LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » perché scrivere http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 SCRIVERE AI TEMPI DEL WEB http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/04/12/scrivere-ai-tempi-del-web/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/04/12/scrivere-ai-tempi-del-web/#comments Thu, 12 Apr 2012 20:18:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4024 scrivere-ai-tempi-del-web-2Qualche settimana fa ho avuto il piacere di condurre uno dei laboratori di eccellenza di “Officina dei media” proposti dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania. Il titolo era: “Scrivere ai tempi del web”. Per me è stata un’occasione preziosissima per approfondire, insieme alle studentesse e agli studenti del laboratorio (provenienti da varie Facoltà… non solo da quella di Lettere e Filosofia), alcuni degli argomenti trattati qui su Letteratitudine nel corso di questi sei anni di attività. Nel farlo mi sono avvalso anche di “contributi” recentissimi e di varia provenienza (articoli di quotidiani e magazine, video, ecc.).
Riporto, in sintesi, alcuni degli argomenti oggetto del laboratorio (linkando i post di Letteratitudine a essi attinenti): la “rivoluzione internet”, Terza Pagina e comunicazione letteraria on line, i blog letterari e gli ipertesti, perché leggere e perché scrivere, lettura e scrittura tra viaggio e condivisione, la scrittura nell’era delle immagini e dei new media, i social network, linguaggio e slang della rete, problematiche legate all’e-book, print on demand e self-publishing, copyright e/o copyleft, la grande rete della scrittura, prospettive e ipotesi sul romanzo ai tempi della rete: il caso David Shields.
Alla fine del laboratorio – impostato come “dibattito aperto” – ho chiesto alle studentesse e agli studenti che hanno partecipato, di esprimere le loro opinioni sui temi trattati. Nel farlo, ho posto loro le seguenti dieci domande. Con alcuni dei partecipanti abbiamo deciso di rendere pubbliche le risposte al fine di favorire l’interazione tra loro e allargare il dibattito ai frequentatori di questo blog (a cui chiedo, dunque, nel caso in cui avessero tempo e voglia, di fornire le loro risposte).
Si tratta – lo ripeto – di argomenti di cui, in un modo o nell’altro, abbiamo avuto modo di discutere nel corso di questi anni. Il mio auspicio è che questo post possa svolgere una funzione di sintesi, magari fornendo nuovi spunti di riflessione derivanti dal confronto, dalla crescita e dallo scambio di esperienze.
Ecco le domande…

1. Che ruolo hanno avuto i blog nello sviluppo del dibattito culturale e letterario italiano?

2. Confrontando “lit-blog” e siti letterari con la cosiddetta “Terzapagina”… quali sono i pro e i contro?

3. Quali sono le ragioni del leggere e dello scrivere ai tempi del web? Fornite le “vostre” motivazioni…

4. Come è cambiata (se è cambiata) la scrittura con l’esplosione dei social network?

5. La rivoluzione digitale ha inciso (o inciderà) sulla letteratura?

6. Cosa ne pensate dell’e-book?

7. Cosa ne pensate del self-publishing?

8. Qual è il ruolo del romanzo, oggi? E quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà?

9. Copyright e copyleft: cosa ne pensate?

10. Come immaginate il futuro editoriale con la diffusione dell’e-book? L’editoria elettronica sopravvivrà alla pirateria o è destinata a subire gli stessi contraccolpi che hanno interessato l’industria musicale?

Ringrazio in anticipo tutti coloro che avranno la bontà di raccogliere questo mio invito.

Massimo Maugeri

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LA NECESSITÀ DI SCRIVERE PER LE CLÈZIO, Premio Nobel per la Letteratura 2008 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/12/la-necessita-di-scrivere-per-le-clezio-premio-nobel-per-la-letteratura-2008/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/12/la-necessita-di-scrivere-per-le-clezio-premio-nobel-per-la-letteratura-2008/#comments Fri, 12 Dec 2008 21:09:14 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/12/la-necessita-di-scrivere-per-le-clezio-premio-nobel-per-la-letteratura-2008/ Il 10 dicembre, a Stoccolma, si è celebrata la cerimonia della consegna del Premio Nobel per la Letteratura attribuito – com’è noto – a Jean-Marie Gustave Le Clézio (ne abbiamo discusso qui).
Su Repubblica del 9 dicembre 2008 (cfr. pag. 43, sezione “Cultura”) è stato pubblicato una parte del discorso che Le Clézio ha tenuto il sabato prima – sempre a Stoccolma - durante una conferenza (l’intero discorso è disponibile sul sito del Nobel).
Vi propongo di seguito il testo, giacché contiene spunti molto interessanti (che integrano il post sul “perché scrivere” che avevo pubblicato in seguito al contributo di Ferdinando Camon).
In effetti il testo di Le Clèzio comincia con la seguente domanda: Perché si scrive?

Vi anticipo alcuni passaggi che potrebbero fornire lo spunto per una discussione. Naturalmente vi invito a leggere l’intero pezzo (dato che leggere solo alcune frasi estrapolate da un testo può essere fuorviante).

Dice Le Clèzio:

- Se si scrive, significa allora che non si agisce. Che ci si sente in difficoltà alle prese con la realtà, che si sceglie un altro mezzo per intervenire, un altro modo di comunicare, una distanza, un tempo per riflettere.

- Lo scrittore non ha più la presunzione di credere che potrà cambiare il mondo, che con i suoi racconti e i suoi romanzi potrà dare origine a un modello di vita migliore. Più semplicemente, vuole essere testimone… quando nella maggior parte dei casi altro non è che un semplice spettatore.

- Agire: è questo che lo scrittore vorrebbe più di ogni altra cosa. Agire, piuttosto che testimoniare. (…) E tuttavia, in quello stesso istante, una voce rivela allo scrittore che ciò non sarà possibile, che le sue parole sono soltanto parole che il vento della società disperderà, che i sogni altro non sono che chimere.

- Con quale diritto pretendere di essere migliori? Spetta effettivamente allo scrittore cercare soluzioni? (…) Come potrebbe mai agire lo scrittore, se altro non sa che ricordare?

- La letteratura non è qualcosa di arcaico che sopravvive e al quale dovrebbero sostituirsi logicamente le arti dell’ audiovisivo, e più di ogni altra cosa il cinema. È una strada complessa, difficile da percorrere, ma che io credo sia ancora più necessaria oggi che ai tempi di Byron o di Victor Hugo.

- Lo scrittore, il poeta, il romanziere sono creatori. Ciò non significa che inventano la lingua, ma che la adoperano per creare bellezza, pensieri, immagini. Ecco perché di loro non si può fare a meno. Il linguaggio è l’invenzione più straordinaria del genere umano, perché precede ogni cosa, rende partecipi tutti. (…) Gli scrittori, in certa qual misura, ne sono i custodi. Quando scrivono i loro romanzi, i loro poemi, le loro opere per il teatro, fanno vivere il linguaggio. Non utilizzano le parole: al contrario, sono al servizio del linguaggio.

E adesso… a voi.
Cosa ne pensate? Qual è il “passaggio” con cui vi sentite più in linea? E quello con cui siete in disaccordo?
(Ammesso che ci sia)

Massimo Maugeri

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La necessità di scrivere
di Jean-Marie Gustave Le Clézio

Perché si scrive? Immagino che ciascuno abbia una sua risposta a questo interrogativo così semplice. Contano le predisposizioni, l’ ambiente, le circostanze. Le inettitudini, anche. Se si scrive, significa allora che non si agisce. Che ci si sente in difficoltà alle prese con la realtà, che si sceglie un altro mezzo per intervenire, un altro modo di comunicare, una distanza, un tempo per riflettere. Se analizzo le circostanze che mi hanno condotto a scrivere – non lo faccio per gentilezza, ma per premura nei confronti della precisione – noto che come punto di partenza nel mio caso c’ è la guerra. La guerra, intesa però non come un grande periodo di sconvolgimenti, nel quale si vissero avvenimenti storici e decisivi, come la campagna di Francia raccontata dai due versanti del campo di battaglia di Valmy, per esempio, da Goethe sul versante tedesco e dal mio antenato Francois sul versante dell’ armata rivoluzionaria. Racconti esaltanti, travolgenti. No, la guerra per me è quella che vivevano i civili e soprattutto i bambini piccoli. Nemmeno per un istante mi è mai parsa un momento storico. Avevamo fame, avevamo paura, avevamo freddo: questo è quanto. Ricordo di aver visto sfilare sotto la mia finestra le truppe del maresciallo Rommel che risalivano le Alpi alla ricerca di un passaggio verso il nord dell’ Italia e dell’ Austria. Quell’ avvenimento non mi ha lasciato un ricordo particolarmente indelebile. Al contrario, negli anni che hanno fatto seguito alla guerra, ricordo molto bene di essere stato sprovvisto di tutto, e specialmente di che scrivere e di che leggere. Mancava la carta, mancava la penna a inchiostro. Disegnai e scrissi le mie prime parole sul retro delle tessere del razionamento, servendomi di una matita da falegname blu e rossa: da ciò nacque in me una certa predilezione per i supporti ruvidi e per le matite ordinarie. Mancando i libri per l’ infanzia, lessi i dizionari di mia nonna. Erano meravigliose rampe di lancio per partire all’ esplorazione del mondo, per vagabondare col pensiero e sognare davanti alle tavole illustrate, alle cartine geografiche, agli elenchi di parole sconosciute. Il primo libro che scrissi, all’ età di sei o sette anni, del resto si intitolava “Le Globe à mariner”, seguito pochissimo tempo dopo dalla biografia di un re immaginario denominato Daniel III – era forse svedese? – e da una favola raccontata da un gabbiano. Quello fu un periodo di reclusione. I bambini non avevano neppure la libertà di uscire a giocare all’ aperto, perché i terreni e i giardini situati nei pressi della casa di mia nonna erano stati minati. Casualmente, nel corso delle mie passeggiate, ricordo di aver costeggiato una volta una recinzione di filo spinato sistemata lungo il mare e di aver letto appeso ad essa un cartello in francese e in tedesco, che proibiva l’ accesso a chiunque, con tanto di teschio.
I libri sono entrati nella mia vita un po’ dopo, sotto forma di varie raccolte di libri che mio padre era riuscito a mettere insieme: provenivano dalla dispersione della sua eredità avvenuta quando era stato espulso dalla sua casa natale di Moka, nell’ isola Mauritius. Fu allora che capii quella verità che non è mai percepita con immediatezza dai bambini, ovvero che i libri sono un tesoro più prezioso dei beni immobili o dei conti in banca. Fu in quei volumi – in linea di massima antichi e rilegati – che scoprii i grandi testi della letteratura universale, il Don Chisciotte illustrato da Tony Johannot, La vita di Lazarillo de Tormes; Le leggende di Ingoldsby, I viaggi di Gulliver; i grandi romanzi ispirati di Victor Hugo, Novantatré, I lavoratori del mare, o L’ uomo che ride. E anche Le sollazzevoli istorie di Balzac. Ma i libri che mi sono rimasti maggiormente impressi furono le raccolte di storie di viaggi, per la maggior parte dedicati all’ India, all’ Africa, e alle Isole di Mascareigne, come pure i grandi resoconti delle esplorazioni, di Dumont d’ Urville o dell’ Abbé Rochon, di Bougainville, di Cook, e ovviamente il Milione di Marco Polo. Nella vita del tutto insignificante di una piccola borgata di provincia intorpidita e sonnolenta, dopo gli anni di piena libertà vissuti in Africa, quei libri mi trasmisero il gusto dell’ avventura, mi permisero di farmi un’ idea della grandezza del mondo reale, di esplorare con l’ istinto e i sensi piuttosto che con la conoscenza diretta. In un certo senso mi permisero di comprendere molto presto la natura contraddittoria della vita infantile, che conserva un rifugio nel quale può dimenticare la violenza e le ostilità, togliendosi il piacere di osservare la vita esteriore dal quadrato della sua finestra.
Allora, perché scrivere? Lo scrittore – già da tempo – non ha più la presunzione di credere che potrà cambiare il mondo, che con i suoi racconti e i suoi romanzi potrà dare origine a un modello di vita migliore. Più semplicemente, vuole essere testimone. Si osservi questo altro albero nella foresta dei paradossi: lo scrittore vuole farsi testimone, quando nella maggior parte dei caso altro non è che un semplice spettatore. Lo scrittore non può essere miglior testimone di quando lo è suo malgrado, a malincuore. L’ assurdo è che ciò che egli testimonia non è ciò che ha visto, né ciò che ha inventato. L’ amarezza, talvolta la disperazione, nasce dal fatto che egli non è presente alla requisitoria. Tolstoj ci fa vedere il male che l’ armata napoleonica infligge alla Russia e tuttavia nulla è cambiato nel corso della Storia. Madame de Duras scrive Ourika, Harriet Beecher Stowe La capanna dello zio Tom, ma sono i popoli resi schiavi a cambiare il proprio destino, a ribellarsi e a fondare contro l’ ingiustizia i movimenti di resistenza dei fuggitivi, in Brasile, in Guyana, alle Antille e infine a fondare ad Haiti la prima repubblica di neri. Agire: è questo che lo scrittore vorrebbe più di ogni altra cosa. Agire, piuttosto che testimoniare. Scrivere, immaginare, sognare, affinché le proprie parole, le proprie invenzioni, i propri sogni intervengano nella realtà, cambino gli animi e i cuori, spalanchino un mondo migliore. E tuttavia, in quello stesso istante, una voce rivela allo scrittore che ciò non sarà possibile, che le sue parole sono soltanto parole che il vento della società disperderà, che i sogni altro non sono che chimere. Con quale diritto pretendere di essere migliori? Spetta effettivamente allo scrittore cercare soluzioni? Non si trova egli piuttosto nella posizione della guardia campestre che nell’ opera teatrale Knock, ovvero il Trionfo della Medicina, vorrebbe addirittura impedire un terremoto? Come potrebbe mai agire lo scrittore, se altro non sa che ricordare?
Non intendo in ogni caso crogiolarmi in un atteggiamento negativo. La letteratura – ecco dove volevo arrivare – non è qualcosa di arcaico che sopravvive e al quale dovrebbero sostituirsi logicamente le arti dell’ audiovisivo, e più di ogni altra cosa il cinema. È una strada complessa, difficile da percorrere, ma che io credo sia ancora più necessaria oggi che ai tempi di Byron o di Victor Hugo. Due sono le motivazioni di questa esigenza: prima di tutto la letteratura è fatta di linguaggio. È il suo significato primo: lettere, ovvero ciò che è scritto. In Francia la parola “romanzo” indica quegli scritti in prosa che utilizzavano per la prima volta dal Medio Evo la nuova lingua che tutti parlavano, la lingua romanza. La “novella” nasce anch’ essa da questa idea di novità. Più o meno nel medesimo periodo, in Francia si smise di adoperare la parola “rimeur” (“compositore di rime”), per parlare invece di poesia e di poeti – derivanti dal verbo greco poiein, creare. Lo scrittore, il poeta, il romanziere sono creatori. Ciò non significa che inventano la lingua, ma che la adoperano per creare bellezza, pensieri, immagini. Ecco perché di loro non si può fare a meno. Il linguaggio è l’ invenzione più straordinaria del genere umano, perché precede ogni cosa, rende partecipi tutti. Senza il linguaggio non ci sarebbero le scienze, non ci sarebbe la tecnica, non ci sarebbero leggi, non ci sarebbe l’ arte, non ci sarebbe l’ amore. Ma questa invenzione, senza l’ apporto di qualcuno che la trasmetta, diventa virtuale, teorica. Può diventare anemica, ridursi, sparire. Gli scrittori, in certa qual misura, ne sono i custodi. Quando scrivono i loro romanzi, i loro poemi, le loro opere per il teatro, fanno vivere il linguaggio. Non utilizzano le parole: al contrario, sono al servizio del linguaggio. Lo celebrano, lo affinano, lo trasformano, perché il linguaggio vive attraverso di loro, grazie a loro e accompagna le trasformazioni sociali o economiche della loro epoca.
(traduzione di Anna Bissanti)
Jean-Marie Le Clézio

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PERCHÉ SCRIVERE (di Ferdinando Camon) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/05/perche-scrivere-di-ferdinando-camon/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/05/perche-scrivere-di-ferdinando-camon/#comments Mon, 05 Nov 2007 21:45:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2007/11/05/perche-scrivere-di-ferdinando-camon/ Ferdinando Camon (nella foto in basso) è uno degli scrittori italiani più autorevoli. Ha pubblicato parecchi libri e vinto diversi premi letterari. Credo sia uno dei pochi che può permettersi di spiegare “perché scrivere” in maniera categorica, senza mezzi termini. Lo ringrazio pubblicamente per avermi concesso questo testo che pubblico qui di seguito. Un testo che, a mio avviso, si presta benissimo per avviare un dibattito.

Massimo Maugeri

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camon-a-padova-2007.jpgCi sono molti lavori per i quali un’etica va imposta o conquistata: un rapporto morale con quello che si fa, per farlo con sincerità, con adesione, con verità. Ma c’è un lavoro che ha l’etica dentro di sé, e se non ce l’ha fallisce, non comincia neppure, crolla ad ogni passo. Questo lavoro è quello dello scrivere. Scrivere non è parlare. Parlare vuol dire reagire con le parole a un fatto che accade, mentre accade. Lo scrivere richiede tempo. Il parlare reagisce subito, per provocare nell’ascoltatore una reazione immediata, e di breve vitalità. La scrittura reagisce dopo, a passioni fredde, perché vuol restare a lungo, possibilmente (è il segreto desiderio di ogni scrittore) “per sempre”. Perciò chi parla bene non scrive bene, e viceversa. Sono due qualità distinte, una nega l’altra. Conosco uno scrittore che dice: “So perché scrivo: perché non sono il primo figlio”. Vera o falsa che sia quest’autointerpretazione, lui vuol dire che in casa la prima risposta era riservata al primo figlio, e lui veniva dopo, e in quel dopo maturava una riposta diversa, più calma, una risposta che aveva la stabilità della forma scritta. Non tutte le forme scritte hanno la stessa durata. Per esempio (io ne sono convinto), la storia dura meno della letteratura. E questo perché la letteratura (poniamo, il romanzo) dura a prescindere dalla verità che racconta, mentre la storia, appena si dimostra che non è vera, cade. Perciò c’è una responsabilità maggiore nello scrivere pagine che durano di più. La responsabilità può essere così alta, e lo sforzo etico di reggere l’impegno così logorante, che la scrittura genera la nevrosi, scrittura e nevrosi diventano la stessa cosa. Quasi mai lo scrittore scrive in pubblico, di solito si nasconde. O nasconde quel che scrive. Tolstoj lo nascondeva dentro gli stivali, dove chi lo spiava andava a frugare non appena lui era uscito. Leonardo lo nascondeva scrivendo da destra a sinistra. Come uno che oggi, usando il computer, mette una chiave d’accesso conosciuta a lui solo. Qui c’è il concetto che l’etica dello scrivere non è mai l’etica del vivere, del vivere in quel momento, ma è la rottura dell’etica imperante, e l’instaurazione di un’etica nuova. Perciò gli scrittori di denuncia sono inaccettabili dall’etica corrente, verranno accettati più tardi, quando si sarà instaurata l’etica che loro collaborano a introdurre. Bassani ha dovuto lasciare Ferrara, Moravia non lo potevan più vedere in Ciociaria, Pasolini è finito addirittura in carcere, Volponi s’e dimesso dal posto di lavoro. Noi viviamo dentro un sistema dove tutte le forze sono in equilibrio, morale-politica-religione-scuola-arte-letteratura-informazione, la luce che illumina i passi della nostra vita viene da tutto ciò che è gia stato espresso, e che crede di essere tutto l’esprimibile: colui che si mette a scrivere esprime qualcosa di nuovo, d’inatteso, e di temibile perché rompe gli equilibri preesistenti, sicché tutto quello che c’è lavora affinché il nuovo non sia detto. Non c’è mai bisogno di un nuovo scrittore. E’ lo scrittore che, scrivendo, deve creare il bisogno di sé. Lo scrittore riesce nella misura in cui crea questo bisogno. Da quel momento è un “classico”. Scrivendo, comunica un’etica, un’idea di bene, la “sua” idea di bene, che è insieme estetica e morale, che durerà più in quanto estetica che in quanto morale. Questo spiega perché raramente i grandi scrittori, quando cominciano, hanno successo. Perché non sono in sintonia col gusto corrente, il gusto della massa. Una volta Majakovskij si presentò a una conferenza, salì sul palco, cominciò a parlare e fu subito applaudito. “Mi applaudono – pensò con disgusto -, dunque non dico niente di nuovo”, e se n’andò. L’incrocio di un’opera col gusto della massa crea il fenomeno noto come best-seller: il best-seller è “sempre” un libro morto, perché è il risultato di un gusto all’apice della diffusione, quindi in fase morente. “Best-seller” e “libro reazionario” sono la stessa cosa. Perciò possono esistere dei manuali su come si scrive un best-seller, con l’indicazione di tutti gli ingredienti, e le relative percentuali: il best-seller deve corrispondere, non inventare, non sgarrare. E se un libro è reazionario, l’autore è reazionario. E se quell’autore, oltre ai libri, scrive articoli, saranno articoli reazionari. Un libro in sintonia col gusto presente è già un libro del passato. Perciò coloro che scelgono i libri da stampare, in una casa editrice, dovrebbero scegliere non libri che li confermano, ma libri che li smentiscono e li seppelliscono. Di tutti i lettori di manoscritti, quello che trovo piu interessante non è il mitico Bobi Bazlen, personaggio dello “Stadio di Wimbledon” di Del Giudice, che affrontava ogni nuovo testo sconosciuto ponendosi la domanda: “Risponde questo libro alla mia idea di libro?”, perché voleva vivere nei libri degli altri, che dunque dovevano scrivere perché lui vivesse; domandarsi se un libro c’è o non c’è ponendosi quella domanda, significa costringere il libro a confermarci; no, preferisco l’estetica applicata dall’umile cristiano-comunista Franco Fortini, che di fronte a un manoscritto poetico di Andrea Zanzotto ebbe l’onestà di scrivere suppergiù così: “Nulla di questo libro poetico corrisponde alla nostra idea di libro e di poesia; ma è un libro poetico; e dunque alla domanda: Stamparlo sì o no?, rispondo: Stamparlo subito, purtroppo”. In un certo senso, quella parte di cristianesimo-e-comunismo di Fortini che Fortini non riusciva a dire, era detto, in forme non fortiniane, nei versi di Zanzotto. Anche questa è una maniera per vivere oltre se stessi. Dunque, per scrivere. Questa unità tra vivere e scrivere fa sì che si scrive come si vive. La menzogna, l’insincerità nella scrittura è impossibile: il libro falso è quello che si chiama “un libro non-scritto”. Lo vedi subito, fin dalle prime righe. L’etica nella scrittura non può essere imposta, o è naturale o non c’è. Uno studioso francese ha scritto un libro sul rapporto tra scrivere e respirare: François Bernard Michel, “Le Souffle coupé, respirer et écrire (Gallimard), per collegare l’asma di Queneau ai suoi problemi esistenziali, la tosse di Paul Valéry ai suoi gridi, l’asma di Marcel Proust alla sua ricerca mortale del senso, lo spasmo alla laringe di Mallarmé alle sue pagine bianche… La conclusione di Michel è: si scrive come si respira. Allo stesso modo noi potremmo trovare una corrispondenza tra le scritture e le nevrosi di Dante, Petrarca, Tasso, Manzoni, e via via fino a Pasolini. Sono etici perché sono autentici, e viceversa. La malattia è il prezzo dell’eticità, il costo della scrittura. Allo stesso modo io credo che un critico fornito di buoni strumenti possa dire, leggendo una pagina di Parise, se l’ha scritta prima o dopo l’entrata in dialisi. L’entrata in dialisi corrispose ad un diverso scorrimento del sangue nelle vene, e il diverso scorrimento del sangue nelle vene gli dettava un diverso fluire delle parole nella frase, e una diversa cadenza della punteggiatura. Il senso è: scrivi come ti scorre il sangue. Poteva Parise scrivere diversamente? E’ come chiedergli di essere in dialisi senza essere in dialisi. La responsabilità sta nello scrivere per come si è. Rispondere della propria scrittura vuol dire rispondere di come si è. Nel mostrare come si è. Nel consegnare quello che sai, quello che sei. Questo è etico. Poiché si vuole scrivere “per sempre”, si risponde “per sempre” degli effetti della propria scrittura. Omero ne risponde ancor oggi. Consegnare quello che sei non significa consegnarsi ai contemporanei, che possono non accoglierti, bensì a coloro che verranno. Anche se non sai l’accoglienza che ti faranno. Lo scrittore che fa questo, è etico. Lo scrittore che non fa questo, non è che non sia etico, è che non è uno scrittore.

Ferdinando Camon

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