto… Perché la critica, in genere, si è mostrata piuttosto cauta nel riconoscere il valore dell’attività poetica di questo grande genio della pittura?
Be’, il problema forse è stato proprio quello di essere un grande artista, tant’è che giusto quella condizione ha messo in ombra l’attività lirica. Ancora oggi c’è chi sfrutta le poesie per illustrare il suo lavoro di pittore e, soprattutto, di scultore. Questo va bene; ma se si pensa che Michelangelo scrisse più di trecento poesie in cui è abbastanza facile rilevare dei notevoli sviluppi tematici e stilistici, la sua scrittura non solo merita più attenzione ma, soprattutto, le va riconosciuta una dignità sciolta dalle altre attività. Intendo dire che Michelangelo nelle Rime disse altre cose che in pittura o scultura: prima di tutto perché qui non vi è traccia dei desiderata dei committenti; e inoltre tutta personale fu la scelta del come esprimersi, dello stile. Evidentemente, per quanto la parola sia sorella della pittura – per Orazio «ut pictura poesis» – la poesia ha degli strumenti e dei fini tutti suoi di cui Michelangelo volle e poté servirsi.
La negligenza della critica può spiegarsi in diversi modi, a seconda dei periodi. Diciamo che c’è stato il problema della lingua: dove sistemare un poeta del Cinquecento così poco petrarchesco? Poi c’è stata la spinosa questione amorosa; e, non meno grave, quella di una religiosità vissuta con contezza in un momento di gravi tensioni spirituali. Anche i nostri contemporanei, in primis De Sanctis e Croce, evidentemente non ancora affrancati dai pesanti pregiudizi, non riuscirono a capire le Rime né furono in grado di sistemare il loro autore all’interno della nostra tradizione. Dagli anni Sessanta, invece, molto ha iniziato a cambiare e si è preso a studiare questa raccolta con più serenità.

- A differenza dei critici, gli scrittori hanno dimostrato maggiore apertura e apprezzamento per i versi di Michelangelo. E buona parte del tuo lavoro è incentrato proprio su questo aspetto. C’è qualcosa che accomuna tali “apprezzamenti”?
imageA me non interessa la questione della ricezione, perlomeno quando viene intesa esclusivamente come la disciplina che si focalizza sul lettore comune, o, se si vuole usare un certo gergo, sul pubblico. Al contrario, mi seduce proprio la categoria di lettori non comuni, in particolare quella degli scrittori. Tra di loro, si sa, si leggono, si invidiano e si copiano. Tali dinamiche mi intrigano per due motivi: prima di tutto perché provare a scoprire questi rimandi, citazioni, le imitazioni più o meno palesi mi permette di concentrarmi sui testi che, sono convinto, devono restare l’oggetto principale degli studi letterari; ma anche perché osservando queste relazioni ho come avuto l’impressione di umanizzare qualcosa che altrimenti avrebbe rischiato di fermarsi allo stato di erudizione.
C’è poi da tenere a mente che uno scrittore ha altri obblighi, e magari privilegi, rispetto al critico, e potrebbe avere una diversa sensibilità: penso a Varchi, Stendhal o Montale che grazie alla loro indole poterono comprendere Michelangelo prima e meglio dei critici di professione.
Mi auguro che ciò spieghi pure il titolo del libro, dato che il mio intento non era quello di riconoscere a Michelangelo un posto tra gli abitanti del Parnaso, fatto che ormai non viene più messo in discussione, quanto quello di definirne con più chiarezza il suo ruolo di compagno in quelle che ho definito «conversazioni tra scrittori».

- Tra gli “approcci critici” dei vari scrittori di cui ti sei occupato in relazione alla poesia di Michelangelo, quali sono quelli che ti hanno colpito di più?
Alcuni si sono occupati delle Rime come critici: penso a Foscolo, Ungaretti, Testori; altri, Campana, Morante, Gadda si sono lasciati incantare da quei versi e li hanno fatti propri; mentre molti stranieri, e basti nominare Wordsworth, lo hanno tradotto. Per quanto questi casi siano tutti interessanti, dal mio punto di vista quelli che attraggono con più forza risultano quelli in cui Michelangelo è stato ripreso creativamente, perché è proprio lì che si nota come i rapporti tra scrittori non vengono intralciati dalle lontananze, di spazio o di tempo. A Un campione utile per intendere quello che dico è l’episodio che coinvolge Patrizia Valduga: non solo perché il calco da Michelangelo è evidentissimo, ma perché altrove la poetessa lo stronca:

MICHELANGELO (247 e 102)                                    VALDUGA (La tentazione)

Caro m’è ’l sonno, e più l’esser di sasso,                 In questa maledetta notte oscura

mentre che ’l danno e la vergogna dura;             con una tentazione fui assalita

*                                                                                       Che ancora in cuore la vergogna dura

O notte, o dolce tempo, benché nero [...]

«Amica mia piccola, benché nero

a te paia ed eterno questo tempo

- In conclusione di questa nostra “chiacchierata”, ti chiedo di scegliere alcuni versi di Michelangelo che ritieni particolarmente rappresentativi della sua attività poetica e di “offrirli” ai nostri lettori…
Prima di risponderti vorrei ringraziarti di cuore per la chiacchierata e per questa bella domanda.
In verità sono tanti i versi che mi porto dentro. Qui ti cito la rima 7, non perché sia la più bella o celebre, ma perché è da qui che, in quegli anni ormai lontani che ho rammentato, iniziò la mia confidenza con Michelangelo:

Chi è quel che per forza a te mi mena,
oilmè, oilmè, oilmè,

legato e stretto, e son libero e sciolto?
Se tu incateni altrui senza catena,
e senza mane o braccia m’hai raccolto,
chi mi difenderà dal tuo bel volto?

- Grazie mille, caro Gandolfo. Di seguito pubblichiamo il paragrafo che riguarda Stendhal. Complimenti e in bocca al lupo per questo libro e per i tuoi futuri progetti.

* * *

Stendhal (pp. 74-77)

Alberto Moravia, da viaggiatore esperto, commentò la guida artistica di Roma (1829) di Stendhal, riuscendo a superare la retorica romantica e i più adoperati stereotipi letterari legati al Grand Tour:

Le promenades dans Rome hanno un titolo molto preciso: sono infatti proprio passeggiate durante le quali Stendhal fornisce una descrizione minuziosa e svagata, esauriente e capricciosa, della capitale degli Stati Pontifici, ad uso degli «happy fews» francesi che la visiteranno dopo di lui[1].

Il francese, proprio per merito della singolare attenzione al dettaglio, s’impose come campione per il turista colto. Questa sua virtù lo avrebbe portato a scovare le poesie michelangiolesche e ad andare oltre ai tanti, e imprescindibili, riferimenti all’artista e al suo coinvolgimento nella Roma papalina. Tanto interesse portò Stendhal a citarlo «con incessante ripetizione, segno di affinità segrete, soggetto mitico, riflesso di un passato grandioso che suscita profonde emozioni»[2]. Tra i diversi discorsi, un posto di rilievo spetta al capitolo la Vie de Michel-Ange, incluso nel settimo volume de l’Histoire de la peinture en Italie (1817), basato in gran parte sulle biografie di Vasari e Condivi[3].

C’è poi la recente scoperta di un «manoscritto inedito [...] rintracciato e identificato in una piccola raccolta privata»[4], pubblicato nel 1995. Il titolo, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, è editoriale ed è stato ripreso dall’ultimo verso della sestina n. 7. Stendhal mise in bocca questa battuta a Michelangelo – in italiano nel testo – nel momento in cui incontrò Cavalieri[5]. L’invenzione letteraria non concorda con la filologia, visto che questa rima è tra i primissimi scritti (± 1506), dunque antecedente, e di molto, all’incontro con il nobile romano, avvenuto nel 1532. Tuttavia la scelta è assai affascinate, perché fa capire bene come la ricezione creativa permetta azioni che in altra sede sarebbero considerate illecite e che invece in un testo d’arte risulta efficace ai fini della fabula.

Nel volumetto (formato 12×17 cm. con testo a fronte) la versione in francese consta di sole 13 pagine, incluse le note a margine; è datato «22 giugno [1832], Mero» (che è Roma) e la scrittura, così avverte il traduttore, interruppe i Soeuvenirs d’égotisme, iniziati solo due giorni prima. Evidentemente un’urgenza, uno spasimo forse, aveva spinto lo scrittore a intraprendere questo progetto; ciononostante, già il giorno dopo l’abbandonò per lasciarlo, michelangiolescamente, incompiuto. L’occasione narrativa fu squisitamente stendhaliana: lo scrittore, impegnato con una missiva dell’amante che aveva disertato un incontro, è distratto dalla cameriera che, senza una ragione, gli comunica l’orgoglio che prova a «lavorare nel palazzo dei Cavalieri» e che queste dove lui alloggia assieme all’amico Abraham Constantin «erano proprio le stanze di don Tommaso, il bellissimo padrone»[6]. La coincidenza diviene il pretesto per poter parlare della relazione di Michelangelo con Tommaso così com’è data nelle Rime. Ecco bell’e pronto il setting; l’azione segue: Stendhal si precipitò a recuperare il libro in biblioteca. Negli scaffali ne trovò uno in italiano[7] e un altro in francese[8] che riportano la lezione del 1623, quella rivista e integrata. Ciò però non compromise l’affezione che legava il romanziere al poeta, anzi parrebbe che le alterazioni baroccheggianti non abbiano leso il centro del corpus. Stendhal effettivamente doveva avere consapevolezza dell’edizione, visto che si soffermò sul lavoro del traduttore con sicurezza: «un certo Varcollier traduce l’intraducibile ma ha il buon senso di mantenere il testo a fronte»[9]. L’affermazione mette in evidenza come l’originale presenti delle particolarità che la traduzione avrebbe svilito. Il testo a fronte permette dunque di confrontare la traduzione e di esaminarlo con più diligenza. Stendhal informa inoltre del modo in cui venne in contatto con la lirica michelangiolesca e in una nota a margine riconosce l’importanza dell’esperienza con l’esclamativo:

Quando una decina di anni fa iniziai la mia collaborazione al N.[ew] Mon[thly] Mag[azi]ne ricordo di aver ricevuto un numero della rivista con un interesante articolo di F.[osco]lo. Scoprii così la poesia di Miche[langelo]. Che rivelazione![10]

Questi sono gli antecedenti che riferiscono quando e come Stendhal fosse arrivato alle Rime, e quale attaccamento, anche fisico, egli provasse nella lettura, considerato che arrivò a esclamare: «Cerco di non vedere le sottolineature; in realtà mi disturbano, come se il libro fosse mio». Il seguito del racconto “non finito”, continua con una trama che porta Michelangelo a incontrare Cavalieri e poi a reincontrarsi, dopo lo spasimo da parte del Vecchio, nello studio di Macel de’ Corvi. Qui si intrecciano motivi storici (con dei riferimenti al pontificato), etici (le differenze sociali e d’età tra i due), ma sommamente estetici (il ritratto su carta di Michelangelo) e filosofici, con il richiamo all’«amor platonique»[11]. Ciò viene spiegato con i ripetuti rimandi al senso della vista e lessicalmente all’uso della parola «occhi»[12], il mezzo per la conoscenza: «Questo ragazzo che fino a poco fa non cercava che il piacere degli occhi, saprà guardare con l’intelletto»[13]. Il racconto dunque riesce a rappresentare Michelangelo davanti alla concretezza della sua ispirazione, almeno per quanto riguarda le poesie per Cavalieri. Questo realismo conviene alla figura dello scrittore, ma lascia intravedere un eccesso di romantica leziosità quando Stendhal evidenzia che la perfezione di Cavalieri sta proprio nell’imperfezione del «naso imperioso»[14]. Una chiosa estetica che combacia con buona parte parte della critica ottocentesca che in queste rime vide la belleza più profonda proprio nella loro imperfezione, come la raffigurazione di chi sa ribellarsi alla morale borghese.

Stendhal illuminò le Rime definendole «fra le più ispirate di tutto il Cinquecento»[15], e ci diede il polso della situazione del suo tempo. Il giudizio, che conciliò l’incompiutezza formale con il valore della Poesia, è quello che la critica postcrociana prediligerà. Rimane tuttavia un dubbio, e cioè che l’imperfezione che egli sentì non fosse cagionata dai ritocchi secenteschi.


[1] A. Moravia, Passeggiate romane, in Moravia e Roma, a cura di L. Basili, catalogo della mostra: Roma, Museo di Roma in Trastevere, 22 novembre 2003-22 febbraio 2004, Roma, numero speciale dei «Quaderni» del Fondo Alberto Moravia,  novembre 2003, p. 61.

[2] A. Bottacin in Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, scoperto e tradotto da C. Vivari, postfazione di A. Bottacin, Milano, La Vita Felice, 1995, p. 53.

[3] Stendhal, Hìstoire de la peinture en Italie, Paris, Levy, 1854, VII, pp. 294-407.

[4] Vivari in Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, cit., p. 9.

[5] Ibid., p. 26.

[6] Ibid., p. 21.

[7] Rime di Michelagnolo Buonarroti il Vecchio con una Lezione di Benedetto Varchi e due di Mario Guiducci sopra di esse, Firenze, Manni, 1726.

[8] Poésies de Michel-Ange Buonarroti, peintre, sculpteur et architecte florentin, traduites de l’italien, avec le texte en regard et accompagnées de notes littéraires et historiques, par M.A. Varcollier, Paris, Hesse, 1826.

[9] Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, cit., p. 25.

[10] Ibid., p. 23, nota a margine.

[11] Ibid., p. 38.

[12] Ricordo che l’idea che l’amore passasse prima attraverso la vista è, sì, ampliamente integrata nella dottrina ficiniana e propagata in modo ampio dai neoplatonici, ma in ambito poetico una concezione di questo tipo è già partecipata nella Scuola siciliana, ed è Giacomo Da Lentini a dirlo nel sonetto XXII: «Or come pote sì gran donna entrare | per gli ochi mei che sì piccioli sone? | e nel mio core come pote stare, | che ’nentr’esso la porto là onque i’ vone? || Lo loco là onde entra già non pare, | ond’io gran meraviglia me ne dòne; | ma voglio lei a lumera asomigliare, | e gli ochi mei al vetro ove si pone. || Lo foco inchiuso, poi passa difore | lo suo lostrore, sanza far rotura: | Così per gli ochi mi pass’a lo core, || no la persona, ma la sua figura. | Rinovellare mi voglio d’amore, | poi porto insegna di tal crïatura.».

[13] Stendhal, Chi mi difenderà dal tuo bel volto?, cit., p. 39.

[14] Ibid., p. 33.

[15] Ibid.

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GIUSEPPE LUPO con “Breve storia del mio silenzio” (Marsilio) in radio a LETTERATITUDINE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/04/09/giuseppe-lupo-con-breve-storia-del-mio-silenzio-marsilio-in-radio-a-letteratitudine/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/04/09/giuseppe-lupo-con-breve-storia-del-mio-silenzio-marsilio-in-radio-a-letteratitudine/#comments Thu, 09 Apr 2020 16:30:50 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8455 GIUSEPPE LUPO con “Breve storia del mio silenzio” (Marsilio), ospite del programma radiofonico Letteratitudine trasmesso su RADIO POLIS (la radio delle buone notizie)

In streaming e in podcast su RADIO POLIS

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e postproduzione: Federico Marin

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Ospite della puntata: Giuseppe Lupo con cui abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato Breve storia del mio silenzio” (Marsilio), candidato al Premio Strega 2020.

Come nasce “Breve storia del mio silenzio”? Perché hai scelto di citare in epigrafe questa frase di Canetti (“Chi ha troppe parole non può che essere solo”)? Parlaci di te stesso, del bambino di quattro anni che rievochi nelle pagine di questo libro: cosa puoi dirci di lui? com’è la sua vita a quattro anni? E qual è il suo contesto famigliare? In che modo l’arrivo della sorellina incide sulla sua esistenza? Fino a che punto il ricordo di quei primi anni della tua esistenza è davvero nitido? In che modo il tuo rapporto con la parola si è evoluto, nel tempo? Quali sono stati i libri fondamentali per la tua formazione? Come appariva Milano vista dalla Lucania? Come è stato il tuo impatto con Milano quando ti sei trasferito per studiare? Quali differenze hai registrato rispetto alla città che avevi immaginato? Cosa significa scrivere, per Giuseppe Lupo? Ci parleresti del capitolo del libro dedicato a Cesare De Michelis? Questo tuo nuovo libro, “Breve storia del mio silenzio”, che posto occupa nell’ambito della tua poetica? Come si relaziona con gli altri libri che hai scritto e pubblicato? Se dovessi scegliere un brano musicale come possibile colonna sonora di questo tuo nuovo romanzo – nel libro, peraltro, ci sono riferimenti importanti alla musica che hai amato (Claudio Villa, Angelo Branduardi, Little Tony -, quale sceglieresti?

Questo e tanto altro abbiamo chiesto a Giuseppe Lupo nel corso della puntata.

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La scheda del libro: “Breve storia del mio silenzio” di Giuseppe Lupo (Marsilio)

Nella dozzina del Premio Strega 2020 – Finalista del Premio Letterario Corrado Alvaro

Un bimbo che a quattro anni perde l’uso del linguaggio, da un giorno all’altro, alla nascita della sorella. Da quel momento il suo destino cambia, le parole si fanno nemiche, anche se poi, con il passare degli anni, diventeranno i mattoni con cui costruirà la propria identità. “Breve storia del mio silenzio” è il romanzo di un’infanzia vissuta tra giocattoli e macchine da scrivere, di una giovinezza scandita da fughe e ritorni nel luogo dove si è nati, sempre all’insegna di quel controverso rapporto tra rifiuto e desiderio di dire che accompagna la vita del protagonista. Natalia Ginzburg confessava di essersi spesso riproposta di scrivere un libro che racchiudesse il suo passato, e di Lessico famigliare diceva: «Questo è, in parte, quel libro: ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi di quanto abbiamo visto e udito.» Così Giuseppe Lupo – proseguendo, dopo Gli anni del nostro incanto, nell’“invenzione del vero” della propria storia intrecciata a quella del boom economico e culturale italiano – racconta, sempre ironico e sempre affettuoso, dei genitori maestri elementari e di un paese aperto a poeti e artisti, di una Basilicata che da rurale si trasforma in borghese, di una Milano fatta di luci e di libri, di un’Italia che si allontana dagli anni Sessanta e si avvia verso l’epilogo di un Novecento dominato dalla confusione mediatica. E soprattutto racconta, con amore ed esattezza, come un trauma infantile possa trasformarsi in vocazione e quanto le parole siano state la sua casa, anche quando non c’erano.

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Giuseppe Lupo è nato in Lucania (Atella, 1963) e vive in Lombardia, dove insegna letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano e Brescia. Per Marsilio, dopo l’esordio con L’americano di Celenne (2000; Premio Giuseppe Berto, Premio Mondello), ha pubblicato Ballo ad Agropinto (2004), La carovana Zanardelli (2008), L’ultima sposa di Palmira (2011; Premio Selezione Campiello, Premio Vittorini), Viaggiatori di nuvole (2013; Premio Giuseppe Dessì), Atlante immaginario (2014), L’albero di stanze (2015; Premio Alassio-Centolibri) e Gli anni del nostro incanto (2017; Premio Viareggio Rèpaci). È autore di numerosi saggi e collabora alle pagine culturali del Sole 24 Ore e di Avvenire.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e post produzione: Federico Marin

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Colonna sonora della puntata: “La pulce d’acqua”, “Alla fiera dell’Est” e “Cogli la prima mela”: di Angelo Branduardi

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È possibile ascoltare le precedenti puntate radiofoniche di Letteratitudine, cliccando qui.

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LAURA PUGNO con “La metà di bosco” e “In territorio selvaggio” in radio a LETTERATITUDINE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/03/28/laura-pugno-con-la-meta-di-bosco-in-radio-a-letteratitudine/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/03/28/laura-pugno-con-la-meta-di-bosco-in-radio-a-letteratitudine/#comments Thu, 28 Mar 2019 17:32:44 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8116 LAURA PUGNO con “La metà di bosco” (Marsilio) e “In territorio selvaggio” (Nottetempo), ospite del programma radiofonico Letteratitudine trasmesso su RADIO POLIS (la radio delle buone notizie)

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Ospite della puntata: Laura Pugno, con cui abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato La metà di bosco(Marsilio) e  del volume In territorio selvaggio(Nottetempo).

Come nasce “La metà di bosco“? Che tipo d’uomo è Salvo Calvi, il protagonista del romanzo?  Cosa puoi dirci sulla sua situazione famigliare (in relazione alla ex moglie Adele e alla figlia Lili)? Perché Salvo Calvi accetta l’invito, ricevuto da un amico (Kostas), di recarsi sull’isola greca di Halki? Vuoi raccontarci qualcosa su Kostas e sulla sua famiglia? E sui luoghi in cui hai ambientato il romanzo? Ti andrebbe di descriverceli? Cosa puoi dirci su questa ragazza (Cora) che cade in mare e scompare? C’è una relazione tra questo tuo nuovo romanzo (La metà di bosco) e quelli precedenti? Cosa puoi dirci sul tuo rapporto con la scrittura e con la parola? Sei più una scrittrice “metodica” o “estemporanea”? Come nasce e quali tematiche affronta quest’altro tuo nuovo libro uscito per Nottetempo e intitolato “In territorio selvaggio”? A tuo avviso il compito della letteratura (ammesso che sia possibile definirlo e delimitarlo) è più legato alla possibilità di offrire domande o di fornire risposte?

Questo e tanto altro abbiamo chiesto a Laura Pugno nel corso della puntata.

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[Le schede dei libri]

La metà di bosco - Laura Pugno - copertina“La metà di bosco” (Marsilio)

Salvo Calvi, medico dell’Unità del Sonno che paradossalmente soffre d’insonnia, accetta l’invito di un amico sull’isola greca di Halki. Il sole dell’estate sembra placarlo, acquietare il ricordo della moglie e la figlia che ormai non fanno più parte della sua vita. Ma, dopo una gita in barca al vicino isolotto di Krev, una ragazza, Cora, cade in mare e scompare. Viene ritrovata qualche giorno dopo sulla spiaggia. Uccisa con un colpo d’arma da fuoco. Non è però un giallo quello che l’autrice va a costruire: piuttosto un viaggio di iniziazione al lutto insieme doloroso e quieto, disperato e senza sgomento. Con La metà di bosco Laura Pugno conferma il suo talento nel raccontare, con fredda dolcezza e limpidità allucinata, storie al limite: se nella Ragazza selvaggia e nell’ormai classico Sirene il confine era quello tra l’umano e l’animale, qui a essere esplorata è la variante angelo: una fantasmale, ma amica, sovraumanità.

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In territorio selvaggio - Laura Pugno - copertinaIn territorio selvaggio – Corpo, romanzo, comunità (Nottetempo)

Cosa chiediamo ancora a un libro, noi lettrici e lettori? Vogliamo solo, come recita un mantra editoriale raccolto dallo scrittore e scout Giulio Mozzi, che sia “lineare, ben scritto, con un/a protagonista in cui ci si possa identificare senza indugi, che affronti difficoltà che fanno parte dell’esperienza quotidiana, e che contenga alla fine un messaggio di conforto”? O i libri possono essere ancora per noi guide verso un territorio selvaggio? Chiediamo ai nostri romanzi (e a noi stessi) di essere solo giardini? Tagliamo fuori tutto ciò che è bosco, perdersi, fare esperienza dell’oltre? In questo quaderno di appunti, che segue liberamente l’andamento delle idee che si cercano e si rispondono, Laura Pugno, autrice de La ragazza selvaggia (finalista Premio Campiello 2017), cerca di rispondere a queste domande, e lo fa partendo dal corpo, dalla sua lingua incapace di mentire.

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Laura Pugno è nata a Roma. Ha pubblicato la raccolta di racconti Sleepwalking (Sironi 2002) e i romanzi Quando verrai (minimum fax 2009), Antartide (minimum fax 2011), La caccia (Ponte alle Grazie 2012), La ragazza selvaggia (Marsilio 2016, Premio Selezione Campiello 2017) e Sirene (Marsilio, 2017). In poesia: Il colore oro (Le Lettere 2007), La mente paesaggio (Perrone 2010), Bianco (Nottetempo 2016) e I diecimila giorni: Poesie scelte 1991-2016 (Feltrinelli Zoom 2016); è inoltre inclusa nell’antologia einaudiana Nuovi poeti italiani 6 (2012). Oggi dirige l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e post produzione: Federico Marin

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La colonna sonora della puntata: “Quando Una Stella Muore” di Giorgia; “Hang” di Francesco Agnello; “Gocce di memoria” di Giorgia.

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GIUSEPPE LUPO con “Gli anni del nostro incanto” (Marsilio) e Fulvia Toscano (direttrice di Naxoslegge) in radio a LETTERATITUDINE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/08/21/in-radio-con-giuseppe-lupo-e-fulvia-toscano/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/08/21/in-radio-con-giuseppe-lupo-e-fulvia-toscano/#comments Tue, 21 Aug 2018 17:15:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7898 GIUSEPPE LUPO con “Gli anni del nostro incanto” (Marsilio) e Fulvia Toscano (direttrice di Naxoslegge), ospiti del programma radiofonico Letteratitudine trasmesso su RADIO POLIS (la radio delle buone notizie)

In streaming e in podcast su RADIO POLIS

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e postproduzione: Federico Marin

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Ospiti della puntata: Giuseppe Lupo, autore di “Gli anni del nostro incanto” (Marsilio) e Fulvia Toscano, direttrice di Naxoslegge

Nella prima parte della puntata abbiamo incontrato lo scrittore Giuseppe Lupo per discutere del suo nuovo romanzo intitolato “Gli anni del nostro incanto” (Marsilio).
[Il 31 agosto 2018, nell'ambito del Festival letterario e culturale Naxoslegge, Giuseppe Lupo riceverà il Premio Promotori della Lettura 2018.]

Nella seconda parte della puntata abbiamo incontrato Fulvia Toscano per discutere dell’edizione 2018 di Naxoslegge e del Premio ai Promotori della Lettura.

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Di seguito, la scheda del romanzo di Giuseppe Lupo: “Gli anni del nostro incanto” (Marsilio)

Una domenica di aprile, una Vespa, a Milano, negli anni Sessanta: un padre operaio, una madre parrucchiera, un figlio di sei anni e una bimba che non ne ha ancora compiuto uno. Vengono dalla periferia, sembrano presi dall’euforia del benessere che ha trasformato la loro cronaca quotidiana in una vita sbarluscenta. Qualcuno scatta una foto a loro insaputa. Vent’anni dopo, nei giorni in cui la Nazionale di calcio italiana vince i Mondiali di Spagna, una ragazza si trova al capezzale della madre che improvvisamente ha perso la memoria. Il suo compito è di ricordare e narrare il passato, facendosi aiutare da quella foto. Prende così avvio il racconto di una famiglia nell’Italia spensierata del miracolo economico, una nazione che si lascia cullare dalle canzoni di Sanremo, sogna viaggi in autostrada, si entusiasma con i lanci nello spazio dei satelliti americani e sovietici, e crede nel futuro, almeno fino a quando non soffia il vento della contestazione giovanile e all’orizzonte si addensano le prime ombre del terrorismo. Dopo la strage di piazza Fontana finisce un’epoca favolosa e ne comincia un’altra. La città simbolo dello sviluppo industriale si spegne nel buio dell’austerity, si sporca di sangue e di violenza, mostra il male che si annida e lascia un segno sul destino di tutti. Con un romanzo dalla scrittura poetica e struggente, forte nei sentimenti ed evocativo nello stile, Giuseppe Lupo ci racconta il periodo più esaltante e contraddittorio del secolo scorso – gli anni del boom e quelli di piombo – entrando nei sogni, nelle illusioni, nelle inquietudini, nei conflitti di due generazioni a confronto: quella dei padri venuti dalla povertà e quella dei figli nutriti con i biscotti Plasmon.

Giuseppe Lupo è nato in Lucania (Atella, 1963) e vive in Lombardia, dove insegna letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano e Brescia. Per Marsilio ha pubblicato L’americano di Celenne (2000; Premio Giuseppe Berto, Premio Mondello, Prix du premier roman), Ballo ad Agropinto (2004), La carovana Zanardelli (2008; Premio Grinzane Cavour-Fondazione Carical, Premio Carlo Levi), L’ultima sposa di Palmira (2011; Premio Selezione Campiello, Premio Vittorini), Viaggiatori di nuvole (2013; Premio Giuseppe Dessì; tradotto in Ungheria), Atlante immaginario (2014) e L’albero di stanze (2015; Premio Alassio-Centolibri, Premio Frontino-Montefeltro, Premio Palmi). È autore di numerosi saggi e collabora alle pagine culturali del «Sole 24 Ore» e di «Avvenire».

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La colonna sonora della puntata: “Volare (Nel Blu Dipinto Di Blu)” di Domenico Modugno; “Il ragazzo della via Gluck” di Adriano Celentano; “Dio è morto” dei Nomadi.

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CARLO CARABBA con “Come un giovane uomo” (Marsilio) in radio a LETTERATITUDINE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/03/28/in-radio-con-carlo-carabba/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/03/28/in-radio-con-carlo-carabba/#comments Wed, 28 Mar 2018 16:15:53 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7754 CARLO CARABBA con “Come un giovane uomo” (Marsilio), ospite del programma radiofonico Letteratitudine trasmesso su RADIO POLIS (la radio delle buone notizie)


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Con Carlo Carabba abbiamo discusso del suo romanzo/memoir intitolato “Come un giovane uomo” (Marsilio).

Con una lingua che analizza, immagina e riflette, che mescola Eta Beta alla Bibbia e The O.C. e Lost a Proust e Peter Schlemihl, Carlo Carabba medita sul caso e il destino, il lutto e la crescita, e racconta quando finisce la giovinezza, perché si diventa adulti, e come restiamo vivi, nonostante il dolore nostro, e soprattutto, nonostante il dolore degli altri.

Nella seconda parte della puntata con Carlo Carabba, nel suo ruolo di direttore della narrativa italiana Mondadori, abbiamo discusso delle novità in uscita per lo storico marchio editoriale di Segrate.

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Come un giovane uomo Come un giovane uomo” di Carlo Carabba (Marsilio)

Sono due le coincidenze da cui muove questa storia. Quella tra la caduta della neve su Roma, dopo più di vent’anni di attesa, e la scoperta che una giovane donna, Mascia, è in coma. E quella tra il funerale di Mascia, una decina di giorni più tardi, e la firma di un contratto di lavoro. Se la prima neve della vita del protagonista di questa storia, scesa sulla sua città quando era bambino, aveva portato con sé l’incanto, la seconda ha portato un incidente. Mascia, l’amica degli anni del liceo, è scivolata col motorino là dove la neve è caduta e si è sciolta. Questa seconda neve tanto desiderata, come se col bianco potessero tornare i giochi e le meraviglie dell’infanzia, invece di restituire il passato si porta via un pezzo di futuro. Perché Mascia muore per sbaglio, come pure si può morire, e non c’è altra spiegazione. Il protagonista parla con amici comuni, riceve e manda sms, inventa scuse, cerca ragioni ai propri pensieri e comportamenti, alle fughe e ai ritorni, e le trova, si colpevolizza, si assolve. Se Mascia, come tutti, muore sola, il protagonista di questo libro, come qualcuno, fa di tutto per restare, ancora un poco, solo con lei. Costruito come un labirinto che riproduce lo smarrimento di fronte al dolore, o come un videogioco che muove nello spazio ancora sconosciuto e pericoloso dell’età adulta, il romanzo segue i pensieri del protagonista, e di chi legge, intorno alla perdita di quelli che si amano e si ferma sul limite dell’amore umano che è quello, insopportabile, di non poterne impedire la morte.

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Carlo Carabba è nato a Roma nel 1980, viene da studi filosofici e ha pubblicato articoli su Francis Bacon, Thomas Hobbes e la monografia La prima traduzione francese del “Novum Organum” (Olschki 2011). È stato coordinatore della rivista Nuovi Argomenti, e attualmente lavora per Mondadori. Ha scritto le raccolte di poesia Gli anni della pioggia (peQuod 2008, premio Mondello per l’Opera Prima) e Canti dell’abbandono (Mondadori 2011, premio Carducci e premio Palmi). Un suo racconto è incluso nell’antologia “best off” Ogni maledetta domenica (a cura di Alessandro Leogrande, minimum fax 2010). Come un giovane uomo è il suo primo romanzo.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e post produzione: Federico Marin

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La colonna sonora della puntata: “In my life” dei Beatles; “Father and son” di Cat Stevens; “Labbra blu” dei Diaframma feat. Cristina Donà

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SILVANA GRASSO (con “Solo se c’è la Luna” – Marsilio) a “Letteratitudine in Fm” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/15/in-radio-con-silvana-grasso/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/15/in-radio-con-silvana-grasso/#comments Wed, 15 Mar 2017 17:31:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7457 SILVANA GRASSO (con “Solo se c’è la Luna” – Marsilio) ospite del programma radiofonico Letteratitudine in Fm di lunedì 13 marzo 2017 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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È stata Silvana Grasso l’ospite della puntata di Letteratitudine in Fm di lunedì 13 marzo 2017.

Con Silvana Grasso abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato Solo se c’è la Luna (Marsilio)

Di seguito, informazioni sul libro protagonista della puntata.

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Solo se c'è la Luna Solo se c’è la Luna (Marsilio) – di Silvana Grasso

Il manovale Girolamo, dopo trent’anni d’America, dove ha imparato marketìnghi e bisinès, torna in Sicilia, primi anni Cinquanta, col nuovo nome americano di Gerri. Nel suo paese arretrato, dove ancora si usa la cenere per lavare e lavarsi, fonda una gigantesca fabbrica, stile americano, di sapone e saponette, la Gerri Soap, che esporta, con grande successo economico e d’immagine, i suoi prodotti in tutta Italia. L’America, che ha fatto di lui un imprenditore, gli ha insegnato le strategie di mercato, di comando, sempre e comunque, perché, quando si è padroni, non esiste il torto, ma solo la ragione. Da uno sciagurato matrimonio con una ragazza che trascorre il tempo a intagliare volti e corpi sul legno, nasce Luna, minuta quanto un coniglietto, per di più con una rarissima malattia che la costringe a vivere al buio, solo se c’è la Luna, perché il Sole ucciderebbe le sue tenere carni. Per farle compagnia, e soprattutto prenderne le distanze, Gerri le “compra” una quasi sorella, Gioiella, figlia di una sua operaia, ragazza madre, che vuol vivere, anche lei, col suo nuovo amore il sogno americano. Gioiella cresce con una spaventosa bellezza bruna e sensuale, ma è chiusa, scontrosa, ostile a ogni avventura sessuale o sentimentale. Nel frattempo, nella grande villa, Luna studia, legge avidamente poeti e scrittori, nell’illusione di conoscerlo quel mondo che non conoscerà mai nelle geografie dei luoghi, finché a 16 anni non le basta più innamorarsi di uomini scolpiti nel marmo o nei versi dei poeti: vuole un maschio vero, di carne vera. Non sa, però, che la quasi sorella prova per lei un sentimento d’attrazione sessuale devastante, contro cui nulla può la volontà o la preghiera. Con la potenza di un’immaginazione sgargiante e l’estro di una lingua febbrile, Silvana Grasso racconta lo scontro tra la natura e il moderno nella scena mediterranea di una Sicilia marina e assolata obbligata a piegarsi al primato notturno, per costringerci a ripercorrere il percorso della metamorfosi del mondo nella storia e a ritrovare le tracce di quel destino fatale che – nonostante ogni sforzo di sfuggirgli alla ricerca di un futuro migliore – resiste vitale, luminoso e feroce.

Silvana Grasso è nata a Macchia di Giarre, in Sicilia. Vive tra Gela e Giarre. È filologo classico, scrive racconti, romanzi, pièce teatrali e collabora con diverse testate. È stata assessore alla cultura del comune di Catania. Le sue opere sono state premiate con importanti riconoscimenti, tra cui: il Premio Mondello, il Premio Brancati, il Premio Vittorini, il Premio Flaiano Narrativa, il Premio Grinzane Cavour Narrativa italiana. Ha pubblicato: Nebbie di ddraunàra (La Tartaruga 1993), Il bastardo di Mautàna (Anabasi 1994, Einaudi 1997, ripubblicato da Marsilio nel 2011), Ninna nanna del lupo (Einaudi 1995, ripubblicato da Marsilio nel 2012), L’albero di Giuda (Einaudi 1997, ripubblicato da Marsilio nel 2011), La pupa di zucchero (Rizzoli 2001), Disìo (Rizzoli 2005), 7 uomini 7. Peripezie di una vedova (Flaccovio 2006), Pazza è la luna (Einaudi 2007), L’incantesimo della buffa (Marsilio 2011), Il cuore a destra (Le Farfalle 2014).

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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La colonna sonora della puntata: “Luna” di Gianni Togni; “Libertango” di  Astor Piazzolla; “Libertango” (versione live – Berlin Philharmonic).

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

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ALBERTO GARLINI ospite di “Letteratitudine in Fm” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/02/in-radio-con-alberto-garlini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/11/02/in-radio-con-alberto-garlini/#comments Mon, 02 Nov 2015 16:00:28 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6946 ALBERTO GARLINI ospite di “Letteratitudine in Fm” – lunedì 2 novembre 2015 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)


In Fm e in streaming su Radio Hinterland

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È stato Alberto Garlini l’ospite della puntata di Letteratitudine in Fm di lunedì 2 novembre 2015. Con Alberto Garlini abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato Piani di vita (Marsilio) e delle tematiche in esso affrontate.

Si è inoltre discusso del Festival letterario “Pordenonelegge” (Alberto Garlini è uno dei curatori). Nella seconda parte della puntata, la lettura di un estratto del romanzo.

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Piani di vita La scheda del libro
Tre vite si incrociano in un condominio alla periferia di Treviso: Marco, sceneggiatore quarantenne, viene da Roma per vendere l’appartamento del padre defunto; Fatima, giovane donna reclusa in casa, immagina di riscattare la miseria della sua vita con sogni febbrili ed estemporanei; Achmet, marito di Fatima, licenziato dalla fabbrica, tampona a stento una disperazione sempre più evidente. Fatima è innamorata di Marco – o almeno immagina di esserlo -, Marco è gay e non sospetta nulla, Achmet crede che Marco abbia molestato Fatima. In Piani di vita Alberto Garlini sembra dirci che in fondo una realtà, una realtà vera, non esiste; esistono le storie che raccontiamo e che ci raccontiamo per dare sfogo ai desideri o per tenere a bada i mostri; e se si incastrino con le storie che inventano i nostri prossimi, è tutto da vedere. Qualcosa di reale si manifesta però, incidentalmente – forse provvidenzialmente -, come un’illuminazione o un oggetto estraneo la cui imprevedibile presenza s’impone. In questo romanzo è un cucciolo di tigre, fuggito da un miserabile circo accampato a poca distanza dal condominio, simbolo tanto inquietante quanto rassicurante dell’esistenza di una vita vera.

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Alberto Garlini è nato a Parma nel 1969. Vive a Pordenone. Ha pubblicato Una timida santità (2002) e Fútbol bailado (2004) per Sironi Editore, Tutto il mondo ha voglia di ballare (Mondadori, 2007), La legge dell’odio (Einaudi, 2012). Quest’ultimo, pubblicato da Gallimard, ha avuto un’ottima accoglienza anche in Francia. È tra i curatori della manifestazione culturale Pordenonelegge.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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La colonna sonora della puntata è composta dai seguenti brani musicali:Hello Goodbye” (The Beatles); “Ob-La-Di, Ob-La-Da(The Beatles); “I Am the Walrus(The Beatles)


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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

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È online la puntata con GIUSEPPE LUPO, OSPITE DI “Letteratitudine in Fm” di venerdì 11 ottobre 2013 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/10/13/in-radio-con-giuseppe-lupo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/10/13/in-radio-con-giuseppe-lupo/#comments Sun, 13 Oct 2013 12:50:27 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5510 giuseppe-lupoÈ online la puntata con GIUSEPPE LUPO, OSPITE DI “Letteratitudine in Fm” di venerdì 11 ottobre 2013

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Giuseppe Lupo è stato lo scrittore ospite della puntata di “Letteratitudine in Fm” di venerdì 11 ottobre 2013.

Con Giuseppe Lupo abbiamo discusso del suo nuovo romanzo “Viaggiatori di nuvole” (Marsilio), vincitore dell’edizione 2013 del Premio Dessì.

Nel corso della puntata, l’autore ha letto un brano del libro.
Chi avesse voglia di leggere il primo capitolo del romanzo, può farlo cliccando su LetteratitudineNews.

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il venerdì mattina (h.13 circa) e – in replica – il martedì sera (h. 20,30) e il mercoledì mattina (h. 11,00). Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

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APOCALISSE A DOMICILIO, di Matteo B. Bianchi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/04/04/apocalisse-a-domicilio/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/04/04/apocalisse-a-domicilio/#comments Mon, 04 Apr 2011 20:46:04 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3087 Scrittore di libri cult, firma di riviste di tendenza, autore radiofonico e televisivo di successo (da Dispenser su Radio2 a Victor Victoria su La7), Matteo B. Bianchi è considerato uno dei talenti più brillanti e versatili della sua generazione.
Il suo nuovo romanzo si intitola “Apocalisse a domicilio” (Marsilio). Una storia coinvolgente e intensa dove Bianchi si misura con uno degli interrogativi più difficili che si può porre un essere umano: come mi comporterei se dovessi conoscere in anticipo la data della mia morte?
Il protagonista di questa storia è un giovane autore televisivo milanese, omosessuale e single, immerso nella routine massacrante del mondo dello spettacolo. A un certo punto riceve la predizione che nessuno vorrebbe mai: una sensitiva – tramite il fratello – gli pronostica due mesi di vita.
Credere, o non credere?
Facendo appello alla razionalità, sarebbe opportuno non dare peso a ipotesi di predizione del futuro così nefaste. Il problema, però, è che questa sensitiva ha raccontato cose talmente personali della vita del fratello, talmente “segrete”… che è impossibile che qualcun altro potesse esserne a conoscenza. Insomma, pare che davvero questa giovane donna abbia il dono maledetto della predizione.
Ecco che allora il tarlo del dubbio comincia a rodere. E se fosse tutto vero? Del resto, che interessi avrebbe la ragazza a pre-dire una cosa così terribile?
Da qui, il passaggio alla domanda successiva: se questa predizione fosse vera, cosa potrei fare nel tempo che mi resta per dare un senso alla mia esistenza?
Il protagonista della storia decide di intraprendere un viaggio sentimentale a ritroso tra Roma, la Sardegna, San Francisco, nel tentativo di ritrovare i grandi amori del suo passato… quasi a conferma del fatto che amore e morte sono legate a doppio filo (o che la ricerca del rapporto fisico ed emozionale possano fungere, in qualche modo, da barriera nei confronti della fine).
Matteo B. Bianchi è bravissimo a farci entrare nella vita di questo personaggio, a farci affondare nei sui dubbi e nelle sue insicurezze, a sorprenderci con la placidità mascherata di quest’uomo che non intende sottomettersi all’ansia e all’angoscia… che invece sembrano colpire di più il fratello (il quale, in certo senso, si sente responsabile della predizione). Il risultato è questa storia scritta con abilità e resa al lettore dal punto di vista dei tre personaggi principali: il protagonista, che si vede recapitare l’apocalisse a domicilio (qui Bianchi usa la tecnica narrativa della “seconda persona”); il fratello del protagonista, che ci viene presentato con una narrazione in terza persona; la sensitiva, che racconta l’esperienza del suo “dono” in prima persona.
Tre voci che si alternano in un crescendo di emozioni che costringono il lettore a rimanere attaccato alla pagina fino alle ultime righe, per scoprire se la fine del libro coincide con la fine del protagonista… oppure no.

Vorrei discutere di questo libro insieme a voi e con la partecipazione al dibattito dello stesso autore: Matteo B. Bianchi.

Come sempre, pongo alcune domande finalizzate a avviare la discussione (domande che, per la verità, implicano risposte difficili… vi chiedo un grande sforzo, lo so).

- Come reagireste se qualcuno vi dovesse predire l’imminente data della vostra morte? Quali decisioni prendereste?

- Se in teoria si potesse conoscere la data della propria morte, sarebbe più una “condanna” o una “opportunità”? Quali sarebbero i pro e i contro?

- Il protagonista del libro reagisce tuffandosi nel proprio passato, ricucendo legami affettivi sfilacciati, chiedendo agli ex partner della sua vita di concedergli un ultimo atto di amore fisico.
A vostro avviso, esiste una relazione tra l’esigenza di amore fisico e la prospettiva della morte?

Vi ringrazio in anticipo per la partecipazione.
Massimo Maugeri

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FUORI GIOCO di Salvatore Scalia http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/11/fuori-gioco/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/11/fuori-gioco/#comments Sun, 10 May 2009 22:02:47 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/11/fuori-gioco-di-salvatore-scalia/ Il calcio come metafora della vita. Questa frase sintetizza una delle possibili letture del nuovo ottimo romanzo di Salvatore Scalia (nella foto): “Fuori gioco” (Marsilio, 2009, pag. 128, euro 12).
Così come nel precedente libro, “La punizione” (anche questo edito da Marsilio), le vicende narrate traggono spunto da una storia realmente accaduta. Se il primo romanzo vede come protagonisti quattro ragazzini vittime della mafia, in questa nuova opera Scalia fornisce dignità letteraria al mito indiscusso dei nostri tempi: il calciatore. Nell’immaginario collettivo il calciatore – oggi, ancor più di ieri – incarna il successo, la fama, il denaro, il fascino. Eppure il mondo del pallone non è tutto rose e fiori. Ne sanno qualcosa celebrità calcistiche di fama mondiale (tra cui Gigi Buffon, portiere d’acciaio della Nazionale) che hanno dovuto fare i conti con il continuo logorio dello stress da performance – e dell’estraniamento da successo – capace di sfociare nella depressione.
In questo romanzo Scalia offre una versione rovesciata del mito; perché, laddove l’agognato successo viene solo sfiorato, esso si trasforma in repentina sconfitta. O fallimento. E per ogni traguardo raggiunto da un individuo, in migliaia cadono durante il percorso.
Il protagonista della storia è Paolo Malerba, giovane calciatore della provincia di Catania che porta già nel cognome il segnale presago di un tragico destino. Paolo va a Milano, il provino con l’Inter sembra dare esiti positivi. Il sogno pare a un passo dal diventare realtà. Ma si sfalda di fronte a una radiografia. I medici della società calcistica attestano un piccolo problema ai polmoni. Nulla di grave, per una persona normale. Un insuperabile impedimento, per un calciatore professionista.
Paolo viene scartato. Il suo sogno si infrange e gli implode dentro con effetti devastanti, allargando squarci dell’anima già aperti da un’adolescenza difficile, dal problematico rapporto col padre, da paure mai domate. In tal senso Malerba è due volte perdente: perché prima patisce la sconfitta (per via di un disturbo fisico inatteso) e poi il fallimento (per via di equilibri interiori già fortemente precari). Non gli rimare che attorcigliarsi dentro se stesso, ancora di più; consumandosi tra amori irrisolti e una depressione serpeggiante che ne segnerà la fine.
Con un lirismo efficace e dolente Salvatore Scalia, tratteggiando i risvolti farseschi e paradossali della vita di provincia del profondo Sud, rovescia il mito moderno dell’uomo di successo miscelandolo con quello classico che narra la fine di Empedocle tra le fauci infuocate dell’Etna. Ne viene fuori un ritratto duro, impietoso, dolente. Credibile. E se è vero – come è vero – che per la popolazione etnea il vulcano è femmina (a’ muntagna), l’idea del lasciarsi precipitare nel cratere non riflette altro che il ferale desiderio (inconscio e insopprimibile) di tornare nel ventre materno: mettersi fuori gioco, scomparendo nelle origini della propria esistenza.

Mi chiedo, e vi chiedo…

I calciatori sono davvero i nuovi eroi dei tempi moderni?

Il gioco è metafora della vita o non è piuttosto la vita metafora del gioco?

Fare squadra ha ancora senso?

La felicità – in famiglia, nella società, nel lavoro – passa dal fare squadra?

E qual è il rapporto tra successo e felicità?

Di seguito, gli approfondimenti di Simona Lo Iacono e Salvo Zappulla (che mi daranno una mano a moderare la discussione)

Massimo Maugeri

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“Fuori gioco”. Un libro di Salvatore Scalia.
di Simona Lo Iacono (nella foto)

E’ notte. La ferita del cavòlo è uno spartiacque. Un’apertura che s’infigge tra la macchia. Che separa il regno dei vivi da quello dei morti.
Dalla sua bocca spalancata affiorano vecchie risate di magare, raspi di animali e fantasmi stanchi di girovagare. Destini che si accingono a compiersi – come quello di Paolo Malerba – tra le ombre.
E per questo non si stupirebbe, Paolo Malerba, di vedersi già lì, tra le foglie che profumano di tane nascoste, come un predestinato, o come un viandante di questo regno a metà tra luce e buio. Un Caronte, forse, che si trascina da una riva all’altra.
Non si stupirebbe neanche di riflettersi nelle rarefazioni serali, di cogliere nel globo della luna una vaga somiglianza con la propria vita, con la palla che lui spintona tra le erbe, sui campi di calcetto, dribblando tra compagni sudati, tesi a raggiungere la rete come in punto di morte.
Non si stupirebbe.
Perché fin da bambino ha allertato i sensi. Ha forse intravisto nella la sciara del vulcano, un segno. Un tizzo di carbone in mezzo a granitiche masse vulcaniche.
Ecco cos’è la sua vita.
Una fragilità spersa sotto un sole che impazza, che galoppa su giochi striscianti, furbeschi, messi su da picciotti di malaffare, politici gaudenti, donne affatate dal potere.
E lui che – stretto nella sua maglia della Libertas - vuole solo fare goal.
Ma che lo voglia davvero Paolo Malerba? Spintonare quel pallone che – se si perde – solo l’allampanato Gino dei palloni perduti riesce a trovare, e che – se si porta in rete – ti si rivolta contro, non regge paragoni coi sogni? Che la voglia davvero questa illusione, questo scampolo di felicità che si frantuma in nebbia, in giorni uguali, in vacilli di memoria al bar, o tra i pacchi costosi di una donna che non ti ama?
Forse dal cavòlo la risposta già mugghia come un vento. Forse – loro, le magare – già sanno. Di padri che non perdonano ai figli di non corrispondere ai propri desideri. Di madri che – invece – perdonano tutto. Di figli che si affannano ad esaudire, a offrire una stella baluginante e cadente, che rivola tracce scomposte del proprio sangue solo per sentirsi dire “bravo”.
E invece l’amore perduto non si raccatta come i palloni che Gino riesce sempre a scovare. Ma è anzi quella partita persa fin dal principio che Paolo Malerba, infondo, non vuole giocare, che t’imprime addosso quel segno che il cavòlo blatera in tutte le sue notti. Che ti mette fuori gioco anche prima di cominciare la gara.
“Fuori gioco” di Salvatore Scalia (Marsilio, pagg. 125, € 12,00), si addentra nell’unicità di un destino raccontando tutti i destini, e di una terra oltraggiata e svilita raccontando le terre di tutto il mondo.
Lo fa con lingua prepotente, sensuale, segreta, con l’arrembaggio di gusti e personaggi che popolano quest’isola abbandonata dagli dèi e in cui tutti i vizi degli stessi dèi sembrano incarnarsi.
Da sicula abituata agli sguardi, non mi stupisce il teatrame che assiepa Paolo Malerba, calciatore degli anni “70 e nel cui cognome colgo già un’assonanza dolorosa, un anticipo di destino.
Mi stupisce però la vita che trasuda pur nello scenario di morte, la sensualità incatenante di paesaggi e umori, l’intuizione di Salvatore Scalia che nel rogo dei sogni ha saputo raccontare l’origine dei sogni, proprio perché ogni illusione nasce da una mancanza.

-Turi, perché, come scrivi tu, i “sogni buttano sangue”?
Buttano sangue i sogni a lungo coltivati che nel momento della disillusione si rivoltano contro chi li ha carezzati e cullati, mutandoli in angeli dannati.

- Essere fuori gioco vuol dire essere fuori dalla vita, o non è piuttosto l’unico modo per viverla? La follia, infondo, non è che questo: non accettare le regole del gioco.
Vivere al di fuori, non accettare le regole del gioco, essere veramente anticonformisti, tutto ciò attrae romanticamente, richiama il mito del titano, ma è di difficile attuazione, perché significa lottare contro la corrente, subire l’emarginazione. E’ più facile vivere con distacco, non lasciarsi coinvolgere, ma nell’attimo in cui si aspira a qualcosa, si è esposti a tutte le tempeste dell’esistenza.

 - Il gioco è una splendida metafora. Vincere. Perdere. Essere ammoniti. Ricominciare. E forse il calcio coi suoi clamori è lo sport che meglio si adatta alla Sicilia, a tanto lustro di baraccame in fiera, a tanto vociare su pianti di morte, non credi?
Il calcio per me è metafora della vita non solo siciliana. Il campo è il rifugio geometrico in cui ogni animo inquieto trova le linee del suo pensiero, e il cerchio del centrocampo è lo zero da cui si origina il tutto. In questa prospettiva metafisica l’arbitro diventa sì il giudice supremo ma anche la divinità che dà inizio al gioco e poi non si cura di niente. La Sicilia entra fortemente nella caratterizzazione dei personaggi, vulcanici, magmatici, dalla sensualità esplosiva ma fragili.

- E poi. La squadra. Ma fare squadra sembra quasi un’ironia quando l’individualismo più esasperato – in realtà – ti reclude in un ruolo e ti costringe a recitarlo. Pensi che un siciliano possa mai, veramente, “fare squadra”?
Ogni siciliano, come diceva Karl Kraus degli inglesi, è un’isola. Ognuno recita a soggetto. Il fascino e la maledizione dei siciliani sono dovuti alla loro inguaribile anarchia.

- Parlaci del cavòlo. Di questo dirupo in cui vivono strìe, animulare, fantasmi. Di questa fenditura che risuona di tutti i lamenti. Sembra un’anima. E’ l’anima di Paolo? E’ la tua anima?
Il cavòlo è il luogo degli spiriti sotterranei, del mistero e della magia. E’ il riflesso dell’anima oscura di Paolo e, in questo caso, anche della mia.

- L’ultimo atto. Il filosofo Empedocle che si lancia nelle fauci dell’Etna. La leggenda che si traduce in una fine umana. Il mito non è forse che questo. Una prefigurazione del nostro destino. Sei d’accordo?
Dici bene, il mito è una prefigurazione e trasfigurazione del nostro destino. La natura, offesa e violentata, alla fine vincerà su tutto. L’uomo può essere di passaggio sulla terra, ma l’energia dell’universo, di cui il fuoco dell’Etna è emanazione, resterà eterna.

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FUORI GIOCO di Salvatore Scalia
di Salvo Zappulla (nella foto)

Il primo aggettivo che mi viene in mente, finito di leggere questo nuovo romanzo di Turi Scalia, è: impietoso. Forse persino brutale. O semplicemente: umano. Perché la vita stessa sa essere impietosa e brutale con i più deboli. (Fuori gioco, di Salvatore Scalia, Marsilio Editori, pagg. 125, € 12,00). Ho rivissuto le stesse sensazioni che mi ha trasmesso quell’immenso capolavoro di Dino Buzzati, “Il deserto dei tartari”. L’attesa perenne dell’evento che dovrà servire a riscattare un’intera esistenza, a darne un senso. Lo sgocciolio lento dei minuti che si consumano, così come la fiammella della vita, fino a spegnersi senza aver rischiarato nulla. Sentiva il battito del tempo scandire avidamente la vita. L’attesa. L’infinita attesa che dovrà dare una svolta alla nostra vita, quell’evento che invano aneliamo e invece ci sfugge inesorabilmente come sabbia stretta dentro il pugno. Scalia ha la capacità di assemblare in maniera superba fiuto giornalistico e vena narrativa e i risultati sono sempre romanzi di profondo spessore introspettivo, che scavano dentro le miniere di un microcosmo provinciale estraendone pepite. Come nel primo romanzo pesca nel torbido della sua provincia: mafia, corruttela, personaggi melliflui. Gioca a intrecciare sentimenti di ricche signore annoiate e aspirazioni di ragazzi bramosi di prendere a morsi il futuro, anche con mezzi poco leciti. La parlata catanese, certi modi di dire persino gloriosi, vanto ed espressione linguistica di una sicilianità che si trincera a protezione del tempo che avanza, infarciscono il testo di ingredienti saporiti e stuzzicanti. U pacchiu, per un ragazzo delle zone popolari, non evoca sentimenti di tenero amore, ma è un trofeo da conquistare, di cui fare pettegolezzo sottovoce negli spogliatoi di un campo di calcio, tra una gomitata e uno sfottò. E se una volta tanto non è quello prezzolato della bagascia di turno ma appartiene alla moglie del presidente, diventa scalata sociale, pacchio d’autore in cui inebriarsi e perderci il senno. E Paolo, il protagonista del romanzo, persona realmente vissuta, il senno lo perde veramente, affranto dal gravoso peso dei suoi fallimenti. Il campo da gioco assurge a metafora della vita. L’arbitro fischia l’inizio e si dà il via alla competizione, si tenta di superare gli avversari, con una finta o uno scatto fulmineo. Paolo ci prova, ha talento da vendere ma il destino beffardo ha deciso di giocargli un brutto tiro. Arriva il momento delle disillusioni, le amarezze si accumulano e alla fine decide di rinunciare, va in fuori gioco, si estranea, si tira fuori dalla mischia. E il finale è drammatico. Sulla copertina la foto di Petruzzu Anastasi, indimenticabile gloria calcistica degli anni settanta, dolce chimera per gli assetati. Ma per un ragazzo che alza la testa, altri cento dovranno piegarla e magari elemosinare un posto di elettricista all’onorevole di turno, in cambio di servilismo e sottomissione. Scalia non esita a denunciare, a indignarsi, ad alzare forte la voce contro questa società malata i cui modelli da imitare sono diventati letterine e veline. E le isole dei famosi, i quiz e le ruote della fortuna. Tutto ciò che abbaglia e ammalia. Luci fosforescenti e nastrini colorati.
Salvatore Scalia, etneo di Mascalucia, vive di giornalismo e dirige le pagine culturali del quotidiano “La Sicilia” di Catania. Ha scritto per il teatro e i suoi lavori sono andati in scena alla rassegna internazionale Taormina arte e allo Stabile di Catania. Ha pubblicato Teatro, Trilogia del malessere e Appunti e per Marsilio nel 2006, La punizione, due edizioni.

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PERCHE’, OGGI, IL GRANDE SUCCESSO DEI ROMANZI-FIUME? IL CASO STIEG LARSSON http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/20/perche-oggi-il-grande-successo-dei-romanzi-fiume/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/20/perche-oggi-il-grande-successo-dei-romanzi-fiume/#comments Tue, 20 Jan 2009 22:20:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/05/perche-oggi-il-grande-successo-dei-romanzi-fiume/ Aggiorno questo post inserendo un articolo sul terzo romanzo della trilogia «Millennium» di Stieg Larsson: esaltata da alcuni addetti ai lavori e criticata da altri. Il pezzo, firmato da Stefano Montefiori, è uscito sulle pagine del Corriere della Sera del 6 gennaio.
Il libro si intitola “La Regina dei castelli di carta” (Marsilio) ed è immediatamente balzato in vetta alle classifiche dei libri più venduti in Italia.
Accanto all’uscita del libro circolano, peraltro, le voci di un possibile quarto volume che potrebbe essere pubblicato postumo (sebbene incompleto). Sì, perché Larsson è morto d’infarto sul posto di lavoro mentre si trovava nella redazione del suo giornale… esattamente come il personaggio del suo romanzo. Particolare inquietante, vero?
Si dice che a volte la letteratura anticipi gli eventi, come se fosse dotata di poteri preconici.
Forse non sempre è bene che sia così.
Il nostro pensiero a Stieg Larsson, che ha lasciato questa terra senza vedere il successo mondiale della sua trilogia (e senza averci guadagnato un quattrino).
Massimo Maugeri

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da “Il Corriere della Sera” del 6 gennaio 2009 – articolo di Stefano Montefiori

Nel terzo volume della trilogia «Millennium», Stieg Larsson (nella foto) non deluderà i fan. Ne “La Regina dei castelli di carta” (Marsilio) ci sono ancora i protagonisti Mikael Blomkvist e l’ adorata Lisbeth Salander, che neanche una pallottola nel cervello è riuscita a sopraffare, e poi la consueta corte di personaggi secondari – che Larsson considerava fondamentali -, alcuni nuovi, altri già presenti nei primi due volumi: il disumano Zalachenko, l’ amico fraterno realmente esistito Kurdo Baksi e il pugile Paulo Roberto, la sorella di Mikael Annika Giannini che accetta la difesa legale di Lisbeth, oltre all’ eterna amante Erika Berger. Erika lascia tra scrupoli e rimpianti la piccola e battagliera rivista «Millennium» per l’ imperdibile posto da redattore capo nel ben più importante, ingessato e conservatore «Smp», e tre giorni dopo l’ insediamento il collega Hakan Morander, che avrebbe dovuto cederle il posto due mesi più tardi, ha un attacco di cuore in redazione. «Videro Hakan alzarsi dalla scrivania e avvicinarsi alla porta – scrive Larsson a pagina 255 -. Aveva un’ espressione stupita. Poi si piegò bruscamente in avanti afferrando lo schienale di una sedia per qualche secondo prima di cadere sul pavimento. Era morto prima ancora che l’ ambulanza avesse fatto in tempo ad arrivare. (…) Che la gente muoia sul posto di lavoro è insolito, anzi raro. Si dovrebbe avere la cortesia di mettersi in disparte, per morire. Di andare in pensione o in malattia e un bel giorno diventare oggetto di conversazione in mensa. A proposito, hai sentito che il buon vecchio Karlsson è morto venerdì scorso? Sì, il cuore. Il sindacato manderà dei fiori per i funerali». Nella continua serie di rimandi e contaminazioni tra vita reale e romanzo che costituisce la saga di «Millennium», questo è forse il più toccante: quasi avesse una premonizione, Larsson sembra descrivere – e sbeffeggiare – la propria imminente morte in redazione, avvenuta poche settimane dopo la consegna del manoscritto di questo stesso volume. Per uno che ha scritto quanto è spiacevole morire sul posto di lavoro, e che avrebbe preferito una fine in sordina, magari nella casetta sul mare dove progettava di ritirarsi con i guadagni di «Millennium», Larsson è stato davvero preso a bersaglio dal destino. Il 9 novembre 2004 l’ ascensore del palazzo di Stoccolma dove aveva sede la sua rivista, «Expo», era guasto. Il cinquantenne Stieg fece di corsa i sette piani di scale per arrivare in redazione, e appena entrato fu stroncato dalle sigarette, il superlavoro, la fatica. Infarto, nel centro del locale, sotto gli occhi dei suoi giornalisti. Anche lì l’ ambulanza non ha fatto neppure in tempo ad arrivare, e tanto meno Larsson è riuscito a dare un ultimo abbraccio a Eva Gabrielsson, la sua compagna di oltre trent’ anni, la donna alla quale era solito rivolgere un «Non indovinerai mai che cosa ha appena fatto Lisbeth Salander», seduto accanto a lei sul divano bianco dell’ appartamento di Stoccolma, mentre Stieg scriveva la serie. Non solo Larsson è morto in redazione, ma la sua fine continua a essere avvolta dal clamore, perché fa da sfondo a uno dei casi editoriali più straordinari degli ultimi anni. Finora i libri di «Millennium» hanno venduto oltre otto milioni di copie nel mondo, soprattutto in Svezia, Francia (il primo Paese straniero a cadere in preda alla Millennium-mania), Germania, Italia (il primo volume “Uomini che odiano le donne” da noi ha superato le 500 mila copie). In questi mesi la saga sta approdando nel mondo anglosassone, e i primi dati di vendita e le recensioni sembrano indicare che il successo di Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander potrebbe venire ingigantito nel Regno Unito e in America. Larsson era certo che «Millennium» gli avrebbe assicurato la sicurezza economica della quale non aveva mai goduto in precedenza, chiamava la saga «il mio fondo pensione». Non ha fatto in tempo a intascare un centesimo dei circa dieci milioni di euro che gli sarebbero finora spettati, e se questo dà un tocco di straziante romanticismo alla lettura della sua opera, ha prodotto pure una feroce battaglia patrimoniale tra Erland e Joakim Larsson, padre e fratello di Stieg, parenti emotivamente lontani ma unici eredi legali, e la compagna Eva, che in base alla legge svedese non ha alcun diritto se non sugli effetti personali di Larsson: i mobili di casa, il divano bianco, il giubbotto di pelle, e il famigerato pc portatile con la bozza di un nuovo, inestimabile volume della serie «Millennium». Uscirà mai il quarto volume? Mentre i 25 Paesi nei quali è stata tradotta ancora cercano di mettersi in pari con la trilogia, i francesi – che grazie alla casa editrice “Actes Sud” hanno scoperto per primi il fenomeno scandinavo – si sono dedicati alla questione con grande impegno. Il giallista Guillaume Lebeau ha vissuto tre mesi a Stoccolma per calarsi nell’ atmosfera di «Millennium», incontrare Eva Gabrielsson, amici e conoscenti di Larsson, e scrivere “Le Mystère du Quatrième Manuscrit: enquête au coeur de la série Millénium” (Les Éditions Du Toucan). I parenti di Larsson ed Eva continuano le loro trattative (in un primo momento Erland e Joakim erano contrari a fare uscire un nuovo volume), e Lebeau cerca di rischiarare almeno in parte «il mistero del quarto manoscritto»: ne esisterebbe una copia digitale nel computer in mano a Eva, ma i parenti di Larsson giurano di averne visto una versione stampata sulla sua scrivania, nei giorni immediatamente successivi alla morte. I giornalisti di «Expo», la rivista di Stieg, sono dalla parte di Eva e confermano tutte le sue dichiarazioni, anche quelle più avvolte dai dubbi: le pagine già pronte sono circa 200, dice Eva, ma potrebbero essere invece il doppio. Solo che Eva ha capito che stando così le cose il ricavato delle vendite di un nuovo volume arricchirebbe solo Erland e Joakim, e quindi adesso frena sulla pubblicazione. L’ ipotetico libro, comunque, nella cronologia della storia non sarebbe il quarto volume ma il quinto: Larsson aveva progettato dieci episodi, ed era passato a scrivere direttamente il quinto, saltando il quarto, perché aveva più materiale pronto sulle reti neonaziste europee. Infine, nel «quarto manoscritto», farebbe la sua comparsa la sorella gemella di Lisbeth Salander, sulla cui esistenza Larsson fa un accenno all’ inizio della saga. Dopo le visite guidate sui luoghi larssoniani organizzate quest’ estate dal comune di Stoccolma, la Millenium-mania si nutre di nuovi elementi. Una riduzione cinematografica uscirà in Svezia a marzo, e nell’ ottobre scorso 120 cittadini svedesi – lettori e non – hanno assistito in gran segreto e tra enormi misure di sicurezza all’ anteprima nel cinema Filmhuset della capitale, affinché la società produttrice (recentemente acquisita dall’ italiana De Agostini) potesse valutare in anticipo l’ effetto del film sul pubblico. Una giornalista del Figaro si è infiltrata nel test, e ha parlato di «atmosfera bergmaniana», e al contempo di «film più violento dei libri».
Larsson non ha l’ ambizione di fare letteratura alta, come gli Abba non presero Arnold Schoenberg a modello: eppure la formula svedese di «qualità popolare» sembra vivere oggi il suo momento d’ oro.
Stefano Montefiori

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POST DEL 5 SETTEMBRE 2008
Perché, oggi, il grande successo dei romanzi-fiume?
Questa domanda la pone Giovanni Pacchiano su un suo articolo pubblicato sul Domenicale de Il Sole 24Ore del 31 agosto. Anzi, la domanda intera è: perché, oggi, il grande successo dei romanzi-fiume di qualità?
In effetti, è vero… lo precisa lo stesso Pacchiano nell’articolo (potete leggerlo qui di seguito per gentile concessione della redazione del Domenicale)… il successo dei romanzi di Larsson, di Dahlquist, l’ultimo della Fallaci, il più recente di Follet (di qualità o polpettone?) giustificano la suddetta domanda.
Per quale motivo, secondo voi?
Insomma, perché la gente è tornata a leggere i romanzi-fiume di “dimensione ottocentesca”?
L’autore dell’articolo fornisce una sua spiegazione.
Siete d’accordo?
Infine vorrei cogliere l’occasione per parlare di Stieg Larsson.
Lo conoscete? Lo avete letto? Cosa ne pensate?
Sullo stesso numero del Domenicale Cesare De Michelis con molto (e legittimo) orgoglio scrive: “dall’inizio di marzo le vendite del primo, Uomini che odiavano le donne, sono in continua crescita e La ragazza che giocava con il fuoco, il secondo uscito il 18 giugno, è già alla quarta ristampa. In tutto, a oggi, abbiamo stampato 330.000 copie, ma l’onda non si è affatto fermata…”.
Massimo Maugeri

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L’estate dei libri «pesanti». Il mattone che trionfa in libreria

di Giovanni Pacchiano

Sono un larssoniano della primissima ora. Fa fede la mia recensione al primo romanzo della sua Trilogia «Millennium», Uomini che odiano le donne (Marsilio, pagg. 676), apparsa su queste pagine il 9 dicembre 2007. Sono altresì un larssoniano fanatico: inizi a leggerlo e non te ne puoi staccare un attimo. E ti avvicini alla fine della storia, una storia-fiume, con la sensazione, per niente bella, che, chiuso il libro, non saprai cosa fare della tua vita. Almeno per un po’.
Il fatto è che non succede a me solo. Ho regalato Uomini che odiano le donne a destra e a manca. L’ho consigliato a chiunque mi capitasse a tiro. La reazione è stata unanime. «Cosa farò quando lo avrò finito?», mi ha detto un’amica. E un altro: «È come una droga». Una droga. Tant’è vero che, per non aspettare l’uscita in traduzione degli altri due romanzi, a suo tempo li ho comprati in francese (Actes Sud).
Oggi, Larsson, per via di un frenetico passaparola, rafforzato dall’uscita in italiano del secondo romanzo, La ragazza che giocava con il fuoco (Marsilio, pagg. 754), è diventato un fenomeno mediatico. Merito, certo, dell’ottima costruzione dei suoi romanzi, della continua suspense, dell’attenzione alla psicologia dei personaggi e a un inquieto versante sociale della Svezia che, in molti, non conoscevamo. Ma lo è diventato anche per le caratteristiche dei suoi libri, di immensi romanzi-fiume (sì, come quelli dell’Ottocento: Hugo, Dickens, Collins, Tolstoj). Ciò che lo inserisce in una propensione al romanzo-fiume divenuta oggi una moda. Ma qui si tratta, per buona sorte, non di grossolani polpettoni, ma di romanzi-fiume di qualità. Ce ne sono altri: ad esempio, la serie dei romanzi di Henning Mankell che vedono protagonista il commissario Wallander (Marsilio). Almeno un romanzo di Leif G.W. Persson, Tra la nostalgia dell’estate e il gelo dell’inverno (Marsilio, pagg. 588) che può stare alla pari con Stieg Larsson. E non è necessario radicarsi in Svezia. Pensiamo alla fortuna di un altro romanzo-fiume come il recente Un cappello pieno di ciliege (Rizzoli, pagg. 860) di Oriana Fallaci. O all’americano Gordon Dahlquist con La setta dei libri blu (Bompiani, pagg. 796): un mix rétro tra Wilkie Collins e Arthur Machen.
E veniamo dunque al punto che più ci importa. Perché, oggi, il grande successo dei romanzi-fiume di qualità?
Il protagonista, almeno così crediamo, è un lettore colto. Ha più di quarant’anni (ma può averne anche settanta e passa). È deluso dalla vita pubblica e dal crollo dei valori di un mondo perbene ormai scomparso. Si sente, inoltre, accerchiato dalla cattiva letteratura e prova il bisogno di abbandonarsi a una narrativa totalizzante e chilometrica. Come le grandi letture della sua giovinezza. Sostitutiva della vita? Forse sì, almeno per il non breve tempo della lettura. Paradossalmente, anestetizzante e insieme esaltante. Con una buona dose di regressione: non sono i bambini a divorare un libro, se li appassiona? Come gli antropofagi. E come noi, in questo caso.
Ma non basta: i buoni romanzi-fiume sono, sempre, avvincenti. «Avvincente», cioè qualcosa che ti lega. Sei fatalmente e strettamente legato al tuo libro sino alla conclusione della storia. Alle avventure di Mikael e di Lisbeth (magnifica ultima dei reietti di victorhughiana memoria) nella trilogia di Larsson, come alle peripezie e ai drammi degli antenati di famiglia nell’eccellente romanzo della Fallaci.
Alla fine, purtroppo, sarà il libro a slegarsi da te. Tuo malgrado. L’unica medicina: dimenticarlo; per poterlo rileggere.

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REMARE SENZA REMI. UN LIBRO SULLA VITA E SULLA MORTE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/17/remare-senza-remi-un-libro-sulla-vita-e-sulla-morte/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/17/remare-senza-remi-un-libro-sulla-vita-e-sulla-morte/#comments Sun, 16 Mar 2008 23:32:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/17/remare-senza-remi-un-libro-sulla-vita-e-sulla-morte/ Quando Chiara Tiveron, dell’ufficio stampa Marsilio, mi accennò all’uscita di questo libro, io dissi: sì, ne parlerò sul blog.
Il libro si intitola: “Remare senza remi” (Marsilio, 2008, pagg. 203, euro 15), l’autrice è Ulla-Carin Lindquist. Il sottotitolo è Un libro sulla vita e sulla morte.
Per certi versi torniamo all’argomento già trattato nel post letteratura e malattia, letteratura e morte.
Ora, voi potrete dire (e con ragione): ma che vuoi da noi?
Perché ci devi tediare con argomenti simili?
(Sono quasi certo che qualcuno lo farà).
Vi spiego. Non so se vi capita, ma – a volte – ho come l’impressione di vivere nel mezzo di una corsa… una corsa senza meta.

Vi capita?

Chi si ferma è perduto: lo disse anche Totò. Vero. Ma ogni tanto credo che fermarsi sia salutare. E libri come questo, in tal senso, possono essere d’aiuto.
Questo, almeno, è ciò che io penso.
Olivier Sacks, autore di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello ha definito il libro della Lindquist “emozionante, bellissimo, terribile e allo stesso tempo rassicurante.”
Secondo il Financial Times “la Lindquist scopre – e mostra con eleganza – come la mortalità e la gioia possono essere collegate”. Per The Daily Mail “nel trascrivere le sue impressioni sulla morte imminente, l’eredità della Lindquist è un inno alla vita.”
Per Il Foglio “Remare senza remi è una magnifica e umana risposta all’idea dell’eutanasia.”
Di seguito vi presenterò Ulla-Carin Lindquist. E poi riporterò (e ringrazio Marsilio per aver concesso l’autorizzazione) alcuni estratti del libro.
Vorrei che li leggeste e che scriveste qui – se vi va – le vostre impressioni (sul libro, sul tema), magari anche contraddicendo le motivazioni che mi hanno spinto a scrivere questo post.
Insomma, utilizzate questo spazio… come pagina bianca (giusto per citare il mio amico Pasquale).

Massimo Maugeri

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Ulla-Carin Lindquist (nella foto in basso), la più importante giornalista televisiva svedese, ha cominciato ad avvertire i primi sintomi della malattia il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Da quel momento la sua vita è cambiata e presto la diagnosi è diventata terribilmente chiara: sclerosi laterale amiotrofica (SLA), la peggiore tra tutte le malattie neurologiche. Non esiste una cura, non c’è miglioramento e la morte avviene rapidamente.
Remare senza remi è stato scritto durante questo breve periodo di malattia. Ulla-Carin racconta la sua esperienza faccia a faccia con la morte. Descrive i momenti ordinari come gli incontri con i medici, le conversazioni con le figlie che studiano al college, i pomeriggi passati con il marito e i due bambini più piccoli, ma anche quelli straordinari come il doloroso declino delle sue abilità fisiche.
Una storia commovente scritta da una donna coraggiosa che lotta con la morte incombente, e ci illumina sulla condizione fondamentale dell’essere umani: esistere, e sapere che non è per sempre.
Un libro indimenticabile che esplora il terrore, l’imbarazzo e il dolore della malattia e contemporaneamente affronta i temi universali della vita, della morte, dell’amore e dell’importanza della famiglia.

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Estratti dal libro “Remare senza remi” (Marsilio, 2008, pagg. 203, euro 15)

Questo è il mio debutto e il mio finale.
E si riferisce al mio finale.
Non si tratta di un libro di ricordi nel vero senso del termine. È più un diario che riporta pensieri e tuffi nella memoria. E anche diverse interviste e osservazioni di fatti.
“Nel mezzo della mia vita” sono stata invasa da una malattia poco comune, SLA, “sclerosi laterale amiotrofica”.
È una malattia che si sviluppa rapidamente e aggressivamente. Esiste un unico esito: la morte. Nessuna cura. Nessun miglioramento.
Cosa succede a un essere umano in questo caso?
Un anno fa lavoravo a tempo pieno come reporter per la tv. Oggi non sono più in grado di mangiare, di camminare o di lavarmi da sola.
Provo un profondo senso di dolore per tutto quello a cui non potrò assistere. E ancora di più perché presto dovrò lasciare i miei quattro figli.
Allo stesso tempo provo una grande gioia e mi sento fortunata per tutto quello che accade in questo momento.
Ogni giorno, la mia casa si riempie di risate.
Sembra strano?
Kråkudden, gennaio 2004

[…]

Cosa ho fatto di male per essere colpita da una malattia incurabile? Perché sono punita?
Dopo la diagnosi, provo un senso di vergogna. Per me le cose sono andate troppo bene. E non ho dimostrato sufficiente gratitudine. Esiste ancora un legame fra la malattia e il castigo per i peccati.
La parola inglese per dolore è “pain”, deriva dal greco “poinè” che significa castigo.
Credo profondamente che si debba essere puniti.
E tutto va bene se si è gentili, con le guance rosa e non si calpesta il pane.
«L’essere umano deve essere felice e buono in attesa della morte». Questa frase ricamata e incorniciata era appesa alla parete della cucina della mia bisnonna.
A chi non ho dimostrato abbastanza gratitudine?

[…]

Le parole rimangono impigliate nel naso. È come se si fosse formata una sporgenza di gomma. Come se il velo del palato si fosse afflosciato. La lingua ha un aspetto un po’ villoso e la punta non vuole più allungarsi come un serpente. Invece, lì c’è una piccola fossa di serpenti. Sono gli spasmi nervosi sulla lingua. E la bocca bofonchia nasalmente suoni incomprensibili.
È come un disco che gira alla velocità sbagliata. La SLA mi ha privata delle mie parole parlate. La mia voce. L’attrezzo del mio lavoro. Oggi nessuno ha sentito quello che ho detto. Rabbia.
Nella mia testa, le parole sono più chiare che mai. Sento la mia voce, la mia voce vera dentro di me. Una voce melodica e un’intonazione che sono state una parte importante del mio lavoro. Ma poi la voce passa attraverso la laringe, il filtro della SLA, ed esce soltanto un suono. Come un asino che raglia.
La SLA mi ha già sottratto la mano destra. Resta a riposo per l’eternità. Bluastra come un filetto di manzo ben frollato. Nella sinistra, tre dita riescono a muoversi sulla tastiera del computer. Ma sono rigide e l’acido lattico si forma rapidamente.
«Avresti potuto darmi due gambe paralizzate, invece!»
«Buon Dio, sii gentile con le mie tre dita e la mia lingua.»
La SLA è una risata sardonica e maligna.

[…]

Avere il tempo di qualcuno. Che qualcuno mi dia il suo tempo.
È un dono così grande, così enorme.
Un collega è venuto e mi legge un romanzo con una bella voce. È seduto sul letto dove sono distesa mentre il cibo viene pompato nel mio stomaco. C’è una candela accesa e io vorrei che il romanzo non finisse mai. Un altro collega mi chiede se può venire in compagnia di un’amica. «Ti farà bene incontrarla.»
Ho la possibilità di conoscere una donna con una grande esperienza della vita. Ho letto due dei suoi libri e ne sono rimasta affascinata. Adesso è seduta qui con me e io le prometto di comprare una macchina per il caffè espresso per la sua prossima visita.
(…)
Parla di due vie diverse da seguire: la paura e l’amore. Mi dico che forse è stato così che ho pensato quando ho deciso di non cedere all’amarezza, non lasciare che la malattia corrodesse i miei pensieri. Quando ho deciso di vivere giorno per giorno.
Parliamo di assaporare il buio, vederlo, toccarlo. Il buio è reale, ma non è tutto.
«Posso essere nel buio, ma non sono al centro del buio. Io sono molto di più» mi dice. «Io so che c’è altro; posso ritrovare un profondo senso di accettazione e posso aprirmi per il presente e per l’amore.»
Così mi dice Anita Goldman, che sta bevendo il mio caffè, e io penso le stesse cose.
Sta scrivendo un libro su Etty, una donna che è stata assassinata ad Auschwitz. Nel suo diario, Etty ha scritto:
Soffrire non è al di sotto della dignità umana. Quello che voglio dire è che si può soffrire con dignità umana e senza dignità umana. Quello che voglio dire è che gli occidentali non capiscono la capacità di chi soffre e invece si lasciano prendere da mille diversi tipi di angoscia.
[...] Dobbiamo accettare che la morte è parte della vita, anche la morte più orrenda. E non viviamo forse ogni giorno una vita completa, e quale importanza può avere se viviamo qualche giorno di più o di meno?

[…]

L’alba, il giorno prima della vigilia di Natale del 2003, sono sorpresa. La condensa fra i doppi vetri è gelata e attraverso i fiori di ghiaccio vedo i vapori del gelo levarsi dal mare.
È così straordinariamente bello.
Il cielo è colorato di rosa e porpora, e questa e quella stella risplendono ancora vagamente. Quando il sole si alza al di sopra della foresta di pini si forma un arcobaleno e i gabbiani sembrano più bianchi del solito.
Sono nuovamente a casa dopo quattro giorni nell’ospizio, una clinica per i malati terminali. La degenza media è di venti giorni. Metà dei pazienti muoiono lì.
«Posso vedere la camera ardente?» chiedo quando l’irrequietezza mi coglie.
Un po’ sorpresa, l’infermiera mi spinge in una stanza con una sorgente gorgogliante. Le pareti sono gialle, su una le nuvole sono dipinte con i colori della terra.
In un angolo c’è un angelo. Il pavimento è di piastrelle di terracotta e io sono convinta che sotto c’è un pozzo che mi fa ricordare la culla dove mio fratello, io e tutti i nostri bambini sono stati adagiati.
Però è molto più lungo. E senza fondo.
La stanza è tappezzata con un tessuto scuro, color ruggine, che arriva fino al pavimento. Mi fa pensare al mio nonno paterno e a quando mangiavo caramelle ai lamponi da lui invece di andare alle lezioni di piano da Anna Palmér in Nya Kyrkogatan a Kristinehamn.
Ancora oggi non sono brava a suonare il pianoforte.
Quando l’immagine di mio nonno che è morto si ritira, riesco a dire con voce nasale: «Perché?»
«Ti stai chiedendo perché è così piccola? Non c’è un letto. C’è posto per una bara.»
La stanza ha tre porte. Una è quella da dove siamo entrate, la seconda porta a una cella frigorifera e la terza a una rampa speciale all’esterno.
Ho difficoltà a calmare il pianto. C’è così tanto – così tanti – nella stanza. E lo spazio per la bara mi ha spaventata.
Ma sono felice di averla vista, la camera ardente.
La clinica è molto bella e mi ha fatta sentire gravemente malata. Cosa che di per sé è una realtà da molto tempo. Eppure, quando sono a casa posso dimenticare quei brevi momenti.
Il Natale è arrivato, e un anno fa quando cercavo di fare i pacchi maldestramente lo spettro mi aveva detto che era il mio ultimo Natale.
Si era sbagliato.
Le mie figlie e i miei figli mi sono vicini. Adesso sappiamo che è una cosa seria. Averli qua, pelle contro pelle, mi rende così felice che non ho bisogno di provare gioia.
I miei quattro figli, mio marito, Mimmi, suo figlio Hugo e io celebriamo il Natale insieme. Il tavolo natalizio è imbandito con aringhe marinate, prosciutto al forno, janssons frestelse, salmone, cavolo rosso, cavolo bianco, ravizzone, salsicce, polpette di carne, stoccafisso in umido, crêpe allo zafferano e sgocciolatura di arrosto che soltanto mia suocera assaggia. La stanza è piena di piccoli Babbo Natale e io sento l’odore del cumino, del melograno e dell’assenzio.
«Non capisco come tu faccia a rimanere seduta a tavola senza avere neppure la possibilità di assaggiare qualcosa» dice Mimmi.
Può sembrare strano, ma mi fa bene. Assaporo gli odori e ricordo le polpette speciali della mia infanzia preparate dalla cuoca della nonna paterna, con carne di vitello tritata e panna acida. Ricordo il prosciutto di Natale che veniva marinato con un misto di sale, zucchero, salnitro, peperoncini spagnoli, zenzero, lauro, cipolle rosse e pepe già alla prima domenica di Avvento per poi essere cotto alla vigilia di Natale. Bastava fino all’Epifania, e quando si formava un leggero strato scuro lo si rimetteva nel forno e lo si considerava nuovamente fresco.
Così allora. Adesso allacciamo un nastro di seta rosso intorno al tubo sterile della mia sterile soluzione nutritiva, e adorniamo con ghirlande argentate lo strumento.
Sono due mesi che non mangio un pasto normale, che non bevo. Il minimo sorso d’acqua finisce nel posto sbagliato. Ho problemi a inghiottire la mia stessa saliva, e quasi ogni sera l’assistente mi fa un’iniezione di morfina che blocca il muco e la tosse.
Un giorno arriva il pastore che spargerà la terra, mi porta una lanterna e un piccolo albero di Natale che ha ornato con biscotti allo zenzero che ha preparato lei stessa. Quando ci voltiamo, il labrador marrone di Mimmi li ha mangiati. Tutti meno uno.
«Il mio Rufs ha fatto la stessa cosa» mi consola il pastore e poi legge un brano del Vangelo seduta sul bordo del mio letto.
Molti vengono a farmi visita per Natale. È divertente, ma si comportano in modo diverso. Adesso non riesco più a parlare, ed è per questo che alzano la voce e articolano le parole il più chiaramente possibile. Ho perso una parte della mia mimica, e per questo, a volte, i lineamenti del volto sono contorti. Se dico qualcosa, anche se non dovrei, devo fare un tale sforzo da sembrare arrabbiata.
«Perché gridi in quel modo?»
E adesso mi fanno carezze sulle guance oppure, ancora peggio, sulla testa, come a una bambina. Lo detesto. Quella commiserazione con aria di superiorità.
Così lontana dalla compassione e dalla simpatia.
A Natale si può esprimere un desiderio, e io so quello che non posso avere a sufficienza.
Vicinanza, calore, verità e fiducia.
Voglio tanto che ricordiamo insieme cose e avvenimenti.
Non provare pietà per me. Sussurra segreti nel mio orecchio. I tuoi segreti. I nostri.
Lo dico seriamente.
Non sfuggire da me. Non avere paura.
Non è così pericoloso.
Siamo solo io e te.

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Ulla-Carin Lindquist è nata nel 1953 e ha avuto quattro figli, due femmine e due maschietti. Ha iniziato a lavorare nel 1988 come conduttrice a «Rapport», il telegiornale della sera svedese, diventando subito molto popolare. Nel 2000 si è trasferita in Canada con la famiglia ritornando due anni dopo come reporter. Il suo ultimo giorno di lavoro per la televisione svedese è stato nella primavera del 2003. È morta nella sua abitazione in marzo del 2004.
Questo libro è stato un best seller in Svezia, con più di 200.000 copie vendute. È già stato tradotto in: Inghilterra, Stati Uniti, Germania, Francia, Spagna, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Ungheria, Olanda, Polonia, Slovenia, Corea, Cina, Grecia.

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/17/remare-senza-remi-un-libro-sulla-vita-e-sulla-morte/feed/ 92
CHAVEZ E LA SOCIETA’ POLITICA DELLO SPETTACOLO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/28/chavez-e-la-societa-politica-dello-spettacolo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/28/chavez-e-la-societa-politica-dello-spettacolo/#comments Wed, 28 Nov 2007 17:05:39 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/28/chavez-e-la-societa-politica-dello-spettacolo/ Hugo ChavezConoscete Hugo Chávez ?

Il signore nella foto. Proprio lui.

Vi fornisco qualche informazione di fonte Wikipedia Italia.

Hugo Rafael Chávez Frías (Sabaneta28 luglio 1954) è un politico venezuelano. È l’attuale presidente del Venezuela.

Come leader della Rivoluzione Bolívariana Chávez promuove la sua visione di socialismo democratico, integrazione dell’America Latina e anti-imperialismo. È inoltre un fervente critico della globalizzazione neoliberista e della politica estera statunitense.

Ha fondato il Movimento Quinta Repubblica dopo aver organizzato, nel 1992, un fallito colpo di stato contro l’allora presidente Carlos Andrés Pérez. Chávez è stato eletto presidente nel 1998 grazie alle sue promesse di aiuto per la maggioranza povera della popolazione del Venezuela ed è stato rieletto nel 2000 e nel 2006. In patria Chávez ha lanciato le Missioni Bolívariane, i cui obiettivi sono quelli di combattere le malattie, l’analfabetismo, la malnutrizione, la povertà e gli altri mali sociali. In politica estera si è mosso contro il Washington Consensus sostenendo modelli di sviluppo economico alternativi, richiedendo la cooperazione dei paesi più poveri del mondo, specialmente di quelli sudamericani.

(Questo è il primo paragrafo di quanto trovate scritto su Wikipedia Italia alla voce Hugo Chávez ).

È stato appena pubblicato un libro molto interessante dedicato a Chávez. Si Intitola “Hugo Chavez, il caudillo pop” (Marsilio, 2007, euro 14). Gli autori sono Luca Mastrantonio e Rossana Miranda.

Di seguito potete leggere alcuni stralci della loro premessa. E, successivamente, un passaggio della prefazione di Gian Antonio Stella.

Poi vi invito a partecipare a un dibattito sia sulla figura di Chavez, sia sui seguenti temi in generale:

- La spettacolarizzazione della politica e la società politica dello spettacolo in Italia e nel mondo

- La relazione tra politica e nuovi medium di massa

I due autori parteciperanno al dibattito e sono a vostra disposizione per eventuali domande.

 Premessa

Questo libro, come Hugo Chávez ama dire di sé, citando Ortega y Gasset, nasce da circostanze. E dalla necessità di dare una risposta ovvero un senso compiuto alla domanda su chi sia Chávez. Le circostanze sono l’incontro, casuale e poi fatale, tra due punti di vista complementari: un paese del vecchio continente e un paese di ciò che sembrava un nuovo mondo.

Da parte italiana c’è curiosità e interesse per un politico affascinante e inquietante, che dopo un militaresco colpo di stato fallito, in un’ascesa mediatica e globale senza pari, è passato dal capitalismo umano a un socialismo nazionale, strabicamente focalizzato su politiche formalmente sovietiche e miopi speculazioni di rendita similfondiaria. Nonostante i celebri anatemi di Chávez contro “el diablo” Bush, infatti, continuano i lucrosi  guadagni con gli Usa e le sue multinazionali; allo stesso tempo, la ridistribuzione della ricchezza, capace di intaccare e tamponare le emergenze sociali attraverso programmi di sussidiarietà, non presenta reali prospettive di crescita per il futuro. Rimane la sfida lanciata al modello neo-liberista nordamericano per un governo socialmente più sensibile e sostenibile. Per questo Chávez è diventato la nuova bandiera dell’altro-mondismo di sinistra – e anche a destra, con il suo carisma e la retorica populista, crea un piacevole effetto di déjà-vu –, il figlio “putativo” di Castro, adottato soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione, dove i due appaiono sempre assieme, con Chávez che è, di fatto, il portavoce del pensiero e delle condizioni di salute di Castro.

Da parte venezuelana, oltre a un bisogno naturale di analizzare e comunicare all’esterno un fenomeno di rivoluzione epocale come il “chavismo”, positivo sul piano sociale ma negativo su quello della democrazia, c’è lo stupore per l’indulgenza con cui Chávez è visto in Italia e in Europa (oltre che in America del Nord) soprattutto a sinistra. Vengono “condonati” gli aspetti democraticamente imperfetti del Venezuela per opportunismo ideologico di matrice storico-materialista. Oppure vengono giustificati con il fatto che il Venezuela è pur sempre una repubblica sudamericana, con un malcelato razzismo e uno snobismo geo-politico che animano soprattutto i commenti sprezzanti della destra liberista.

Questo libro nasce per raccontare senza pregiudizi il fenomeno Chávez al pubblico italiano. Presso cui viene spesso liquidato come campione del folklore socialista e sudamericano o idolatrato come nuova bandiera della rivoluzione sociale, tradita dal vecchio continente. Un pubblico che troverà probabilmente inaspettate consonanze con figure storiche italiane del passato prossimo e del presente storico, dal precursore neo-bolivariano Mussolini al collega post-moderno Berlusconi. Ovviamente sotto le mentite spoglie del rivoluzionario che lotta per migliorare il mondo.

Il carisma di Chávez, la capacità di usare i media, la sua sovra-esposizione, hanno trasformato un confuso ma scaltro golpista in una vera icona pop contemporanea.

La faccia di Chávez si vede sulle magliette simili a quelle che un tempo mostravano Che Guevara o il subcomandante Marcos. (…)

Attraverso Chávez si è passati dall’estremo dell’apatia per la politica alla vera e propria ossessione.Crediamo che Chávez sia la risposta sbagliata, perché avventata e parziale, provvisoria e dunque incompleta, a una domanda giusta, esatta, che egli sa interpretare fin troppo bene, drammatizzandola all’eccesso.

La domanda, rivolta ai governi di tutto il mondo e in particolare del sud, è quella di un’attenzione sociale che metta in discussione certe storture dell’economia di libero mercato, come è avvenuto in Argentina, per esempio.

Ma la risposta, sbagliata, è rispolverare un modello che assomiglia allo stato-nazione del primo Novecento europeo, come retorica, e come impianto economico ricorda persino i modelli venezuelani precedenti a quello di Chávez. (…)-

Chavez gode di una popolarità sincera tra i venezuelani, grazie al suo carisma, all’impegno sociale e all’efficace retorica. È un personaggio di indubbio fascino, con una storia mitizzata alle spalle, capace di affiancare alle grandi doti oratorie una smisurata capacità di sfruttare i mezzi di comunicazione di massa. Cita Che Guevara e Ortega y Gasset e con il suo “socialismo magico” sembra uscito da un romanzo di Gabriel Garcia Marquez. È il primo politico della società globale dello spettacolo a piacere a sinistra, capace di bucare lo schermo e di finire sulle principali copertine, anche glamour, del mondo. Un ritratto a tutto tondo...

Ed ecco qualche passaggio della Prefazione di Gian Antonio Stella.

(…)

Strepitoso. Per questo va dato il benvenuto al libro di Rossana Miranda e Luca Mastrantonio. Perché aiuta a capire meglio, senza paraocchi ideologici, siano essi agiografici o demonizzatori, uno strano impasto d’uomo. Ambiguo com’è ambigua María Lionza, l’amatissima “dea” che cavalca nuda un tapiro e che è sì pagana ma anche un po’ cristiana e un po’ india e un po’ spagnola e un po’ tutto insieme. Aiuta a leggere un fenomeno politico che, per quanto il Venezuela sia al di là dell’oceano, ci interessa da vicino. Perché attraverso Chávez, le sue straordinarie doti di affabulatore, le sue collere studiate a tavolino, il suo rapporto diretto e plebiscitario con “el pueblo”, la sua spregiudicatezza nelle alleanze internazionali, la sua maschera comica, la sua capacità di toccare il cuore di certi pezzi della sinistra europea, la sua passione per la tivù, possiamo capire meglio anche noi stessi. La nostra sinistra. La nostra destra. La nostra politica sempre più dominata dalla televisione e da quello che avviene “in” televisione.

Resta una domanda che per l’intellettuale di sinistra Alexis Márquez dovrebbero porsi i nostri intellettuali “da bar notturno”: possono bastare certi lodevolissimi rattoppi populisti a fare di Chávez l’idolo della sinistra antagonista? può bastare uno slogan vergato sulle bidonville come «la rivoluzione avanza collina dopo collina » a rendere accettabili le forzature istituzionali e in qualche modo secondario l’odio che il colonnello semina nel paese fino al punto, come ha scritto Mario Vargas Llosa, di «raggrinzire la vita sociale fino a estremi ormai contigui alla guerra civile»? può bastare la formale libertà di stampa a occultare il carattere di un regime fondato su un “messianesimo” che grazie al rapporto diretto con le plebi non ha bisogno d’azzerare l’opposizione?

Non fosse molto preoccupato, Teodoro Petkoff, un ex guerrigliero che dopo una radicale autocritica sulla violenza è rimasto saldamente a sinistra fino a diventare prima ministro e oggi punto di riferimento dell’ammaccata opposizione democratica, si farebbe una risata:«Un pezzo della sinistra europea rimasta sotto le macerie della catastrofe sovietica e orfana delle illusioni vietnamite e castriste, quando trova nel Terzo Mondo uno che spara sugli americani ha un orgasmo. Tutto il senso di impotenza di cui soffrono nel dover prendere atto che il loro sogno romantico di rivoluzionari è fallito lo sfogano con questi innamoramenti. Certo, ammettono pure che non sta bene tentare un golpe o far le leggi senza parlamento, ma insomma, via, è così pittorescamente tropical!»
GIAN ANTONIO STELLA 

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Rossana Miranda (Caracas, 1982), laureata all’Universidad central de Venezuela, ha lavorato presso il quotidiano «El Nacional» e la televisione pan-sudamericana Telesur. È divisa tra il Venezuela paterno, per il quale scrive su riviste e quotidiani, e l’Italia materna, dove frequenta un master in Sociologia alla Sapienza di Roma e lavora per il mensile «Formiche». Spera di essere una piccola prova vivente che per i venezuelani è irrinunciabile il diritto alla critica.

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Luca Mastrantonio
(Milano, 1979), laureato in Lettere alla Sapienza di Roma, è responsabile cultura e spettacoli del quotidiano «il Riformista». Collabora a programmi di radio, riviste culturali e al settimanale «A». Di Chávez pensa che se fosse un fascista degli anni venti, o un venezuelano dei barrios di oggi, lo voterebbe senza dubbio. Non essendo né l’uno né l’altro, lo guarda con affascinato sospetto.

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