LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » morena fanti http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IL POSTO DI OGNUNO di Maurizio de Giovanni http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/16/il-posto-di-ognuno-di-maurizio-de-giovanni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/09/16/il-posto-di-ognuno-di-maurizio-de-giovanni/#comments Wed, 16 Sep 2009 18:17:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1085 In questi giorni sto leggendo “Il posto di ognuno” di Maurizio de Giovanni, il romanzo che ci presenta la nuova stagione letteraria del commissario Ricciardi. Avevamo già avuto modo di incontrare Ricciardi nelle altre due stagioni della sua vita libresca: l’inverno e la primavera.
Adesso, siamo in estate.

Ecco la scheda del libro:
“Napoli 1931. Le stagioni si susseguono incuranti del sangue e della morte e la città si prepara ad affrontare il caldo torrido dell’estate. Luigi Alfredo Ricciardi, commissario in forza alla Regia Questura di Napoli, affronta un nuovo caso di omicidio insieme all’inseparabile brigadiere Maione. Ricciardi è un commissario fuori dal comune, un solitario, uno che non ama eseguire gli ordini che gli vengono impartiti e di solito fa di testa sua. Non è ben visto dalla gerarchia fascista che lo controlla a distanza ma lo lascia lavorare, perché stranamente i casi li risolve tutti. In molti cominciano a sospettare che Ricciardi abbia un segreto, si dice parli direttamente con il Diavolo. In realtà Ricciardi si limita ad ascoltare le ultime parole dei morti: più che un dono, una condanna. L’estate del commissario Ricciardi vedrà la morte della bellissima duchessa di Camparino, una donna misteriosa dalla chiacchierata vita notturna. Anche stavolta saranno le ultime parole pronunciate dalla vittima a far partire l’indagine che condurrà il commissario, e noi lettori insieme a lui, a scoprire una Napoli riarsa e poco conosciuta, abitata da personaggi inquietanti che tenteranno di ostacolare il suo lavoro”.

Di seguito avrete la possibilità di leggere la recensione e l’intervista realizzate da Morena Fanti, che mi darà una mano ad animare e a moderare il dibattito.

Vi invito, come al solito, ad approfondire la conoscenza di questo libro approfittando della presenza dell’autore (che parteciperà alla discussione). Chi ha già letto il romanzo è, ovviamente, invitato a rilasciare il proprio parere.
Poi, come sempre, tenterò di avviare delle discussioni collaterali su alcuni dei temi affrontati dal libro; per farlo formulerò le mie solite domande. Le trovate di seguito.

[Domande ispirate dalla recensione]:
Per il commissario Ricciardi l’amore, quello vero, non vuole mai il male della persona amata: “(…) si dovrebbe riparare dal male l’oggetto del sentimento, anche se il male è proprio in chi si ama. Soprattutto se il male è in chi si ama. […] e quindi, nel suo caso, doveva mantenere Enrica lontana dalla sua maledizione, dal dolore selvaggio e terribile di cui era portatore”.
Cosa ne pensate? Siete d’accordo sul fatto che bisogna riparare dal male l’oggetto del sentimento, anche se il male è proprio in chi si ama?
E quando ciò non è possibile?
Bisognerebbe rinnegare l’amore, o continuare ad amare?

Che rapporto c’è tra amore e dolore? È un rapporto imprescindibile? Esiste amore senza dolore?

[Domande ispirate dall’intervista:]
Il duca di Camparino afferma che “Un uomo muore nel momento in cui non significa più niente per nessuno”.
È davvero così? Fino a che punto è vera questa frase? Fino a che punto è essenziale significare qualcosa per qualcuno?
E qual è il “posto di ognuno”?
Esiste “un posto”, per il quale siamo stati “predestinati” (e che magari ricerchiamo disperatamente)?
O è solo una pia illusione? Un luogo chimerico?

Di seguito, la recensione e l’intervista realizzate da Morena Fanti.
Massimo Maugeri

P.s. Se avete voglia di ascoltare la voce di Maurizio de Giovanni, vi consiglio di ascoltare l’intervista rilasciata a Fahrenheit (Radio Ra Tre).


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Il posto di ognuno
L’estate del Commissario Ricciardi
di Maurizio de Giovanni

Fandango libri, 2009 – pp.416, euro 14,00

Recensione di Morena Fanti

Estate del 1931. A Napoli il caldo è insopportabile. L’indagine per la morte della bella duchessa Adriana Musso di Camparino vede di nuovo uniti il Commissario Ricciardi (nell’immagne a destra) e il suo aiutante, il brigadiere Maione. Il caso si presenta complesso e Ricciardi si trova di fronte sempre nuove difficoltà in quello che sembra un delitto d’amore e di gelosia. Il commissario è un solitario e non ama eseguire gli ordini, oggi lo definirebbero un “cane sciolto”, e non è ben visto dagli uomini del potere fascista perché ama fare di testa sua: “ … Mi costringete a indagare, lo sapete. Non sono il tipo che si fa mettere paura. Da niente”.
Nel romanzo, il terzo della serie, corrono due storie parallele: l’indagine dell’omicidio e la vita interiore di Ricciardi che si specchia e si fonde con i pensieri suscitati dalle indagini. Ogni nuova scoperta porta ad altre riflessioni, che non riguardano solo i gesti che hanno portato all’omicidio della duchessa, ma scendono nell’anima degli indagati e di riflesso in quella del commissario, portandolo ad una nuova conoscenza di se stesso e dei propri desideri.
L’autore ci accompagna nei vicoli di Napoli e all’interno delle anime con la stessa delicata sicurezza che guida e armonizza le sue parole. La scrittura di Maurizio de Giovanni ha un ritmo efficace e diretto ma mai troppo veloce. Ha una musicalità interna che si rivela nella sequenza, perfettamente eseguita, in cui le donne del romanzo si esibiscono nel taglio delle cipolle e successivo pianto. Questa sequenza è un vero canone musicale in cui le note [i gesti eseguiti] si susseguono da una cucina all’altra unendo le attività svolte e le mosse, forme esteriori, ai pensieri e ai desideri, forme interiori.
Il commissario Ricciardi deve convivere con un peso enorme, con “il Fatto”, come lui stesso definisce le visioni che lo costringono a sentire il dolore sospeso nell’aria dopo una morte violenta. Questo è il motivo che lo rende così deciso nel non permettere l’ingresso di qualcuno nella sua vita. Ricciardi intuisce che l’amore, quello vero, non vuole mai il male della persona amata: “Non sapeva nulla dell’amore. Ma se avesse dovuto parlarne, avrebbe detto che si dovrebbe riparare dal male l’oggetto del sentimento, anche se il male è proprio in chi si ama. Soprattutto se il male è in chi si ama. […] e quindi, nel suo caso, doveva mantenere Enrica lontana dalla sua maledizione, dal dolore selvaggio e terribile di cui era portatore”, perciò soffre guardando la ragazza che ricama alla finestra, e che per lui è solo un’immagine, come “un quadro di Vermeer”.
Quel suo essere così solitario e pensieroso lo rende anche molto misterioso e affascinante. Due donne cercano di entrare nella sua vita: Enrica Colombo, la stessa immagine nella finestra che ora sta diventando reale, e Livia Lucani, la bella vedova conosciuta in un’indagine precedente. Lui è interessato ad approfondire queste conoscenze, ma si dimostra molto indeciso tra le due donne.
Ma Rosa Vaglio, la tata che gli è accanto dalla nascita, intuisce molte cose e capisce ciò che turba il cuore del bel commissario. Rosa ha notato gli sguardi che Ricciardi lancia alla finestra di fronte e spera che agli sguardi segua presto una mossa: lei sa che “il ghiaccio si scioglie prima, se ci si accende sotto un bel fuoco”.
A chi andrà il cuore del bel commissario?
Lo sapremo nella quarta stagione, la nuova avventura che Maurizio de Giovanni ci starà già (ce lo auguriamo) preparando.

Morena Fanti

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Uno scrittore [vero] per tutte le stagioni: un incontro con Maurizio de Giovanni
di Morena Fanti

Il commissario Ricciardi è un personaggio completo e profondo. Solo uno scrittore vero sa arrivare così dentro all’anima dei suoi personaggi e Maurizio de Giovanni (nella foto) lo ha fatto molto bene anche in questo terzo romanzo – e terza stagione della serie – (Il posto di ognuno – L’estate del commissario Ricciardi. Fandango libri, 2009) che vede protagonista il bel commissario dagli occhi verdi e dal cuore tormentato. Ma la sua scrittura non è solo tormento e introspezione: in alcuni suoi racconti in rete ho trovato un’anima ironica e leggera che non sbaglio se definisco umoristica. È sempre interessante scoprire uno scrittore che sa muoversi con grazia tra le righe e sa usare penne di tanti colori. La scrittura è un mezzo di comunicazione che diventa ancora più efficace con la voce ‘giusta’. De Giovanni è uno scrittore che non teme di farsi ascoltare, uno scrittore che si regala ai suoi lettori. Leggendo i suoi romanzi si ha l’impressione che le indagini, gli omicidi e gli altri fatti di sangue, siano solo la ‘scusa’ per accompagnare il commissario Ricciardi nella sua vita e nella sua crescita personale. La vera storia – in questi romanzi le storie sono sempre due e viaggiano parallele: le indagini per scoprire l’autore dell’omicidio da un lato e la vita di Luigi Alfredo dall’altro – è quella della solitudine dolorosa di Ricciardi e del suo desiderio per ora inascoltato da lui stesso di Amore, e gli eventi che lo circondano servono solo a contorno. Ecco il motivo per cui i suoi romanzi non sono ‘semplici’ gialli, ma romanzi pieni e densi in cui affondare e navigare in ogni direzione. Romanzi di crescita. Iniziamo proprio da qui questo incontro con lo scrittore Maurizio de Giovanni.

• Che ne pensi, Maurizio, di queste mie dissennate elucubrazioni?
Che sono perfettamente addentro e consone a Ricciardi e al suo mondo. Io racconto di un percorso, la strada di confine che Ricciardi crede essere parallela alla vita e che quindi con la vita non si incontrerà mai; e invece suo malgrado, lentamente e con grande sofferenza, lo porta sempre più vicino alla carne e al sangue, intossicandolo di vita. Le indagini che porta avanti per lavoro gli mostrano, nella corruzione dei sentimenti e delle passioni, come essere umani significhi essere capaci di amore e di delitto; e di quanto lui stesso, e Maione, ed Enrica, e Livia e tutti coloro che lo circondano siano profondamente umani. Nei quattro romanzi io spiego a Ricciardi, facendolo muovere attraverso il suo mondo, che non potrà fare a meno di essere un uomo, anche se è testimone forzato di tutto il dolore più aspro e putrescente che vede ogni giorno e a ogni angolo di strada.

• Le stagioni sono solo quattro e la prossima è l’autunno. Cosa accadrà al commissario Ricciardi dopo il quarto romanzo? Andrà in pensione anticipata? O inventerai per lui altre storie?
Dipende soprattutto dai lettori. Il contratto con Fandango Libri prevede quattro romanzi, per cui se il successo della serie manterrà gli attuali livelli, molto lusinghieri per la verità, è probabile che mi sarà richiesto di continuare. Il mondo di Ricciardi va prendendo forma e spessore libro dopo libro, per cui non avrei difficoltà a continuare a raccontarne la storia.

• Scrivere di uno stesso personaggio può essere confortante: lo si conosce sempre meglio e, anzi, ad ogni scrittura lo si approfondisce e gli si regala ancora più spessore finché ci sembra un amico, uno di famiglia. È anche vero, però, che scrivere di uno stesso personaggio potrebbe diventare un limite alla scrittura. Quale affermazione senti che ti appartenga di più?
Direi senz’altro la prima. Non pianifico molto la storia, quando comincio a scrivere, per cui sono il primo a godere la sorpresa di incontrare certi personaggi e vederne crescere pian piano caratteri e peculiarità. A me sembra di imbattermi in vecchi amici e credo che mi mancherebbero se non ne scrivessi più. Naturalmente però ho altre idee e non escludo di addentrarmi in altri mondi e in altre storie in futuro, anche per capire se sono capace di scrivere altro sempre nella forma del romanzo.

• Quanto ti piacerebbe, oppure no, che Ricciardi diventasse il personaggio di una serie tv?
Inutile negare che mi piacerebbe molto, sia per l’opportunità commerciale e di diffusione dei romanzi che questo comporterebbe sia per il divertimento di vedere in carne e ossa personaggi che finora abitano solo nella mia mente e in quella dei lettori. Trovo inoltre estremamente gratificante per uno scrittore che altri professionisti decidano di lavorare attorno a un’idea sua, per cui mi aggirerei soddisfatto e curioso sull’eventuale set come mi aggiro all’interno delle mie storie. Ammetto però anche un certo timore di vedere per esigenze di scena le storie di Ricciardi allontanarsi un po’ da come io le ho pensate, rischio inevitabile in queste circostanze.

• Come sapevi che nel 1931 si conoscevano già le emorragie petecchiali? Immagino che tu abbia fatto molte ricerche per scrivere con sicurezza di anni così lontani.
Tutto quello che scrivo con riferimento all’epoca è frutto di attente (e difficili) ricerche, effettuate con l’aiuto di amici esperti in vari campi. Nella fattispecie ho reperito trattati di medicina legale del periodo, dai quali prendo i riferimenti per il lavoro del dottor Modo. Fidati, le emorragie petecchiali erano già presenti nella letteratura medica dai primi del novecento.

• E questo pensiero mi porta anche a questa domanda: la scelta di ambientare le vicende di Ricciardi negli anni trenta è una scelta del personaggio –cioè, lui poteva essere ‘vero’ solo in quegli anni- oppure è una scelta dell’autore – per un tuo piacere di raccontarci quegli anni in particolare e combinare la storia di Luigi Alfredo con la storia dell’Italia negli anni del fascismo?
Le motivazioni della scelta degli anni trenta sono due, una occasionale e una, diciamo, funzionale. La prima deriva dal fatto che il racconto in cui nacque Ricciardi fu scritto durante un concorso al Gambrinus, caffè storico napoletano di ambientazione liberty, che vinsi e da cui deriva tutto quello che è successo dopo. L’altra motivazione è che non mi piace, nella narrativa gialla, l’eccessiva presenza delle indagini scientifiche. Mi interessa il viaggio all’interno di sentimenti, emozioni e passioni dell’investigatore tradizionale, quello che non può utilizzare analisi del DNA, raggi X, luminol e così via. A Napoli poi le scene del crimine, allora come ora, vengono immediatamente inquinate da curiosi e passanti, per cui sarebbe stato inutile riferirsi a questi strumenti.

• Un uomo muore nel momento in cui non significa più niente per nessuno, afferma il duca di Camparino. Quanto credi in questa frase?
Ci credo molto. Vedo persone che vivono in una progressiva terribile solitudine, diventando invisibili man mano che il contesto sociale se ne disinteressa, sopravvivendo in uno stato di abbandono che è peggio della morte. Ricciardi viaggia tra i morti e i vivi, spesso proprio tra questi ultimi vedendo i più soli e disperati.

• Che rapporto hai con la morte? Come credi sia possibile convivere con il dolore?
La morte è nella vita, ad essa strettamente connessa, irrinunciabile, visibile. L’impronta fisica di chi ci ha preceduti è nei nostri sensi, nei ricordi, nelle emozioni. Il dolore è un richiamo, un perenne souvenir che esiste perché è esistito l’amore. Non farei mai a meno del dolore, che è sintomo del vivere: una corazza ci eviterebbe le ferite, ma tanto varrebbe non essere mai nati. Ti dico che secondo me il dolore e la tenerezza sono le uniche due emozioni che vale la pena vivere. Non è la morte che dobbiamo temere, ma l’assenza: se facciamo in modo di non separarci mai dai ricordi, allora potremo dire di aver sconfitto la morte.

• Qual è il posto di ognuno? Ricciardi riuscirà a trovare il suo posto?
Il posto di ognuno non esiste, così come non esiste il senso del dolore o la condanna del sangue. Mi sono divertito a intitolare i tre romanzi, ed è la prima volta che lo rivelo, con tre strutture sociali che non hanno significato reale. Ognuno cerca disperatamente di procurarsi un posto diverso da quello in cui gli altri cercano di tenerlo, e per completare questo intento può anche arrivare al delitto. Relegare qualcuno in un posto è imprigionare, e nessuno può accettarlo passivamente. Ricciardi crede di vivere in un luogo intermedio tra la vita e la morte per la sua particolare condizione, e di fatto si imprigiona da solo impedendosi l’amore, l’amicizia e una vita normale; nel suo caso però sarà la vita stessa a determinare che il suo posto non è quello che lui crede.

• Il vicequestore Garzo pensa che “per comprendere i processi mentali di un delinquente bisogna, in qualche modo, pensare come lui; e quindi essere delinquenti, almeno un po’”. Ricciardi non la pensava così fino a che non ragiona sui nuovi eventi dell’indagine e su un aspetto umano che prima non conosceva. Quanto de Giovanni c’è in Ricciardi?
Secondo me c’è dell’autore in ogni personaggio. Un po’ del sottoscritto c’è in Ricciardi, sicuramente: la sensibilità al dolore, l’ironia che a volte sfocia nel sarcasmo, un po’ d’insofferenza nei confronti della burocrazia; ma anche la bonomia superficiale e pressappochista di Maione, la supponenza ribalda del dottor Modo, l’ottimismo testardo di don Pierino. Tutti figli miei, insomma, con pregi e difetti.

• Valerio Varesi afferma che il suo commissario Soneri è per lui un fratello e che gli fa combattere le battaglie in cui lui crede. Per te chi è Ricciardi?
Per me Ricciardi è un viaggiatore; una specie di ebreo errante o di olandese volante, un Ulisse senza Itaca costretto a percorrere eternamente una linea di confine senza entrare né il un luogo né nell’altro. La sua battaglia non prevede vincitori, è titolare di un mandato generato dal dolore della morte violenta, evitabile e quindi sempre inutile per lui, per tentare di mettere le cose a posto per quanto si possa. Provo per lui molta tenerezza per la condizione che vive, e vorrei che potesse trovare una pace che non può trovare.

• Quando Ricciardi termina un’indagine si deve confrontare con una sensazione mista tra nostalgia, delusione e rabbia. E quando lo scrittore Maurizio de Giovanni termina un romanzo con cosa si confronta?
Tiro un sospirone di sollievo. Quando scrivo una storia di Ricciardi, per tutto il periodo della scrittura, ne sono quasi ossessionato: pezzi di dialoghi, facce di personaggi, luoghi, perfino odori e sapori invadono la mia vita quotidiana e, credimi, non è facile conviverci. La fine di un romanzo è una liberazione, anche se dopo un po’ mi manca e comincio a riflettere su una nuova storia.

• Ho letto in rete alcuni tuoi racconti con una scrittura molto diversa dai tuoi romanzi. Racconti con un’anima più ironica. Forse la scrittura ‘leggera’ diventa un mezzo per rilassare la mente dagli impegni del romanzo?
La mia vera scrittura, quella che mi viene naturale, è quella leggera e ironica, al limite dell’umorismo. Sembra assurdo per chi legge Ricciardi, ma è quando scrivo di lui che la mia maniera di esprimermi cambia. Se avrò modo e tempo, prima o poi scriverò un romanzo (la cui storia ho già più o meno in mente) con quest’altra modalità, per vedere come viene.

• In questi anni proliferano siti e blog di scrittori. Sembra che chi non è presente in rete non sia ‘visibile’. Che rapporto hai tu con la rete? Come vivi internet e i rapporti che si creano sul web?
Internet mi diverte, la trovo un’enorme opportunità di studio, ricerca e contatto. Non appartengo però alla generazione per la quale la rete è imprescindibile, per cui riesco comodamente a farne a meno: per intenderci, non sono tra coloro che non vivono senza connettersi. Penso che tramite il web possano nascere meravigliose amicizie, contatti tra anime lontane; un’occasione di vicinanza, di contiguità che è diventata irrinunciabile. Di internet mi interessa questo.

• Leggendo il tuo romanzo ho pensato che due passaggi – quello delle cipolle, che chi ha letto il libro ha ben presente e chi non l’ha letto dovrebbe farlo subito, e l’altro in cui i personaggi provano fitte di gelosia che attribuiscono ad un mal di stomaco del tutto inventato – siano molto musicali. Il passaggio delle cipolle è un vero canone, con quel rincorrersi delle scene e ricominciare da capo e poi proseguire. Che rapporto hai con la musica? La senti anche tu nella tua scrittura o è una mia invenzione?
La scrittura come la musica è simmetria, ritmo, armonia; almeno, per me è così. Quindi mi capita di ritrovare momenti in cui i personaggi vengono uniti come le strofe di una canzone da un ritornello, un aspetto comune e unificante pur nella diversità delle storie di ciascuno. Mi piace scrivere in questo modo, perché la vita stessa si prende a volte la libertà di creare comuni denominatori e simili contesti, anche quando uno mai se lo aspetterebbe. Scrive una sua canzone, insomma: basta starla a sentire.

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IL DOLORE PIU’ GRANDE. ORFANA DI MIA FIGLIA di Morena Fanti http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/12/il-dolore-piu-grande-orfana-di-mia-figlia-di-morena-fanti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/12/il-dolore-piu-grande-orfana-di-mia-figlia-di-morena-fanti/#comments Fri, 12 Sep 2008 19:55:47 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/09/12/il-dolore-piu-grande-orfana-di-mia-figlia-di-morena-fanti/ Questo è un post molto particolare, che tratta un argomento delicatissimo.
Ho scelto questo titolo (Il dolore più grande) non a caso.
Qual è, secondo voi, il dolore più grande?
Secondo me è la perdita di un figlio.
Ed è proprio di questo che parla Orfana di mia figlia, il libro di Morena Fanti che presentiamo qui. Un libro che racconta una storia vera, come avrete modo di capire leggendo il pezzo di Salvo Zappulla (che ha firmato la nota in quarta di copertina).

Federica muore a soli 24 anni… investita da un’auto mentre attraversa la strada davanti casa.
È il 2 ottobre del 2001.
Un mese dopo l’incidente, Morena apre un diario… lasciando confluire in esso il dolore per la perdita dell’unica figlia.
Quel diario è diventato libro.
E i proventi saranno devoluti a scopo benefico.

Vi lascio una domanda…
Com’è possibile superare il dolore di una perdita così terribile?
Morena Fanti sarà ospite di questo post. Salvo Zappulla mi aiuterà a moderarlo.
Vi invito a discuterne con loro.
Massimo Maugeri

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Orfana di mia figlia, di Morena Fanti – Il pozzo di Giacobbe – euro 16 – pagg. 200

Un libro forte e violento come un pugno sullo stomaco. Violento, come violenta è la mano crudele che cala a ghermirti una figlia di ventiquattro anni prossima alla laurea. Quando muore un figlio la vita si ferma. Muore anche la vita dei suoi genitori, ne devono creare una nuova. Questo non è un romanzo ma una storia vera, la storia di una vita spezzata, anzi di tante vite spezzate. Una famiglia che vive serenamente fino a quando un banale incidente stradale non le ruba la cosa più preziosa: l´unica figlia. L’unica adorata figlia. Morena racconta il suo calvario con lucidità estrema, ci sono pagine di straordinario lirismo in questo libro, intense, crudeli, terribili. Cala un velo negli occhi di quanti hanno perduto una persona cara e quegli occhi non riavranno più la stessa lucentezza. Molti lettori si riconosceranno e si identificheranno in questa storia. Il dramma, il vortice dell´abisso, sentirsi sprofondare giù senza intravedere una via d´uscita. L’annullamento della propria persona, l’abbrutimento fisico, l’apatia, il desiderio di farla finita. E poi lentamente il risveglio, la rinascita, la voglia di dare ancora un senso a questa nostra fragile precaria esistenza. Una testimonianza importante questa di Morena, su un argomento troppo spesso taciuto: la morte. Ma è anche una storia di rinascita e di positività. Uno spiraglio di luce che penetra le tenebre e apre alla speranza. Ed ecco allora che la storia di Morena diventa un documento prezioso da trasmettere agli altri, quasi un manuale che ci insegna come combattere il dolore o almeno imparare a conviverci; ci spiega come riappropriarci della nostra vita, che in fondo vale sempre la pena di essere vissuta.
Salvo Zappulla.

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