LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » perrone http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 ORAZIO LABBATE con “Spirdu” (Italo Svevo) e “Gli States di Stephen King” (Perrone) in radio a LETTERATITUDINE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/08/31/orazio-labbate-con-spirdu-italo-svevo-e-gli-states-di-stephen-king-perrone-in-radio-a-letteratitudine/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2021/08/31/orazio-labbate-con-spirdu-italo-svevo-e-gli-states-di-stephen-king-perrone-in-radio-a-letteratitudine/#comments Tue, 31 Aug 2021 16:39:13 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8841 ORAZIO LABBATE con “Spirdu” (Italo Svevo) e “Gli States di Stephen King” (Perrone), ospite del programma radiofonico Letteratitudine trasmesso su RADIO POLIS (la radio delle buone notizie).

In streaming e in podcast su RADIO POLIS

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia, postproduzione e consulenza musicale: Federico Marin

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PER ASCOLTARE LA PUNTATA CLICCA QUI

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Ospite della puntata: lo scrittore Orazio Labbate.
Con Orazio Labbate discutiamo dei suoi due nuovi volumi: un romanzo e un saggio. Il romanzo si intitola “Spirdu” (ed è pubblicato da Italo Svevo edizioni), il saggio si intitola “Gli States di Stephen King” (ed è pubblicato da Perrone nella collana “Passaggi di Dogana”).

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La scheda del libro: Spirdu” di Orazio Labbate (Italo Svevo edizioni)

A Falconara, zona marittima di Butera, il giovane esorcista Jedediah Faluci spossessa i contadini indemoniati nell’ex macelleria del paese. Dall’altra parte del mondo, a Milton, in West Virginia, la detective Kathrine Pancamo dà la caccia a un sanguinario serial killer che semina terrore nelle chiese della contea. Due solitudini incolmabili, quelle di Jedediah e di Kathrine, due destini opposti e dolorosi che si incontreranno in una Sicilia dell’orrore per confrontarsi insieme con l’essenza del male e della paura.
Con Spirdu, Orazio Labbate porta a compimento un horror filosofico che si ispira alla metafisica di William T. Vollmann e alla “letteratura del disgusto” di Thomas Bernhard, dove italiano e siciliano si cesellano in una lingua mistica, feroce, fitta di neologismi ed ebbra di suoni.

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La scheda del libro: “Gli States di Stephen King” di Orazio Labbate (Perrone)

Il viaggio attraverso i mondi di Stephen King è declinato secondo una natura letteraria unitamente triplice. La prima natura si muove secondo il cammino indagatorio e malinconico, di storpiamento descrittivo, eseguito dalle norme narrative di La luce e il lutto di Gesualdo Bufalino. La seconda si sostanzia nella peregrinazione letteraria di matrice metafisica, che cova una tensione trasformativa del reale fino al demoniaco, avanzata da K. di Roberto Calasso. La terza, quindi l’ultima, si raccoglie per mezzo della brevità stilistica, acuminata, proposta dal flusso questionante sul bene e sul male, di Austerlitz di W. G. Sebald. Un viaggio, dunque, accudito da questa trinitaria ispirazione che vuole sovvertire (e intanto assentire) alle geografie orrorifiche delle opere più significative – secondo tali prospettive – del re dell’horror moderno. Un incubo filosofico, in definitiva, al di là dello spazio e del tempo, una demonologia della e nella scrittura.

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Orazio Labbate è nato a Mazzarino nel 1985, ma ha vissuto sin dall’infanzia a Butera. Definito dalla critica il fondatore del Gotico siciliano, ha pubblicato i romanzi Lo Scuru (Tunué,2014) e Suttaterra ( Tunué, 2017), la raccolta di racconti Stelle Ossee (LiberAria, 2017) e i due volumi Piccola enciclopedia dei mostri (24 Ore Cultura, 2016) e Atlante del mistero (Centauria, 2018). Suoi racconti, tradotti da Anne Milano Appel, sono apparsi sulle riviste letterarie statunitensi «PEN America», «Guernica» e «The Shoutflower».

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia, post produzione e consulenza musicale: Federico Marin

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È possibile ascoltare le precedenti puntate radiofoniche di Letteratitudine, cliccando qui.

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La colonna musicale della puntata (a cura di Federico Marin): brani in ordine di ascolto

sigla: Jason Shaw – BACK TO THE WOODS
licenza: https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/us/

CLOUDWARMER – Pandemic Diary, Day Whatever
licenza: https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0/

Canzoniere Grecanico Salentino – Beddhu Stanotte
licenza: https://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/

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L’UNITA’ D’ITALIA E LE DONNE NEL RISORGIMENTO ITALIANO: la Mariannina Coffa di Maria Lucia Riccioli http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/03/14/unita-italia-e-le-donne-nel-risorgimento-italiano/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/03/14/unita-italia-e-le-donne-nel-risorgimento-italiano/#comments Mon, 14 Mar 2011 18:11:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3098 Come tutti voi sapete, il 17 marzo 2011 si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Vorrei dedicare la pagina che state leggendo (e che spero possiate contribuire a riempire) a questa ricorrenza così importante.

maria lucia riccioliSe penso a questa nostra terra mi sovviene la figura della madre, dunque della donna. Ecco perché vi propongo di partecipare ai festeggiamenti concentrandoci soprattutto sulle figure femminili che hanno attraversato il Risorgimento italiano e – più o meno indirettamente – con la loro vita e il loro operato hanno contribuito alla nascita di questo nostro Paese.
In particolare ci occuperemo di una figura meno nota di altre a livello nazionale e anche per questo maggiormente meritevole di essere messa in risalto: quella della poetessa siciliana Mariannina Coffa (1841 -1878). L’occasione ce la offre la recente uscita del romanzo d’esordio di Maria Lucia Riccioli (nella foto accanto), intitolato “Ferita all’ala un’allodola” (Perrone Lab, 2011) di cui approfondiremo la conoscenza nel corso della discussione.

A voi, amici di questo blog, rivolgo l’invito di scrivere qualcosa (un pensiero, una citazione, o quant’altro) per contribuire alla celebrazione della ricorrenza…

Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell'unità d'ItaliaSulla festa del 150°, inoltre, mi piace segnalare questo bell’articolo di Alessandro Mari pubblicato su Tuttolibri del 12 marzo, intitolato: Italia forever giovane e forte.

E a proposito delle donne del Risorgimento italiano, ci tengo pure a segnalare questo libro di Bruna Bertolo: “Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell’unità d’Italia” (Ananke, 2011).

Di seguito, il booktrailer del romanzo “Ferita all’ala un’allodola” di Maria Lucia Riccioli e gli approfondimenti firmati da Luigi La Rosa e Simona Lo Iacono.

In chiusura, l’inno di Mameli offertoci da Roberto Benigni nel corso di una serata del Festival di Sanremo di quest’anno.

Massimo Maugeri


(booktrailer realizzato dall’artista Maria Francesca Di Natale, Sonia Vettorato esegue le musiche di Chopin che accompagnano il video)

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MARIA LUCIA RICCIOLI E MARIANNINA COFFA: UN INCONTRO

di Simona Lo Iacono

Tutto inizia in un cortile. La mattina è di quelle buone, il sole saetta come sempre fa in Sicilia, balzando sui dirupi e le nuvole. A Noto, poi, dove Maria Lucia si ferma, raddoppia l’intensità e la sferzata, perché pare farsi materia sulla materia del barocco, e incurvarsi, o arricciarsi, o gonfiarsi nel vezzo di questi balconi che tremano, di questi basalti rapaci, ghignanti, cui mano d’uomo ha dato forma di animale, di maschera balorda, di pietosissima impastatura di bestia e cristiano.
Non sa ancora che si fermerà lì, nei pressi del San Domenico. La strada fatta da Siracusa le pesa sul cuore, sebbene la nuova scuola in cui è stata chiamata a insegnare le piaccia, perché a percorrerla si snuda di quella fatica che troppo spesso è vivere, s’immette in un assaggio di paradiso, in un’ anticipazione, fastosa e luttuosa insieme, del suo vizio di sempre, o – come pure le piace chiamarla – della sua dannazione:scrivere.
E tuttavia non è preparata a questo incontro che sa già di destino segnato, Maria Lucia, finora ha imbastito versi da angelo, e la poesia non è cosa che ti venga contro come questi segnali. La poesia è dentro, lo sa bene lei che l’ha pescata nel respiro, non è come un romanzo, che – a iniziarne la trama – ti perseguita come un dio ostinato e malfattore che comincia a cospargere la tua strada di indizi. Ma da oggi imparerà che la sua storia non è più solo la sua, che sta per irrompere il flagello della narrazione con tutte le piaghe d’Egitto, la gioia, la paura, la rabbia, la speranza. Da quando si ferma in quel cortile e vede le due statue, Maria Lucia non sa ancora – infatti – che nella sua vita è entrata Mariannina.
All’inizio non le era sembrato niente più che uno di quei monumenti che si dedicano per ozio e reverenza alle ombre, ai resti del secolo, ma poi no, s’era detta, no. Questo che l’attirava con un dolore pungente, di fattucchiera, era diverso.
Due busti, infatti, uno a Matteo Raeli, che se ne stava impettito nel cortile a rasentare lo sguardo sul mondo. E poi l’altro, indecifrabile quasi, misterioso, notturno. Una donna levigata dalle rare piogge, la fronte ampia, l’occhio riverso a scrutare oltre. E poi – ma è davvero così o sogna, Maria Lucia? – basso su di lei come per una preghiera. Forse , una richiesta.
Certo, si dice sventrata dal richiamo, certo che a raccontarlo la prenderebbero per pazza. Ma le pare un incontro di carne, quello appena avvenuto, non la fissità della pietra (su cui campeggia inciso il nome di Marianna Coffa Caruso, poetessa) contro il sangue. Non l’eternità del tempo faccia a faccia col suo, di momento, veloce e appena scoccato, ma uno spazio in cui le è facile distinguere un’unica strada, senza barriere di prima e dopo, senza inciampi né logiche, suo, si dice Maria Lucia, e con lei Mariannina: nostro.
Così comincia. Come un riconoscimento.
E sì, di questa donna sapeva, della sua vita dolente di letterata. Del matrimonio cui la famiglia l’aveva costretta ignorando il suo amore per Ascenso Mauceri. All’università forse, le pare ora di ricordare, s’era detta che doveva essere stato difficile per Mariannina essere scrittrice in pieno risorgimento, mettere al mondo figli di un uomo che non senti tuo, forzarti a una vita da moglie che gli altri vogliono senza libri, senza sogni, senza quella pioggia di passi che invece sentiva scalpicciare nel fondo dell’anima, e che doveva tradurre in versi.
Questo s’era detta.
Ma ora, ad averla davanti, Mariannina, dritta come un fuso , raggelata in un marmo, privata, anche dopo, del rossore che la faceva bellissima, del coraggio con cui aveva sfidato le barriere della mentalità e dell’apparenza, Maria Lucia ha pure una vampata di sdegno, una morsicatura che la punge. E decide: ridarle vita.
Così, inizia a scoprirla. Nelle ore d’archivio, dove trova carte dei notabili di sua maestà Vittorio Emanule II di Savoia, ultimo re di Sardegna e primo re d’Italia. O a Noto, dove s’inerpica per le strade su cui spassavano gli adepti del l”Accademia dei trasformati” di cui Marianna fece parte con il nome di “inspirata”. E a Siracusa, dove aveva frequentato il collegio “Peratoner”, o a Ragusa, dove per puro caso alza gli occhi e le vien detto: è lì, che dopo sposata, viveva la Coffa Caruso. La conosce?
Maria Lucia inizia a seguire le tracce di cui sempre è cosparsa la letteratura quando risponde al suo segreto: essere una seconda possibilità. Resuscitare. Redimersi dall’unico peccato: finire, morire. Opporsi all’indecenza del silenzio, dell’oblio.
E spalanca i giorni, Maria Lucia. Ferma i minuti. Si trova a sfiatare nella canna di un flauto magico come un’incantatrice di serpenti che ridesta i torpori. Non le è difficile perché Marianna è lei e non è lei, una distanza la separa, ma anche la colma, e capisce, Maria Lucia, che quella è nostalgia, e che per questo può chiamarsi arte: perché adempie. Perciò non è arduo pensare i suoi pensieri, rievocare le voci, ridare al suo precettore – Don Sbano – il tono della cantilena netina, o al marito – Giorgio Morana – il fiato roco di quella prima notte d’amore che ha vissuto come un dovere, o all’amato Ascenso le negazioni e le affermazioni della passione, i sensi morti dell’abbandono, i veleni della gelosia e del rimpianto.
Maria Lucia Riccioli irrompe con questo suo primo romanzo facendosi mediatrice e creatrice, affermando la pietà e l’amore, dando consistenza irresistibile alla memoria.
Chiusa la pagina con l’ultima scena, ancora ambientata in quel cortile dove tutto è iniziato, Marianna svola dalla pietra, liberata, quasi una navigatrice alla prora o all’albero di maestra. Taglia il vento, sfida le onde, ride. Dietro sta la felicità perduta, i maledetti sogni delle donne, la loro innocenza e tracotanza insieme: trovare in un uomo il proprio destino. Forse a qualcuna sarà pure riuscito, pensa Mariannina, ma a lei non è stato dato, invece, che questo tempo circoscritto e traballante, queste mani che adesso stringono altre mani, inchiostro, carta, una penna.
Se esiste un destino che si compie su questa terra, sembra dirci, non è che quello di compassione. Di chi viene finalmente raccolto dall’altro e raccontato.

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MARIANNINA COFFA: IL CORAGGIO DELLA FERITA

di Luigi La Rosa

Profonde e indimenticabili le suggestioni prodotte in me dalla lettura di Ferita all’ala un’allodola, il romanzo che Maria Lucia Riccioli dedica all’esistenza tormentata e leggendaria della poetessa netina Mariannina Coffa. Un libro che nasce dalle viscere: che delle viscere possiede l’urgenza, la necessità, il fuoco intimo. Un libro che colma una delle più grandi lacune della storia letteraria italiana: nonostante i preziosi contributi di Marinella Fiume e altri eminenti studiosi, ancora troppo poco nota è infatti la vicenda umana ed esistenziale della Coffa, intellettuale, artista della parola, poeta, patriota, oltre che spirito libero di indomabile perspicacia.
Alcuni sono i temi più importanti che mi piacerebbe prendere in considerazione in questa breve analisi del testo. Primo tra tutti: il rapporto centrale e irrinunciabile tra sogno e tradimento, tra innocenza e caduta.
Mariannina Coffa è figlia della società borghese del Risorgimento. Per via paterna e famigliare le appartengono privilegi e speranze che si aprono dinnanzi al suo futuro come un ventaglio di rosee promesse. C’è luce nei suoi giorni, come nel lustro del suo cognome risonante. Mariannina è figlia di tutto un mondo fintamente scintillante, che investe nel suo talento, nel suo splendore, nella sua intelligenza. Ma che pretende obbedienza. In cui tutto ha un prezzo. E sa trasformare i benefici in spine che trapassano le carni.
Il futuro, divenuto presente, ha ben poco degli sfavillii che la sorte sembrava annunciare, soprattutto dove: “Il respiro è un ppp, un pianissimo come quelli delle partiture impolverate che si è portata dietro da Ragusa. Perché, poi. In questa casa non c’è pianoforte, a stento si mangia. Mariannina vuole vedere il cielo, vuole parlare alla luna di notte, come faceva a casa Coffa. Vuole scrivere ancora, magari anche sulle lenzuola, alla cieca, e poi decifrare al mattino i versi del suo genio notturno, l’Angelo che la visita e le detta dentro. Ma stanotte no. Gli occhi sono chiusi, le orecchie sorde alla musica divina dell’Angelo. Un diavolo si sta mangiando le sue carni.”
Un tradimento imperdonabile l’avvicina alla figura di un’altra donna ferita e umiliata nei suoi sogni più genuini. Un’altra vittima del suo tempo e dell’incomprensione sociale. L’ennesima allodola ferita all’ala, precipitata sui freddi sentieri del silenzio e dell’afonia. Mi riferisco ad Annemarie Schwarzenbach, narrata con accenti di toccante poesia da Melania Mazzucco, nel libro biografico Lei così amata. La gemellanza che lega le due figure mi sembra davvero emblematica, e il fascino con cui la grande scrittrice romana rievoca i giorni dolenti di Annemarie rimanda a quello che alona di sublime malinconia la Mariannina siciliana.
“La chiuderanno nella sua camera, fra i mobili che ha comprato lei stessa, le sue tende, i suoi libri, le sue cose che nessuno avrà toccato. Ma l’entità-Annemarie non sembrerà riconoscerle: non saprà più cos’è una macchina da scrivere, una penna, un foglio di carta, una fotografia. Nella casa di Sils-Baselgia ci sarà un silenzio mortale, e in lontananza si spegnerà anche l’eco delle campane della chiesa.”
Mariannina e Annemarie tacciono, perché il destino sembra averlo loro imposto. Perché non c’è ascolto intorno. Perché le parole sono fuggite lontane. E’ il loro canto del cigno, e tutt’intorno nessuno si chiederà il perché di una simile caduta, le motivazioni di uno spreco di sensibilità tanto imponente. Riflessione che ci conduce, inevitabilmente, al secondo grande tema del romanzo di Maria Lucia Riccioli: l’antitesi complessa e insanabile tra artista e contesto sociale d’appartenenza.
Mariannina insegue una direzione che sembra fissata fin dal principio, dai primi anni di vita. Lungo la strada risplendente che il genio parrebbe spianarle si annidano incognite pericolose e avvilenti, rancori, invidie sotterranee. Struggente dalla prima riga all’ultima il passaggio che rappresenta l’ingenuo e innocente tentativo di ribellione dell’artista davanti alla bieca normalità del gregge.
“Da quanto tempo teneva la mano alzata? Serra si riscosse da quelle che bollò come fantasticherie e abbassò lo sguardo dalla predella su uno dei banchi mediani. La signorina Coffa Caruso voleva porgli una domanda. Che non avesse compreso il compito? Che la fanciulla volesse mettersi in mostra? Una risatina o due subito interrotte dalla mano alzata di Serra. Invidie e gelosie erano le serpi consuete che strisciavano nelle teste di ragazzine che il volere dei genitori aveva rinchiuse in questo angolo di Siracusa, a dormire e studiare testa con testa, gomito a gomito, la dotata con l’indolente, la volenterosa con la promossa a via di denari del padre medico o funzionario del governo.”
Maria Lucia Riccioli manifesta una consapevolezza rara, che è la stessa dei grandi romanzieri del passato. Come Tolstoj nella Karenina, così pure lei organizza tra le sue pagine la fitta maglia delle anticipazioni e forgia l’infanzia sognante della Coffa nella materia combattuta di quelle prime nuvolose mutevolezze, indice e profezia della ventura battaglia contro la società e il suo perbenismo.
Mariannina sarà domani una donna diversa perché è stata ieri una bambina segnata, e perché il fuoco è disceso in lei, fin dalla tenera età dei primi studi. Sarà una donna sola, perché sente che è nella solitudine che ci è dato percepire il respiro possente delle cose. E sarà anzitutto se stessa, perché non v’è tradimento più grande che quello nei confronti della verità e del cuore.
Ma anche di questo la vita la costringerà a macchiarsi: del tradimento dell’amore. Per questo, poi, non ci sarà pietà dei suoi giorni. Del suo dolore. La passione di Mariannina Coffa per il giovane Ascenso Mauceri, prestante Bellini di provincia, che la scrittura della Riccioli solfeggia con accenti di intensa sensualità, prima o poi è condannata all’oblio. Le dure leggi della rispettabilità borghese impongono una differente unione, un matrimonio che ha dell’inverosimile e dell’assurdo. Tuttavia, il giuramento della Coffa è indelebile, e possiede la forza dell’acciaio e della pietra. E’ qualcosa che niente potrà mai abbattere.
“Vero è che si è tentato di dividerci, e mia madre era più d’ogni altro impegnata a farmi sposa di quel tale, ma io sfiderò gli uomini e il destino, né mai sarò d’un essere che non ha altro merito che le sue ricchezze. Non dolerti per me, che presta ad ogni sacrificio saprò anche morire per esserti fedele. Addio – amami sempre. La tua Mariannina.”
L’ipotetica incrollabilità del patto amoroso si scontra con la realtà: pian piano l’amore tra il musicista e la poetessa dal fato infelice svanirà, perché nuovi obblighi, nuove impellenze – e soprattutto nuovi lancinanti dolori – si abbatteranno sui pochi giorni che il cielo sembra disposto a concederle. Controversie famigliari, ribellioni, abbandoni, lutti personali, discese quotidiane agli inferi del risentimento e della rabbia. Un inferno da cui non ci sarà nessuno scampo, se non grazie al potere salvifico della scrittura e al miracolo terapeutico dei versi inanellati in appelli strazianti e disperati.
Viene da chiedersi: cosa è successo nell’esistenza, cosa succede nel cuore di Mariannina Coffa? Ferita all’ala un’allodola manifesta d’un tratto la sua profondità, proprio nel punto in cui la vicenda si carica di tensione psicologica, e il dramma dell’una si tramuta nella parabola universale delle tante, le molte, tutte le donne che esattamente come lei subiscono la sistematica imposizione di una poetica di vita, il sigillo comportamentale che più si conviene, la schiavitù dei sensi contro cui non bastano più parole e lacrime.
Maria Lucia Riccioli ci regala un’opera d’indiscutibile valore, oltre che un’avventura dello spirito di frastornante bellezza. Leggere questo libro significa restituire voce all’assenza, corpo alla fuga, necessità all’impegno e lineamento a una donna eccezionale, che lascia il segno in un’impronta civile di rigorosissimo impatto. Inseguendola, ci accorgiamo che Mariannina sta parlando di noi. Di noi tutti. E della nostra tristezza. Ma pure del nostro coraggio, di quello che ostentiamo davanti ai propositi traditi, agli inganni non meditati, ai pentimenti che si tramutano in fiele, e che ci tocca mandar giù, goccia per goccia. La luce s’è abbassata, e sul fondo, ora, solo il silenzio rotto dal canto. In quel silenzio, le allodole sono tornate a volare.

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E SONO CRETA CHE MUTA di Mavie Parisi http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/01/22/e-sono-creta-che-muta-di-mavie-parisi/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/01/22/e-sono-creta-che-muta-di-mavie-parisi/#comments Fri, 22 Jan 2010 21:06:35 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1561 “È da qui che intendo iniziare la mia storia. A proposito, mi chiamo Kita Narea, ed è l’estate del 2006. Fa talmente caldo che mi suda l’interno delle ginocchia ripiegate sui morbidi piedistalli di una di quelle strane e costose sedie ergonomiche importate dalla Svezia. Sono davanti al computer a raccontare i fatti miei più intimi a un tizio mai visto”.
Inizia così il romanzo desordio di Mavie Parisi intitolato “E sono creta che muta” (edito da Perrone Lab).
La protagonista si chiama Kita. Tre figli e un matrimonio alle spalle, forse con qualche rimpianto. Il mare, presto la mattina. Le sue tele e i suoi colori, lasciati lì, a riposare, forse per troppo tempo. E il bisogno di un incontro, di gesti e di parole. Per ritrovarsi, per ricominciare.
Il tema del libro è duplice e di grande attualità: da una parte quello dell’abbandono, dall’altra quello delle relazioni sentimentali nate via chat.
Vi invito a discutere di questo romanzo e dei temi a esso legato.

Come al solito pongo alcune domande con l’intento di favorire la discussione.

Nelle relazioni sentimentali l’abbandono, in qualunque forma si concretizzi, è sempre un trauma.
Esiste un antidoto o, comunque, una “strategia” per neutralizzarlo (o per lenire le conseguenti sofferenze)?

Il trauma si abbatte solamente sul soggetto che subisce l’abbandono, o non è forse la separazione un evento doloroso anche per chi ne è parte attiva?

È possibile dopo una relazione sentimentale di una certa importanza, che si spezza nel dolore e nell’indifferenza, ricostruire un rapporto sebbene su basi diverse?

Le relazioni nate in chat che possibilità hanno di dare esiti positivi? Sono una “opportunità” o un “ripiego”? E fino a che punto si riesce a essere davvero se stessi interagendo attraverso uno schermo e una tastiera? Quali i pro, e quali i contro?

Di seguito, la recensione di Maria Rita Pennisi.
Massimo Maugeri

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Lei e gli uomini troppo deboli per legami forti
di Maria Rita Pennisi

«E sono creta che muta». Evocativo il titolo di questo primo romanzo di Mavie Parisi pubblicato da Giulio Perrone editore S.r.l., Roma. Questa E iniziale sembra collegarsi a un pensiero sottile, che è già maturo nella mente dell’autrice. La creta che muta, invece, ci rimanda alla duttilità del materiale, alle sue molteplici e mutevoli forme. Ci fa pensare alla voglia di cambiamento, che spesso è presente in ognuno di noi. La protagonista del romanzo, Kita Narea viene lasciata dal marito e sente nel profondo l’abbandono. Questo senso d’abbandono si stende a macchia d’olio su di lei e sulla casa. Di questo luogo, che un tempo ha rappresentato il centro dell’armonia, solo il giardino nascosto “sul retro di quell’appartamento qualunque” è il suo rifugio, il suo angolo di paradiso, come il mare che è l’elemento rasserenante con cui Kita si fonde. Per lei la rottura degli equilibri è forte come l’infrangersi degli specchi, quegli specchi che non le restituiscono più un’immagine in cui si riconosce. Inizia la ricerca di possibili partner in Chat, altra grande protagonista del romanzo. La Chat fa sentire Kita protetta e lì può abbandonarsi alle sue fantasie, ma tutto cambia quando gli interlocutori si materializzano e prendono forma di uomini troppo deboli, per creare legami forti. L’autrice però non si erge a giudice, anzi è indulgente e lascia che i suoi personaggi vivano liberamente il loro modo di essere. Un romanzo dalla struttura originale in cui si alternano delle narrazioni in prima persona e delle altre in terza persona in cui un narratore esterno interviene, quasi per alleggerire la tensione narrativa, raccontando sia di Kita che di altri personaggi. Il ritmo del romanzo è agile, la trama è avvolgente. Il linguaggio è asciutto, quasi essenziale. I periodi brevi e incisivi. Ogni parola si carica di significato profondo. Ottimi i dialoghi, quasi teatrali. Profonde le riflessioni, sofferti i monologhi interiori. E’ un romanzo particolare in cui tutti sono compartecipi del dolore. Non ci sono buoni e cattivi, vincitori e vinti. Il dolore è sottile e capillare. Però Kita sa che, anche se non si può guarire del tutto dal dolore, si può certo rialzare la testa e riprovare a risalire la china guardando la vita in modo diverso.
La Sicilia del 20/01/2009

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TU NON DICI PAROLE di Simona Lo Iacono http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/22/tu-non-dici-parole-di-simona-lo-iacono/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/22/tu-non-dici-parole-di-simona-lo-iacono/#comments Sun, 21 Jun 2009 23:40:12 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/21/tu-non-dici-parole-di-simona-lo-iacono/ premio-vittorini-20091Conobbi Simona Lo Iacono nel 2006 in una libreria, a Catania, nel corso della presentazione di un volume (io ero tra i relatori). In quell’occasione ebbi modo di accennare alla mia esperienza letteraria on line su Letteratitudine (che era appena nato). Finita la presentazione Simona mi si avvicinò e mi chiese l’indirizzo del blog, affermando di essere molto interessata da questa esperienza.
In verità non intervenne subito. Passarono mesi. Credo che il suo primo commento letteratitudiniano sia datato 26 settembre 2007. Vi riporto uno stralcio: “la letteratura è solo quella dei libri? Non è spesso aria, desiderio, pensiero non ancora incarnato? Non è anche eco di versi? E che differenza fa se questi versi prendono forma in musica o nella voce di un altro poeta? A volte la poesia rinasce dalla stessa poesia, e la narrazione da un suono. Tutto, nell’arte, può convivere con tutto, purchè le combinazioni non turbino l’armonia, la bellezza, l’etica del linguaggio“.
Tutto, nell’arte, può convivere con tutto. E – in effetti -, da quel giorno, l’arte di Simona cominciò a convivere anche con questo blog.
I suoi commenti si fecero sempre più frequenti… e interessanti.
Una delle prime cose che subito mi colpì fu la sua tendenza a miscelare in maniera mirabile diritto e letteratura… la sua esperienza di magistrato, con quella di scrittrice. Per tale ragione il primo post che le affidai fu questo dedicato al romanzo “In una lingua che non so più dire” di Tea Ranno (era il 19 novembre del 2007). Il protagonista di quella storia era un magistrato. Pensai: chi meglio di lei?
Il post ebbe grande successo. Nel frattempo continuò a scrivere commenti su commenti… dai quali venivan fuori la sua abilità di scrittrice frammista alla sua esperienza di giurista.
A un certo punto ebbi un’intuizione, determinata anche dalla lettura della bozza del suo primo romanzo “Delle parole e delle sue figliolerie” (rispetto al quale mi permisi di darle qualche consiglio… compreso quello di cambiare il titolo).
E capii…
Le dissi: “secondo me devi portare avanti una nuova poetica, capace di mettere insieme diritto e letteratura; parola e processo”. Fu per questo che le proposi di condurre, su questo blog, una rubrica intitolata Letteratura è diritto, letteratura è vita (era il 10 luglio del 2008).
(E le dissi che, secondo me, avrebbe dovuto cercare di approfondire questa “poetica” anche con i libri futuri).
Il 29 luglio del 2008 parlai di lei sulla pagina Cultura del quotidiano Il Mattino, all’interno di un articolo sulla letteratura siciliana (l’articolo fu poi ripubblicato su Carmilla on line)… dove la presentai come una scommessa.
Ecco. Credo che l’attribuzione del Premio Vittorini 2009 – sezione Opera prima – a “Tu non dici parole”, sancisca la vincita di questa scommessa.
Di seguito troverete il post originario… e tre video tratti dalla presentazione catanese di questo romanzo.
Il mio piccolo omaggio a una scrittrice che è cresciuta insieme a questo blog e che è destinata a raggiungere traguardi sempre più importanti.
Auguri, Simona!

Massimo Maugeri

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POST DEL 21 GENNAIO 2009

tu-non-dici-parole.JPGParliamo di un romanzo ambientato in Sicilia, a Bronte, nel 1638… ai tempi dell’Inquisizione.
Non tutti sanno che l’Inquisizione siciliana nacque sotto forma di… balzello. In effetti fu formalmente introdotta intorno al 1224 dall’imperatore Federico II, quando dispose che tutti gli eretici e gli Ebrei dovessero pagare una tassa a suffragio degli inquisitori di fede preposti al loro controllo.
Il 6 ottobre 1487 Ferdinando II il Cattolico creò il Tribunale dell’Inquisizione e fu inviato in Sicilia il primo inquisitore delegato, un certo Frate Agostino La Pena, la cui nomina fu approvata da Papa Innocenzo VIII.
Nel solo anno 1546 i quindici tribunali attivi condannarono 120 persone al rogo, 60 in effigie e 600 a penitenze minori. I reati per i quali si veniva processati erano l’eresia… ma anche la bestemmia, la stregoneria, l’adulterio, l’usura.
L’Inquisizione nell’isola venne abolita con decreto regio del 6 marzo 1782 (disposto da Ferdinando III di Sicilia).

Torniamo al romanzo.
Francisca Spitalieri è una innamorata delle parole. Ma non di parole qualsiasi… delle parole belle. Francisca “ruba” queste parole. Le ripete. Per certi versi le re-interpreta. Sono parole latine, per lo più. Parole liturgiche e dell’offertorio… sentite in convento.
Cos’è che colpisce Francisca? Forse la loro austerità… che le fa sembrare al di sopra delle parole ordinarie. O, ancor di più, la loro musicalità. Qualunque sia la ragione, Francisca ama queste parole, rimane estasiata dalla loro bellezza. E le ripete. Le ripete senza nemmeno conoscerne il significato.
Ora, questo suo amore per le parole viene considerato… strano. Anormale. E viene messa a giudizio.
Il romanzo si intitola “Tu non dici parole” (Perrone, 2008, € 15). L’autrice è Simona Lo Iacono.

Vi invito a discutere di questo libro interagendo con Simona.
E poi vi invito a riflettere (e a discutere) sul ruolo della parola. E sulla sua importanza.

Quante persone - tra cui scrittori e intellettuali - hanno pagato, stanno pagando, o pagheranno, sulla pelle… il peso delle loro parole?

Di seguito potrete leggere la recensione di Maria Rita Pennisi e la monografia di Maria Lucia Riccioli. Su “Lo schiaffo” c’è una recensione di Salvo Zappulla. Mentre sul blog “La poesia e lo spirito” trovate una mia minirecensione con intervista all’autrice.
Massimo Maugeri

“Tu non dici parole” di Simona Lo Iacono – Perrone, 2008 – euro 15
di Maria Rita Pennisi

Tu non dici parole, di Simona Lo Iacono, romanzo simbolico che adombra la scomparsa del femminino sacro. Anno 1638, la luna, ultima testimonianza della perduta divinità femminile, illumina il sonno delle Esposte della casa di Bronte. Non si tratta di una luna bella e lucente, ma di una luna fosca e tenebrosa, presaga di morte. Ormai nel mondo cristiano la luna non può più ammantare del suo splendore le donne, come accadeva nei boschi sacri dei Druidi, né il suono dei sistri dei riti misterici di Iside può accompagnarne i passi di danza. E’ sceso un luttuoso silenzio, che acuisce i sensi di queste donne sempre all’erta, che sembrano fondersi con la madre terra e divenire un tutt’uno con la vegetazione.
Donne che preferiscono tenersi nascoste, stare ai margini, fiutare nell’aria. Adesso non sono più considerate figlie della luna, ma figlie di Eva, la corrotta, la corruttrice. Guardate con sospetto nella società misogina del Seicento. Peccatrici e dannate, dette streghe da quegli uomini che avvertono ancora in loro un barlume di divinità. Il femminino sacro di cui essi hanno timore, un timore che spesso arriva al parossismo.
Nella notte del massacro delle esposte, perpetrato dal Pilosa e dai suoi compagnacci, solo Pititta, forse tra le poche figlie della luna rimaste, ha avvertito il pericolo. Lo ha fiutato nell’aria, lo ha letto nella faccia della luna prima che il massacro avvenisse, ma non si è salvata.
Mentre Francisca, unica su cento, è ancora in vita. Francisca che ha gridato miserere, miserere, miserere. L’hanno salvata queste “parole belle” che hanno turbato il Pilosa fin nel profondo e che per questo l’ha risparmiata.
Francisca ha capito che il mondo è diviso in due dalle parole. Esistono parole belle come le cose che non sono di questa terra per i ricchi e parole lorde, bastarde e fetenti dell’alito di chi ha lo stomaco vuoto. E capisce anche che sue per sempre devono essere le parole belle. Nel suo sé profondo Francisca percepisce la potenza delle parole, intuisce che le parole muovono il mondo, che le parole sono vita.
Un romanzo speculare, “Tu non dici parole”… scandito da due equinozi e due solstizi in cui si collocano i quindici giorni del Carnevale, che sovvertono l’ordine del mondo. Lo specchio capovolto della vita di Francisca. Francisca innocente, ma strega perché dice le parole belle, le parole rubate. Cento parole in tutto. Novantanove parole belle più la centesima, che le racchiude tutte nella rappresentazione del Cristo di fra’ Umile, a cui si possono rivolgere solo parole belle. Novantanove le esposte uccise. Una sola donna sopravvissuta, Francisca, salvata dalle parole belle.
Uno spaccato storico della Bronte del Seicento, dove imperversano povertà e superstizione. Dove le vite sono già segnate dalla luce o dalle tenebre.
E non c’è salvezza. La mascherata del Carnevale cercherà di portare giustizia sotto le spoglie della “rondine Tufania” improvvisatasi avvocato di Francisca, nel Tribunale della Santa Inquisizione. Riuscirà infine Tufania nel suo intento? Francisca, dal canto suo, conserverà per sé le parole belle, perché sa che la morte è muta, non dice parole. La morte quando arriva è silenzio.
Maria Rita Pennisi

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La monografia di Maria Lucia Riccioli

Sicilia, 1638.
Siccità e carestie, l’ignoranza e la sofferenza delle plebi schiavizzate da nobili e gabelloti corrotti, da un clero spesso teso a difendere i privilegi acquisiti più che a farsi strumento e voce di liberazione di poveri ed oppressi.
Questo lo sfondo del libro d’esordio di Simona Lo Iacono, raffinata e sapiente poetessa ed autrice di racconti brevi che qui si cimenta nella forma romanzo e supera brillantemente la prova, donandoci una storia dolente e bruciante d’umanità e sofferenza.

Protagonista, un’esposta. Suor Francisca Spitalieri.
Orfana e donna: questa la summa delle disgrazie per una donna del Seicento.
A questo si aggiungono i suoi misteriosi poteri, che rimangono inspiegati anche alla stessa Francisca. L’esposta è additata come strulusa e magara, fraintesa nel suo desiderio di bellezza. Francisca infatti è alla ricerca di parole belle, «che hanno parole sugli spiriti e sulla morte, sulla paura e sulla speranza» (p. 42), che sono capaci di lenire le sofferenze e le privazioni di orfana sottomessa, gli stenti e le angherie che è costretta a subire.
Parole belle sono quelle di chiesa, stralci di breviari, fogli scompagnati di messale, che ruba per tenerle con sé, quasi come fossero talismani contro il male, la sofferenza, la morte.

Opera visionaria e a tratti surreale, questo romanzo risente della lezione dei sudamericani, in primis di Gabriel García Márquez e di Isabel Allende, che trasfigurano il reale con incursioni nel mito, nel sogno, nell’incubo, grazie ad una fantasia sbrigliata e potente.
La Lo Iacono vi trasfonde l’esperienza e gli studi giuridici, oltre che l’amore e la pratica della letteratura, dato che questa è anche la storia di un processo, la riflessione poetica e sofferta del rapporto tra diritto e giustizia, il ripensamento sulle catene di codicilli che hanno mandato sul rogo decine d’innocenti per sospetti e accuse di stregoneria.

La metafora del furto di parole da parte di Francisca è un chiaro riferimento al lavoro dello scrittore, che è ladro di parole per eccellenza: le cerca nei libri, nelle storie che legge e in quelle che gli vengono raccontate, le pesca per strada, le orecchia nelle conversazioni, le stana in una continua ricerca di bellezza.
Ma in questa ricerca di purezza l’esposta si scontra con l’ingiustizia e farà a sue spese la conoscenza con quella che Cesare De Marchi ha chiamato in un recente romanzo la furia del mondo, così come lo scrittore, il poeta, si scontrano con l’indifferenza, l’opposizione, spesso con la persecuzione da parte di chi le sue parole non vuole ascoltarle o le fraintende o vuole piegarle ai suoi scopi.

Francisca «ha capito che esistono parole per i ricchi e parole per i poveri. Le une lette, scolpite, recitate e – soprattutto – belle, bellissime come cose che non sono di questa terra. Le altre lorde, bastarde e fetenti dell’alito di chi ha lo stomaco vuoto» (p. 18).

L’esposta è più attratta dal significante di queste parole – il loro suono, che le appare celestiale – che dal significato, che le rimane ignoto, misterioso perfino, estraneo sempre.

[…] le parole sono peggio del fiato. […] sono cose di poveri, le parole, di malaugurati come te e me, che non hanno pane, né letto, né vestine e, parlando, se le inventano (p. 15).

Meglio tacere? Non sempre è possibile. Ma per Francisca è meglio che le parole vengano pensate, lette oppure, meglio ancora, rubate.
Ed è così che si appropria di pezzi di breviario, di pagine che almeno fisicamente l’avvicinino a quelle parole belle che la escludono da un mondo per il quale Francisca Spitalieri non esiste.
Le parole belle sono un’ossessione:

«continuano a tormentarla, a deriderla, a volarle intorno come mosche invadenti e riottose. Francisca le ripete tamburellandole, ballandole nella testa e nei pensieri» (p. 19).

Pesano, le parole rubate, come un lascito, una necessità compulsiva, una responsabilità, un tesoro prezioso da nascondere ai profani.
Francisca addirittura le interroga, le parole. Come se fosse nelle parole il mistero di ciò che rappresentano, come se possederle volesse dire avere le chiavi che possano aprire, come poetava Montale, i mondi. Quando invece le parole possono dirci, a volte, nient’altro che ciò che non siamo, ciò che non vogliamo:

«ditemi parole belle, ditemi parole maliarde, il perché e il per come del nascere e del morire, o anche del sopravvivere» (p. 34).

La verità, invece, parla un linguaggio diverso, che va al di là delle parole, com’è nel romanzo della Lo Iacono, in cui la ricerca di Francisca sarà fraintesa, a partire dalle monache, fino al bandito Pilosa e agli inquisitori, e come l’esistenza stessa ci testimonia.

Oltre che oggetto del desiderio di Francisca, che le ricerca con foga angariosa (p. 14), le parole belle sono la chiave del romanzo. Rappresentano inoltre l’ossessione dello scrittore per la bellezza, per la sua cristallizzazione nella scrittura, che non le perda e le conservi intatte.

Nel suo percorso alla ricerca delle parole belle, Francisca comprende che esse rispondono ai bisogni delle persone – ricerca di consiglio, di conforto, di promesse, di conferme… non siamo tutti, in fondo, alla ricerca di parole?
Francisca «sussurra fraseggi che paiono cinguettii d’uccelli, o strisciare frusciante di bisce.
Una cosa sola sa, Francisca. Che qualunque cosa svelino le parole belle, lei piange con chi piange. E lei ride, con chi ride […]. Mie sono le vostre fatiche, miei i vostri sguardi, mia, solo mia la vostra parola.
Se ve la ridò, affrescata di cantici, ripulita da ogni bruttura, è per restituirvela.
Perché, nella sua bellezza, già vi apparteneva» (p. 53).

Francisca dunque scopre la parola come segno di comunicazione, di partecipazione emotiva profonda. Che poi è il livello a cui agisce lo scrittore, che si fa in un certo senso interprete delle attese di bellezza ed espressione non superficiale ma dalla risonanza intensa legate alla parola.

Anche il suo stesso nome, riconquistato dopo una faticosa ricerca della propria identità – prima esposta, poi monaca, poi… soltanto Francisca – è una parola che racchiude una storia, un autoriconoscimento, un destino.

«[…] le parole belle assottigliano l’udito, l’olfatto, la vista» (p. 108).
Dunque la parola è addirittura anticipatrice del futuro, veggente quindi, visionaria e diremmo profetica.
Come non pensare alla scrittura, al poeta veggente – Rimbaud – , alla letteratura, che oltre a riflettere il reale esteriore e interiore dell’artista presagisce e spesso anticipa ciò che verrà?
Diverse sono invece le parole dell’amore, che nascono da un bisogno, da una ricerca quasi febbrile dell’altro, da una malìa che strega corpo mente e spirito, oltre la volontà, la ragione, la paura: «pare una febbre malsana di deliri, un ansimare che quasi la tradisce, le fa sfuggire un lamento subito soffocato, un rigurgito di parole mai più pronunziate.
Risalgono le qualità del suo essere, sono alle sommità dello sguardo, del pensiero, della bocca. Le muovono lingua, palato, gola contro la sua volontà.
Non sono le parole belle.
Ma […] sente di non poter più tacere» (p. 54).

Per dire l’amore, non servono parole da rubare.

«Servono solo quelle con cui è nata» (p. 65).

A volte, non è necessario neanche usarle, le parole: quando si è felici, quando si gode del semplice stupore di essere vivi, «ogni istante è nudo, così pieno da sembrarle bello senza avere bisogno di essere detto» (p. 82).

Non è facile comprendere che «la bellezza di quelle parole esiste, ed è nella donna che le ha pronunciate. Non può sapere che la bellezza è nuda: senza maschera, senza copertura, senza travestimento» (p. 76).

Nel romanzo c’è chi non crede alle parole, come l’arcivescovo Angimbè, perché offeso e tradito dal silenzio: «finge di non voler credere alle parole e invece le teme, le cerca e le annusa come un maschio innamorato» (p. 77), c’è chi le parole le utilizza per vessare, ingannare, rovinare.

Tu non dici parole si pone dunque come una storia fatta di parole sulle parole.

L’autrice nutre anche lei un vero e proprio culto per le parole belle, risentendo della ricerca e dello sperimentalismo linguistico di una Silvana La Spina, di Vincenzo Consolo, dei siciliani insomma che hanno narrato scavando nell’essenza stessa della parola per cavarne fuori tutti i possibili sensi o magari quelli più riposti, o quelli che fanno risuonare corde intime e profonde.

La Lo Iacono si affida a una sintassi musicale, come se il testo fosse una nenia, un lamento, uno scongiuro, una formula di fattucchieria, o una delle litanie delle reverendissime monache.
Pensiamo alla parola “miserere”, che Francisca pronuncia per la sua bellezza, perché crede nel potere taumaturgico, sacrale, magico della parola, non perché ne comprenda il significato.
Spesso il ritmo è franto, spezzato com’è da una fitta serie di punti e di a capo che costringono il lettore a concentrare l’attenzione sul frammento, sulla parole, spesso sul suono di una singola sillaba.
Il filo della narrazione, spezzato in un capoverso, viene richiamato e ripreso al paragrafo successivo, conferendo alla pagina un andamento di pieni e vuoti. A volte la ripresa è affidata al capitolo successivo.
Grazie a questi espedienti tecnici, l’attenzione del lettore viene catturata e trascinata per le pagine del romanzo e il filo della narrazione rimane teso e avvincente.
La lingua della Lo Iacono è una lingua ricca, mossa, inventiva: l’autrice accosta audacemente parole latine e vocaboli inventati, dialetto autentico e una lingua propria, un idioletto che la caratterizza, per narrare una storia in cui le vere protagoniste sono le parole, con il loro segreto di senso concettuale ma sensuali, nel senso che portano con sé odori colori sapori sensazioni tattili suoni rumori: «ripetono voci straniere senza capirle mischiandole a parlate paesane fatte di scongiuri e fatture, improperi e preghiere» (p. 45).

Qualche riflessione sparsa sulla parola.
Che cosa significa “parola”?
Il termine deriva dal latino parabula. E qui ci sovvengono le parabole evangeliche, le quali non sono altro che exempla, verità che prendono la forma di apologo, di racconto con una sostanza sapienziale che due millenni non hanno scalfito. Densità, efficacia narrativa: ecco la forza delle parabole.
Nel latino basso, per intenderci non più il latino classico di Cesare e Cicerone, ma quello parlato e più recente che poi si sarebbe trasformato nei vari volgari, i quali si sono poi evoluti nelle lingue neolatine o romanze, il termine parabula è passato a designare la parola.
Ma il termine che più mi interessa è verbo. Il verbo, inteso come parte del discorso, è il motore di una frase: senza l’azione o lo stato espressi dal verbo, non c’è vita in un pensiero.
Il Verbo per eccellenza, secondo il vangelo di Giovanni, è la seconda persona della Trinità: il Cristo, che era in principio e grazie al quale tutte le cose sono state create.
Nulla esiste, tutto resta informe finché non viene nominato. Adamo nomina le cose e gli animali per divenirne il signore e custode. Dio stesso ci chiama per nome e Gesù assicura che i nostri nomi sono scritti nei cieli.
Per i musulmani il Corano è la stessa parola di Allah discesa sulla terra, per gli Ebrei il nome di Dio, impronunciabile perché sacro e terribile, poteva fluire dalle labbra del sommo sacerdote una sola volta all’anno, solennizzata secondo riti complessi e stabiliti.
Nomen omen, dicevano i latini, cioè il nome stesso conterrebbe il “destino” di un uomo e nell’antichità la maledizione, il male dicere, aveva valore ed effetto magico.
La parola quindi non ha solo valenza comunicativa, ma ad essa fin dall’antichità sono state associate virtù taumaturgiche e sacrali – pensiamo alle formule degli sciamani, alla forza della preghiera e delle formule rituali.
La parola ha valore anche giuridico: pensiamo ai giuramenti, alle sentenze, alle formule giuridiche dell’antico diritto romano, a tutto il problema delle norme e della loro interpretazione.
Esiste una disciplina il cui nome vuol dire “amore per la parola”: la filologia.
Il filologo è quello studioso che tenta di ricostruire la forma originaria di un testo, di congetturare sulle parti danneggiate o mancanti – pensiamo ai manoscritti antichi, spesso giunti fino a noi in condizioni di estrema precarietà e fragilità – ; questo preziosissimo lavoro, fatto anche di confronto con la tradizione orale, di collazione, cioè di operazioni di raffronto tra le varie versioni di uno stesso testo, consente di ottenere un testo più vicino a quella che è stata la volontà dell’autore e quindi di approssimarsi ad una possibile verità sul testo. Quantomeno permette di disporre di un testo su cui poi esercitare quello che è il compito del critico: l’esegesi e l’interpretazione della moltitudine di significati, di sollecitazioni, di valori di un testo.
Questa parentesi per cercare di intravedere la complessità di un discorso sulle parole e sul loro valore e significato profondi.
Oggi la parola è stata desacralizzata. Ne viene perpetrato un uso massiccio ma spesso un abuso evidente: parola usata per pubblicizzare, persuadere, conculcare, ingannare, calunniare, e non solo per «calmare la paura, togliere la pena, suscitare la gioia, accrescere la pietà», come scrive la Lo Iacono in epigrafe alla prima parte del romanzo citando Bufalino.
Quale argine a certi profluvi di parole che ci vengono dai mass media, da Internet, dai cellulari?
Riappropriarsi del valore della parola. Gustarla nel silenzio della riflessione. Della lettura.
Perché è il poeta, lo scrittore, che carica ogni parola di sensi e sovrasensi, che dal suo testo ci permette di indovinare contesti e sottotesti. Il poeta e lo scrittore lavorano sulla struttura, sul capitolo, sulla pagina, sul capoverso, sulla riga, sulla singola parola.
Perché nessuna sia fuori posto, perché permetta di esprimere mondi interiori, passioni e storia, individualità e coralità di destini.
Come accade nel romanzo di Simona Lo Iacono.

Maria Lucia Riccioli

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/06/22/tu-non-dici-parole-di-simona-lo-iacono/feed/ 301
ROLAND BARTHES E ETICA DI UN AMORE IMPURO, Alessandro Savona http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/20/roland-barthes-e-etica-di-un-amore-impuro-alessandro-savona/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/20/roland-barthes-e-etica-di-un-amore-impuro-alessandro-savona/#comments Sat, 20 Dec 2008 22:38:43 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/20/roland-barthes-e-etica-di-un-amore-impuro-alessandro-savona/ Roland Barthes (Cherbourg 1915 – Parigi 1980) è stato uno dei maggiori esponenti della nuova critica francese di orientamento strutturalista (approfondimenti qui e qui).
Ce ne parla Alessandro Savona nel suo articolo “L’altro Barthes”.
Savona, peraltro, è autore del romanzo “Etica di un amore impuro” (Perrone, 2008), libro che presenta connessioni con Barthes e che, di seguito, è recensito da Simona Lo Iacono e Maria Rita Pennisi.
Propongo un dibattito sulla figura di Barthes e su questo romanzo di Alessandro Savona.
Simona Lo Iacono, Maria Rita Pennisi e lo stesso Savona mi aiuteranno a coordinarlo e a moderarlo.

Partendo dal bellissimo – e ossimorico – titolo del libro di Alessandro Savona, ne approfitto per porvi una domanda: quand’è che, a vostro avviso, un amore può definirsi… impuro?

Infine vi lascio questa citazione: la letteratura non permette di camminare ma permette di respirare. (Roland Barthes: da Letteratura e significazione, in Saggi critici)

Massimo Maugeri

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L’altro Barthes
di Alessandro Savona

two.jpgDue dita sfiorano la tastiera del pianoforte verticale, probabilmente un Ibach degli anni ’20 oppure uno Stein, verniciato di nero. Le prime note del Traumerei di Schumann si liberano nell’aria, nitide, indecise. L’uomo è in piedi, con indosso il paletot e la musica che viene fuori dal suo indice incerto. Sull’eco di una nota spezzata l’uomo lascia la stanza, spegne la luce ed esce. Cammina ora verso St. Sulpice, percorrendo rue Servandoni.
Parigi di notte sembra trattenere ancora le emozioni di quel lontano maggio, seppure siano trascorsi più di dieci anni. Forse accostando l’orecchio ad un muro si possono sentire le urla di protesta degli universitari, il rumore delle selci lanciate con rabbia, i colpi dei manganelli delle CRS sui corpi in fermento: voci e suoni trattenuti nelle connessure dei conci, nelle crepe sfarinate degli intonaci. Forse si sentono i passi di uno di quei giovani, che corre affannato, sudato di paura, nudo di disistima in cerca di lui. Quel giovane tanto amato e perduto per sempre.
L’uomo si accende una sigaretta. Il suo appuntamento è di trent’anni più giovane, è un sudafricano, è lì che lo aspetta, seduto sul bordo di un marciapiede di un vicolo del Quartiere Latino. Il calore di quel corpo ha un prezzo, una tariffa stabilita che segna il confine tra il desiderio e l’amore.
 - Quale sarà per me lo spettacolo del mondo? – forse una domanda viene fuori a voce bassa dalle labbra dell’uomo. Forse.

La stessa domanda la ritroviamo nelle pagine di un diario che Roland Barthes scriverà tra il 24 agosto e il 17 settembre 1979. Pagine intime, cariche di dolore che in forma di testo e col titolo Incidents, saranno pubblicate dalle Editions du Seuil nel 1987, sette anni dopo la morte dell’autore. Il 25 febbraio 1980 Roland Barthes, uscendo dal College de France, è investito dal furgoncino di una lavanderia; a seguito di complicazioni polmonari morirà un mese dopo nell’ospedale Salpetrière. Aveva 65 anni.
Fu uno dei più importanti animatori dell’avventura strutturalista francese insieme a personaggi come Foucault, Lacan, Greimas, Althusser, Lévi-Strauss. Con il suo Elementi di semiologia, pubblicato nel 1964, Roland Barthes può essere considerato erede a tutti gli effetti di una delle due “anime” della semiotica: quella strutturale elaborata da Ferdinand de Saussure a cavallo tra Ottocento e Novecento. L’altra sarà quella interpretativa, che muove dal lavoro di Charles Sanders Peirce. Merito di Roland Barthes sarà di andare oltre gli studi di de Saurrure, considerando non già la linguistica come figlia della semiotica ma viceversa comprendere che si devono studiare i sistemi di significazione solo in virtù di una traduzione linguistica. Da qui, secondo Umberto Eco, la sua grande lezione: l’interessamento per qualsiasi evento capace di produrre significato.
- Il semiologo è colui che quando va in giro, – ripeteva Barthes – fiuta e scorge significazione dove gli altri vedono fatti ed eventi -.
Amato, ma anche odiato da quei detrattori che gli rimproveravano una mancanza di rigore e di scientificità nella costruzione della semiologia, Roland Barthes applicherà le sue riflessioni argute e raffinate con la stessa spontaneità di un osservatore curioso della vita e di ogni sua manifestazione, interessandosi di letteratura, moda, teatro, musica, fotografia e tanto altro. Scriverà libri preziosi come Il grado zero della scrittura (1953), Miti d’oggi (1957), Il sistema della moda (1967), S/Z (1970), Sade, Fourier, Loyola (1971), Il piacere del testo (1973), Frammenti di un discorso amoroso (1977), La camera chiara (1980).
E Incidents, il libro che svela un Roland Barthes intimo, dove trova collocazione?
Fra le innumerevoli accuse a suo discredito una probabilmente pesa più delle altre, perché svela la più profonda fragilità della vita di R. B.: la taciuta omosessualità.
- (…) Gli ho chiesto di avvicinarsi a me, sul letto. Lo ha fatto con gentilezza, si è seduto sul bordo, ha sfogliato un libro di fotografie, il suo corpo era lontano; se allungavo il braccio verso di lui, lui non si muoveva: nessun compiacimento. E’ subito andato in un’altra stanza. Sono stato assalito da una specie di disperazione, avevo voglia di piangere. Era evidente che dovessi rinunciare ai ragazzi, perché non ero desiderato. (…) L’ho invitato ad andarsene, dicendo che avevo da lavorare, sapendo che era finita, e che al di là di lui qualcosa era finita: l’amore di un ragazzo. – Incidents, Parigi 1987, pagg. 115-116.
Queste parole sembrerebbero la descrizione, oltre l’immagine, di un quadro di Lucian Freud, Two men (vedi immagine in alto, n.d.r.): la distanza muta, l’incomunicabilità, il tocco leggero di una carezza.
La chiave di tutto sta nell’interpretazione. Durante un’intervista sui preconcetti R. B. dirà – Non possiamo pensare noi stessi in termini di aggettivi, ma anche gli aggettivi che ci vengono applicati non possiamo mai autenticarli: ci lasciano muti – Questo perché interpretare significa capire, capire significa rimandare ad altro, porsi domande, fermarsi a riflettere, ricominciare di nuovo. Quando scrisse Frammenti di un discorso amoroso affermò che l’amore, nell’ambiente intellettuale, fosse fuori moda. Ma al di fuori di esso era un sentimento universale, indipendentemente dal sesso di chi ama. Il desiderio di amare è come dragare, cercare senza sosta l’oggetto delle nostre attenzioni e instaurare un rapporto che, lo si voglia o no, resterà sempre all’orizzonte, al margine di una comprensione totale. Quindi l’emarginazione, evidente nei toni disperati di Incidents, è la realtà della “solitudine” che accomuna ogni essere umano che, quando ama, si rende fragile, esposto, cerca conferme, esita, vacilla.
 A ben guardare tutta l’opera di Roland Barthes può essere scandagliata attraverso quest’altra ottica. Nei Frammenti non si parla mai di un uomo e di una donna, ma di esseri che si amano, indipendentemente dal loro sesso, si evidenzia il ruolo dell’oggetto amato e l’incisività del soggetto che ama, siano essi eterosessuali o omosessuali. Barthes combatteva le etichette, l’impuro che la borghesia aveva instillato nella vita quotidiana con un perbenismo che spacciava come naturale. Lo ha fatto per tutta la vita, attraverso le parole che ha detto o scritto. Da acuto osservatore con un’anima pacata, di un poeta dei segni, non alzava mai il tono della voce, non prevaricava, non imponeva, ma induceva a riflettere. Così, in letteratura come nella vita quotidiana, si interessava di tutto ciò che potesse rimandare a un modello narrativo universale, ma sempre a piccoli passi, osservando un cartellone pubblicitario, le basole della strada, il gesto di un bambino, una frase di Proust, gli occhi di un ragazzo. Tutto è narrazione, e la narrazione è anche attesa, sospensione, rimando, desiderio. Come nel libro di Renaud Camus, dapprima suo discepolo e poi scrittore di Tricks (1978), libro che parla di omosessualità e che Roland Barthes ha recensito senza esitazioni.
- (…) L’omosessualità sciocca meno, ma continua a interessare; è ancora in uno stadio di eccitazione in cui provoca ciò che potremmo chiamare prodezze del discorso. Parlare di essa permette a coloro “che non lo sono” (espressione già appuntata da Proust) di mostrarsi aperti, liberali, moderni; e a coloro “che lo sono”, di testimoniare, rivendicare, militare. Ognuno si impiega, in modi diversi, a gonfiare l’argomento. Pertanto, proclamarsi qualcosa, è un parlare sotto l’istanza di un altro vendicatore, entrare nei suoi discorsi, discutere con lui, domandargli un briciolo di identità: – Lei è?… – Si, lo sono… -. In fondo poco importa l’attributo: ciò che la società non tollererebbe è che io non sia niente, o, per essere più precisi, che il qualcosa che io sono, sia dato apertamente per passare, revocabile, insignificante, inessenziale, in una parola: impertinente. Dite soltanto sono e sarete socialmente salvi. Rifiutare l’ingiunzione sociale lo si può fare attraverso questa forma di silenzio, che consiste nel dire le cose con semplicità. (…)
Di questa semplicità, da sempre cercata, Roland Barthes è stato un assoluto assertore, un infaticabile sostenitore. Avrebbe voluto scrivere un libro di narrativa, ha inseguito il sogno per tutta la vita, gli ha dato perfino un titolo, Vita nova. Non potrà mai farlo, ma della letteratura, grande amica e amante di tutta una vita, ha scritto una frase esaustiva:
La letteratura è là per donare un supplemento di gioia, non di decenza.
Alessandro Savona

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Il ponte. Una recensione al libro di Alessandro Savona: “Etica di un amore impuro” (Perrone Editore, € 10,00).
di Simona Lo Iacono

Siamo ponti senza saperlo.
Annodiamo esistenze. Solitudini. Mani tese.
Siamo ponti quando sussurriamo in una notte come tante: non lasciarmi. Quando balocchiamo dal fumo di un desiderio. Quando – vivi o morti, dentro – ci ostiniamo a percorrere una strada sospesa nel vuoto.
Questo è un ponte: una speranza nella precarietà.
Un punto d’appoggio tra due rive. Un modo per allungare una mano, per trattenere qualcuno.
Non sempre ci riusciamo. Non sempre il ponte ci avvicina. A volte frappone un inciampo, un impensabile ostacolo: noi. La nostra stessa fragilità.
Tuttavia, accade.
E il ponte sfreccia tra due destini, o tra tre, o tra mille. Balza su stagioni. Miracolosamente restituisce un senso.
È una struttura, dicono alcuni. E forse lo direbbe anche Marco, aspirante architetto e protagonista di questa storia.
Ma Roland Barthes direbbe: no. Non è una struttura. È un segno.
E lo direbbe a ragione, perché anche lui è protagonista di questa storia. Anche lui è tra Marco e un libro.
E tra un libro e Olivier.
Olivier vi si imbatte per caso, in una Parigi che risuona della voce rauca di Edith Piaf. Che si snoda tra le vie del quartiere latino. Che si inerpica verso il cielo, maglia dopo maglia. Svettando dalla Tour Eiffel. Rimandando l’illusione a cui – almeno una volta, a Parigi – vogliamo credere: la vie en rose.
Ne porta addosso ancora il calore quando – dopo molti anni – incrocerà anche Marco. Quando, come Barthes, avrà finalmente appreso la lezione dei segni.
Ma nel 1982 è ancora presto.
In quegli anni Olivier ignora i codici misteriosi che trafiggono l’esistenza. Che sta a noi decifrare pur nel travolgente spettacolo del mondo. Oltre la coltre che lo spalanca ai nostri occhi.
Ignora che persino in ciò che sembra impuro si annida un senso.
È ancora presto.
Nel 1982 Barthes è appena morto, Marco è un embrione nel corpo di una donna che attraversa il ponte Alexandre e questa storia non esisteva ancora.
O forse no: le storie nascono da prima di quando riusciamo a comprenderle. Da prima di noi e dopo di noi.
Il vero ponte sono le storie.
Simona Lo Iacono

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“Etica di un amore impuro” di Alessandro Savona (Perrone Editore, € 10,00)
recensione di Maria Rita Pennisi

Prova di grande destrezza letteraria è questa seconda fatica di Alessandro Savona, “Etica di un amore impuro”, dopo “Corpi contro”. Storia di un’anima tormentata alla ricerca della redenzione.
Teatro di un amore disperato è una Parigi tutta interiore, le cui strade coincidono con i canali dell’anima e le larghe piazze con i profondi laghi del cuore. Quindi nulla di topografico, se non in apparenza, ma un getto d’inchiostro continuo, che si espande a macchia d’olio sui sentimenti fino agli anfratti più segreti di un’esistenza violata, che cerca una via d’uscita nell’amore e nel perdono. Atmosfere rarefatte che si snodano a Saint-Germain-des-Près e alimentano le vite sospese di Olivier e di Marco, protagonisti di due storie diverse, collegate da un misterioso biglietto. Olivier, appena arrivato a Parigi dalla tranquilla Provenza, si trova suo malgrado coinvolto in una guerriglia sessantottina. A salvarlo è un professore. Un uomo tranquillo che si nutre dei suoi studi e che sembra vivere ai margini della sua anima, forse per paura di se stesso. Olivier ne viene attratto, come la falena dalla luce e se ne innamora perdutamente. Il professore non si fa coinvolgere e mantiene la distanza da quell’amore disperato e inappagato. L’elemento perturbante si presenta nei panni del medico Jean Greimas, che soccorre Olivier in preda a un attacco epilettico, che sembra anticipare l’inferno che dilanierà la sua anima da lì a poco. Il medico, ben presto, svelerà il suo lato mefistofelico. Sarà lui a far precipitare Olivier in una voragine infernale. Olivier non riuscirà a confidare al professore l’abisso in cui è caduto, per la disperazione del suo muto rifiuto. Dal canto suo Marco, a distanza di anni da questi avvenimenti, vive in una Palermo marginale nella speranza che qualcosa possa cambiare.
Un destino ineluttabile lo porta a Parigi, per ripercorrere Saint-Germain-des- Près, tante volte percorsa da Olivier e dal professore. Un destino che ha origine tra le pagine di un libro di Roland Barthes, che contiene un segreto, che vuole venire alla luce.
Maria Rita Pennisi

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