LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » newton compton http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 I CAPOLAVORI DI GEORGE ORWELL (raccontati dal suo traduttore Enrico Terrinoni) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/13/i-capolavori-di-george-orwell-raccontati-dal-suo-traduttore-enrico-terrinoni/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/01/13/i-capolavori-di-george-orwell-raccontati-dal-suo-traduttore-enrico-terrinoni/#comments Wed, 13 Jan 2021 06:00:57 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8683 “I capolavori di George Orwell” (Newton Compton), nel racconto del curatore e traduttore Enrico Terrinoni

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Il nuovo appuntamento dello spazio di Letteratitudine chiamato Vista dal traduttore (dedicato, per l’appunto, al lavoro delle traduttrici e dei traduttori letterari) è incentrato sui romanzi di George Orwell, ripubblicati in nuova edizione da Newton Compton: I capolavori” [che include: La fattoria degli animali • 1984 • Senza un soldo a Parigi e a Londra • Giorni in Birmania • Omaggio alla Catalogna], a cura di Enrico Terrinoni e con le traduzioni di Enrico Terrinoni, Andrea Binelli, Francesco Laurenti e Fabio Morotti.

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“I capolavori” di George Orwell (Newotn Compton): La fattoria degli animali • 1984 • Senza un soldo a Parigi e a Londra • Giorni in Birmania • Omaggio alla Catalogna

A cura di Enrico Terrinoni e con le traduzioni di Enrico Terrinoni, Andrea Binelli, Francesco Laurenti e Fabio Morotti.

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TRADURRE ORWELL

di Enrico Terrinoni

Nei dibattiti sulla traduzione ci si è posti per tanti anni un falso quesito riguardante l’impossibilità di tradurre, soprattutto certi tipi di testi, certi generi. Si è detto che tradurre la poesia, ad esempio, è impossibile, oppure che esistono alcuni testi intraducibili.

Io ho sempre creduto necessario rimpiazzare la domanda “tradurre si può?” con l’affermazione “tradurre si deve”. Perché sulla traduzione si basa la civiltà. Sullo scambio, prima di tutto di informazioni, sulla comunicazione, e ogni comunicazione è una forma di traduzione. Non bisogna scomodare i modelli che chiamano in causa la traduzione intra- e interlinguistica per capire che qualunque transfer informativo si basa su dinamiche traduttive, ovvero, su dinamiche di cambiamento. Perché la traduzione è prima di tutto cambiamento: per questo non regge l’idea della sua impossibilità.

Certamente, non si può tradurre lasciando le cose come stanno, o riproducendo un messaggio (o un testo) identico all’originale, perché traducendolo quel messaggio (e quel testo), li avremo cambiati in tutto e per tutto sin nelle minime unità. Linguistiche prima di tutto, ma anche culturali, se è vero che trapiantare un’idea proveniente da una data cultura in una cultura altra, significa per forza di cose adattarla a un nuovo contesto.

Allora, cosa resta, nella traduzione? Cosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure, quando un testo passa dalla sua conformazione d’origine alla sua nuova vita in un’altra lingua e in un’altra cultura? Questo è il vero quesito che dobbiamo porci. Perché è in base alla risposta che si giudicherà buona o cattiva una traduzione, e competente o meno un traduttore.

Anche qui, il giudizio non è facile, perché, al netto di quelli che possono essere gli errori traduttivi, le sviste, le imprecisioni, le deviazioni dovute al passaggio dalla traduzione alla revisione (che comporta inevitabilmente l’ingresso nel testo di altre visioni, di altre interpretazioni, di altre teste), ognuno legge un testo a suo modo, riempiendolo di una gamma di significati secondari che vanno a colorire quello che si pensa intrappolato nel testo di partenza, e che si immagina si sia liberato dalla testa di partenza, ovvero dall’autore.

Tradurre appartiene al genere interpretare, e interpretare significa in primo luogo vivere, esistere, poiché è impossibile vivere senza interpretare. E l’interpretazione dà vita ai fraintendimenti a volte, poiché ci tuffa (e ci truffa) all’interno di una rete di intendimenti vari: ci ritroviamo appunto “fra intendimenti”. E dobbiamo mediare.

Ecco cos’è tradurre: mediare. Mediare tra le teste, tra i testi, tra le possibilità, mai puntando alla fissità di un messaggio, ma comprendendone la sua mutevolezza. Perché in traduzione tutto cambia, tutto scorre. Pánta rheî come dice il peluche che ho sul comodino e che accompagna da sempre le mia traduzioni (per questo l’ho chiamato Panda Ray).

Ora, quel che è vero è che esistono testi e autori tradurre i quali comporta sfide maggiori. Tra loro i classici, e tra questi Orwell. Ma prima di spendere due parole su questo, vorrei dire che per me un classico è un libro che parla al futuro, il cui significato dunque si adatta, si adatterà, non rimane fisso. Altrimenti non ci direbbero più niente i classici.

Se l’Iliade servisse soltanto come documento archeologico per comprendere le condizioni delle guerre nell’antica Grecia, la portata del suo messaggio sarebbe limitata. Prenderlo invece come un testo che rivela la natura dei contesti che portano alle guerre, che descrive le reazioni, le esistenze, di chi è coinvolto nei conflitti, lo rende assai più interessante, utile, e dunque rivelatore.

Così Orwell: bisogna leggerlo con le lenti del futuro. Non per distanziarsi dal suo messaggio e dal suo contesto originario, ma perché dobbiamo comprendere cosa ha da dirci oggi.

E allora, quando ho accettato di tradurre due sue opere chiave (Animal Farm e 1984), e di curare un volume che ne includesse altre tre (Down and Out in Paris and London, Burmese Days, e Homage to Catalonia), coinvolgendo ottimi colleghi e amici traduttori quali Andrea Binelli, Francesco Laurenti e Fabio Morotti, mi sono chiesto in primo luogo cosa potessero quelle opere restituirci, non nei termini statici di un quadro e una fotografia di un passato, ma in quelli dinamici di una profezia sul futuro.

Quando ad esempio, di fronte a 1984 mi sono posto il problema dei problemi, ovvero come risolvere oggi l’impasse creata dal fatto che in passato la locuzione Big Brother, che sta per “fratello maggiore”, sia stata resa con “Grande fratello”, per evitare da un lato l’imprecisione, e dall’altro, sapendo di tradurre principalmente per il futuro, e dunque per le nuove generazioni, l’effetto televisivo (ritengo più probabile che un teenager associ oggi la dicitura al famoso programma, ancor prima che al famoso classico), ho optato per la soluzione inglese. Il mio Big Brother si chiama infatti Big Brother.

Si dirà: ma in questo caso la traduzione non è cambiamento: hai lasciato le cose come stavano! No, perché il nuovo testo, inglese, si incista su un reticolo culturale italiano, e le sue connotazioni cambiano non in quanto cambia il testo, ma in quanto cambia il contesto. Ma lasciando da parte queste considerazioni che trovo noiose, vorrei dire due parole sulla conseguenza di questa scelta.

Infatti, per coerenza anche con il fatto che il libro ha tra i protagonisti una nuova lingua, il Newspeak, che modifica non il linguaggio generale, ma l’Inglese, detto Oldspeak, scegliere di “tradurre” Big Brother ha portato a dover tenere, o ricreare, in Inglese anche le altre parole nuove.

Alcune espressioni ponevano problemi, come quella che era stata tradotta psicopolizia, la thought police. Ora, un italiano anche digiuno di Inglese saprà riconoscere che police è “polizia”, ma non ero certo che potesse individuare altrettanto facilmente che thought sia “pensiero”. E allora, la mia traduzione, dovendo mantenere l’Inglese, ha optato per mental police, più riconoscibile, e anche sottile poiché l’aggettivo mentale in Inglese (e qui mi rivolgo a quanti invece con la lingua hanno familiarità) significa anche “folle” (chi può negare che l’idea di una megapolizia salviniana in grado di entrarci nel pensiero sia qualcosa di folle?).

Stesso ragionamento per Crimestop, ossia la capacità di fermarsi automaticamente prima di commettere un crimine. Qui la parola facile era stop, quella difficile crime. E allora, nella mia “resa” diviene Criminalt: un alt al crimine, ma anche un introiettare questo impulso in una personalità criminale.

Spero che questi esempi servano da raccordo tra la prima e la seconda parte di questo mio breve intervento, inteso a dichiarare urbi et orbi che tradurre è cambiare, perché tradurre è rendere. È una resa, perché ti puoi arrendere, ma quando non ti arrendi (e si spera capiti sempre meno spesso ai traduttori), diviene l’unico modo di veicolare un testo (e un messaggio) cambiandolo per forza di cose, ma consentendo, come dicevo prima, a qualcosa di rimanere, tra le pagine chiare e le pagine scure dei libri che abbiamo letto e leggeremo.

(Riproduzione riservata)

© Enrico Terrinoni

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undefinedLa scheda del testo: “I capolavori” di George Orwell (Newton Compton): La fattoria degli animali • 1984 • Senza un soldo a Parigi e a Londra • Giorni in Birmania • Omaggio alla Catalogna

La fattoria degli animali (1945) è una favola in cui gli animali soppiantano gli umani espropriando la fattoria in cui lavorano sotto continui maltrattamenti. Dopo aver cacciato gli uomini la gestiscono autonomamente, fino a quando lo spirito rivoluzionario non sarà tradito e verranno a imporsi altre forme di sfruttamento: un’allegoria delle rivoluzioni trasformatesi in autoritarismi, o anche un esempio di letteratura per l’infanzia in cui si legge in controluce la lotta eterna tra giustizia e ingiustizia. 1984 (pubblicato nel 1949) è l’ultima opera di Orwell e il suo classico per eccellenza. Romanzo distopico, vede la storia di una società futuristica e disumanizzata, rigidamente divisa in classi e dominata da un’ideologia perversa che sovverte i valori basilari della civilizzazione, come anche i cardini della comunicazione, primo tra tutti il linguaggio. È, paradossalmente, sia una visione apocalittica dell’evoluzione del socialismo agli occhi di un autore anarchico, sia una feroce critica di tutti i capitalismi, colpevoli di proporre propagandisticamente visioni distorte della realtà. Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933), l’opera prima di George Orwell, è un prezioso scritto che contamina autobiografia, invenzione e reportage, una perla della letteratura della working-class. Ma il primo, vero romanzo è Giorni in Birmania (1934), in cui Orwell demistifica l’imperialismo inglese, denunciandone il razzismo e svelando la falsa coscienza degli europei. Omaggio alla Catalogna (1938) è un resoconto personale della Guerra Civile Spagnola, a cui Orwell partecipò; la sua è una testimonianza diretta e al contempo un’opera di grande interesse storico. È anche il racconto di un’utopia, di quel sogno interrotto che condusse l’autore alla stagione delle distopie che lo avrebbe reso immortale.

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Libri di George OrwellGeorge Orwell è lo pseudonimo di Eric Arthur Blair, nato in India da una famiglia scozzese nel 1903 e morto a Londra nel 1950. Giornalista culturale, saggista, critico letterario, Orwell è oggi considerato uno dei maggiori autori di lingua inglese del Novecento. Partecipò alla guerra civile spagnola contro Franco; da posizioni socialiste, passò in seguito a una dura critica del regime staliniano. La Newton Compton ha pubblicato 1984, La fattoria degli animali e il volume unico I capolavori (La fattoria degli animali; 1984; Senza un soldo a Parigi e a Londra; Giorni in Birmania; Omaggio alla Catalogna).

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Enrico Terrinoni, nato a Gorizia nel 1976, è professore ordinario d’Italia di Letteratura Inglese all’Università per Stranieri di Perugia, e in precedenza Research Fellow alla Indiana University, Visiting Research Scholar e poi Visiting Fellow alla Notre Dame University, e Research Fellow allo University College Dublin, e research Scholar alla Marsh’s Library, Dublin. Ha tradotto numerosi romanzi tra cui Ulisse di Joyce (Premio Napoli per la Lingua e la Cultura Italiana, 2012) e con Fabio Pedone Finnegans Wake di Joyce (Premio Annibal Caro 2017), ma anche L’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (Premio Von Rezzori Città di Firenze, 2019). Altri autori tradotti includono Nathaniel Hawthorne, Oscar Wilde, Brendan Behan, Bobby Sands, Michael D. Higgins, Alasdair Gray, John Burnside, George Orwell e GB Shaw. Ha scritto numerosi libri tra cui, sulla traduzione, Oltre abita il silenzio. Tradurre l’Ombra (Il saggiatore, 2019). È Presidente della James Joyce Italian Foundation, e scrive su il manifesto, Left, il tascabile.

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ALEX CONNOR racconta I COSPIRATORI DI VENEZIA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/11/03/alex-connor-racconta-i-cospiratori-di-venezia/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/11/03/alex-connor-racconta-i-cospiratori-di-venezia/#comments Tue, 03 Nov 2020 16:01:31 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8619 Il nuovo ospite di L’autore straniero racconta il libro è la scrittrice ALEX CONNOR, autrice diI COSPIRATORI DI VENEZIA(Newton Compton Editori – traduzione di Tessa Bernardi).

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Alex Connor è autrice di thriller e romanzi storici ambientati nel mondo dell’arte. Lei stessa è un’artista e vive in Inghilterra.

Cospirazione Caravaggio, uscito per la Newton Compton nel 2016, è diventato un bestseller ai primi posti delle classifiche italiane. Con Il dipinto maledetto ha vinto il Premio Roma per la Narrativa Straniera. La Newton Compton ha pubblicato la sua trilogia su Caravaggio, composta da Caravaggio enigma, Maledizione Caravaggio ed Eredità Caravaggio; Goya enigma e Tempesta maledetta.

I cospiratori di Venezia è il secondo libro di una serie iniziata con I Lupi di Venezia.

Per saperne di più: www.alexandra-connor.com

Qui di seguito Alex Connor ci racconta qualcosa sulla sua Venezia… la città protagonista di questo suo nuovo thriller storico…

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Decadenza, malvagità e morte

di Alex Connor

Venezia. È solo un nome, eppure questa parola – con le sue sette lettere – evoca una potente magia che non ha uguali al mondo.
Non solo per la sua bellezza, ma per il fascino senza tempo, seducente – quasi soprannaturale – di questa città.

Quando ho iniziato a scrivere di Venezia, come ho fatto in alcuni recenti romanzi come I cospiratori di Venezia, ho scoperto che sotto la sua facciata di eleganza, autorità e lustro si cela un’oscurità dal fascino pericoloso. E non è l’oscurità dei vicoli e dei canali, né dei gradini limacciosi che scendono fino al livello dell’acqua: è un’oscurità che ispira tanto quanto minaccia. Venezia promette ogni genere di successo, sensualità, ricchezze, scelleratezze e potere. È una città egoista e capricciosa, con un’aura gloriosa e al tempo stesso diabolica.

Le forme di intrattenimento della tradizione veneziana, i balli in maschera che hanno reso celebre in tutto il mondo il suo carnevale, sono enigmatiche. E cos’è una maschera se non un travestimento? Chi la porta si nasconde. I balli in maschera erano già popolari nel tredicesimo secolo e tornavano di moda dopo ogni epidemia che devastava la città. Quando la malattia esauriva la sua carica distruttiva, note cortigiane e nobili blasonati si agitavano come condannati sulla forca, in modo futile, frenetico, prima che la botola si aprisse sotto i loro piedi. Le maschere avevano lo scopo di nascondere il terrore o di predire la fine? O forse erano persino un modo per complottare con essa? Dopotutto, è sempre la morte a chiudere tutte le danze.

undefinedVenezia, essendo formata da una serie di isole, ha sempre dovuto dipendere dal mare per i suoi commerci. Lo stesso mare che insieme alla sua generosità portava anche la malattia. La peste arrivava a bordo delle navi, sui carichi, dai mercanti che avevano solcato gli oceani, viaggiando con i ratti che infestavano le stive sottocoperta. Quanti morbi furono scaricati sui moli, finendo per insinuarsi nelle camere da letto delle prostitute e nei corridoi del palazzo del Doge? Le acque attorno a Venezia hanno sempre tenuto a galla la città, eppure quelle stesse acque hanno minacciato di consumarla. La Repubblica non sarebbe mai sopravvissuta senza il commercio, ma il commercio andava spesso a braccetto con la morte. La peste ha tormentato Venezia dal dodicesimo al ventunesimo secolo. Niente poteva fermare la sua avanzata. Epidemia dopo epidemia. Come una megera invidiosa, la malattia minacciava la bellezza veneziana, ma la città non si arrendeva. La circondava, la assediava, la prosciugava, poi svaniva nel nulla. Forse la malattia è ancora latente sotto di lei, sotto le onde dell’Adriatico, e scivola tra i pali che sorreggono la città e la elevano verso il cielo come un’offerta agli dèi: una calamita scintillante per i voluttuosi e per i dannati.

Per secoli Venezia ha attratto gli individui più affascinanti, ambiziosi e ostinati; ha ispirato il genio di maestri del calibro di Tiziano e Giorgione e ha tollerato le nefandezze di ricattatori, spie e ladri. Più di ogni altro luogo, Venezia ha accolto a braccia aperte popoli di ogni razza, colore e credo: ha flirtato con le guerre e si è difesa dagli attacchi, e poi è andata a letto con i nemici sconfitti. Tuttavia, il suo fascino è così potente da sconfinare nel diabolico. Che la scelleratezza e la promiscuità delle cortigiane veneziane, l’avarizia dei nobili e la straordinaria genialità degli artisti siano state amplificate dalla minaccia della morte portata dalla peste? La vulnerabilità della vita doveva sicuramente essere sottolineata dalla sinistra presenza dei lazzaretti e degli ospedali della peste, visibili dalla laguna.

Di fronte alla devastazione causata dalla morte nera, la chiesa offriva conforto spirituale, ma allo stesso tempo i chiromanti e i ciarlatani esercitavano la loro professione nelle stanze buie e nelle taverne, perché Venezia era una città superstiziosa. L’Inquisizione ha sempre temuto l’occultismo, ma cos’è Venezia se non un diabolico miraggio? Il suo successo risiede nel suo sprezzo del pericolo, in una resistenza che ha quasi del soprannaturale; in un senso di decadimento e sfacelo ipnoticamente sfidato da una sensualità e da un’opulenza stupefacenti.

I suoi vicoli sono di una bellezza inquietante. Qui, d’inverno, si intuiscono presagi di morte. Alla luce del sole, la città è brillante, vibrante e luminosa: nell’oscurità è spaventosa, viscida come un serpente. È questa combinazione a renderla tanto unica. Per secoli Venezia si è reinventata e ripresa da guerre, devastazioni e pestilenze, e sta sopravvivendo ancora oggi, nel ventunesimo secolo, a questa nuova pandemia che si aggira per piazza San Marco e solca le acque increspate della laguna.

Secoli fa, la peste l’ha accerchiata e minacciata, ma Venezia è sopravvissuta. È una negromante, la cortigiana dei mari, che seduce e sfida una distruzione che non riesce mai a sopraffarla.

(Traduzione di Tessa Bernardi)

© Riproduzione riservata

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La scheda del libro: “I cospiratori di Venezia” di Alex Connor (Newton Compton Editori – Tessa Bernardi)

Tra le calli della Serenissima, i Lupi di Venezia sono di nuovo a caccia…

Venezia, XVI secolo. Marco Giannetti, l’assistente di bottega del celebre Tintoretto, deve fare i conti con le conseguenze delle proprie azioni. Corrotto dallo scrittore Pietro Aretino, al cui ricatto ha piegato il suo volere, è ormai odiato dagli ebrei del ghetto, che lo incolpano di un crimine atroce. Più passa il tempo e più Giannetti si convince che il denaro sia un subdolo alleato: invece di proteggerlo, ha messo in pericolo la sua vita. Ma mentre si appresta a fare i conti con la propria coscienza, una serie di brutali delitti sconvolge la città. Una delle vittime è la figlia dello speziale olandese Nathaniel der Witt, che non riesce a darsi pace per la sua morte e decide così di indagare per scoprire la verità. La sua indagine lo metterà sulle tracce di personaggi come Tintoretto; ma anche Adamo Baptista, una spia; la cortigiana Tita Boldini; il mercante francese Lauret e la donna più desiderata di Venezia, Caterina Zucca. I Lupi di Venezia sono di nuovo a caccia…

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KAYTE NUNN racconta LA FIGLIA DEL MERCANTE DI FIORI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/02/01/kayte-nunn-racconta-la-figlia-del-mercante-di-fiori/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/02/01/kayte-nunn-racconta-la-figlia-del-mercante-di-fiori/#comments Fri, 01 Feb 2019 14:00:35 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8066 La figlia del mercante di fiori - Clara Nubile,Angela Ricci,Kayte Nunn - ebookIl nuovo ospite di “L’autore straniero racconta il libro” è la scrittrice KAYTE NUNN, autrice di “LA FIGLIA DEL MERCANTE DI FIORI(Newton Compton Editori – traduzione di Clara Nubile e Angela Ricci).

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Kayte Nunn lavora come editor per libri e riviste.

È autrice di romanzi di successo, di cui La figlia del mercante di fiori è il primo ambientato in un’epoca passata, ed è in corso di traduzione in cinque Paesi.

Il suo sito è: kaytenunn.com

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di Kayte Nunn

La figlia del mercante di fiori è un romanzo che parla della ricerca di una rara specie di giglio (ne ho persino inventato una sottospecie, potere della letteratura). Potremmo dire che la sua genesi è cominciata quando ho letto un articolo di giornale che parlava di una pianta misteriosa e velenosissima spuntata quasi per caso in un giardino della periferia inglese.
Alla fine è venuto fuori che la pianta, la Datura stramonium, nota ai più come l’erba del diavolo, era nata per via della germinazione di un mangime per uccelli che era stato importato dall’estero, probabilmente dal Sud America. Questa storia ha risvegliato il mio interesse.
Pochi mesi dopo, sono stata a Kew Gardens, a Londra, e ho scoperto la meravigliosa Marianne North Gallery. La signora North era un’intrepida e inveterata viaggiatrice di epoca vittoriana, nonché un’artista esperta di botanica. Dopo aver visitato la galleria, mi sono appassionata alle imprese e alla tradizione dei cacciatori di piante di età vittoriana e ho letto tutto quello che sono riuscita a trovare sull’argomento.
Così sono anche venuta a conoscenza del fatto che in Cornovaglia c’è un’elevata concentrazione di giardini ricchi di specie esotiche, per via del clima temperato rispetto a tutto il resto dell’Inghilterra. Lì avevo trascorso gran parte delle mie vacanze, quand’ero piccola, quindi ho potuto fare appello ai miei ricordi per ambientare in quella zona parte della mia storia. Vi sono tornata nel 2017 e ho trascorso una intera giornata nei bellissimi Lost Gardens of Heligan, che hanno alle spalle un’affascinante storia di riscoperta e recupero.
Durante le ricerche e la scrittura del libro, ho visitato anche il Sydney Botanic Garden, il museo di Sydney e sono tornata a Kew Gardens, dove ci sono sempre – per fortuna – mostre di arte botanica e di storia del collezionismo di piante. Ho potuto imparare molto sugli strumenti del commercio, sulle discipline coinvolte, e sono stata incoraggiata a fare ulteriori ricerche.
Due anni dopo, sono tornata ancora una volta a Kew Gardens e mi sono imbattuta in una mostra di arte botanica della dottoressa Shirley Sherwood una relativa all’opera e alle lettere di Joseph Hooker, un’opera dal valore incommensurabile, per non dire dell’incredibile e affascinante materiale di studio che costituisce. È stato anche molto istruttivo leggere le trascrizioni delle sue lettere di viaggio e di lavoro in qualità di cercatore di piante del diciannovesimo secolo.
Sono riuscita a individuare le piante, i frutti e i fiori tipici dell’area del Cile in cui è ambientata parte del mio romanzo, e a essere certa che potessero fiorire alla fine del diciannovesimo secolo, grazie al fortuito ritrovamento del diario della moglie di un capitano navale che trascorse un anno a Valparaiso, proprio a metà del 1800. Le descrizioni della vegetazione in cui si imbatteva sono meravigliosamente dettagliate. Parla di profumati mandorleti e di uliveti, di alberi da frutto quali meli, peri e aranci, di orchidee, di enormi cerei (una specie di cactus tipicamente cilena), di aloe locale, ma anche di erbe aromatiche inglesi come salvia, timo, menta e acetosella, tra le altre.
Dopo ulteriori ricerche, sono stata in grado di inserire nel mio romanzo la descrizione di piante quali il croco cileno, il culén (una varietà di ranuncolo) e il palo de bruja (viburnum lantana). Ho anche dato alla estancia del romanzo – la Estancia Copihue – il nome della campanula cilena, tipica di quelle regioni. Tutto ciò mi ha permesso di dar vita ai luoghi del mio racconto.
Leggendo della diffusione dei giardini e dell’orticultura in epoca vittoriana, ho scoperto dettagli quali la predilezione della regina Vittoria per la guava, che cresceva nel mite clima della Cornovaglia e poi veniva mandata a Londra, a palazzo, in treno.
La figlia del mercante di fiori affronta anche il tema della conservazione delle piante al giorno d’oggi – facendo per esempio riferimento alla banca dei semi – e quello degli innumerevoli composti vegetali che possono essere utilizzati nel campo della medicina. Ho scoperto l’affascinante nuova moda dei collezionisti di piante (in un articolo ho letto che adesso vengono preferite ai vini), i quali si spingono al punto di assumere delle guardie che tengano d’occhio i loro rari e costosissimi fiori. Mi sono interessata pure ai giardini “curativi” e infatti uno dei personaggi, che svolge un’azione terapeutica nei confronti di uno dei protagonisti – coltiva un’ampia varietà di piante curative nel suo giardino.
Le mie ricerche mi hanno offerto tante meravigliose piccole informazioni e sono riuscita in qualche modo a inserire la maggior parte di esse nella storia. Spero di aver raggiunto il mio obiettivo e di aver scritto un romanzo coinvolgente e ricco di affascinanti notizie sul mondo delle piante, che possa piacere sia ai lettori comuni sia agli appassionati di botanica.

Traduzione di Clara Serretta

(Riproduzione riservata)

© Newton Compton Editori - Kayte Nunn

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La scheda del libro

La figlia del mercante di fiori - Clara Nubile,Angela Ricci,Kayte Nunn - ebookCornovaglia, 1887. Alla morte del padre, famoso botanico, esperto di piante esotiche, Elizabeth decide di portarne a termine l’ultima importantissima spedizione alla ricerca di una pianta molto rara e velenosa, che tuttavia, se lavorata con estrema cautela, sarebbe in grado di curare ogni male. La attende un lungo e pericoloso viaggio in mare…

Australia, giorni nostri. Durante i lavori di ristrutturazione nella casa della nonna venuta a mancare, Anna rinviene un cofanetto dall’aria molto antica. All’interno ci sono un diario, un taccuino pieno di disegni di piante, una foto della fine dell’Ottocento, un fiore essiccato e una manciata di semi. Anna riconosce gran parte degli esemplari disegnati, ma non sa a quale specie appartengano i semi. Prova allora a seminarli e al tempo stesso inizia a leggere il diario, che racconta l’avventura di una giovane donna in fuga. Con l’aiuto di esperti botanici cercherà di scoprire la storia rimasta chiusa così tanto tempo nella scatola, e di ripercorrere le vicende di chi ha vissuto molti anni prima di lei, ma la cui esistenza sembra essere indissolubilmente legata alla sua…

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© Letteratitudine

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LA FORTEZZA DEL CASTIGO di Pierpaolo Brunoldi e Antonio Santoro http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/04/05/la-fortezza-del-castigo-di-pierpaolo-brunoldi-e-antonio-santoro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/04/05/la-fortezza-del-castigo-di-pierpaolo-brunoldi-e-antonio-santoro/#comments Thu, 05 Apr 2018 15:44:29 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7759 La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) è dedicata al romanzo “La fortezza del castigo” di Pierpaolo Brunoldi e Antonio Santoro (Newton Compton).

Un avvincente thriller storico ambientato tra la Francia e l’Italia del XIII secolo e che si sviluppa partendo dalla seguente domanda (riportata anche sulla copertina): può veramente un manoscritto cambiare il corso della storia?

Di seguito: il “tandem letterario” offerto dai due co-autori in forma di racconto (dove loro stessi diventano personaggi).

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undefinedLa fortezza del castigo (Newton Compton): il “tandem letterario” di Pierpaolo Brunoldi e Antonio Santoro

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Fuori dai finestrini diluviava. Brunoldi e Santoro erano sui sedili posteriori, mentre il taxi scivolava tra le auto che, come sempre nei giorni bagnati, ingolfavano il lungo Tevere. Ogni tanto alle loro orecchie arrivava qualche imprecazione dalle macchine vicine, che il loro conducente superava spericolato.
«Perché credi ci abbiano convocati?», chiese Brunoldi, mentre Santoro stava controllando, con una certa apprensione, che il tassista non mettesse sotto qualcuno e prendesse la strada giusta.
Il giorno prima avevano ricevuto una telefonata dal segretario del cardinale Simoni, che li invitava a recarsi presso gli uffici del Vaticano per comunicazioni urgenti.
«Vorranno complimentarsi per il romanzo. Che altro?», rispose Santoro.
«Conosci forse qualcuno in Vaticano? Io no», disse Brunoldi.
«Nemmeno io. Quindi sarà per il romanzo. Pensaci, c’è Francesco, c’è una reliquia, gli eretici. Vorranno congratularsi con noi per il lavoro svolto», ribadì Santoro.
«Sarebbe fantastico allora. Sai quante copie ci farà vendere in più?!».
Il tassista fermò l’auto.
«Eccoci qua, Piazza del Sant’Uffizio».
I due autori uscirono dalla vettura proprio quando smise di piovere e il sole fece timidamente capolino tra un manto di nubi nere e spesse. In quel mentre, da dietro il finestrino mezzo abbassato, il conducente si sporse, facendo l’occhiolino.
«Dotto’, fate attenzione lì dentro, non ci si può fidare di nessuno», disse, prima di scomparire nell’abitacolo.
Dopo i controlli di rito, percorsero un lungo corridoio, fino a che la guardia li consegnò nelle mani di un pretino secco e gobbo, che in silenzio li condusse fino a una grande porta di legno, sulla quale stava scritto: congregazione per la dottrina della fede.
«Complimentarsi, dicevi?», disse Brunoldi, entrando.
Erano in due. Cardinali. Uno alto e grosso, vestito come un sacerdote, con la camicia che sembrava esplodere per la pancia prominente e le mani grandi e forti. A un dito indossava l’anello che ne rivelava il ruolo. Era pelato, col pizzetto, e una smorfia come di dolore sulle labbra serrate. L’altro era basso, con folti capelli neri e occhiali a fondo di bottiglia. Vestiva la lunga tunica porpora dei principi della Chiesa. Quest’ultimo era magro come la lupa descritta da Dante nell’Inferno. Il cardinale con la smorfia sollevò gli occhi dal libro, e lo chiuse, mostrando la copertina.
«Quindi sareste voi Brunoldi e Santoro, gli autori de’ La fortezza del castigo?»
«Sì», risposero gli autori all’unisono.
«Bene. Prima di iniziare il processo, avete qualcosa da dire a vostra discolpa?».
I due autori si guardarono negli occhi, poi Santoro deglutì, e rispose.
«Eminenza, noi, a dire il vero, ignoriamo la ragione per cui ci avete convocato».
«Ne siete così sicuri?», disse il cardinale grosso e pelato, avvicinandosi a entrambi e tenendo le mani dietro la schiena, con la pancia protesa verso di loro.
«Pensavamo aveste solo qualche curiosità in merito», disse Brunoldi.
«Questo romanzo desta più di una curiosità», sibilò il piccoletto, tirando fuori anche lui a sorpresa, da dietro la schiena, una copia della fortezza.
«Vi è piaciuto, dunque?», domandò Santoro, con un sorriso poco convinto. Il cardinale lo zittì con lo sguardo.
«Qui c’è scritto “un libro segreto che minaccia di scuotere le fondamenta della Chiesa”».
«È finzione, Eminenza», si affrettò a rispondere Santoro.
«Finzione, certo, è quello che dicono tutti quando vogliono lavarsene le mani. E così avete scomodato il nostro Bonaventura da Iseo per inscenare la vostra storia».
«Storia, appunto Eminenza, è esattamente quello che è, una storia», disse con ritrovato coraggio Brunoldi.
L’altro cardinale, assai più inquietante, li aveva scrutati da capo a piedi, da dietro le sue lenti spesse, senza muovere un muscolo all’infuori degli occhietti piccoli e indagatori. Ora prese la parola. «Vedete, la cosa strana è che quella che voi chiamate finzione, la fantasia, presente qui dentro», disse sfogliando le pagine, «mostra delle somiglianze assai inusuali, per non dire sospette, con alcune circostanze storiche che la Chiesa si è ben guardata dal divulgare».
«Perdoni, Eminenza», continuò Santoro, «ma se ciò è accaduto è stato in assoluta buona fede. Certo, abbiamo reso il tessuto storico, l’ambientazione, al meglio delle nostre possibilità, volevamo che i nostri personaggi prendessero vita non in un acquario, ma in un mare che li facesse nuotare a loro agio. È per questo che i luoghi sono veri, le pietre delle chiese si possono toccare, gli odori immaginare, i sap…».
«…avete messo in bocca al nostro papa Innocenzo parole vostre. Parole come pietre», lo interruppe l’altro cardinale.
«Se permette, era necessario. Come le diceva il collega», sentenziò Brunoldi, «la cornice degli eventi è stata riempita con personaggi storici autentici e altri di fantasia, ma calati in un contesto realistico».
«Non dimenticare anche quelli a metà tra fantasia e realtà», aggiunse Santoro. «Insomma abbiamo seguito l’esempio di illustri maestri di genere, Eco, Poe, Follett e molti altri».
«Eco e Poe?».
«Ovvio, Guglielmo da Baskerville e Auguste Dupin sono stati dei modelli per il nostro Bonaventura», precisò Brunoldi.
«Il “vostro” Bonaventura è un personaggio storico, però».
«Sì, ma dalla biografia lacunosa. Così ci siamo permessi di riempire gli spazi bianchi della sua vita con la nostra fantasia», disse Santoro.
«Certo collega, Bonaventura da Iseo è stato creato proprio così», aggiunse colpo su colpo Brunoldi. «Sapevamo di lui poche cose. Scarni dati biografici, e neppure certi. Anche la sua data di nascita è avvolta dal mistero. E poi, ovviamente, c’era il Liber Compostella. Uno dei primi trattati alchemici redatti in Italia. In quel secolo ci fu l’incontro scontro tra la civiltà occidentale e quella araba, da esso scaturirono guerre, ma anche proficui scambi di sapienze che si credevano perdute. Bonaventura, in un certo senso, rappresenta un’epoca di grandi riscoperte, filosofiche, scientifiche e tecnologiche».
«Inoltre, se permettete», si intromise Santoro, con una punta di orgoglio nella voce, «riteniamo di aver anche reso, a nostro modo, un servigio alla Chiesa e ai suoi fedeli».
undefined«Davvero?», chiese il cardinale basso e segaligno, con una punta di ironia nella voce.
«Be’ sì, converrete con noi», aggiunse Brunoldi a dar manforte, «che Francesco è un vessillo della cristianità e mi sembra di poter dire che venga fuori bene dalla nostra storia».
«Fuori bene?», lo interruppe il cardinale sempre più accigliato.
«Nel senso, che, viste le fonti anche non sempre concordi», rispose Santoro, «abbiamo optato per un ritratto che ne restituisse un’immagine in grado di coglierne gli elementi essenziali di uomo e di religioso: un vero e fervente seguace di Cristo, un uomo del dialogo, che cercò di portare la parola di Cristo anche a coloro che venivano con disprezzo chiamati eretici, vale a dire i catari. La parola e non la spada, è un fulgido esempio, direi».
«Santoro, non vorrà forse mettersi a discutere di teologia con noi?»
«Lo perdoni, Eminenza», disse Brunoldi fulminando con lo sguardo il collega. «Quello che voleva dire è che noi siamo solo due umili cantastorie. Entrambi, pur dovendo tenere in un difficile equilibrio finzione e verità storica, abbiamo cercato di non tradire mai l’essenza di quest’ultima».
«Ne siete certi?», continuò il cardinale dubbioso. «Questa assai volatile essenza cosa dice a proposito del libro segreto del viaggio di Francesco verso Santiago? Quali sono state le vostre fonti?»
«Eminenza, non vorrei sembrare irrispettoso, ma il viaggio di Francesco in Spagna, secondo le cronache ufficiali, si è interrotto per una malattia, presumibilmente la febbre quartana, ovvero la malaria, ma, nell’incertezza delle fonti, noi ci siamo incuneati per fornire una versione dei fatti, diciamo, alternativa», disse Santoro.
«E il libro segreto, quello se mi consente», disse Brunoldi, «è un dato di pura finzione».
«Ciononostante, Eminenza, una finzione plausibile», aggiunse Santoro. «Sappiamo che nel capitolo di Mantes fu ordinata la distruzione di tutte le testimonianze sulla vita del poverello di Assisi, quindi…».
«Quindi cosa?», lo rimbrottò il cardinale corpulento.
«Quindi niente… niente, è solo finzione, come diceva Brunoldi».
«Certo, come lo sono anche gli altri personaggi», aggiunse quest’ultimo. «Fleur, Rolando, Davide, Luca e molti altri sono frutto della nostra fantasia, come la maggior parte delle vicende narrate. L’ordine oscuro è una nostra finzione eppure…».
«Eppure?», chiese il cardinale grosso e panciuto, stringendo le palpebre dell’occhio destro, come se dovesse aguzzare la vista.
«Eppure», intervenne Santoro, «in tanta finzione abbiamo voluto che le vicende dei nostri personaggi risultassero vere, vive e palpitanti per i lettori come emozionante è stato per noi scriverle. I personaggi sono sì di finzione, ma rappresentano le diverse condizioni sociali: ci sono quelli che pregano, quelli che combattono e quelli che lavorano, gli umili e i nobili, i frati e le donne, e tutti incarnano le contraddizioni e i chiaroscuri di un periodo di grandi cambiamenti».
«Esatto», aggiunse Brunoldi, «volevamo che lo spettatore si identificasse nelle vicende del protagonista e dei suoi compagni lungo il loro cammino alla ricerca di verità e giustizia, non è forse quello che vogliono tutti, Eminenza, non è forse quello che persegue anche la santa madre Chiesa?».
«Niente altro che questo, certo», disse Santoro, «è l’eterna battaglia tra luce e tenebre, tra bene e male. Gli archetipi, Eminenza, gli archetipi!».
«Attendete qui un attimo, disse il piccoletto», tirando via per la camicia il grosso.
I due alti prelati si allontanarono, sparendo dietro la vetrata di un ampio studio all’interno del quale erano stati accolti. Potevano scorgerne le ombre: quello grosso e pelato si sbracciava come un ossesso, mentre il piccoletto sembrava impassibile e mansueto. L’atteggiamento che a Brunoldi e Santoro era sembrato di cogliere oltre la vetrata, veniva del resto confermato dal diverso tono delle voci, la cui eco arrivava sino a loro.
Quando furono di ritorno, sembrava che il fare mellifluo e pacato del piccoletto avesse conquistato anche l’orso brontolone. I suoi tratti del viso erano distesi, fin troppo.
Il piccoletto, alzatosi sulle punte dei piedi, allungò le dita ossute fino a sfiorare le guance di Brunoldi. Mentre l’orso assestò due pacche pesantissime sulla schiena di Santoro, che rimbombò come un tamburo.
«Abbiamo discusso a lungo e animatamente e si siamo giunti alla conclusione…».
«Alla conclusione?», fecero i due autori, in trepidante attesa.
«Alla conclusione che non vi è nulla nel vostro libro che si possa considerare offensivo per l’autentico sentimento religioso. Quindi non abbiamo null’altro da chiedervi».
«Null’altro?», chiese Brunoldi, che si sentiva alleggerito.
«No. Andate in pace».
Brunoldi e Santoro avevano quasi varcato l’uscio quando furono fermati dalla voce di uno dei due. «Solo un’ultima cosa, prego», disse il piccoletto, che stringeva tra le mani la sua copia della fortezza del castigo.
«Sì Eminenza?», chiese Brunoldi.
«Mi autografereste la mia copia?»
«Sì, anche la mia, cortesemente», fece l’altro.
Santoro e Brunoldi iniziarono a vergare le copie con le loro firme.
«Ditemi, ma Bonaventura, che ha dismesso il saio di frate, avrà finalmente una relazione con l’indomita Fleur?»
«Ah Eminenza», fecero i due con una sola voce, «per questo dovrete attendere il seguito della storia».

(Riproduzione riservata)

© Pierpaolo BrunoldiAntonio Santoro

* * *

La scheda del libro

1266. Francia, convento di Mantes. L’inquisitore Marcus attende nell’ombra l’arrivo di un frate. È deciso a strappargli a ogni costo la verità su un libro segreto che minaccia di scuotere le fondamenta della Chiesa…
1214. Italia, Altopascio, dimora dei Cavalieri del Tau. Il francescano Bonaventura da Iseo, esperto nelle arti alchemiche, apprende con sgomento la notizia della scomparsa del suo mentore, Francesco d’Assisi, e riceve, dalle mani grondanti sangue di un confratello, un misterioso manoscritto che dovrà custodire anche a costo della propria vita. Determinato a trovare e liberare Francesco, Bonaventura decide di mettersi in viaggio: tra bui conventi e infidi manieri, scoprirà che il maestro aveva con sé l’unica reliquia in grado di sconfiggere le forze del male e impedire l’avvento dell’Anticristo. Sulle tracce del frate d’Assisi, il monaco e i suoi compagni di avventura arriveranno fino alla rocca maledetta di Montségur, fortezza inespugnabile degli eretici catari…

* * *

Pierpaolo Brunoldi: dopo la laurea in Veterinaria, ha studiato recitazione e conseguito un master specialistico in sceneggiatura. Ha scritto opere drammaturgiche selezionate in concorsi nazionali, sceneggiature per la TV e il cinema, vari racconti pubblicati in diverse antologie, e collaborato con testate web.

Antonio Santoro: regista, attore e drammaturgo, è nato a Cava de’ Tirreni nel 1973. Diplomatosi presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, ha diretto numerosi spettacoli e scritto diversi testi per il teatro. Si è laureato al DAMS, e ha due master in sceneggiatura.

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© Letteratitudine

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LO CHIAMAVANO GLADIATORE di Andrea Frediani e Massimo Lugli http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/03/16/lo-chiamavano-gladiatore-di-andrea-frediani-e-massimo-lugli/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/03/16/lo-chiamavano-gladiatore-di-andrea-frediani-e-massimo-lugli/#comments Fri, 16 Mar 2018 15:36:37 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7744 La nuova puntata della rubrica di Letteratitudine intitolata “A botta e risposta (un tandem letterario conversando di libri) è dedicata al romanzo “Lo chiamavano Gladiatore” di  Andrea Frediani e Massimo Lugli (Newton Compton).

Due bestselleristi del romanzo storico (Andrea Frediani) e del noir (Massimo Lugli) uniscono le loro penne per dare luce a una storia particolarissima ambientata tra la Roma del I secolo d.C., sotto l’imperatore Tito e la Roma dei nostri giorni

Di seguito: il “tandem letterario” tra i due co-autori del romanzo… che ringrazio per aver aderito all’iniziativa.

Massimo Maugeri

* * *

Lo chiamavano Gladiatore“: il “tandem letterario” tra  Andrea Frediani e Massimo Lugli

undefinedANDREA: Tu hai già scritto libri a quattro mani, mentre per me era la prima volta. In cosa hai trovato differente questo lavoro rispetto ai precedenti?

MASSIMO: Scrivere un libro a quattro mani è sempre un cimento anche perché bisogna confrontarsi con uno stile, un metodo di lavoro, un’inventiva completamente diversa dalla propria. E non ti nascondo che inizialmente ero molto in soggezione dato che, come sai, sei un mio autore di culto. Ho affrontato la sfida con la mia solita caparbietà e incoscienza e credo che il risultato mi abbia premiato: la fortuna arride agli audaci. In passato avevo firmato un saggio e, successivamente, scritto un romanzo con l’ex funzionario di polizia Antonio Del Greco, mio carissimo amico da 30 anni ma in questo caso i ruoli erano ben definiti fin dall’inizio: lui ci mette esperienza e fantasia, io quel minimo di creatività che ho e le parole. Insomma: parlavamo a lungo, io scrivevo, gli mandavo il testo e facevamo insieme qualche correzione. Lo stesso metodo che sto seguendo attualmente visto che stiamo lavorando a un altro libro, il terzo della nostra collaborazione.

Per “Lo chiamavano Gladiatore” è stato completamente diverso. Dopo aver delineato a spanne la trama, ognuno di noi ha scritto un capitolo alla volta ma, fino alla conclusione, nessuno dei due ha inviato il testo all’altro. Ho letto la tua parte solamente alla conclusione e l’ho fatto con grande trepidazione. Sono rimasto incantato dalla trama e dalla prosa ma anche basito vedendo tante assonanze, tanti parallelismi di cui neanche avevamo discusso durante le nostre periodiche conversazioni. Spesso ho pensato che si fosse instaurato una sorta di collegamento telepatico.

Nella mia ignoranza, penso che sia stato un esperimento letterario assolutamente inedito perchè le vicende si intrecciano di continuo ma, al tempo stesso, restano separate e le due forme stilistiche, oltre che ai tempi narrativi, sono radicalmente differenti. Non ho mai letto una cosa del genere e, credimi, io leggo parecchio. Aggiungo una cosa: credo di essere un autore che scrive velocemente, una particolarità classica di chi, come noi due, viene dal giornalismo. Beh, in questo caso ammetto che ho fatto una gran fatica a stare al passo con te. Della serie: per quanto tu possa crederti tosto, ci sarà sempre uno più tosto di te. Ecco, io l’ho incontrato. Eppure, noir e romanzo storico sono generi letterari molto diversi. Spesso lo sono anche i lettori. I tuoi ti seguono da anni, sia come saggista che come romanziere e li immagino abbastanza tradizionalisti. Non hai avuto paura che la contaminazione potesse deluderli o addirittura allontanarli?

ANDREA: Non solo non ho avuto affatto paura, ma mi sono sentito talmente sicuro di non “uscire dal seminato” che punto a fregarti i lettori! Scherzi a parte, per quanto diversi siano i nostri stili, i contesti in cui agiscono i nostri personaggi, sono convinto che sia un romanzo omogeneo, che interesserà nella sua totalità sia i tuoi che i miei lettori, perché il registro è simile, il ritmo è simile, il pathos è simile. Per fortuna, il proliferare di serie televisive e film in costume, negli ultimi anni, ha sdoganato il genere storico dalla fiction di genere e l’ha reso più universale, fruibile anche per il grande pubblico, il che ha reso più omogenei i gusti degli utenti. Esiste un modo di raccontare la storia, oggi, che è molto più attuale di qualche decennio fa, quando le descrizioni prevalevano sull’azione. I nostri due protagonisti, poi, agiscono in un mondo di violenza e di sfide, di caduta e redenzione, di fallimento e formazione, che investe temi universali, sempre attuali. Infine, io non ho scritto sempre “romanzi storici” tout court, ma più spesso romanzi “di ambientazione storica”, ovvero romanzi “normali” ambientati in un’epoca storica lontana dalla nostra, ma anch’essi, fondamentalmente, noir e thriller. E questo è un altro elemento che ci avvicina… Ma dimmi, piuttosto: siamo due autori che mettono quasi sempre qualcosa di sé nei romanzi che scrivono. Tu cos’hai messo, stavolta, al di là dell’interesse per le arti marziali, di cui chiunque ti conosca come autore è già consapevole?

MASSIMO: Effetti, passione per le discipline da combattimento a parte, in Valerio Mattei ho voluto descrivere qualcosa che (purtroppo) mi appartiene: quella sorta di cupio dissolvi che può portare all’autodistruzione, la caduta, il lasciarsi andare a una passione divorante e impossibile, a un amore sbagliato che, fin dall’inizio, sai già che ti porterà fuori strada e da cui non potrà venire niente di bello, niente di costruttivo. Lo sai eppure non riesci a sganciarti, segui i tuoi sentimenti, per quanto folli, fino alle estreme conseguenze e, alla fine, tutto questo ti presenta un conto salatissimo. Mi è successo più volte e spero solo di aver acquisito, a quasi 63 anni, quella saggezza che mi impedirà di caderci ancora… Ma non ne sono affatto sicuro… Il corpo invecchia, la mente resta quella di un ragazzo incosciente. E adesso parliamo di Clovia. Femme fatale, dark lady di grandi appetiti e di pochi scrupoli da cui, però, in qualche modo Aurelio è affascinato. Ho trovato spesso personaggi femminili simili nei tuoi bellissimi romanzi (ribadisco di essere un lettore irriducibile di Andrea Frediani). Domanda da un milione di dollari: è un topos letterario o c’è qualcos’altro? Magari qualcun’altra? Qualcuna che esiste o è esistita nella tua vita?

ANDREA: Decisamente entrambe le cose! Sono, credo, il maggior collezionista italiano di film noir anni ‘50, quelli in cui agivano le dark ladies come la Lana Turner de Il postino suona sempre due volte, la Barbara Stanwick de La fiamma del peccato, la Rita Hayworth di Gilda… e così via. Era inevitabile che le trasferissi anche nei miei romanzi, come strumento di dannazione dei miei eroi… Ma è pur vero che ne ho incontrata almeno una anche nella vita… o me la sono cercata. E le dark ladies si dividono in due categorie: quelle consapevoli, le streghe che ammaliano un uomo per costringerlo a fare quello che vogliono, e le inconsapevoli, le sirene che sono votate all’autodistruzione e che non possono fare a meno di trascinare con sé l’uomo che ha la sventura di innamorarsi di loro…. E sai che non ho mai capito a quale delle due categorie appartenesse la mia? Forse a entrambe… Ma veniamo a te: spesso sono rimasto molto colpito dalle vicende che ho letto nei tuoi romanzi, che mi hanno appassionato come pochi altri thriller che ho letto. Mi hanno insegnato a guardare con altri occhi la realtà che mi circonda… Ma le storie più terribili che hai raccontato sono quelle che hai inventato nei tuoi romanzi, oppure la realtà che hai affrontato da cronista è stata capace di superare la fantasia?

MASSIMO: Ottima domanda: sono sicuro che la realtà batta la fantasia 10 a zero. In 40 anni di cronaca nera ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare… Scherzi a parte, credo che la mia esperienza di cronista di strada mi abbia permesso di raccogliere esperienze e materiale che potrebbe bastare per 50 libri. Alcune sul filo del sovrannaturale come la mamma che sogna il figlio morto che le dice: vengo a prendere mio fratello perchè mi sento solo. La mattina dopo il bambino (due mesi) è morto senza alcuna causa apparente. Credimi, l’ho vista e vissuta di persona, i poliziotti piangevano di dolore e costernazione. Molti dei miei romanzi prendono spunto dalla realtà, una realtà così incredibile che se la proponessi come trama al nostro amato editore mi consiglierebbe di cambiare spacciatore di sicuro. La collaborazione con Del Greco nasce proprio da questo: rielaboriamo in forma di romanzo vicende come il Canaro o la fantastica storia del colpo da 30 miliardi a Marbella, nel 1984 e le trasformiamo in fiction letteraria. Perchè inventarsi una trama se ne hai tante belle e pronte a disposizione? E ora una domanda più tecnica per te: come decidi in quale periodo dell’Antica Roma o di altre fasi storiche ambientare i tuoi romanzi? E ne aggiungo un’altra: c’è qualche personaggio storico che ti affascina particolarmente? La saga dei Cesariani, a mio parere, aveva una forte componente emotiva. Ho capito che per una volta ti eri schierato. E’ vero?

ANDREA: Tu sai bene che il nostro editore, che il cielo lo benedica per la sua lungimiranza, fiuta spesso il vento e ci fornisce un input… Ma altre volte mi sento “chiamato” da una storia o da un personaggio che voglio assolutamente raccontare a tutti, per trasmetterne il fascino. Per esempio, il mio prossimo romanzo, La spia dei Borgia, in uscita a fine aprile, sarà ambientato nella Roma rinascimentale perché c’era un cold case molto celebre, visto anche in serie televisive, di cui volevo dare la mia versione… Sono attirato, in particolar modo, dai periodi di passaggio e di declino, in cui tutto è confuso, il che offre notevoli spunti per creare o approfondire la psicologia di personaggi ambiziosi e tormentati. Mi attira scoprire le motivazioni che hanno alimentato le imprese dei personaggi che hanno cambiato la storia del mondo, da Cesare ad Augusto, a Costantino. Nel caso della saga de Gli invincibili, mi attirava l’idea di descrivere come un ragazzino malaticcio e vigliacco come Ottaviano poi Augusto sia riuscito in 15 anni a sgominare un’agguerrita concorrenza e a creare un impero che, nonostante tutti gli incapaci che gli si sono succeduti, è rimasto in piedi per un altro millennio e mezzo. E se mi sono un po’ schierato, è perché se non fossero stati i cesariani a vincere, di sicuro Roma sarebbe implosa definitivamente, dopo tanti anni di guerre civili, e ora non staremmo qui a parlare della sua straordinaria civiltà. Ma tu piuttosto: cosa stai preparando? Dopo tanti romanzi tratti dalle tue esperienze di vita e di lavoro, non ti viene mai la voglia di scrivere qualcosa di totalmente diverso? Che so, un legal thriller, un romanzo rosa, uno di fantapolitica, di fantascienza, fantasy, intimista, perfino storico, e chi più ne ha più ne metta… Io talvolta ne sentirei la necessità, anche come sfida personale, anche se non è detto che il nostro editore sia d’accordo…

MASSIMO: Parte della tua ultima risposta la immaginavo. Quando si segue un autore per anni si finisce per entrarci in sintonia. Quanto al mio povero lavoro, sto scrivendo, proprio con Del Greco, una storia che parte da un clamoroso furto in un caveau (quello a Marbella di cui parlavo prima) ma tenta di ricostruire quel convulso periodo della nostra storia recente che abbraccia terrorismo, ascesa e caduta (a proposito di quello che dicevi prima) della Gang della Magliana e il formarsi della malavita autoctona di Ostia. Ci riusciremo, inshallah? L’essenziale è che il lavoro ci sta appassionando. Per me, come per te, scrivere è soprattutto un’esigenza dello spirito. E, sì, capita che voglia cambiare genere. Ho una vera fissa per la battaglia di Crecy, 24 agosto 1346, la prima volta che un esercito plebeo di arcieri sbaraglia l’invincibile cavalleria francese composta dal fiore della nobiltà. Da polemologo quale sei sai bene di cosa sto parlando. Il romanzo storico è il mio genere preferito ma mi sento totalmente impreparato ad affrontarlo. Non riesco a capire come riusciate ad unire ricerca, inventiva, documentazione e fantasia. Beati voi. Comunque, visto che quell’episodio mi ossessiona da quando avevo 16 anni ci ho ambientato un racconto, “L’ultima freccia” che è uscito su una rivista letteraria. Meglio che niente. Confesso, come in una seduta di psicoanalisi, che sogno di scrivere un romanzo d’amore… ma sotto falso nome. Scrivo anche stornelli e versi in romanesco che tengo per me… Ora a te: hai due grandi passioni nella vita, letteratura e batteria. Visto che in entrambe sei bravissimo (ti ho sentito suonare e non è piaggeria) come riesci a conciliarle visto che entrambe richiedono impegno, dedizione, emozioni e un sacco di lavoro? Facciamo un gioco: se dovessi rinunciare a una delle due cose per l’altra quale sceglieresti?

ANDREA: E’ vero, io sono queste due cose, storia e musica, scrittura e batteria: due passioni tali che non mi limito a esserne fruitore passivo, ma anche artefice attivo. Vedo ancora tanti concerti dei miei gruppi preferiti e compro una mole inimmaginabile di cd, ma amo anche suonare e fare concerti io stesso. Così come, per la storia, amavo a tal punto leggerla che ho iniziato a scriverne. Non ricordo più neanche quale passione sia nata prima, ma sono assolutamente consapevole che, se nella scrittura un certo talento ce l’ho, nella batteria sono solo un onesto mestierante. E poiché mi piace stare a casa tra le mie passioni, scrivere sarebbe la scelta più spontanea… con una batteria accanto, anzi sei, che sono quelle che mi circondano nel mio studio quando scrivo, con la musica costante di sottofondo e la tv in mute sintonizzata su sci o tennis, i due sport che ho praticato e pratico con quasi altrettanta passione… A proposito… Dico sempre che se si prendono 100 scrittori, avranno 100 modi diversi di lavorare ai loro testi. Ho appena descritto il mio. Il tuo qual è?

MASSIMO: In genere un non metodo. Un grande scrittore diceva: le prime tre righe sono un dono degli Dei, il resto devi inventartelo tu. Io non faccio scalette ne elenchi dei personaggi. Ho una vaga idea dell’inizio e della fine di un romanzo, mi siedo al pc e lascio che venga fuori da solo. Spesso tutto prende una piega che, inizialmente, non avevo neanche immaginato. Per finire il primo romanzo ho impiegato 5 anni, il secondo uno e adesso la media è quattro o cinque mesi, segno che almeno in velocità sono migliorato. Ma sono estremamente rigoroso nella disciplina: almeno due ore al giorno di lavoro con pochissime eccezioni, una costanza che sicuramente mi viene dalla pratica quotidiana del Tai Ki Kung. Scrivere a quattro mani è stata un’esperienza innovativa, in questo senso, perchè mi ha costretto, per forza di cose, ha essere più organizzato, più ordinato e delineare, anche per sommi casi, il seguito di ogni capitolo per rapportarmi a un altro autore. Ho un’ultima curiosità e riguarda anche me. Pensi che si possa scrivere per tutta la vita? Ci sarà un momento in cui uno capisce che ha dato tutto quello che aveva dentro ed è ora di attaccare il pc al chiodo e ritirarsi? Io me lo domando spesso e grazie a Dio mi sento ancora lontano ma… Che ne dici?

ANDREA: Ho sentito parlare tante volte del blocco dello scrittore e ho conosciuto anche qualcuno che lo ha vissuto. Io, francamente, non l’ho ancora avuto. Anzi, più scrivo e più idee mi vengono; più scrivo e più mi viene facile scrivere; più scrivo, più si trasforma nella mia attività preferita. Ci sono delle volte in cui, pur stanco dopo una giornata di lavoro, la sera preferisco scrivere piuttosto che, per esempio, vedermi una serie televisiva o uscire, semplicemente perché quell’atmosfera, me al computer con la musica di sottofondo, nella penombra, circondato dalle mie passioni, è ciò che preferisco… Se e quando mi verrà il blocco dello scrittore, mi porrò il problema. Ma non credo che mi sentirò mai appagato: forse un giorno lontano mi troveranno riverso con la testa sul tavolo, senza vita, le bacchette per terra, la musica e la tv accese… e un testo lasciato a metà sullo schermo del computer. Nel caso dovesse accadere, ti pregherei di terminarlo tu!

* * *

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Lo chiamavano Gladiatore” di  Andrea Frediani e Massimo Lugli (Newton Compton)

Andrea Frediani e Massimo Lugli, due maestri della narrazione, firmano insieme un romanzo che lega inscindibilmente il destino dei due protagonisti, a distanza di duemila anni.

Roma, I secolo d.C., sotto l’imperatore Tito. Aurelio fa fallire l’impresa che gli ha lasciato il padre e, minacciato dagli strozzini, è costretto a farsi schiavo per i troppi debiti. Finisce così in una scuola di gladiatori: ha talento nell’arena, ma deve fronteggiare la rivalità dei compagni. Un aiuto gli arriva da Clovia, una donna senza scrupoli che, grazie a un misterioso unguento, ha trovato il modo per potenziare le doti atletiche dei combattenti su cui scommette.

Roma, giorni nostri. Valerio si è innamorato di una prostituta ed è determinato a liberarla dai suoi protettori. Da quando è finito sul lastrico, rovinato dal suo socio in affari, però, non ha più un soldo e l’unica sua fonte di guadagno sono i combattimenti clandestini di arti marziali. Per sopravvivere in quel mondo spietato, sarà costretto a ricorrere a soluzioni più estreme.

E questo, per quanto strano possa apparire, legherà il destino di Valerio a quello di Aurelio, vissuto duemila anni prima.

* * *

Andrea Frediani è nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma anticaI grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Le grandi battaglie di Alessandro MagnoL’ultima battaglia dell’impero romano, Le grandi battaglie tra Greci e RomaniLe grandi battaglie del Medioevo, La storia del mondo in 1001 battaglie) e romanzi storici: JerusalemUn eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di CesareIl nemico di Cesare Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); MarathonLa dinastiaIl tiranno di Roma300 guerrieri, 300. Nascita di un impero I 300 di Roma. Ha firmato la serie Gli invincibili, una quadrilogia dedicata ad Augusto (Alla conquista del potereLa battaglia della vendettaGuerra sui mari, Sfida per l’impero). L’ultimo pretorianoL’ultimo Cesare inaugurano la serie Roma Caput Mundi. Il romanzo del nuovo impero, incentrata sulla controversa figura di Costantino. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue. Il suo sito è www.andreafrediani.it

Massimo Lugli, Giornalista di «la Repubblica», si è occupato di cronaca nera come inviato speciale per 40 anni. Ha scritto Roma Maledetta e per la Newton Compton La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo, finalista al Premio Strega, Il CarezzevoleL’adeptoIl guardianoGioco perverso, Ossessione proibitaLa strada dei delittiNelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitaleStazione omicidi. Vittima numero 1, Vittima numero 2 Vittima numero 3, e nella collana LIVE La lama del rasoio. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie Estate in gialloGiallo NataleDelitti di FerragostoDelitti di CapodannoDelitti in vacanza. Cintura nera di karate e istruttore di tai ki kung, pratica fin da bambino le arti marziali di cui parla nei suoi romanzi.

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MARCELLO SIMONI con “L’eredità dell’abate nero” (Newton Compton) e CLAUDIO MORANDINI con “Le pietre” (Exorma) a “Letteratitudine in Fm” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/07/19/in-radio-con-marcello-simoni-e-claudio-morandini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/07/19/in-radio-con-marcello-simoni-e-claudio-morandini/#comments Wed, 19 Jul 2017 13:58:33 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7582 MARCELLO SIMONI con “L’eredità dell’abate nero” (Newton Compton) e CLAUDIO MORANDINI con “Le pietre” (Exòrma) ospiti del programma radiofonico Letteratitudine in Fm di lunedì 17 luglio 2017 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)

In Fm e in streaming su Radio Hinterland

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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Nella prima parte della puntata abbiamo incontrato Marcello Simoni per discutere del suo nuovo romanzo intitolato “L’eredità dell’abate nero” (Newton Compton).

Nella seconda parte della puntata abbiamo incontrato Claudio Morandini per discutere del suo romanzo Le pietre” (Exòrma).

Di seguito, informazioni sui due libri protagonisti della puntata.

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L’eredità dell’abate nero” di Marcello Simoni (Newton Compton)

Firenze, 21 febbraio 1459.
Il banchiere Giannotto Bruni viene ucciso in circostanze misteriose nella cripta dell’abbazia di Santa Trìnita. L’unico testimone è Tigrinus, un giovane ladro di origini ignote, dai capelli neri striati di bianco, che paga caro l’avere assistito al delitto: immediatamente arrestato con l’accusa di omicidio, solo l’inspiegabile intervento di un uomo molto influente riesce a sottrarlo alla morte. Ma a quale prezzo? Da quel momento in poi Tigrinus sarà braccato e costretto a fronteggiare i tentativi di vendetta di Angelo e Bianca, il figlio e la nipote della vittima, convinti che meriti la forca. Mentre cerca di sfuggire ai parenti di Giannotto, il ladro scopre però qualcosa di decisivo per il proprio destino: la morte del banchiere è legata a un tesoro che si trova su una nave proveniente dall’Oriente. Per aver salva la vita, Tigrinus dovrà stringere un patto con il potente Cosimo de’ Medici e affrontare un incredibile viaggio per mare, alla ricerca di un uomo sfuggente e imprevedibile. Un uomo che pare conoscere tutto sul suo misterioso passato… Un uomo chiamato l’abate nero.

Marcello Simoni è nato a Comacchio nel 1975. Ex archeologo e bibliotecario, laureato in Lettere, ha pubblicato diversi saggi storici; con Il mercante di libri maledetti, romanzo d’esordio, è stato per oltre un anno in testa alle classifiche e ha vinto il 60° Premio Bancarella. I diritti di traduzione sono stati acquistati in diciotto Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato La biblioteca perduta dell’alchimista, Il labirinto ai confini del mondo, secondo e terzo capitolo della trilogia del famoso mercante; L’isola dei monaci senza nome, con il quale ha vinto il Premio Lizza d’Oro 2013; La cattedrale dei morti; la trilogia Codice Millenarius Saga (L’abbazia dei cento peccati, L’abbazia dei cento delitti e L’abbazia dei cento inganni).

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Le pietre” di Claudio Morandini (Exòrma)

Tutto è in movimento in questo romanzo: sono sempre in giro gli abitanti del villaggio alpino di Sostigno, che salgono alle baite di Testagno e subito dopo scendono, in transumanze sempre più frequenti e frenetiche; si agita il fiume, anzi il torrente, che «certe anse se le inventa la notte, e la mattina le scopriamo come un regalo di Natale al contrario». Soprattutto, si muovono le pietre.
Certo, la vallata si è formata su detriti, su instabile sfasciume: ma il dato geologico non basta a spiegare i bizzarri fenomeni che da decenni coinvolgono i paesani, quella specie di iperattività del mondo minerale che moltiplica le pietre nei campi, nelle case, ovunque. I sostignesi, però, non se ne lamentano troppo, anzi cercano di sfruttare l’esuberanza pietresca a loro vantaggio.
Gli eventi recenti si intrecciano con la storia passata dei coniugi Saponara, cittadini in pensione approdati in montagna: è proprio in una stanza della loro “Villa Agnese” che si sono materializzate dal nulla le prime pietre, accumulandosi giorno dopo giorno in un crescendo tra Ionesco e Buster Keaton.

Claudio Morandini, «uno dei romanzieri più competenti e spiazzanti nel nostro panorama letterario» secondo la rivista «Pulp», è nato ad Aosta nel 1960. Ha pubblicato diversi romanzi, tra cui Le larve (2008), Rapsodia su un solo tema (2010), A gran giornate (2012). Nel 2015 ha pubblicato Neve, cane, piede (Premio Procida – Isola di Arturo – Elsa Morante). Suoi racconti sono apparsi in antologie e riviste o sono disponibili in rete. Collabora con il blog Letteratitudine e con le riviste online «Fuori Asse», «Diacritica» e «Zibaldoni e altre meraviglie». Il suo sito è http://claudiomorandini.com.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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La colonna sonora della puntata: …

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

Puoi ascoltare Radio Hinterland in Fm su 94.600 nelle province di Milano e Pavia, oppure in streaming via Internet cliccando qui.

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ALAN FRIEDMAN (con “Questa non è l’America”) a “Letteratitudine in Fm” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/22/in-radio-con-alan-friedman/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2017/03/22/in-radio-con-alan-friedman/#comments Wed, 22 Mar 2017 15:35:09 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7471 ALAN FRIEDMAN (con “Questa non è l’America” – Newton Compton) ospite del programma radiofonico Letteratitudine in Fm di lunedì 20 marzo 2017 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)

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È stato Alan Friedman l’ospite della puntata di Letteratitudine in Fm di lunedì 20 marzo 2017.

Con Alan Friedman abbiamo discusso del suo nuovo libro intitolato Questa non è l’America (Newton Compton)

Di seguito, informazioni sul libro protagonista della puntata.

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Questa non è l’America” di Alan Friedman (Newton Compton)

Le rivelazioni shock, le storie inedite e i retroscena che svelano i segreti del paese di Trump

Che cosa è successo all’America? Che fine ha fatto il sogno americano? E qual è il vero significato dell’arrivo di Donald Trump?
Dietro l’immagine del Paese più influente del mondo si intravede una nazione lacerata, impaurita e rabbiosa. È vero, gli Stati Uniti sono ancora una superpotenza mondiale, ma le tensioni interne sono sintomo di sofferenza e profonda divisione. E cosa cambierà con l’elezione di Donald Trump?
Alan Friedman ci racconta in presa diretta quali siano le condizioni attuali e quali i sentimenti reali del popolo americano. In Questa non è l’America vediamo un Friedman inedito, in un’indagine sul campo: vicino ai suoi connazionali e capace di raccontare le loro storie in modo vivido. Arricchito da interviste a persone comuni e a figure di primo piano della politica e dell’economia statunitensi, questo libro di grande impatto traccia il percorso e fa il punto sulle cause della terribile disuguaglianza dei redditi che affligge gli Stati Uniti e ci accompagna nel cuore di una cultura vasta e contraddittoria, ricca ma spesso incomprensibile. Dalla povertà estrema di alcune zone rurali come il Mississippi, agli eccessi di Wall Street, fino all’incontro con Donald Trump a bordo del suo Trump Force One, Friedman ci racconta la vera America, come non l’abbiamo mai vista prima. Ci spiega chi è Trump e ci fa capire cosa sta per cambiare negli Stati Uniti e nel mondo intero.

Per la prima volta Alan Friedman indaga sul suo paese e racconta cosa dobbiamo aspettarci dall’America di Trump

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Alan Friedman è un giornalista esperto di economia e politica, conduttore televisivo e scrittore statunitense. All’inizio della carriera fu un giovanissimo collaboratore dell’amministrazione del presidente Jimmy Carter, poi è stato per lunghi anni corrispondente del «Financial Times», in seguito inviato dell’«International Herald Tribune» e editorialista del «Wall Street Journal». È conduttore e produttore di programmi televisivi in Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia, dove ha lavorato per testate come RAI, Sky Tg24 e La7. Celebri i suoi scoop giornalistici e i numerosi riconoscimenti (è stato insignito per quattro volte del British Press Award, e del Premio Pannunzio nel 2014). Tra i suoi libri: Tutto in famiglia, La madre di tutti gli affari, Il bivio, Ammazziamo il Gattopardo (Premio Cesare Pavese), My Way. Berlusconi si racconta a Friedman (i cui diritti sono stati venduti in 30 Paesi). Il suo documentario su Berlusconi è stato distribuito da Netflix in 190 Paesi. In Italia è editorialista per «Il Corriere della Sera». Per saperne di più: www.alanfriedman.it

Foto dell’autore: © Basso Cannarsa

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La colonna sonora della puntata: “Born In The U.S.A”, “The River”, “This Hard Land”  (di Bruce Springsteen)


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MATTEO STRUKUL e MARILÙ OLIVA a “Letteratitudine in Fm” http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/11/30/in-radio-con-matteo-strukul-e-marilu-oliva/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2016/11/30/in-radio-con-matteo-strukul-e-marilu-oliva/#comments Wed, 30 Nov 2016 14:46:17 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7371 MATTEO STRUKUL con “I Medici” (Newton Compton) e MARILÙ OLIVA con “Questo libro non esiste” (Elliot) in radio a Letteratitudine in Fm di lunedì 28 novembre 2016 – h. 10 circa (e in replica nei seguenti 3 appuntamenti: giovedì alle h. 03:00 del mattino; venerdì alle h. 13:00; domenica alle h. 03:00 del mattino)

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Matteo Strukul e Marilù Oliva sono stati gli ospiti della puntata di Letteratitudine in Fm di lunedì 28 novembre 2016.

Con Matteo Strukul abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato “I Medici. Una dinastia al potere” (Newton Compton) e dell’intera saga dedicata ai Medici.

Con Marilù Oliva abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato “Questo libro non esiste” (Elliot).

Di seguito, la schede dei libri protagonisti della puntata.

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Foto Cover di I Medici. Una dinastia al potere, Libro di Matteo Strukul, edito da Newton ComptonMatteo Strukul – “I Medici. Una dinastia al potere” (Newton Compton)

Firenze, 1429. Alla morte del patriarca Giovanni de’ Medici, i figli Cosimo e Lorenzo si trovano a capo di un autentico impero finanziario, ma, al tempo stesso, accerchiati da nemici giurati come Rinaldo degli Albizzi e Palla Strozzi, esponenti delle più potenti famiglie fiorentine. In modo intelligente e spregiudicato i due fratelli conquistano il potere politico, bilanciando uno spietato senso degli affari con l’amore per l’arte e la cultura. Mentre i lavori per la realizzazione della cupola di Santa Maria del Fiore procedono sotto la direzione di Filippo Brunelleschi, gli avversari di sempre continuano a tessere le loro trame. Fra loro c’è anche una donna d’infinita bellezza, ma dal fascino maledetto, capace di ghermire il cuore di un uomo. Nell’arco di quattro anni, dopo essere sfuggito a una serie di cospirazioni, alla peste e alla guerra contro Lucca, Cosimo finirà in prigione, rischiando la condanna a morte. Fra omicidi, tradimenti e giochi di palazzo, questo romanzo narra la saga della famiglia più potente del Rinascimento, l’inizio della sua ascesa alla Signoria fiorentina, in una ridda di intrighi e colpi di scena che vedono come protagonisti capitani di ventura senza scrupoli, fatali avvelenatrici, mercenari svizzeri sanguinari…

Matteo Strukul è nato a Padova nel 1973. Laureato in giurisprudenza e dottore di ricerca in diritto europeo, ha pubblicato diversi romanzi (La giostra dei fiori spezzati, La ballata di Mila, Regina nera, Cucciolo d’uomo, I Cavalieri del Nord, Il sangue dei baroni). Le sue opere sono in corso di pubblicazione in 20 Paesi e opzionate per il cinema. Nel 2016 ha pubblicato con la Newton Compton il primo romanzo della trilogia sui Medici, Una dinastia al potere: il libro è stato il caso editoriale della Fiera di Francoforte, i diritti di traduzione sono stati venduti in vari Paesi (tra cui Germania, Spagna e Inghilterra) ed è stato sin dall’uscita ininterrottamente in cima alle classifiche italiane di vendita. Matteo Strukul scrive per le pagine culturali del «Venerdì di Repubblica» e vive insieme a sua moglie Silvia fra Padova, Berlino e la Transilvania. Il suo sito internet è www.matteostrukul.com

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Foto Cover di Questo libro non esiste. Storia di una macchina del tempo, Libro di Marilù Oliva, edito da ElliotMarilù Oliva – “Questo libro non esiste” (Elliot)

Mathias, un aspirante scrittore, perde incautamente il manoscritto che sarebbe potuto diventare il libro della sua vita. Deciso a recuperarlo, comincia la spola tra gli editori e i critici cui ha spedito il cartaceo, ma un omicidio imprevisto ostacola i suoi piani, coinvolgendolo in prima persona. Intanto riemergono antiche nevrosi, come il demone del tempo o il ricordo del nonno materno, che l’ha cresciuto tra rimproveri e oppressioni, frustrando il suo sogno infantile di diventare astrofisico. Un capofamiglia taciturno e autoritario che aveva dedicato l’ultima fase della sua esistenza alla costruzione di una macchina del tempo, trasmettendo a Mathias la passione per il cielo e le stelle. Con gli anni questo amore per il firmamento si è trasformato in un prezioso strumento per classificare e decifrare l’animo umano: ogni amicizia, relazione, perfino l’amore può essere paragonato a una costellazione o a un elemento cosmico. Ed è forse nei misteri della volta celeste che il protagonista di questo originalissimo romanzo potrà cercare qualche indizio per far luce sul delitto, ma soprattutto un sentiero terreno che lo conduca a dare un senso alla propria vita.

Marilù Oliva vive a Bologna. Insegna lettere alle superiori e scrive. Ha pubblicato racconti per il web e testi di saggistica, l’ultimo è uno studio sulle correlazioni tra la vita e le opere del Nobel colombiano Gabriel García Márquez: Cent’anni di Márquez. Cent’anni di mondo (CLUEB, 2010). Collabora con diverse riviste letterarie, tra cui Carmilla, Thriller Magazine, Sugarpulp. Tra i suoi libri ¡Tú la pagarás! (Elliot 2011), Fuego (Elliot 2011) e Mala Suerte (2012), Le Sultane (2014), Lo Zoo (2015), La Squola (LiberAria, 2016). il suo sito internet è www.mariluoliva.net.

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia: Federico Marin

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La colonna sonora della puntata: “Venezia” di Francesco Guccini; “Lo straniero” di Georges Moustaki; “Hoochie Coochie” di Muddy Waters.

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Letteratitudine in Fm va in onda su Radio Hinterland il mercoledì mattina (h. 9 circa), con una serie di repliche nei giorni successivi. Per dettagli, consulta il palinsesto della radio.

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LA DONNA CHE PARLAVA CON I MORTI di Remo Bassini http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/03/la-donna-che-parlava-con-i-morti-di-remo-bassini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/03/la-donna-che-parlava-con-i-morti-di-remo-bassini/#comments Mon, 03 Mar 2008 06:56:45 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/03/la-donna-che-parlava-con-i-morti-di-remo-bassini/ Il 12 settembre 2005 lessi questo articolo di Piero Colaprico pubblicato su Repubblica.it.

Vi riporto l’incipit.

Sarà stata un’intuizione. O forse sarà davvero che esiste una medium che ascolta con le proprie orecchie le voci dei morti. Ma non c’è dubbio che ieri mattina, molto presto, una donna di 55 anni abbia guidato un corteo di subacquei sulla riva del lago di Como e abbia detto: “E’ qui”. E là c’era davvero l’auto, inabissata, di una trentenne scomparsa da tempo. Un robot con telecamera ne ha letto la targa. La stessa telecamera ha inquadrato l’interno, ed ecco il giubbotto beige. Ogni dubbio è sparito e questa mattina si cercherà di recuperare quello che resta di Chiara Bariffi, inghiottita nel nulla nella notte tra il 30 novembre e il primo dicembre 2002.

Come ha fatto la donna, che si chiama Maria Rosa Busi, 55 anni, a dire: “E’ qui”?

Lei sostiene che gliel’ha detto la ragazza morta: “Voleva essere trovata”.

Ecco. Quando ho letto per la prima volta il titolo del nuovo romanzo di Remo Bassini, La donna che parlava con i morti (Newton Compton, Roma, 2007, pp. 238, euro 9,90) ho pensato subito a quell’articolo. E quella donna: Maria Rosa Busi.

La donna che parla con i morti.

Su Books and other sorrows di Francesca Mazzucato, Leandro Piantini – riferendosi a questo romanzo – scrive che Bassini “si slancia nel mondo tenebroso dell’occulto, del paranormale, dei morti che non sono morti del tutto ma ritornano, e con cui si può entrare in comunicazione”.

Su Queer (Liberazione), Franz Krauspenhaar ne parla così:

“Remo Bassini non è solo uno scrittore di valore, è anche un prodigio e una macchina – umanissima – da scrittura: è direttore de La Sesia, storico bisettimanale di Vercelli e provincia, collabora con Il Corriere Nazionale, commenta sul suo seguitissimo blog e ne La poesia e lo spirito,- il blog letterario multiautore fondato da Don Fabrizio Centofanti – scrive romanzi di buon successo. Per il suo ultimo libro, quarto di una fortunata serie, ha scelto un titolo d’inquietudine un pò anni 70, La donna che parlava con i morti, (…) un romanzo giallo di tinte (come da copertina) ma dai sapori popolari e al contempo raffinati. La storia inquietante di una donna e della provincia italiana profonda nella quale vive, una serie di personaggi difficilmente dimenticabili. E soprattutto la scrittura felice di Remo Bassini: a volte vorticosa, sempre funzionale e fatta spesso di pennellate veloci, precise, multistrato. Godibile ma anche capace di strapparti un replay, per ricatturare – felicemente- un momento, una sfumatura particolarmente interessante”.

Su Famiglia Cristiana Laura Bosio scrive di questo romanzo evidenziandone l’ambientazione nella provincia italiana: “La provincia ha una grande, sotterranea vitalità. Non è soltanto un luogo fisico: è un luogo dell’anima, la “provincia” che tutti noi ci portiamo dentro, con i nostri sogni, i nostri fallimenti, le nostre aspirazioni e le onde della nostra vita più segreta. E’ una provincia di risaie, di campagne umide e di piccole città, quella raccontata nel suo ultimo libro, “La donna che parlava con i morti” (Newton Compton), da Remo Bassini: romanziere civile, ruvido e dolce, capace di illuminare con la sua scrittura precisa, veloce, a tratti vorticosa, un’Italia minore e insieme “esemplare”, dove il passato ramifica le sue radici inquiete in un presente disorientato. E con il passato fanno i conti tutti i personaggi del suo romanzo, a partire dalla protagonista, Anna Antichi: esistenze spezzate da lutti familiari, tormentate da rimpianti e rimorsi, e turbate da un fantasma insanguinato che torna a pretendere attenzione e affetto. Un giallo, a voler assecondare sempre più labili definizioni di genere, ma soprattutto una coinvolgente storia di morte e amore che ricuce gli strappi della memoria per ritrovare i fili di un possibile futuro.

Vi propongo un dibattito su due linee. La prima è in riferimento all’articolo di Colaprico di cui sopra, la seconda è più strettamente legata al romanzo di Bassini.

Così vi domando:

Cosa pensate dei cosiddetti medium? Credete a chi dice di parlare con i morti? Avete aneddoti da raccontare, in proposito?

E poi… Remo Bassini è ospite di questo post ed è pronto a dialogare con voi.

Seguono degli estratti gentilmente concessi dall’autore e dalla Newton Compton.

(Massimo Maugeri)

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Incipit

Si parlava poco di lei. Quando se ne parlava i vecchi dicevano, ma solo in certe occasioni, banchetti funebri, domeniche nebbiose trascorse tra amici e parenti a mangiar castagne, dicevano, questi vecchi, che era «come una santa». Santa Nunzia del bosco. O dei castagni.
Aveva poco più di vent’anni quando lasciò il Palazzone per andare a vivere come in clausura nel cascinale in fondo alla valle, costruito in una sola estate dai muratori venuti da lontano con muli e cavalli da tiro, in fretta, e un capomastro che urlava, e gente armata su cavalli e mule, a controllare.

E di lei per anni e anni si disse, ma si seppe poco. Si seppe, ma si disse poco del suo peccato: aveva tradito il marito, tre volte più vecchio di lei, per un giovane, bel fattore che poi fu trovato morto, dissero per disgrazia, in un torrente.

La pena per Nunzia la decisero, con la benedizione del marito disonorato, i suoi due cognati; clausura a vita, controllata a vista da due contadine, carceriere spietate in cambio di un piatto di minestra, vino buono, un letto per dormire e per altri piaceri, chissà.

* * *

Seconda parte

Lo scrittore maledetto

Aveva il mondo in tasca e non lo sapeva. Ma quella notte di marzo, piovigginosa, che sapeva di glicini in fiore, Mario ebbe la percezione, chiara, quando imboccò il piccolo viale alberato che puntellava la sua bella villa, che il suo mondo non era più quello di prima.
La villa era l’ultima. Ancora trecento metri. Sembrava più vicina, però. Perché illuminata, da una luce che non sembrava vera. Una luce, irreale, implacabile, che annuncia il dolore più grande, il peggio del peggio del peggio. Erano le quattro del mattino ma c’era gente attorno a quella luce. Che abbagliava, quasi. E un’ambulanza e due pattuglie dei carabinieri, anche.

Si mise a correre, lui, come un pazzo. Non aveva preso l’auto, uscendo, dopo cena.
Il corpicino di Giuliano era già stato avvolto in un lenzuolo. Corse e si fermò quando intravide, circondata dai vicini, Margherita, seduta sui gradini, con la bocca spalancata e le labbra che sembravano paralizzate da una smorfia eterna, nel tentativo disperato di immettere aria nei polmoni incapaci a respirare. Il corpo impazzisce e non dà retta più quando un figlio piccolo muore, suicida.

L’aveva trovato lei. Impiccato con un lenzuolo, nella sua stanzetta. Sul letto l’ultimo libro che aveva scritto suo papà. Con la dedica: “A Giuliano, che capisce il suo papà”.
Mentre correva, Mario, per un attimo, ma poi cacciò quel pensiero, ripensò e rivide una moneta: per terra, che non aveva raccolto, ore prima, quando era uscito. Non era nella sua tasca, quella moneta.

Avrebbe dovuto: se lui non si fosse dimenticato chi era.

Nell’altra tasca, invece, ballonzolava il cellulare. Con un messaggio, che non lesse mai Mario: di Chiara, l’ultima fiamma: “Sei il mio stallone, mi hai fatto vedere le stelle stanotte”.

Vedeva altro, lui, ora. Che chiudevano il portellone dell’ambulanza. Con rabbia.

* * *

In mezzo a queste due maledizioni c’è Anna Antichi, la protagonista

* * *

«Allora, signorina Anna Antichi, lo mettiamo su questo ufficio di investigazioni private?»
«Mi scusi, invece di dire stronzate mi dica piuttosto chi le ha dato il numero del mio cellulare».

Non le sto dicendo stronzate, le sto facendo una proposta…»

«Non sono molto intenzionata a farmi scopare da lei, mi dice chi le ha dato il numero o…».

«E la smetta, chi crede che me l’abbia dato? Fabrizio no?».

Il quasi urlo di quell’omone alto, coi capelli bianco-neve, lo sentì anche una donnina che stava uscendo dal camposanto e che si girò a guardarli. Anna si accese una sigaretta.

«Mi dà fastidio, può spegnere, ce la fa a resistere dieci minuti? Sia gentile».

«Negativo. Se lo scordi, senta mi sono rotta, dica quello che deve dirmi».

«Mi ascolti. Ho un enfisema, spenga quella sigaretta per favore, glielo sto domandando per favore, la prego».

«E non si decidono a mandarla in pensione?», disse Anna lanciando lontano la sigaretta, con l’arte dell’indice che fa pressione sul pollice.

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LE SACRESTIE DI COSA NOSTRA di Vincenzo Ceruso (recensione di Roberto Alajmo) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/03/le-sacrestie-di-cosa-nostra-di-vincenzo-ceruso-recensione-di-roberto-alajmo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/03/le-sacrestie-di-cosa-nostra-di-vincenzo-ceruso-recensione-di-roberto-alajmo/#comments Wed, 03 Oct 2007 15:09:04 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/10/03/le-sacrestie-di-cosa-nostra-di-vincenzo-ceruso-recensione-di-roberto-alajmo/ In quel genere di attitudine del tutto personale rappresentato dalla lettura è raro che io mi sbilanci, ma una volta tanto mi sentirei di prescrivere la lettura di un libro: si intitola “Le sacrestie di Cosa Nostra”, di Vincenzo Ceruso, editore Newton Compton.

E’ un libro di quelli che mettono in fila i fatti uno dietro l’altro, in modo che parlino da soli. I ragionamenti, quelli, vengono di conseguenza, e sono lasciati all’intelligenza del lettore.
Io, per dire, sono uscito dalla lettura rafforzato nell’idea che la chiesa sarà pure “santa”, “cattolica” e “apostolica”, ma di sicuro non è “una”. Nel senso che assume di volta in volta un atteggiamento differente a seconda dei contesti. Solo all’apparenza padre Pino Puglisi e don Agostino Coppola sono in contraddizione fra loro. Al contrario: rappresentano due volti fra i cento diversi che la chiesa è capace di rappresentare. Ognuno di essi copre un segmento di mercato, in modo che a ogni interpretazione della fede, anche la più perversa, corrisponda una rispettiva chiesa. C’è il prete mafioso e il prete antimafioso, così come c’è il prete pedofilo e il prete antipedofilia.

Se i mafiosi non trovano contraddittorio uccidere e pregare, anche la chiesa cattolica non trova contraddittorio assumere un aspetto proteiforme, in modo da trarre il massimo profitto in ogni circostanza.

Ferma restando la buona fede di individui come padre Puglisi, quello della chiesa, in Sicilia come altrove, è un puro gioco delle parti.

Roberto Alajmo

- – - -

Le sacrestie di Cosa Nostra

di Vincenzo Ceruso

Newton & Compton, 2007, euro 9,90, pagg. 270

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Roberto Alajmo è nato a Palermo nel 1959. Fra i suoi libri: Le scarpe di Polifemo (Feltrinelli, 1998), e Notizia del disastro (Garzanti, 2001), col quale ha vinto il premio Mondello. Con Mondadori nel 2003 ha pubblicato il romanzo Cuore di Madre, finalista ai premi Strega e Campiello. Nel 2004 è uscito Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo e nel 2005 il romanzo È stato il figlio, finalista al premio Viareggio e vincitore del SuperVittorini e SuperComisso.
Con Laterza, sempre nel 2005, ha pubblicato il saggio Palermo è una cipolla.

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Aggiornamento del 4 ottobre 2007

L’ufficio stampa della Newton & Compton, di comune accordo con l’autore del libro, mi invia il prologo. Ringrazio e pubblico qui di seguito. (Massimo Maugeri)

Prologo

Non fai più parte di questo mondo.

Il capomafia Leoluca Bagarella

rivolto a un nuovo affiliato a Cosa nostra

La sagrestia è una terra di mezzo. Non sei in chiesa ma neppure al di fuori di essa. È uno spazio in cui sacro e profano si mescolano. Vi si trovano gli arredi sacri e i paramenti liturgici.

Il prete lo usa per cambiarsi prima delle funzioni. Ma è anche un posto dove ci si può fermare a parlare tranquillamente, senza il timore reverenziale che si prova nel luogo deputato al culto. La gente entra, chiede informazioni, parla con il sacerdote, talvolta si confessa. Questo libro è un reportage sulle sagrestie di Cosa nostra: «Un poco come un viaggio senza precedenti, un viaggio da inviato speciale non già sulla mafia, ma “dentro la mafia” [...]. Un lungo, fantastico viaggio, dentro un mondo anche per me sconosciuto: una esplorazione, una scoperta. Un viaggio dentro la mafia e “sotto il mondo”…» (Felice Chilanti, in «L’Ora», 15 settembre 1963).

Parlare di “sagrestie di Cosa nostra” ha un duplice significato: in un senso puramente geografico, si riferisce a quante si trovano in territori dove il controllo della mafia è profondamente radicato e tendenzialmente assoluto; poi vi sono le sagrestie per le quali i padrini hanno una particolare predilezione.

Sono quelle che i padrini sentono come cosa propria, dove celebrano le loro festività, si sposano, battezzano i figli, in cui si muovono a proprio agio, dove la loro presenza non è imposta per via autoritaria, ma in cui sono bene accolti; non come peccatori in cerca di redenzione, ma proprio per quello che sono: personaggi di rispetto, mafiosi riconosciuti e, in quanto tali, ossequiati. Ovviamente, le due cose non sempre coincidono. Le sagrestie di Palermo racchiudono molti dei segreti dell’Onorata società. Il viaggio ci condurrà in chiese molto diverse tra loro. Dalla chiesa di Maria SS. delle Grazie, nel cuore della terribile “mafia dei giardini”, alla chiesa di San Giuseppe, nel pieno centro storico del capoluogo siciliano, così amata dall’infelice Vincenza Marchese, sposa del sanguinario Leoluca Bagarella; dallo splendido duomo normanno di Monreale alle chiese del SS. Crocifisso e di Maria SS. del Carmelo, nelle borgate di Coceverde-Giardina e Ciaculli, per decenni occupate quasi militarmente dalla spietata famiglia dei Greco; senza dimenticare la chiesa, anzi le chiese, del mite e forte don Giuseppe Puglisi, ucciso dai sicari mafiosi il 15 settembre del 1993. Non solo San Gaetano, nel famigerato quartiere palermitano di Brancaccio, la cui liberazione il coraggioso prete pagò con il martirio; Puglisi maturò la sua resistenza alla mafia nei primi anni di sacerdozio, trascorsi anche in condizioni difficili, in diverse chiese della diocesi di Palermo, lasciando ovunque segni tangibili della sua presenza amica. Il suo ultimo incarico come parroco, in un territorio ad alta densità mafiosa, fu il tragico epilogo di una vita spesa per il Vangelo e contro tutto ciò che Cosa nostra rappresenta in Sicilia. Ma quale interesse possono avere i rappresentanti di un’organizzazione criminale che movimenta decine di miliardi di euro dappertutto, si occupa di traffici internazionali di stupefacenti, decide la vita e la morte di migliaia di affiliati, a inserirsi nella vita di una parrocchia o, comunque, a intromettersi nelle vicende religiose dei suoi membri?

A titolo esemplificativo, si può rispondere a questo interrogativo raccontando una storia. Ciccio Pastoia era il braccio destro dello “zio Binnu”, cioè Bernardo Provenzano, l’ultimo capo dei capi di Cosa nostra (“zio” è un titolo onorifico abbastanza diffuso in Sicilia), arrestato nell’aprile del 2006. Grazie a questa fiducia don Ciccio, originario di un piccolo paese dell’entroterra siciliano, chiamato Belmonte Mezzagno, si era ritrovato a comandare in mezza Sicilia e a decidere su ogni genere di affari, dalle poche centinaia di euro per il pizzo di un negozio fino ai miliardi di euro per il futuro ponte sullo Stretto.

Ciccio Pastoia prendeva ordini solo dal capo e a lui solo riferiva. Ma aveva commesso un errore. Si era fidato troppo della sua autonomia e aveva ordinato un omicidio senza informarne Provenzano. Quando venne arrestato i giornali pubblicarono alcune intercettazioni telefoniche, in cui Pastoia metteva a punto il piano per il delitto e diceva chiaramente ai suoi complici che a Provenzano era meglio non dire niente. Decise di non attendere la punizione e di suicidarsi in carcere. Ma ciò non venne ritenuto sufficiente. Ha ricevuto la condanna fin nella tomba. All’indomani del funerale il loculo venne interamente distrutto; per ammonire e intimidire i vivi, certamente, ma anche per esprimere un giudizio sulla sorte ultraterrena del traditore. L’ambizione del sodalizio mafioso sembra essere quella di non fermarsi neppure di fronte alla morte, ma anche a questa apporre il proprio sigillo.

Quale altra organizzazione di malviventi si preoccupa del destino trascendente dei propri membri?

È un compito, questo, in genere riservato alle religioni. I terroristi legati al mondo dell’estremismo islamico, che abbiamo imparato a conoscere sotto la sigla di Al Qaeda, la rete criminale di Osama Bin Laden, ci hanno in effetti abituato all’immagine di uomini e donne che commettono azioni orribili, sgozzano, sequestrano, si fanno saltare in aria, massacrano vittime innocenti e sono disposti a farsi uccidere senza dubitare che, in cambio di ciò, riceveranno una ricompensa ultraterrena. Tutto questo ci disgusta ma, in un certo senso, ormai non ci stupisce più. Abbiamo familiarizzato con l’idea. È possibile che i mafiosi pensino ai loro crimini come azioni legittimate da una finalità religiosa?

Per rispondere a questa domanda dovremmo riuscire a pensare come pensa un appartenente a Cosa nostra. E non è facile.

Possiamo aiutarci con il lavoro di storici, psicologi e sociologi, ma ancora più utile potrebbe risultare lo studio di uno specialista molto particolare. Si chiama Sergio De Caprio, meglio conosciuto come “capitano Ultimo”. È l’uomo che ha catturato, dopo ventisei anni, Totò Riina, detto “’u curtu”, uno dei più feroci capimafia mai esistiti. Nel suo libro, un manuale di tecniche investigative destinato alla Scuola di perfezionamento di polizia, il militare espone il problema di come prepararsi a un conflitto asimmetrico, tra lo Stato e un nemico inferiore per forza e quantità, che però trova proprio nella sua presunta debolezza il vantaggio di cui servirsi sul terreno:

Il nemico invisibile, non strutturato, non convenzionale è la minaccia che stabilisce la nuova dottrina di lotta: non più muro contro muro, non più vuoto contro pieno, ma piccolo contro grande, leggero contro pesante, semplice contro complesso, poco contro tutto [...]. È immediata l’intuizione dell’importanza fondamentale che nei conflitti moderni assume la funzione dell’esplorazione nascosta by stealth e la tecnica che la spalma sul terreno. Vince chi ha la superiorità informativa sull’avversario, non chi ha maggiore capacità di fuoco (Ultimo, La lotta anticrimine.

Intelligence e azione, Roma, Laurus Robuffo, 2006, pp. 48, 49).

Se c’è una cosa che la storia della mafia (e dell’antimafia) dovrebbe insegnare, è che Cosa nostra ha saputo costruire una «superiorità informativa sull’avversario», cioè sullo Stato.

Per dirla in altri termini, i mafiosi sanno chi siamo noi ma noi non sappiamo chi sono i mafiosi. Cioè, non sappiamo come pensano, come si muovono, cosa sta loro a cuore. De Caprio spiega che per lottare sul terreno dei mafiosi occorre imparare a «interiorizzare l’avversario per prevederlo».

Un analista del fenomeno criminale – la cui conoscenza non è finalizzata all’azione repressiva – potrebbe parafrasare questa formula così suggestiva: interiorizzare l’avversario per studiarlo.

In qualche misura, dovremmo fare come il protagonista di un celebre film, Donnie Darko. Il personaggio principale è un poliziotto che si infiltra nelle fila della mafia americana. Lo fa così bene che arriva a identificarsi con gli esponenti di quel mondo criminale, fino a creare un sincero legame d’amicizia con il piccolo mafioso che lo ha introdotto nella “famiglia”, impersonato da Robert De Niro. Tutta la sua vita ne esce sconvolta.

In una scena litiga con la moglie, che lo accusa di comportarsi come i criminali che dovrebbe arrestare, di essere come loro. Lui le risponde urlando: «Io sono uno di loro!».

Ovviamente, a nessuna persona normale verrebbe in mente di procurarsi una pistola, trafficare in droga e iniziare a chiedere il pizzo ai negozi sotto casa, per riuscire a carpire qualcuno dei segreti dell’universo mafioso. E infatti non è necessario arrivare a tanto. Secondo il popolare protagonista dei

romanzi di Sir Arthur Conan Doyle, il celebre Sherlock Holmes: «È difficile che una persona usi ogni giorno un oggetto senza lasciarvi impressa qualche traccia della sua personalità, che un osservatore esperto non può non decifrare». La mafia usa fin dalla sua nascita tradizioni e simboli della religione cattolica. Tracce del passaggio dell’organizzazione segreta Cosa nostra si possono rintracciare nelle sagrestie, negli archivi delle confraternite, nei santuari, nel silenzio dei cimiteri, nei chiostri dei conventi, nei percorsi delle processioni.

Un buon punto di partenza sono le “santine”, le immagini religiose, che vengono utilizzate per la “punciuta”, la rituale affiliazione degli adepti:

Sono entrato a far parte della famiglia nel 1974: io e Umina Salvatore. Ci portarono in campagna, da mio padre [...]. Poi hanno preso una candela accesa, hanno disinfettato un ago facendolo bruciare al fuoco e ci hanno punto il dito. Pigghiaru a santa, ci dettiru fuocu e nna’ misiru nna’ manu, poi ci fecero giurare: io giuro di essere fedele alla famiglia, se io dovessi tradire le mie carni saranno bruciate come brucia questa santina. Queste sono le modalità per potere entrare nella famiglia. Poi c’è stata la baciata (trascrizione di un interrogatorio in «Giornale di Sicilia», 16 maggio 1987).

È la descrizione della cerimonia di affiliazione dalla viva voce di un ex mafioso, un certo Vincenzo Marsala, diventato collaboratore di giustizia negli anni Ottanta del secolo scorso.

È un racconto fresco ed essenziale, dove il contaminarsi di dialetto siciliano, italiano scolastico e parlato rende, anche linguisticamente, la mescolanza di arcaico e di moderno di cui è impastata la mafia. Se Cosa nostra è abituata a descrivere se stessa come manifestazione della società tradizionale, indubbiamente in questa elaborazione ideologica ha un ruolo da definire l’adesione dell’uomo d’onore al cattolicesimo:

Per incoronare un capo non si sceglieva mai un giorno a caso. Per esempio a Riesi, tra le miniere di zolfo e il vino nero come inchiostro della contrada Judeca, un boss ha presentato pubblicamente il suo delfino nel giorno più importante di quella comunità: la festa della Madonna della Catena. E così fu anche nel 1963, quando Francesco Di Cristina si affacciò dal balcone della casa più grande e bella di Riesi e baciò suo figlio Giuseppe. Sotto quel balcone dodici uomini portavano a spalla la statua di gesso della Madonna. Non c’è mafia senza chiesa. Non ci sono mafiosi senza fede. In tempi antichi e in tempi moderni. Si possono scannare cristiani come capretti, si possono sciogliere bambini nell’acido, si possono strangolare uomini e poi gettare i loro corpi in fondo al mare e poi… pregare (Attilio Bolzoni, in «la Repubblica», 9 giugno 1997).

Cosa intende l’affiliato a Cosa nostra con religiosità? Che ruolo ha questa religiosità nella cosiddetta cultura mafiosa? È esistita (o esiste) un’ideologia, o meglio, un sistema di valori condiviso, che ha fatto da cerniera tra mafia e parte del clero siciliano?

Possiamo rispondere a queste domande solo se partiamo da un presupposto: per un membro di Cosa nostra la mafia stessa esaurisce la sfera della religiosità. È una delle intuizioni di Giovanni Falcone: «Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi ad una religione».

Nulla viene prima e nulla viene dopo di essa. Nell’Ottocento lo avevano già capito. Scriveva un delegato di polizia in un suo studio, nel 1886:

Si è parlato lungamente di riti di iniziazione. Si racconta in tono leggendario che dopo il 1866 girava per vari comuni una specie di missionari, i quali andavano facendo proseliti per una causa che, camuffata a religiosa e politica, sotto le finte cioè di far trionfare la religione ed abbattere il governo usurpatore e scomunicato, metteva capo realmente al delitto. Furono da costoro introdotti riti tra il mistico e il settario, che con brevi varianti si resero poi comuni alle varie associazioni di malfattori [...]. I soci avevano segni di riconoscimento e ben presto il tenebroso sodalizio si sparse in vari comuni. Vuolsi che all’atto del giuramento l’iniziato dovesse anche tirare un colpo di pistola ad un crocifisso colà appeso, quasi per dimostrare che dopo aver sparato al Signore non avrebbe esitato ad uccidere qualunque persona, anche a lui cara (Giuseppe Alongi, La maffia, 1886, p. 102).

Sono storie e metodi che riguardano un mondo arcaico e ormai scomparso, sostituito dalle strategie di una moderna holding criminale-finanziaria, che opera in borsa e non si preoccupa più di crocifissi e giuramenti?

Forse. O forse no. L’onorevole Lo Giudice, un deputato regionale siciliano di una certa importanza, recentemente arrestato, intercettato al telefono durante un’indagine, parlava dell’organizzazione mafiosa con un suo amico: «Conosco i parrini, anche se non faccio parte della Chiesa».

I “parrini”, i preti in siciliano, sono i mafiosi; la Chiesa di cui si parla qui è la mafia siciliana, Cosa nostra. Con questa colorita espressione, il politico intendeva sottolineare la sua vicinanza, la sua intimità, con il mondo degli uomini d’onore, nonostante il fatto di non essere formalmente affiliato all’associazione. In maniera non molto diversa, un capomafia si rivolgeva qualche anno fa a un nuovo aderente dicendogli: «Non fai più parte di questo mondo»; per fargli intendere quale vita lo attendeva, quasi assimilandolo a un convertito a una nuova religione, più che a uno spietato sicario. Sappiamo inoltre che per riferirsi alla famiglia mafiosa di San Filippo Neri, un quartiere della periferia nord di Palermo, meglio conosciuto come ZEN, i seguaci della cosca usano un’espressione: la Chiesa.

No, non si tratta di procedimenti superati, come cercheremo di dimostrare. La gran parte della documentazione che useremo è basata sugli scritti degli esponenti ecclesiastici, sulle dichiarazioni di chi ha combattuto la mafia, sulle rivelazioni dei mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, sulle comunicazioni e sulle lettere degli uomini d’onore. Una fonte primaria sono le interviste rivolte a religiosi che operano, con la funzione di parroco, in alcuni quartieri palermitani considerati ad alta densità mafiosa: Brancaccio, Ciaculli e Settecannoli.

Un grande reporter, recentemente scomparso, ha scritto: «Esistono tre tipi di fonti, la principale delle quali è la gente. La seconda sono i documenti, i libri e gli articoli. La terza è il mondo che ci circonda e in cui siamo immersi: colori, temperature, atmosfere, climi, i cosiddetti elementi imponderabili e difficili da definire, e che tuttavia costituiscono un elemento importante del nostro lavoro» (Ryszard Kapuscinski, Autoritratto di un reporter, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 64).

È una fonte primaria anche l’esperienza e la testimonianza personale di chi scrive, e che in quel territorio vive e risiede.

Questo non è necessariamente un vantaggio, poiché la vicinanza con l’oggetto del mio studio ha richiesto uno sforzo ulteriore di lucidità durante l’analisi; dall’altro lato vi è il vantaggio di poter osservare, in determinati momenti, quella che è la vita quotidiana di Cosa nostra, sapendo leggere connessioni e significati di un mondo in cui si assiste, senza tregua, all’alternarsi di grigiore borghese e di follia omicida. Le fonti orali che ho utilizzato sono indispensabili quando si indaga su una realtà quale quella mafiosa, connotata da segretezza e da mancanza, il più delle volte, di fonti scritte. Il lavoro

di un ricercatore sulle tracce di Cosa nostra non è talvolta dissimile da quello di un normale investigatore, che deve sapere infiltrarsi, leggere le connessioni, lavorare con frammenti per ricostruire l’insieme completo: «Ricondotti ad un unitario sistema di coerenze interpretative, i vari elementi

“indiziari” acquistano un convincente valore probatorio» (G. C. Marino, L’opposizione mafiosa, 1996).

Nel caso dei rapporti tra chiesa e mafia, non mancano gli indizi per ipotizzare una strategia di Cosa nostra volta a infiltrarsi all’interno del tessuto ecclesiale. Per un mafioso non solo mafia e religione si conciliano perfettamente ma, si può dire, il problema in genere non si pone neppure. Un collaboratore di giustizia, in un’intervista a Rita Mattei, così spiega come poteva conciliare mafia e religione: «Io e mia moglie siamo religiosi. Mi hanno insegnato che la mafia è nata per amministrare la giustizia. Quindi, nessuna contraddizione. Anzi, sa che ora, davanti a Cristo, mi sento un traditore? Quando ero un assassino andavo in chiesa con animo tranquillo. Ora che sono un pentito no, non prego serenamente» (T. Principato – A. Dino, Mafia donna, 1997, p. 131).

E i sacerdoti cosa ne pensano? La Chiesa non è un monolite.

Le sue relazioni con la mafia non possono essere comprese sotto facili slogan. Da un lato vi è il religioso carmelitano Mario Frittitta, che ha ammesso di aver officiato i sacramenti e celebrato messa nel covo del padrino Pietro Aglieri; dall’altro vi è don Puglisi. Tra questi due poli vi è un ampio arco di posizioni che questa ricerca ha cercato di rappresentare, seppure parzialmente, nel modo più fedele possibile. La storia della Chiesa di Palermo è necessariamente diversa dopo l’assassinio di padre Pino Puglisi in una misura che forse ancora non cogliamo pienamente, ma la sua stessa figura per essere compresa appieno, va inquadrata nella storia del cristianesimo del Novecento. E poi vi sono le strategie che la mafia mette in atto nei confronti del clero, per cercare di strumentalizzarlo e indirizzarlo, là dove questo può essere utile ai suoi scopi. Gran parte del libro si preoccupa di indagare intorno ai metodi utilizzati da Cosa nostra per riuscirvi.

Una lettura che non vuole dimenticare un filo rosso di resistenza cattolica alla mafia, lungo tutto il Novecento, che va da don Giorgio Gennaro, ucciso dai Greco di Ciaculli nel 1916, a don Giuseppe Puglisi, e passa attraverso l’esperienza di una rivista come «Segno», nata a Palermo, quella del Centro studi Pedro Arrupe, creato dai gesuiti nel capoluogo siciliano, o di sacerdoti come il salesiano Baldassare Meli e il gesuita padre Antonio Damiani, nei quartieri palermitani dell’Albergheria e del Capo. Ciò che ci interessa non sono tanto le colpe degli uomini o delle istituzioni, ma le conseguenze delle loro decisioni. E precisamente le conseguenze, sul piano religioso ed ecclesiale, di una egemonia mafiosa in Sicilia che si è consolidata nell’arco di almeno due secoli.

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