LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Moretti e Vitali http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 IL CANTORE FOLLE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/09/19/il-cantore-folle/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/09/19/il-cantore-folle/#comments Mon, 19 Sep 2016 14:15:30 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7248 IL CANTORE FOLLE. Hölderlin e le Poesie della torre (Moretti & Vitali)

di Massimo Maugeri

Il nuovo appuntamento della rubrica di Letteratitudine chiamata “Saggistica Letteraria” è dedicato a questo nuovo saggio di Francesco Roat intitolato “Il cantore folle. Hölderlin e le Poesie della torre” (Moretti & Vitali). Il libro è incentrato sulla figura del poeta Friedrich Hölderlin (1770-1843), sulla sua poesia e… sulla sua “follia”.
Ho avuto modo di discuterne con l’autore…

-Caro Francesco, come nasce il tuo interesse per le poesie di Friedrich Hölderlin? E come si è evoluto questo tuo interesse al punto da spingerti a dedicargli un saggio?
Hölderlin (1770-1843) a tutt’oggi è considerato unanimemente non solo uno tra i più grandi lirici/scrittori germanici, ma pure uno dei massimi poeti moderni occidentali. Ed io, che sono nato in una regione di confine tra il mondo italiano e quello tedesco (il Trentino-Alto Adige), ho sempre avuto un forte interesse per la letteratura e, in genere, per la cultura tedesca. Negli ultimi anni, non a caso, ho scritto saggi intorno a Goethe, su Rilke e Robert Walser. Era quindi fatale approvassi ad Hölderlin, la cui opera poetica è da senz’altro ritenersi anticipatrice di istanze, inquietudini e forme stilistiche innovative; per certi versi – oso affermare provocatoriamente − quasi novecentesche.

-Approfitterei di questa intervista per contribuire a far conoscere la figura di Hölderlin. Parliamo di lui: che tipo d’uomo è stato?
Direi innanzitutto un personaggio notevole sin dalla più giovane età. Sensibilissimo, appassionato di musica (fu un discreto pianista) e dell’arte in generale, si interessa dapprima dei poeti greci e latini, poi di quelli a lui contemporanei e inizia quindi a comporre egli stesso, andando contro i desiderata della madre che lo vorrebbe pastore protestante. Nello Stift di Tubinga ‒ celebre collegio di studi teologico-filosofici ‒ incontra Schelling ed Hegel, il quale diverrà suo amico fraterno. Ma le loro vie ben presto si divideranno: vocato alla filosofia quest’ultimo, alla poesia Hölderlin, che in seguito avrà la ventura di conoscere Schiller, von Humboldt, Novalis e persino di incontrarsi col vecchio Goethe. Il Nostro scriverà numerose opere: il romanzo Iperione e testi poetici eccelsi, come gli Inni, le Odi e le Elegie; tuttavia egli non verrà comunque mai apprezzato/riconosciuto appieno durante la sua vita. Solo nel secolo successivo infatti la produzione hölderliniana riceve finalmente la considerazione che merita. Ma veniamo al fatidico 1807, quando il poeta cade preda della pazzia, finendo relegato sino alla morte, per i successivi 36 anni, nella cosiddetta torre di Tubinga, dove egli scriverà i suoi ultimi testi, intitolati giusto: Poesie della torre.

-Approfondiamo un po’ di più l’aspetto relativo al disagio psichico di questo poeta. Del resto il titolo del saggio è molto indicativo: “Il cantore folle”. Da dove trae origine la sua “follia”?
Da una grave forma di psicosi, appunto, ovvero la schizofrenia, forse provocata o favorita dalla morte prematura e improvvisa della sua amatissima Diotima (così lui chiamava Susette Gontard), dopo la cui scomparsa Hölderlin precipita in breve tempo in una pazzia devastante, da cui non guarirà più. Rinchiuso nella “torre” a causa della sua ingestibilità, il poeta viene abbandonato da amici e conoscenti, che gli fanno visita via via sempre più di rado: “vuoi perché la loro pietà era talmente grande da lasciarli scossi fino alle radici alla vista di un crollo spirituale così compassionevole” – come scrive Wilhelm Waiblinger nella sua biografia sul poeta −, “vuoi perché se ne stancavano velocemente, ritenendo che non si potessero scambiare con lui nemmeno due parole di senso compiuto”. Eppure, e questo è un autentico miracolo, durante i lunghi e solitari decenni della sua reclusione Hölderlin continua a scrivere, componendo/distillando una cinquantina di poesie, che vari critici ritengono rappresentino l’apice creativo della sua pur vasta produzione. Va precisato, comunque, che probabilmente egli produsse altri testi poetici, finiti chissà dove o trafugati dopo il suo decesso.

Risultati immagini per francesco roat-Che tipo di influenza ha avuto la schizofrenia nell’arte poetica di Hölderlin?
La ha profondamente mutata, questo è fuori dubbio. Se prendiamo gli inni tardi e le liriche scritte prima del ricovero nella clinica psichiatrica (1807) e li confrontiamo con le Poesie della torre, vi troveremo una differenza abissale: riguardo a temi, stile, linguaggio, ampiezza dei testi persino: molto più brevi sono in genere queste ultime ed assai più semplici. Ciò non vuol dire però poeticamente meno intense. Anzi, come ho accennato prima, l’ultima peculiarissima produzione creativa del Nostro ‒ così icastica, lineare, quasi naif direi, con un ritorno all’uso della rima ‒ è forse la più felice. Anche se la sintassi delle Turmgedichte si fa talvolta eccentrica e in alcuni casi la strofa è a rischio d’incoerenza grammaticale; così come l’ostinatezza reiterata di certe immagini può far pensare a una coazione ossessiva a ripetere. Ciò che in ogni caso colpisce in tali poesie d’estremo nitore  è una grande levità, il respiro musicale e placido di una versificazione sobria ed essenziale ma ricca di echi, rimandi, suggestioni.

-È possibile scindere l’arte poetica dal sopravvenuto disagio psichico del suo autore (a cui abbiamo già fatto riferimento) o le due componenti finiscono con l’essere inevitabilmente (e ineluttabilmente) legate?
Questione difficile, a cui è difficile rispondere in poche parole, ma cercherò di farlo sottolineando come la tarda produzione poetica hölderliniana resta comunque contrassegnate dal marchio deturpante della psicosi, se non altro per quanto concerne la firma e la datazione. Molte di esse infatti sono firmate Scardanelli, che non è un vero e proprio pseudonimo, poiché, a mio avviso, esso indica l’abbandono dell’identità, l’abdicazione dell’io, il venir meno del soggetto raziocinante Hölderlin. Per non parlare delle date incongrue con cui sono siglate le poesie, una delle quali reca la data più assurda e inquietante: il 1943. Eppure, ad onta della schizofrenia e della reclusione alienante, il poeta continua ad essere tale, pervenendo infine ad una sorta di accettazione mistica della propria sofferenza e, spogliatosi di ogni egoità, raggiunge una purezza espressiva commovente/coinvolgente.

-Cosa puoi dirci in merito ai giudizi contrastanti sui testi di Hölderlin prodotti, appunto, nel periodo creativo segnato dalle problematiche psichiche?
Sulla tarda produzione hölderliniana e sulla sua pregnanza poetica permangono ancora dei giudizi contrastanti, anche se sempre più si sta affermando la consapevolezza del valore delle Poesie della torre. E, modestamente, con questo saggio io cerco di addurre argomenti a favore di quest’utima tesi. In estrema sintesi Hölderlin, a mio avviso, resta grande sino all’ultimo.

-Che tipo di riscontro hanno avuto le poesie di Hölderlin nel nostro Paese? Mi riferisco soprattutto al ruolo svolto da Ungaretti, Luzi, Montale, Zanzotto (ma anche da Guardini e Reitani)…
Qui tocchiamo un tasto dolente. La poesia, in Italia, non ha mai goduto dell’attenzione che meriterebbe presso i lettori. Oggi, purtroppo, meno che mai. Parliamoci con franchezza: la maggior parte della gente non sa nemmeno chi sia Hölderlin. Certo gli intellettuali, gli uomini di cultura che tu citi hanno invece fatto molto per far conoscere nel Belpaese il poeta tedesco. Soprattutto gli ultimi due. Romano Guardini ha scritto un testo critico fondamentale sulla sua opera (parlo di Hölderlin. Immagine del mondo e religiosità, edito dalla Casa Ed. Morcelliana) e Luigi Reitani ne ha tradotto tutte le poesie e sta inoltre allestendo un volume dei Meridiani Mondadori che raccoglierà tutti gli altri scritti del Nostro. Tuttavia, ripeto, resta che la poesia da noi si legge troppo poco.

-A proposito di poesia (che va letta!)… come epigrafe del libro hai scelto questi versi tratti dalla poesia “Brod und Wein” (Pane e vino) di Friedrich Hölderlin. Li ricopio di seguito…
Un fuoco divino pur ci sospinge, di giorno e di notte, / a metterci in marcia. Su, vieni! Guardiamo nell’Aperto, / cerchiamo qualcosa di nostro, per quanto sia ancora / lontano.
Perché hai scelto proprio questi versi come “anticamera testuale” del tuo saggio?

Perché possono davvero riassumere la poetica di Hölderlin. Il concepire ogni cosa, ogni singolo essere come parte del divino o del sacro che dir si voglia ‒ vedasi la famosa definizione, di provenienza eraclitea, ἓν ϰαὶ πᾶν (Uno e Tutto) ‒, qui visto quale fuoco, corrente energetica che urge in noi, stimolandoci ad agire e creare. È al contempo l’invito a guardare all’Aperto (das Offene): all’oltre, all’altrove e all’altro rispetto alla notra piccola monade egocentrica ed egocentrata. Un’apertura che corrisponde alla nostra autenticità di eterni viandanti senza stelle fisse all’orizzonte.

-In definitiva qual è, a tuo avviso, la principale eredità culturale (e poetica) che ci lascia Friedrich Hölderlin?
Invece di rischiare parole retoriche o di circostanza, preferirei lasciare che parli il poeta stesso, citando in conclusione di questa nostra chiacchierata giusto l’ultima poesia della torre, scritta forse il giorno prima di morire. Meditando su di essa, che accenna alla morte non come annichilimento definitivo ma come metamorfosi, i lettori si misureranno con la sua estrema, lucida e felice testimonianza. Si tratta della lirica dal titolo La veduta, che io ho cercato di tradurre, consapevole di come ogni tentativo di questo genere sia sempre operazione limitata e infedele, essendo sin troppo vero che tradurre equivale pur sempre a tradire.

Quando va lontano la vita che dimora negli umani,
dove lontano splende il tempo della vite,
v’è pure accanto il campo spoglio dell’estate,
e il bosco appare con la sua immagine scura.
Che la natura completi l’immagine delle stagioni,
che lei rimanga, esse trascorron via veloci,
è per sua perfezione; allor l’alto del cielo
all’uom riluce, come la fioritura gli alberi incorona.

-Grazie, caro Francesco. Invitiamo gli amici lettori a leggere le poesie di Friedrich Hölderlin e ad approfondire la conoscenza di questo poeta e delle sue opere attraverso la lettura di questo tuo saggio.

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Francesco Roat ha pubblicato i testi narrativi: Tra-guardo (Argo-1999), Una donna sbagliata (Avagliano-2002), Amor ch’a nullo amato (Manni-2005), Tre storie belle (Travenbooks-2007), I giocattoli di Auschwitz (Lindau-2013), Hitler mon amour (Avagliano-2014); e i saggi: L’ape di luglio che scotta. Anna Maria Farabbi poeta (LietoColle-2005), Le Elegie di Rilke tra angeli e finitudine (Alpha beta- 2009), La pienezza del vuoto. Tracce mistiche negli scritti di Robert Walser (Vox Populi-2012), Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove (Moretti&Vitali-2015).

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DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove – di Francesco Roat http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/27/desiderare-invano/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/02/27/desiderare-invano/#comments Fri, 27 Feb 2015 16:48:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6694 Nel primo appuntamento del nuovo spazio di Letteratitudine dedicato alla “Saggistica Letteraria” diamo spazio al volume “DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove” di Francesco Roat (Moretti & Vitali).
Di seguito: una nota sul libro (tratta dalla postfazione di Flavio Ermini), un intervento dell’autore (predisposto in esclusiva per Letteratitudine,  in cui ci racconta qualcosa sul volume) e un estratto del libro.
Massimo Maugeri

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Dalla postfazione di Flavio Ermini

La leggenda del patto tra Faust e il demonio può essere letta come un mito: ovvero come una narrazione primordiale, grazie alla quale interrogarci sulla natura dell’essere umano e finanche sulla sua essenza.
È quanto fa Francesco Roat in Desiderare invano, seguendo passo per passo la vicenda narrata da Goethe, ma senza dimenticare – in frequenti, vertiginosi excursus – le tante altre opere letterarie, teatrali o musicali ispirate alla figura dello studioso che sottoscrive il più celebre dei patti stipulati tra l’essere umano e il diavolo. È lucidissima, a questo proposito, la riflessione che l’autore mette in campo intorno alle forme del desiderio e ai suoi aspetti irrisolti e paradossali.
Il desiderio di conoscere ogni cosa e di carpire tutti i misteri del mondo è un’ambizione che eccede l’umano e si traduce, come osserva Roat, “non già in un anelito sovrumano quanto disumano”! L’umanità sta da un’altra parte. Si rivela solo affrancandosi dalle illusioni.
Ritenere di poter sfuggire all’esperienza della morte e del dolore è perversione, è tradimento, è corteggiare un precipizio. Solo la coscienza della profonda unità del cosmo – alla quale siamo chiamati nascendo – può placare l’angoscia della caducità e può consentirci di abbracciare una visione della vita che sposti l’accento sul morire come legge dell’esistenza; può indurci a prendere consapevolezza dell’impossibilità di ogni assoluto, di ogni eterno piacere. Può consentirci di abbracciare i chiaroscuri di una persistente umbratilità.

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Francesco Roat ci “racconta” DESIDERARE INVANO

di Francesco Roat

F. Roat leggeIl mito di Faust nasce a cavallo tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna, ma la storia dell’uomo che ha venduto la propria anima al diavolo è riconducibile a un personaggio realmente vissuto, riferendosi al negromante e astrologo tedesco Johann Faust (1480-1540); anche se in essa non mancano rimandi a racconti e a mitologemi di derivazione ancora più remota.Nel mio saggio (“Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove”, edito da Moretti&Vitali) sostengo, sulla scia di André Neher, che quello faustiano sia “il mito dell’uomo moderno” per antonomasia, incarnando il suo protagonista il desiderio di affrancarsi dai retaggi dogmatici e l’urgenza di tendere in modo inesausto a superare ogni limite: atteggiamento spesso destinato a tradursi in velleitario desiderio d’onnipotenza, il quale trova la sua massima espressione storica non tanto nell’Übermensch nicciano, quanto nell’aberrazione che di tale figura ha prodotto il nazismo.
Faust è però anche l’anticonformista che vuole gustare ogni piacere, appagare ogni istinto o voglia. Al contempo egli esprime l’insoddisfazione dell’individuo perennemente inquieto e mai davvero pago di nulla. Il mito di Faust – è dunque la tesi del saggio − fornisce una chiave di lettura dell’uomo occidentale post/tardo-moderno agli inizi del terzo millennio: incline al disincanto e deluso da ogni “credo” ideologico, monade imbozzolata nella sua chiusura all’insegna d’un narcisismo tendente alla reificazione dell’altro da sé e tutto preso da una perenne tensione desiderante; quando non si lasci irretire dal tedium vitae o, peggio ancora, da un nichilismo mortifero.
Il mio libro intende perciò esplorare ciò che è sotteso all’inquietudine desiderante di Faust (lo Streben), ovvero una hybris antica quanto l’uomo o forse ancor di più. Non a caso il primo personaggio preso in esame dal testo è Lucifero, che – nell’ambito della cultura giudaico-cristiana – rappresenta la scaturigine del male in quanto espressione di somma tracotanza. Ѐ Lucifero infatti a indurre la coppia primordiale umana all’illusoria speranza di divenir pari a Dio. Seconda figura mitologica cruciale risulta – qui, accanto ad altre − quella di Prometeo, il cui titanismo/superomismo (espressione dell’eccesso e della dismisura) finisce per alienare l’uomo da ciò che gli è più proprio: il limite, la vulnerabilità e la caducità.
Vengono quindi analizzati due aspetti basilari del carattere faustiano: il nichilismo e la Stimmung melanconica. Tratti significativi dell’irrisolutezza e debolezza del “sentire” faustiano; e del bisogno d’ancorarsi a un alter ego che nel mito in questione assume i panni del demonio Mefistofele − secondo Goethe: “lo spirito che sempre nega” − istigando Faust a firmare col proprio sangue il noto patto, in seguito al quale egli sarà disposto a cedere l’anima al diavolo se riuscirà a gustare un del tutto appagante “attimo bello”.
Fulcro centrale dell’opera è costituito da un’ampia riflessione intorno al desiderio e ai suoi aspetti irrisolti e paradossali. Soprattutto nei confronti del desiderio per antonomasia, quello amoroso, che qui annovera tra i suoi estimatori personaggi che vanno da Orfeo a Don Giovanni, dalla Diotima del Convivio platonico a Elena di Troia: archetipo ineguagliabile di bellezza muliebre.
Dopo aver trattato dell’invidia quale contraltare patologico del desiderio, un capitolo è dedicato ai due volti antitetici della “cura” (angoscia e sollecitudine) prendendo spunto dalla lezione di Heidegger e facendo riferimento a una delle scene più inquietanti del Faust di Goethe. Mentre l’ultima parte del saggio è rivolta alla disamina della conclusione del capolavoro goethiano in cui compaiono figure allusive e simboliche, forti d’una intensissima espressività poetico-metaforica, in grado di accennare – come non può il discorso saccente della razionalità − all’indicibile della metafisica.
Per terminare infine la lettura del mito faustiano suggerendo la possibilità d’una terza via tra la hybris − tesa a oltrepassare ogni limite, illudendoci di poter abolire la weiliana necessità ineludibile − e l’inerzia sterile dell’autocompiacimento o del disincanto, auspicando la nascita di una nuova parola che sappia andare oltre logos e mithos senza però la tracotanza d’impossibili svelamenti definitivi. Poiché non si tratta più per noi di far chiara luce; piuttosto d’abitare i chiaroscuri di un’umbratilità destinata a rimanere tale in quanto mai totalmente illuminabile dal faro abbacinante della ragione o dalla visionarietà estatica.

* * *

UN ESTRATTO di DESIDERARE INVANO. Il Faust in Goethe e altrove” di Francesco Roat (Moretti & Vitali).

Riacquistare la giovinezza perduta

Nel capolavoro goethiano il primo intervento compiuto da Mefistofele
è una trasmutazione prodigiosa. Con una sorta di pseudomiracolo,
il demonio − nella “cantina di Auerbach a Lipsia” (Auerbachs
Keller in Leipzig) dove i due compari si sono recati − riesce
a far sgorgare del vino da un tavolo che egli ha perforato con un
“succhiello” (Bohrer). È una chiara allusione/profanazione rispetto
al primo miracolo compiuto da Cristo, quello delle “nozze di
Cana” (Gv. 2, 1-11), nel quale Gesù trasforma dell’acqua in vino.
Va tenuto conto che sin dall’Antico Testamento il vino – immaginificamente
– indicava il legame sponsale tra il popolo eletto e
YHWH, e nel Nuovo Testamento non si fa che ribadire come il
vino sia simbolo dell’amore di Dio e del Figlio verso gli uomini.
L’ultima cena, poi, segnerà l’apoteosi di questa antica metafora;
in quanto nell’eucarestia il Cristo, mediante la transustanziazione,
muterà il vino nel proprio sangue, offerto in dono ai credenti.
Mefistofele dunque appare qui come simia Christi, quale fraudolento
e goffo contraffattore evangelico. Il suo trucco illusionistico
però non soddisfa per nulla Faust, che non mostra stupore
o interesse per quella specie di “miracolo” (Wunder) da baraccone.
Anzi egli dice in modo sbrigativo al suo servitore di voler
allontanarsi dalla bettola: «Ora io avrei voglia di andar via». La
mera ebbrezza non riesce perciò ad appagare minimamente il magister
e il primo atto diabolico si conclude in un nulla di fatto. Da
qui la seconda carta giocata da Mefistofele, che è poi quella di far
ringiovanire Faust. Così i due si recheranno in una “cucina di strega”
(Hexenküche), dove l’attempato dottore berrà una magica “pozione”
(Trank) destinata a svecchiarlo in un baleno di vari decenni.
Il desiderio di tornare (o rimanere) giovani è forse antico quanto
l’umanità. A livello mitologico, presso diverse antiche culture
– tanto in Europa che in Asia, quanto in America −, è possibile
rinvenire numerose varianti relative alla ricerca della favolosa fonte
(o sorgente) della giovinezza, che consentirebbe a chi beve (o si
asperge) di quell’acqua l’ottenimento dell’eterna gioventù, della
salute e persino dell’immortalità. Tali leggende sono strettamente
legate al mito di Faust, il quale, grazie alla magia, ottiene
di ringiovanire: sogno oggi quanto mai vagheggiato da chi cerca
soluzioni altrettanto miracolistiche attraverso la chirurgia estetica
e la cosmesi o spera in utopistici prodigi biotecnologici. Ma la
realizzazione d’una più o meno perpetua giovinezza e/o il (per ora
solo fantascientifico) prolungamento ad libitum dell’esistenza potrebbe
comportare cosa? Se lo è chiesto anche Naief Yehya, in un
recente saggio intorno ai futuribili e inquietanti scenari del corpo
postumano, e questa è la sua risposta: «È indubbio che la prospettiva
di cambiare corpo come si cambia auto o appartamento è affascinante,
ma che ne sarà dello spirito umano in un mondo senza
vecchiaia dove si potrà comprare la vita eterna?». E abbozza una
risposta concludendo che la specie Homo sapiens: «Si definisce
attraverso la preminenza e l’irreversibilità dei cicli vitali. La mortalità
e la certezza del fatto che ogni istante è unico, e che la vita
è irripetibile e preziosa. In un mondo dal quale sia stata sradicata
la tragedia umana, morire senza lasciare traccia sarà forse l’unico
atto rivoluzionario».
Ma se non ci è dato sapere cosa accadrà all’Homo cyborg, siamo
però a conoscenza di quel che è successo a Faust, il quale, pur
riacquistando la giovinezza, non l’ha certo ritenuta appagamento
bastevole al suo Streben. Di conseguenza Mefistofele è costretto
a giocare una terza carta: quella con cui cercherà di saziare l’appetito
sessuale del suo protetto e altresì la brama di conquistare e
far propria una ragazza “così modesta e così virtuosa” (so sitt- und
tugendreich), quale l’inesperta Margherita. Ciononostante − come
potrà immaginare anche chi non conosca la trama del Faust − neppure
aver sedotto la giovane farà dire all’uomo: «Attimo: resta, sei
così bello!».
E la prima parte dell’opera di Goethe termina piuttosto con la
reiterata/scontata frustrazione/insoddisfazione del protagonista. A
ben poco è valso proporre al nostro dottore la troppo facile ebbrezza
della droga alcolica, farlo apparentemente/esteriormente
ringiovanire (è però possibile, a onta della magia mefistofelica, che
l’anziano accademico − tornato giovane solo nel fisico, ma rimasto
a livello mentale il vecchio magister di prima – sia davvero ringiovanito?)
e infine fargli sedurre una pur splendida adolescente. Unico
scopo raggiunto da Mefistofele è alimentare e far perdurare la spirale
perversa costituita dal reiterarsi di brama-appagamento-nuova
brama. Il misero Faust lo comprende perfettamente, ma l’averne
coscienza non basta a fare in modo che il circolo vizioso s’interrompa.
E: «Così trascorro dal desiderio al godimento, / e nel godimento,
anelo al desiderio», confessa il protagonista, incapace di
sottrarsi alla folle giostra del desiderare invano.

* * *

Francesco Roat ­­­– narratore, saggista e critico letterario trentino ­–, già insegnante di lettere nella Scuola Secondaria e consulente editoriale, si occupa di cultura su quotidiani, settimanali e riviste. (Suoi interventi sono apparsi su: L’AdigeL’Alto AdigeAvvenimentiCartaCaffè EuropaCafè letterario di AliceChe libriDiarioIl ManifestoIl Mucchio selvaggioIl Nuovo, Il Sussidiario, Il Trentino, InchiostroLeggereLiberazioneLiberalL’ImmaginazioneL’Indice, Linea d’ombra, L’UnitàNautilusPickwickPulpStilosWeb Magazine, Wuz). Ha pubblicato il libro di racconti Tra-guardo (Argo) – i romanzi: Una donna sbagliata (Avagliano),Amor ch’a nullo amato (Manni), Tre storie belle (Travenbooks), I giocattoli di Auschwitz (Lindau), Hitler mon amour (Avagliano) – i saggi: L’ape di luglio che scotta – Anna Maria Farabbi poeta(Lietocolle), Le Elegie di Rilke tra angeli e finitudine (Alpha-Beta), La pienezza del vuoto ­– Tracce mistiche negli scritti di Robert Walser (Vox Populi). A gennaio del 2015 verrà pubblicato il nuovo saggio: Desiderare invano. Il mito di Faust in Goethe e altrove (Moretti&Vitali). Un suo romanzo (Tre storie belle), recentemente tradotto in tedesco, è stato presente  all’ultima Fiera del Libro di Francoforte. L’autore sta inoltre curando per l’Ed. Lietocolle una nuova traduzione delle “Poesie della torre”, di Hoelderlin. (Francesco Roat dedica inoltre gratuitamente parte del suo tempo al volontariato in ambito sanitario-assistenziale: presso l’Ospedale S. Chiara, l’Hospice, nonché il Centro diurno Alzheimer di Trento). La sua opera più recente è il romanzo “HITLER MON AMOUR” (Avagliano)

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