LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » pellicole italiche http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 MAMMA ROMA, di Pier Paolo Pasolini http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/01/22/mamma-roma-di-pier-paolo-pasolini/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2014/01/22/mamma-roma-di-pier-paolo-pasolini/#comments Wed, 22 Jan 2014 16:28:54 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5815 pellicole-italicheIl nuovo appuntamento della rubrica PELLICOLE ITALICHE da rivedere, curata da Gordiano Lupi, è dedicato a uno dei più grandi film girati da Pier Paolo Pasolini: “Mamma Roma” (con indimenticabile interpretazione di Anna Magnani).

Il post si presta per discutere del cinema di Pasolini e della figura della Magnani (di cui avevamo già avuto modo di occuparci in quest’altro post).

Di seguito, oltre all’articolo di Lupi, la locandina e la prima parte del film.

Massimo Maugeri

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MAMMA ROMA (1962) – di Pier Paolo Pasolini

recensione di Gordiano Lupi

Regia: Pier Paolo Pasolini. Soggetto e Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Consulente ai dialoghi: Sergio Citti. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli. Scenografia: Flavio Mogherini. Musiche: Carlo Rustichelli (rimaneggia Antonio Vivaldi). Aiouto Regia: Carlo Di Carlo.Assistente Alla Regia: Gianfrancesco Salma. Produttore: Alfredo Bini. Produzione: Arco Film (Roma). Distribuzione: Cineriz. Interni: Incir De Paolis (aprile – giugno 1962). Esterni: Roma, Frascati, Guidonia, Subiaco. Durata: 115’. Genere: Drammatico. Prima: XXIII Mostra di Venezia, agosto 1962. Premio Mostra di Venezia della FICC (Federazione Italiana Circoli di Cinema). Interpreti: Anna Magnani (Mamma Roma), Ettore Garofolo (Ettore), Franco Citti (Carmine), Silvana Corsini (Bruna), Luisa Orioli (Biancofiore), Paolo Volponi (il prete), Luciano Gonini (Zaccarino), Vittorio La Paglia (il signor Pellisser), Piero Morgia (Piero), Leandro Santarelli (Bengalo, il Roscio), Emanuele di Bari (Gennarino, il Trovatore), Antonio Spoletini, Nino Bionci, Roberto Venzi, Nino Venzi, Maria Bernardini, Santino Citti, Lamberto Maggiorani, Franco Ceccarelli, Marcello Sorrentino, Sandro Meschino, Franco Tovo, Pasquale Ferrarese, Renato Montalbano, Enzo Fioravanti, Elena Cameron, Maria Benati, Loreto Ranalli, Mario Ferraguti, Renato Capogna, Fulvio Orgitano, Renato Troiani, Mario Cipriani, Paolo Provenzale, Umberto Conti, Sergio Profili, Gigione Urbinati.

Pier Paolo Pasolini realizza il secondo film da regista e aggiunge un importante tassello al suo viaggio nell’umanità dolente delle borgate romane. Accattone (1961) mostra il mondo del sottoproletariato urbano della capitale visto dalla parte del maschio, con un grande Franco Citti, sublime interprete del ragazzo di vita pasoliniano. Pasolini continua l’adattamento cinematografico della sua opera letteraria (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Il sogno d’una cosa, Poesia in forma di rosa…), definendo un discorso aperto da sceneggiature importanti come La notte brava (1959), di Mauro Bolognini, tratto proprio da Ragazzi di vita. Accattone narra la vita quotidiana dei ragazzi delle borgate romane, tra litigi, notti insonni, bravate, giornate all’osteria, piccoli furti e prostitute. La Borgata Gordiani viene messa in primo piano da sapienti movimenti di macchina, carrellate, poetiche panoramiche, primi piani e mirabili piani sequenza.
Mamma Roma gode della stessa ambientazione borgatara di Accattone, ma la protagonista è una donna, Anna Magnani nei panni di una prostituta romana che vuole cambiare vita per dedicarsi al figlio Ettore. Sergio Citti è fondamentale come consulente per i dialoghi in romanesco, recitati da attori dilettanti, a parte la grandissima Magnani. Le tematiche sono quelle care a Pasolini che accompagneranno tutta la sua vita artistica: gli emarginati, il sottoproletariato confinato in un ghetto di incomunicabilità con le altre classi sociali, la sconfitta del diseredato, l’impossibilità di affrancarsi da un destino di sofferenza. Anna Magnani non lega con il regista, le rispettive visioni del mondo non coincidono, ma nonostante tutto regala un’interpretazione memorabile. La sua Mamma Roma è una madre coraggio in pena per la sorte d’un figlio ribelle, in preda alle tempeste adolescenziali, che contraccambia il suo amore ma non lo sa esprimere. “Mia madre? A me che me frega di mia madre? In fondo credo di volerle bene, perché se morisse mi metterei a piangere”, confessa a Bruna, la ragazza che lo fa diventare uomo. Vediamo in breve la trama. Mamma Roma (Magnani) decide di abbandonare la vita da prostituta quando Carmine (Citti), il protettore, si sposa, liberandola da ogni obbligo. La donna decide di dedicarsi anima e corpo al figlio, Ettore (Garofolo), che non sa niente del suo mestiere ed è cresciuto nella vicina Guidonia. Mamma Roma si mette a vendere frutta e verdura, si trasferisce in un appartamento alla periferia di Roma, segue il figlio, cerca di indirizzarlo nelle scelte femminili e di trovargli un lavoro. Mamma Roma non vuole che il ragazzo faccia la sua fine, che si seppellisca nella periferia romana, ma sogna per lui un futuro di tranquillità, con un lavoro rispettabile. A un certo punto il protettore torna a cercare Mamma Roma e la riporta sulla strada, come il passato che non si può cancellare, l’ineluttabilità del destino. Ettore viene a sapere da Bruna quale sia la vera professione della mamma, per reazione comincia a delinquere, infine viene arrestato dopo per aver rubato una radiolina a un degente dell’ospedale. Finale melodrammatico: il ragazzo muore in carcere, legato a un letto di contenzione, in preda a un delirio febbrile.
Il film è dedicato allo storico dell’arte Roberto Longhi e certe rappresentazioni scenografiche sono pittoriche, grazie alla collaborazione di Flavio Mogherini, futuro regista di scuola pasoliniana. Il finale, con il ragazzo che muore legato al letto del carcere, ricorda un Cristo del Mantegna, una scena da struggente deposizione. Carlo Rustichelli compone una colonna sonora basata sulle musiche sinfoniche di Antonio Vivaldi che accompagna sequenze poetiche fotografate in un livido bianco e nero. Violino tzigano, di tanto in tanto, interrompe la musica barocca e porta in primo piano note di musica popolare. Il ritmo è lento, cadenzato, tra piani sequenza della periferia, panoramiche, dialoghi in romanesco. Puro cinema, una gioia per gli occhi vedere una Roma notturna e seguire le passeggiate logorroiche di mamma Roma che racconta episodi di vita mescolando fantasia e realtà. Pasolini narra per immagini un’umanità dolente che sogna un riscatto impossibile ma deve rassegnarsi a un destino infelice.

Il regista compie un grande lavoro figurativo, guida con bravura una straordinaria Anna Magnani che recita in mezzo a un gruppo di attori dilettanti. Pasolini ci tiene a sviscerare il complesso rapporto madre – figlio, secondo canoni psicanalitici, facendo capire la difficoltà di un adolescente a rivelare il suo amore per la madre. Un tema caro al poeta, anche per vicende biografiche, che lo vedono molto legato alla madre, anche se il loro è un amore borghese, non certo borgataro. Ricordiamo poesie come Ballata delle madri e Supplica a mia madre, contenute in Poesia in forma di rosa, che ricalcano identica tematica. L’educazione sentimentale di un adolescente è un altro tema caro a Pasolini che lo inserisce nella pellicola ricorrendo al personaggio di Bruna, la ragazza che introduce Ettore ai misteri del sesso. Non possono mancare i volti del sottoproletariato urbano, i ragazzi di vita che tanto interessano Pasolini, fotografati nelle espressioni naturali e nella sofferenza quotidiana. Il regista indugia sui campetti di calcio sterrati, inventati dai ragazzini di borgata, con le porte segnate da giacchetti e maglioni, simbolo di un modo di giocare tipico degli anni Sessanta. Anche i rapporti tra donne che fanno la vita, segnati da amicizia e spirito di colleganza, sono in primo piano. Le parole di denuncia di Mamma Roma: “E allora di chi è la colpa? Se avevano i mezzi erano tutti brave persone”, pesano come macigni, anche se il regista non interferisce con le immagini, non dà mai un giudizio morale o politico, ma si limita a fotografare la realtà. Fantastico il finale, vero che sembra uscito da un racconto di Cuore, ma vero anche che la rappresentazione del dolore materno e delle sofferenze del figlio è drammatica e commovente. La galera non è acqua che passa, ma dolore che resta, dolore infinito. La pellicola termina con la disperazione materna e la macchina da presa si ferma alcuni istanti su quel volto dolente, da Madonna straziata per la morte del figlio, senza dissolvenze o inutili lungaggini, per lasciare il posto alla parola Fine in campo bianco.
Accattone e Mamma Roma sono pellicole non ascrivibili a un genere, si tratta di lavori molto letterari dai quali scaturisce l’intera poetica del regista. Se mi è concessa una definizione personale, senza voler essere blasfemo, parlerei di neorealismo corretto da un pizzico di melodramma pascoliano e deamicisiano, due autori molto cari a Pasolini.
Alcune curiosità. Il debuttante Ettore Garofolo viene scoperto da Pasolini mentre fa il cameriere in una trattoria, e in alòcune sequenze del film lo vediamo all’opera nel suo vero mestiere, quando è assunto per servire ai tavoli di un ristorante. Lo scrittore Paolo Volponi, amico di Pasolini, interpreta il prete al quale Mamma Roma chiede un aiuto per trovare lavoro al figlio. Gli esterni del film sono girati alla periferia di Roma, al palazzo dei Ferrovieri di Casal Bertone, al villaggio INA – Casa del Quadraro, al Parco degli Acquedotti e a Tor Marancia. Altre scene sono girate a Frascati, Guidonia e Subiaco. Notiamo spesso sullo sfondo la cupola della Basilica di San Giovani Bosco, così come si vedono le borgate con le baracche dove vive la povera gente. Un piccolo escamotage di Pasolini riesce a far convivere recitazione impostata con interpretazione spontanea. Anna Magnani non recita quasi mai in diretta insieme a un attore dilettante, ma il dialogo viene realizzato ricorrendo a primi piani uniti in sala montaggio.
Rassegna critica. Paolo Mereghetti (tre stelle e mezzo): “Il tema dell’incoscienza, o della diversa coscienza, proletaria è al centro del secondo film di Pasolini, dove il regista nobilita i suoi personaggi con richiami alla pittura rinascimentale (il Cristo mori del Mantegna), e tocca vertici di pathos senza versare una lacrima: Mamma Roma rappresenta la femminilità dolente ma indistruttibile, mentre Ettore, scettico e prematuramente deluso dalla vita, è fratello ideale di Accattone, senza esserne una scialba replica. Quella della Magnani (che pure non s’intese con Pasolini, che la accusò di voler dare al personaggio tratti piccolo – borghesi) è una delle sue migliori interpretazioni”. Morando Morandini (tre stelle e mezzo per la critica, tre stelle per il pubblico): “L’esperimento di fondere la recitazione di Anna Magnani con quella dei ragazzi di vita è parzialmente riuscito, ma contro scompensi e intemperanze e zone sorde, il film ha momenti di coinvolgente vigore stilistico”. Tre stelle anche per Pino Farinotti, ma senza motivare. Il nostro giudizio, da pasoliniani convinti, raggiunge le quattro stelle, non trova difetti a un film riuscito, che unisce dramma psicologico a scene di vita quotidiana, recitazione spontanea a impostazione tecnica, sceneggiatura priva di difetti a dialoghi realistici.

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IN MEMORIA DI GIULIANO GEMMA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/10/09/in-memoria-di-giuliano-gemma/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/10/09/in-memoria-di-giuliano-gemma/#comments Wed, 09 Oct 2013 15:52:20 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5496 Il secondo appuntamento della rubrica PELLICOLE ITALICHE da rivedere, curata da Gordiano Lupi, abbiamo voluto dedicarlo all’attore Giuliano Gemma, che è scomparso pochi giorni  fa (il 1° di ottobre) a causa di un incidente automobilistico. Tutti coloro che vorranno intervenire lasciando commenti volti a ricordare Giuliano Gemma (con riferimenti a uno o più film in particolare) saranno i benvenuti.

Qui di seguito troverete un articolo di Gordiano Lupi e la recensione del film “Arrivano i Titani” (1961) di Duccio Tessari (Giuliano Gemma era nel cast nei panni di Crios). In coda, il video con la presentazione dello stesso Tessari e uno spezzone del film.

Ringrazio tutti in anticipo per la partecipazione.

Massimo Maugeri

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Giuliano Gemma, l’eroe della mia generazione

di Gordiano Lupi

Giuliano Gemma (1938 – 2013) rappresenta buona parte della mia infanzia. La prima volta che l’ho visto al cinema – in una saletta di terza visione nel quartiere operaio della mia città – vestiva i pani di Ringo e si faceva chiamare Montgomery Wood. Credevo che fosse americano, pure mio padre lo pensava, lui che disprezzava il western italiano, ma era andato in delirio per tutte le pellicole di Sergio Leone, convinto che fossero interpretate da attori d’oltreoceano. Magia degli pseudonimi, ma pure magia del ricordo d’un bambino che stringeva un pacchetto di semi, varcava le porte del Cinema Teatro Sempione (scomparso nella nebbia del tempo perduto) per andare a vedere un peplum, al tempo che manco sapeva cosa volesse dire peplum, come Arrivano i Titani. Da grande quel bambino avrebbe scoperto che sia i due Ringo (Una pistola per Ringo, Il  ritorno di Ringo) che il peplum erano opera di Duccio Tessari, un regista italiano che avrebbe usato spesso Giuliano Gemma (Kiss kiss… bang bang, Vivi o preferibilmente morti, Tex e il signore degli abissi), considerandolo un suo attore feticcio. Abbiamo trovato un ricordo di Giuliano Gemma che fa riferimento a quel periodo storico: “Il primo film che ho fatto con Tessari è Arrivano i Titani, un lavoro che smitizza il peplum dove recito con il mio vero nome. Il primo western che ho interpretato è Una pistola per Ringo (1965), film in cui nasce il mio pseudonimo, Montgomery Wood. Si trattava di una condicio sine qua non per fare il film, imposta dalla produzione che voleva venderlo come nordamericano. Era una moda. Mi obbligarono e lo pseudonimo lo scelse il produttore. A me andava bene tutto. Sono riuscito a usare il mio vero nome solo a partire dal terzo western come protagonista. Ho fatto due western della serie Ringo, entrambi con Tessari, tutti e due buoni lavori, ma fondamentalmente diversi l’uno dall’altro. Una pistola per Ringo è un film ironico, nelle corde di Tessari, girato con il suo inconfondibile stile. Il ritorno di Ringo è un film drammatico, ispirato all’Odissea. Il primo è più divertente, il secondo più serio. Sono due film coprodotti con gli spagnoli, girati nella penisola iberica, interpretati da Fernando Sancho, persona simpatica e grande mangiatore, che poi ho ritrovato in Arizona Colt (Michele Lupo, 1966, nda). Nel cast ricordo anche George Martin, un ginnasta spagnolo molto atletico con cui spesso mi allenavo. E che dire di Pajarito? Un personaggio inventato da Tessari, uno spagnolo che parlava in modo buffo e si occupava di produzione. Tessari lo utilizzò come attore dandogli il soprannome che aveva nella realtà. Una pistola per Ringo è un film ironico che anticipa il western comico di Barboni, alternativo al cinema di Leone, ma non meno violento, nonostante l’ironia. Nella mia carriera non ho mai interpretato personaggi cliché, né stereotipi. Pure nei due film della serie Ringo differenzio i personaggi. Nel primo sono un pistolero ironico e strafottente. Nel secondo sono un eroe cupo e represso che torna a casa dopo una lunga guerra, una sorta di Ulisse – Ringo. Vivi o preferibilmente morti è un altro western diretto da Tessari, sceneggiato niente meno che da Ennio Flaiano, nato dalla mia amicizia con Nino Benvenuti sin dai tempi del militare. Si sperava che andasse meglio, che la coppia Gemma – Benvenuti portasse più gente al cinema, che il debutto di Sidney Rome incuriosisse il pubblico. L’incasso non fu male, comunque, ma la critica distrusse il film. Ma il  vero insuccesso tra i lavori di Tessari da me interpretati fu Tex e il signore degli abissi (1985), una pellicola che non era western all’italiana e che non funzionò per niente. Credo che sia il peggior western di Tessari, nonostante ci fosse William Berger, un ottimo attore. La storia era sbagliata, servivano troppi soldi per realizzarla, ma noi disponevamo di un budget irrisorio. La produzione non aveva la possibilità di costruire un accampamento indiano di venti tende (ce n’erano soltanto tre) e neppure di affittare cinquanta cavalli (erano dieci). La storia di Tex venne scelta male perché troppo complessa e costosa da realizzare al cinema. Conoscevo bene i fumetti di Tex, un eroe della mia infanzia, ed ero orgoglioso di prestare il volto al ranger mezzo sangue. Ma avremmo dovuto sceneggiare una storia low-budget, stile spaghetti-western, non un soggetto ambizioso che finì per restare irrisolto. Persino Gianni Ferrio compose una musica anonima, in piena sintonia con il film. L’insuccesso fu così clamoroso che bloccò l’idea di girare una serie di ventuno film televisivi con protagonista Tex. Una pistola per Ringo resta il mio film preferito, comunque. Forse perché il primo western non si scorda mai…”. Abbiamo fatto ricordare al protagonista parte della sua carriera western, che è proseguita con Tonino Valerii e Giorgio Ferroni, ma Giuliano Gemma non è stato soltanto l’eroe buono, il castigamatti, il pistolero della mia generazione. Ha interpretato un intenso ruolo da protagonista ne Il deserto dei Tartari (1976) di Valerio Zurlini e Il prefetto di ferro (1977) di Pasquale Squitieri. E che dire dei ruoli comici ne Anche gli angeli mangiano fagioli (1973) di Barboni e Il bianco, il giallo, il nero (1974) di Sergio Corbucci? Impossibile citare tutto il suo grande lavoro nel cinema italiano, ma se vi interessa approfondire consigliamo la lettura di Roberto Poppi, che ha scritto un imperdibile libro sugli attori italiani, edito da Gremese. A noi piace ricordare Giuliano Gemma mentre cavalca nelle improbabili praterie dello spaghetti western, perché – come ha detto lui – il primo western non si scorda mai.

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“Arrivano i Titani” (1961) – di Duccio Tessari

recensione di Gordiano Lupi

Duccio Tessari (Genova, 1926 – Roma, 1994) è un autore a tutto tondo del nostro cinema di genere, prima prolifico sceneggiatore di pellicole mitologiche e documentarista, quindi regista di fiction capace di muoversi con disinvoltura tra peplum, western, commedia, poliziesco, melodramma, thriller, film d’avventura e di guerra. La sua cifra stilistica è l’ironia, che anticipa i lavori anni Ottanta del western comico interpretati da Bud Spencer e Terence Hill. Una pistola per Ringo e Il ritorno di Ringo sono due western del 1965 che si ricordano con piacere, ma è notevole anche il poliziesco La morte risale a ieri sera, ispirato a un romanzo di Scerbanenco con protagonista Duca Lamberti. La critica è unanime nel dire che il suo film più riuscito è Tony Arzenta (1973), un noir interpretato da Alain Delon. Tessari si dedica a smitizzare i generi, trattandoli con ironia, ma nell’ultima parte della carriera gira molti film televisivi affrontando argomenti più seriosi. Il suo unico errore è stato aver tentato di portare al cinema un mito come Tex nel poco riuscito Tex e il signore degli abissi (1985), interpretato da Giuliano Gemma.

Arrivano i Titani (1961) è il primo film da regista di Duccio Tessari, una parodia di un genere al quale ha dedicato tutta la prima parte della sua carriera. La pellicola anticipa il western all’italiana, che sarà un altro degli amori di Tessari, ma soprattutto il western comico e scanzonato di Enzo Barboni.

Soggetto e Sceneggiatura: Duccio Tessari ed Ennio De Concini. Musiche: Carlo Rustichelli. Montaggio: Maurizio Lucidi. Fotografia: Alfio Contini. Produttore: Franco Cristaldi. Interpreti: Pedro Armendáriz (Cadmo), Giuliano Gemma (Crios), Jacqueline Sassard (Antiope), Antonella Lualdi, Serge Nubret, Gérard Séty, Tanya Lopert, Ingrid Schoelle, Franco Lantieri, Monica Berger, Maria Luisa Rispoli, Isarco Ravaioli, Aldo Podinottì, Fernando Rey, Fernando Sancho, Alfio Caltabiano, Ileana Grimaldi ed Erika Spaggiari.

L’azione si svolge a Creta, governata dal folle tiranno Cadmo, che ha avuto una terribile profezia: perderà il trono se la figlia Antiope si innamorerà. Cadmo si autoproclama Dio, rende immortale anche la moglie, quindi rinchiude la figlia in una prigione dorata, privandola di contatti con l’esterno. Giove, che non sopporta miscredenti e tiranni dispotici, si adira con Cadmo e manda sulla Terra il Titano Crios con il compito di uccidere il signore di Creta. Al termine di una serie di avventure mirabolanti, Crios corona il suo sogno d’amore con Antiope e l’intervento degli altri Titani provoca una rivolta popolare contro il tiranno.

Duccio Tessari dopo aver sceneggiato molti peplum seriosi e avventurosi si dedica alla smitizzazione del genere, chiamando a interpretare la pellicola un insolitamente biondo Giuliano Gemma, alla prima prova come attore dopo anni di gavetta. La pellicola può dirsi riuscita anche per merito dell’interpretazione sopra le righe di un ottimo Giuliano Gemma. L’attore rende credibile un personaggio scaltro e acrobatico, che lotta per la libertà e per conquistare il suo amore. Il regista e lo sceneggiatore compongono un calderone di ricordi mitologici che vanno da Polifemo alle Parche, passando per la Gorgone, Plutone e il regno negli inferi, ma ben amalgamato e ancora oggi godibile in un contesto ironico e di pura azione. Le sequenze che vedono Giuliano Gemma e i suoi fratelli Titani impegnati in solenni scazzottate anticipano il clima da spaghetti – western e il cinema comico anni Ottanta di ambientazione western.

Arrivano i Titani è un interessante esempio di commistione dei generi, perché al suo interno troviamo il peplum classico rivisto alla lente dell’ironia tipica di Tessari, il melodramma, l’action – movie,  suggestioni horror, elementi di cinema fantastico e parti di puro romanticismo. Un film sperimentale, una provocazione a metà strada tra il mitologico e il melodramma sentimentale. Le scenografie sono spesso di cartapesta colorata, ma si segnalano ottimi esterni e parti suggestive girate all’interno di grotte che compongono una buona atmosfera infernale. Il clima da horror fantastico è evidente nelle scenografie cupe, nella discesa negli inferi e in alcune sequenze che vedono protagonisti ciclopi, esseri mitologici e divinità dell’Olimpo. Puro cinema fantastico quando Giuliano Gemma ruba l’elmo di Plutone che lo rende indivisibile ai soldati del signore di Creta. Le sequenze di azione sono spettacolari e Giuliano Gemma fa sfoggio di tutta la sua prestanza fisica e abilità di acrobata. Il messaggio politico è presente come in tutti i peplum, anche se molto sfumato: “Le parole di un uomo libero nessuno può imbrigliarle”, dice Giuliano Gemma in una delle prime sequenze.

Segnaliamo diversi falsi storici e commistioni di usanze che non hanno niente a che vedere con la Grecia, come quando il regista mette in scena una sorta di corrida tra tori e amazzoni, che sembra un inserto riempitivo prelevato da un’altra pellicola.

Il personaggio interpretato da Giuliano Gemma è un abile ribelle dalla lingua sciolta, che sfida il signore di Creta per amore e per compiere il volere di Zeus. Il suo messaggio è non violento e cavalleresco: “Basta vincere. Non c’è bisogno di uccidere”. Jacqueline Sassard è bella ed espressiva, perfetta nella parte della ragazza ingenua, sacrificata al volere di un dispotico padre. A un certo punto si intravede, molto sfumato, pure un seno nudo. Il massimo dell’erotismo per i tempi, insieme ad alcuni baci sensuali. Il finale vede la consueta sfida tra buono e cattivo con conseguente liberazione della bella in pericolo, ma anche un velato romanticismo con la storia d’amore che giunge a compimento. I Titani liberano Creta da un signore dispotico e si abbandonano alla consueta ironia: “Questa è stata proprio un’impresa titanica!”. Da riscoprire.

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IL PRIMO E L’ULTIMO FILM DI ALBERTO BEVILACQUA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/09/24/il-primo-e-lultimo-film-di-alberto-bevilacqua/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/09/24/il-primo-e-lultimo-film-di-alberto-bevilacqua/#comments Tue, 24 Sep 2013 20:22:11 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5456 Dedichiamo il primo appuntamento di PELLICOLE ITALICHE da rivedere, curato da Gordiano Lupi, a due film di Alberto Bevilacqua (scomparso recentemente): il primo (La califfa, 1970) e l’ultimo (Tango blu, 1987).

A fine post potrete vedere, “La califfa” (film completo) e “Tango blu” (prima parte) disponibili su YouTube.

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LA CALIFFA (1970)

di Alberto Bevilacqua

Regia: Alberto Bevilacqua. Soggetto e Sceneggiatura: Alberto Bevilacqua. Fotografia: Roberto Gerardi. Montaggio: Sergio Montanari. Musiche: Ennio Morricone. Scenografia: Giantito Burchiellaro. Costumi: Luciana Marinucci. Produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori. Casa di Produzione. Fair Film. Distribuzione: Titanus. Genere: Drammatico. Durata: 99’. Interpreti: Romy Schneider (doppiata da Rita Savagnone), Ugo Tognazzi, Marina Berti, Roberto Bisacco, Gigi Ballista, Guido Alberti, massimo Serato, Franco Ressel, Massimo Farinelli, Giancarlo Prete, Stefano Satta Flores, Gigo Reder, Gianni Rizzo, Nerina Montagnani, Eva Brun, Luigi Casellato, Enzo Fiermonte.

La califfa è il primo film di Alberto Bevilacqua, tratto dal suo terzo libro, edito nel 1964, un successo di vendite importante che anticipa la vittoria del Premio Campiello del 1966 con Questa specie d’amore. Romy Schneider è la sensuale interprete, che presta volto e corpo a Irene Corsini, la Califfa, vedova di un operaio ucciso dalla polizia, presentata con un intenso piano sequenza che tornerà nel drammatico finale. Ugo Tognazzi è l’imprenditore dal volto umano, innamorato della proletaria contestatrice, che per amore va incontro agli operai e lotta con loro per risolvere i problemi della fabbrica.
La califfa è ambientato a Parma, città natale di Bevilacqua, da lui immortalata in racconti, romanzi poesie e lungometraggi. Irene Corsini è la donna fortificata dal dolore, che si pone a capo di una protesta operaia scoppiata all’interno della fabbrica di Doberdò (Tognazzi), ma finisce per innamorarsi dell’industriale. Al suo fianco il magnate scopre una nuova realtà, capisce che esiste un modo diverso e più umano di fare impresa. Non riesce a farlo capire ai colleghi, che in un drammatico finale lo uccidono e gettano il suo cadavere accanto al muro della fabbrica. Sangue che scorre tra le mani di Irene, una nuova ferita della vita.
La califfa non gode di un grande budget, motivo per cui Bevilacqua sceneggia soltanto la seconda parte del romanzo e utilizza più volte le stesse sequenze per alcune sequenze oniriche. Non solo, certi personaggi vengono del tutto omessi, incentrando l’attenzione soltanto sui protagonisti principali. Mancano molti dialoghi, importanti per capire la relazione tra Doberdò e Irene, persino il finale è diverso, più cinematografico, perché il romanzo si conclude con la morte dell’imprenditore per cause naturali. Le location della pellicola sono Parma, Spoleto, Terni, Colleferro e Cesano di Roma. Stupenda la colonna sonora di Ennio Morricone, a tratti dotata di sonorità western, che accompagna situazioni riconducibili ai duelli e le rese dei conti nel cinema di genere. Ottima la fotografia di Roberto Gerardi. Bevilacqua è alla prima regia, ma mostra di saperci fare con i piani sequenza, usa un po’ troppo lo zoom (ma era un male del periodo storico), sceneggia con tono poetico le situazioni iperrealistiche di un film metaforico e didascalico. Gli attori sono straordinari. Ugo Tognazzi è un perfetto imprenditore figlio di contadini che, grazie all’amore, passa dal pragmatismo alla sfida romantica nei confronti del potere. Tognazzi non è nuovo a interpretare parti da imprenditore e da ricco borghese, ma Bevilacqua lo pone a confronto con un testo poetico. “Oggi il potere non ha più bisogno di eroi né di leoni. Oggi ha bisogno di poeti”, dirà. E riferendosi a un passato da povero: “Me ne sono andato per non vedere più quella macchia di umidità sopra la mia testa”. Romy Schneider è di una bellezza prorompente, fotografata in stupendi primi piani, tra le cariche della polizia e il sangue che scorre. Un personaggio adatto alle sue caratteristiche femminili, una donna forte e innamorata, disposta a mettersi in gioco. Bevilacqua è molto bravo a raccontare l’animo femminile e a comporre insoliti ritratti di donne sopra le righe. Tra i caratteristi Gigi Ballista è a suo agio come imprenditore, ruolo che ripeterà all’infinito nella commedia sexy, Stefano Satta Flores è un operaio che si vede lo spazio di una sequenza, Gigi Reder (il Fillini di Fantozzi) è un servile cameriere, Giancarlo Prete (il culturista dei postatomici) è l’amante sfruttato dalla califfa, Massimo Serato è l’industriale fallito che si suicida. Bevilacqua racconta la società italiana di fine anni Sessanta con gli imprenditori d’assalto, le fabbriche che chiudono, gli operai che occupano e chiedono rispetto per il lavoro. Vediamo le cariche della polizia, gli imprenditori suicidi dopo il fallimento, le proteste di piazza. Il quadro sociale è accompagnato da un’analisi spietata dei rapporti borghesi tra moglie e marito, la passione che si stempera, il tradimento, ma pure il contrasto generazionale padre – figlio non sfugge alla critica. “Se padre e figlio scappassero insieme per raggiungere non si sa quale meta, probabilmente non accadrebbe niente”, dice Tognazzi. Intensi ma a volte troppo retorici e ridondanti i discorsi del padrone agli operai, così come le immagini della lotta di classe risultano troppo stilizzate. Notevole l’immagine della fabbrica come un dio pagano dove gli operai si recano ogni giorno per rendere omaggio all’altare della produzione. Ricordiamo alcune sequenze oniriche: il fiore che blocca gli ingranaggi dell’azienda, la califfa che rinchiude il padrone in una stanza per farlo morire tra i miliardi… Le scene erotiche sono molto soft ma ben recitate dai due interpreti, credibili e convincenti; la Schneider buca lo schermo in alcune sequenze che la vedono sfoggiare plastici nudi a figura intera. Un difetto è l’eccesso di ideologia sessantottina, ma resta un prodotto del suo tempo e va storicizzato. L’operaia ribelle e l’imprenditore hanno in comune il coraggio, le origini umili, la voglia di credere in un progetto e l’illusione di cambiare il mondo. Ma sarà la cruda realtà a vincere sui loro sogni.

Rassegna critica. Morando Morandini (tre stelle di critica e di pubblico): “La sorpresa di questa commedia a sfondo sociale è un Tognazzi che dà prova della sua inesauribile versatilità di attore straordinariamente padrone delle sue reazioni e dei suoi toni. Come operaia Romy Schneider convince meno. Il fico migliore nel bigoncio di Bevilacqua da Parma”. Una recensione non condivisibile, a partire dalla conclusione, passando per i dubbi sulla Schneider, per finire con la definizione di commedia a un film drammatico e iperrealista. Paolo Mereghetti stronca senza pietà (una stella): “L’esordio di Bevilacqua, dal suo romanzo omonimo, è un ritratto femminile che si perde tra generici (e gratuiti) riferimenti alle tensioni sociali del periodo”. Pino Frainotti torna a concedere tre stelle, senza un giudizio critico, ma fornendo una valutazione condivisibile.

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TANGO BLU (1987)

di Alberto Bevilacqua

Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Alberto Bevilacqua. Produzione: Michele Janczarek e Giuseppe Giovannini per Be – Mer Film. Distribuzione: Columbia Pictures Italia. Produttore Rai: Roberta Cadringher per Rai Uno. Organizzatore Generale: Giorgio Morra. Scene: Lorenzo Baraldi. Costumi: Gianna Gissi. Fotografia: Pierluigi Santi. Operatore alla Macchina: Mario Cimini. Direttore di Produzione: Nicolò Forte. Montaggio: Nino Baragli. Musiche: Stelvio Cipriani. Aiuto Registi: Walter Italici, Inigo Lenzi. Teatri di Posa: Incir/De Paolis. Interni: Teatro dell’Opera (Roma), Discoteca Central Park (Milano). Interpreti: Franco Franchi, Maurizio Merli, Andrea Roncato, Gigi Sammarchi, Leo Gullotta, Antonella Ponziani, Armando Marra, Andrea Belfiore, Roberto De Marchi, Gloria Paul, Big Laura, Vic Poletti, Antonio Ballerio, Carlo Dapporto, Valentina Cortese, Ginella Vocca, Giuseppe Carlostella, Antonio Caffari. Partecipazione Speciale: Corpo di Ballo Cooperativa Culturale di Milano.

Alberto Bevilacqua (1934) è un romanziere di successo in prestito al cinema come sceneggiatore, regista per un pugno di pellicole, ma convince critica e pubblico soltanto per le prime opere: La califfa (1970), Questa specie d’amore (1971) e Attenti al buffone (1975), forse il suo miglior lavoro, interpretato da Nino Manfredi e Mariangela Melato. Tango blu (1987) è un film da solista di Franco Franchi, l’ultima occasione per vederlo al cinema. “Un insolito divertissement”, lo definisce il regista. Un film di invenzioni, sketch, personaggi avvolti in un’atmosfera sognante che ricorda Amarcord e Otto e mezzo di Federico Fellini. Il night milanese Tango blu riapre i battenti dopo molti anni e il nuovo gestore (De Marchi) premia con la chiave d’oro i figli dei personaggi che hanno reso immortale il locale. Franchi è un facchino del macello, Roncato un fotografo dongiovanni, Cortese una madre diva, Merli un poliziotto della buoncostume, Sammarchi un figlio stonato, Dapporto un rigoletto disperato, Gullotta è il poetico Fior da Fiore. Andrea Roncato si presenta con la canzone Io cerco la Titina e afferma: “Né io né il babbo l’abbiamo mai trovata”, il dramma della sua vita è la disperata ricerca di una donna ideale. Leo Gullotta, il romantico giardiniere soprannominato Fior da Fiore che coltivava le rose al Tango blu, entra in scena chiedendo “un suono di grazia”, aggiungendo che “la grazia non si spiega, è la grazia e basta”. Franco Franchi è un grottesco figlio di due padri (“I miei due padri amavano il caffè, lungo e amaro come la vita”), Maurizio Merli un poliziotto inetto (ironia del ruolo di una vita), Gigi Sammarchi un aspirante cantante incapace di azzeccare la nota giusta e Andrea Roncato un uomo innamorato di tutte le donne che pontifica il sesso sul seggiolino. Alla fine dell’esibizione di tango i quattro protagonisti cantano in coro “Ho un sassolino nella scarpa”. Il film procede sospeso tra la rievocazione romantica del passato, amori perduti, sognati, incompiuti, presentando i tradimenti del presente e i delitti di un killer ironico che si fa chiamare Tango blu, come il locale. L’assassino è tra gli ospiti, niente meno che Fior da Fiore, sarà lui stesso a confessare e a consegnarsi all’amico Merli, per fargli fare carriera. Il killer trucca le vittime come un quadro di Arcimboldo, si fa pubbliche beffe della polizia, è ironico quanto inafferrabile. A un certo punto compie un attentato alla centrale elettrica di Milano perché la città possa finalmente godersi una notte di luna piena. “Si può scoprire la bellezza della notte e ritrovare se stessi”, dice uno straordinario Leo Gullotta, interprete del personaggio più riuscito della pellicola. Molto bravo anche Franco Franchi, soprattutto quando interpreta una canzone siciliana sui pescatori di tonno, ma è poetico anche come marito tradito da una moglie orrenda e come operaio che guida la rivolta contro un dispotico padrone. Franchi: “Auguro a tutti voi gli amori dei tonni, che non si accorgono che le fiocine arrivano da ogni lato. In questo mondo di tonnare..”. Bellissimo. Pura poesia. Il pezzo gli vale una scrittura per la televisione dove pubblicizzerà il tonno in scatola. Antonella Ponziani è Silvia, figlia sordomuta di Gloria Paul, che Fior da Fiore tiene come la sola cosa preziosa del suo mondo. In realtà la ragazza non parla solo perché non vuole avere più niente a che fare con una madre dispotica. Carlo Dapporto è il padre di Gigi Sammarchi, tenta di insegnargli a cantare ma non ci riesce, rimpiange la sua Valentina Cortese, e finisce insieme a lei in una casa di riposo per artisti. Beviam nei lieti calici è il giusto coronamento del loro amore. Il film procede tra alti e bassi, non sempre diverte, ma possiede una sua cifra stilistica, sospesa tra il poetico e il grottesco, che si basa sull’interpretazione di ottimi attori. Il quartetto dei protagonisti, composto da Gigi Sammarchi, Andrea Roncato, Maurizio Merli e Franco Franchi è così insolito da risultare irresistibile e affascinante. La colonna sonora è stupenda. Stelvio Cipriani mixa pezzi di tango con brani di musica sinfonica e motivetti popolari che compongono uno spaccato poetico suadente.

Marco Giusti su Stracult racconta con dovizia di particolari la storia di questo film maledetto di Bevilacqua pensato per rappacificare il critico cinematografico con la Rai. Il regista concepisce il film come una sorta di Amarcord, un ritorno al varietà, a Milano, componendo un cast bizzarro e variegato. Tango blu non lo vede nessuno, nonostante la grande campagna pubblicitaria impostata da Rai Uno (produttrice del film insieme a Merli), e finisce presto dimenticato. Bevilacqua resta inattivo per dieci anni, ma dopo farà soltanto Gialloparma (1992) con Michela Miti. Il film ha fama di maledetto anche perché di lì a poco muoiono molti interpreti come Merli e Dapporto. Franco Franchi afferma: “Avendo fatto tanti film, circa 140, si sente il bisogno di fare qualcosa di diverso. Questa è un’esperienza nuova per me. È un film del cosiddetto cinema impegnato. Inoltre mi piaceva il fatto strano di lavorare con Bevilacqua: l’incontro tra il poeta e il popolano intelligente che cerca di comunicare nelle mani del poeta”. In ogni caso per Marco Giusti “il film è devastante, pieno di attori fuori ruolo, Merli su tutti, e neppure Franchi riesce a risollevarlo”. Pino Farinotti concede due stelle ma si limita a sintetizzare la trama di un film impossibile da riassumere in poche righe. Conferma le due stelle Morando Morandini, aggiungendo che per il pubblico una basta e avanza: “Un film di invenzioni, estri, personaggi. Il ritmo è a strappi con tendenze allo sketch. Franchi ha garbo. Cortese il birignao. Dapporto la gobba. Il tono? Quieta letizia con stacchi disperazione”. Paolo Mereghetti non ha rispetto neppure per Bevilacqua (una stella): “Scombiccherato tentativo di costruire una storia sospesa tra poesia e sogno: il risultato è una commedia grottesca francamente confusa (per non dire incomprensibile), eterogenea nel cast, ma monotona nello sviluppo”. Tango blu è una commedia grottesca, a tratti incomprensibile, sceneggiata male, confusa, frammentaria, teatrale, ma nelle sequenze migliori risulta un piacevole affresco in bilico tra poesia e sogno.

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LA CALIFFA (film completo)

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TANGO BLU (la prima parte del film)

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