LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » premio campiello http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 ANDREA TARABBIA VINCE IL PREMIO CAMPIELLO 2019 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/09/15/andrea-tarabbia-vince-il-premio-campiello-2019/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2019/09/15/andrea-tarabbia-vince-il-premio-campiello-2019/#comments Sun, 15 Sep 2019 09:00:09 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=8263 Andrea Tarabbia ha vinto l’edizione 2019 del Premio Campiello con il volume “Madrigale senza suono” (Bollati Boringhieri)

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Andrea Tarabbia si aggiudica la 57a edizione del Premio Campiello; il suo Madrigale senza suono” (Bollati Boringhieri) ha beneficiato di 73 voti (sui 277 pervenuti) della Giuria Popolare di Trecento Lettori Anonimi. In seconda posizione, Giulio Cavalli, con “Carnaio” (Fandango Libri), che ha beneficiato di 60 voti. Al terzo Paolo Colagrande con “La vita dispari” (Einaudi), 54 voti. In quarta posizione, con 52 voti, Laura Pariani con “Il gioco di Santa Oca” (La nave di Teseo). Al quinto posto, Francesco Pecoraro con ‘Lo stradone’ (Ponte alle Grazie), 38 voti.

La serata della finale del Premio Campiello 2019 è stata condotta da Andrea Delogu ed è stata trasmessa in diretta su Rai Cultura, sabato 14 settembre alle 21.00 su Rai5, dal Teatro La Fenice di Venezia.

Di seguito: lo speciale di Letteratitudine con un ampio intervento in esclusiva di Andrea Tarabbia dedicato al suo “Madrigale senza suono” (Bollati Boringhieri), libro vincitore del Premio Campiello 2019

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ANDREA TARABBIA racconta il suo romanzo MADRIGALE SENZA SUONO (Bollati Boringhieri)

Vincitore del Premio Campiello 2019

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di Andrea Tarabbia

Il 20 agosto del 1613, Carlo Gesualdo, principe di Venosa, ricevette, mentre si trovava nel suo castello arroccato sulla collina della cittadina irpina di Gesualdo, la notizia della morte del figlio primogenito: Emanuele era caduto da cavallo e lasciava il padre, che detestava, senza eredi maschi. Pare che, ricevuta la notizia, Gesualdo desse mandato ai suoi segretari di redigere il suo testamento e si chiudesse, per lasciarsi morire di inedia, nella stanza dove da sempre aveva composto la sua musica sbalorditiva. Morì l’8 settembre del 1613, lasciando un feudo, una seconda moglie, Leonora d’Este, che si liberava del peso di un matrimonio di convenienza, di una solitudine sempre più feroce e della lontananza forzata dalle sue terre, sei libri di madrigali a cinque voci che sono uno dei vertici sonori della sua epoca, dei responsorii, dei mottetti e dei canti sacri, e il dubbio che quel cattivo carattere, quell’oscurità che lo circondava, quell’ipocondria manifesta e paralizzante, ma anche il genio che lo aveva attraversato mentre componeva, fossero figli di una notte, quella tra il 16 e il 17 ottobre 1590 quando, ventiquattrenne, insieme ai suoi creati aveva barbaramente ucciso, nei suoi appartamenti di piazza San Domenico a Napoli, la prima, amatissima e splendida moglie, Maria d’Avalos, e il di lei amante, Fabrizio Carafa. Secondo il diritto dell’epoca, era piena facoltà del marito cornuto uccidere moglie e amante purché i due venissero colti di sorpresa (vale a dire: purché non ci fosse premeditazione), e l’assassinio fosse figlio di un impulso, di una rabbia feroce e improvvisa, figlia della sorpresa e del disincanto.

Da tempo, tutta Napoli sapeva che Maria e Fabrizio erano amanti, e qualcuno perfino mormorava che lei portasse in grembo un figlio di Carafa. Carlo, secondo certe fonti, dovette compiere quell’omicidio per salvare la continuità del casato, e lo fece suo malgrado. Secondo altre fonti, Carlo era un diavolo tenuto al guinzaglio dalla sensualità di Maria e, ora che Maria quella sensualità la donava a qualcun altro, la sua furia doveva trovare uno sfogo nell’omicidio. Nacquero leggende su Carlo che tuttora esistono e si tramandano. Quel che è certo è che, compiuto il delitto, Carlo fuggì verso Gesualdo, vi trasferì la sua corte di musici e, ma questo non è poi così certo, fece disboscare la collina sopra la quale si arrocca il suo castello in modo da tenere sotto controllo le pianure sottostanti: temeva la voglia di vendetta della famiglia Carafa.

Così, chiuso nel suo castello, Carlo comincia a comporre. È un autodidatta, conosce perfettamente la scuola napoletana, suona la spinetta, il liuto, l’arciliuto e ha una profonda voce di basso. Si sposerà in seconde nozze con una ferrarese perché Ferrara, in quegli anni, è una delle capitali musicali d’Europa. La sua musica non è nuova, ed è cupa e complessa perfino per le orecchie più allenate: riprende la tradizione madrigalistica della sua terra e la porta allo spasimo, esagerando in cromatismi, scarti dalla norma, arditezze. Porta la musica del suo tempo in un secolo nuovo: è manierista, ma prende dal tardo rinascimento le strutture e, infestandole di suoni, le fa già quasi barocche. Carlo è qualcuno che, più o meno consapevolmente, traghetta la musica del suo tempo da un’epoca all’altra.

È un omicida ed è, allo stesso tempo, un creatore di bellezza: questo è l’argomento.

E poi ci sono streghe, amanti, lupi, cardinali, Torquato Tasso e Giordano Bruno, un pittore con uno squarcio sul volto, figli che nascono e figli che muoiono, bestie immonde (forse diaboliche, sicuramente disperate), nani che raccontano, uccellini di vetro, autopsie su giovani dissolute, duchi, musici, tappeti su cui si muovono pianeti che sono note musicali, balli sensuali e zoccoli di cavalli, dispense papali, unguenti, balsami e poculi amatori, chiese da edificare, medici chimisti, stampatori veneti e stampatori napoletani, secchie piene di frattaglie, gesuiti, frustini e scatti d’ira, saette e notti di Pasqua, processi e incatenamenti, cantori e cantatrici.

Circa tre secoli e mezzo più tardi, un uomo piccolo, parimenti ipocondriaco ma non schivo, anzi, mondano e vanitoso, e considerato, quasi senza possibilità di contestazione, come il più grande genio musicale del Novecento, scopre la musica di Gesualdo e vi si riconosce. Sono i primi anni Cinquanta, Igor’ Stravinskij ha più di settant’anni, gira il mondo, compone, beve, fuma, conta i denari, non ama gli Stati Uniti, dove vive da quasi vent’anni, ma non sembra rimpiangere la Russia (l’Unione sovietica, poi, figuriamoci) e nemmeno la Francia o la Svizzera. Pensa spesso a Venezia – Venezia è una sua ossessione e una tappa fissa dei suoi settembri. È ricco, è celebrato, eppure trova un padre musicale in un uxoricida vissuto secoli prima: si domanda, pertanto, come sia possibile che un uomo così brutale e così dionisiaco e spontaneo (quanto di più lontano ci sia da lui, che è un calcolatore) gli parli attraverso i secoli tanto da spingerlo a ricomporre le linee del sextus e del basso di tre madrigali che gli sono giunti privi di alcune voci.

A Napoli, un uomo bizzarro e innamorato del fuoco, affetto da alopecia e accompagnato da un piccolo cane nero e zoppo a cui piace la pizza, lo sprona a comprare un libro – una vita di Carlo Gesualdo che si presume sia stata scritta da un suo servitore fedele, Gioachino Ardytti, ma che forse è un apocrifo, un falso e una presa in giro: Stravinskij la acquista, la legge e leggendola la commenta, la reimmagina, scopre di essere figlio di Gesualdo e comincia a pensare di mettere in musica la musica di Gesualdo, vestendola di Novecento, poiché egli la sente istintivamente “sua”, la vede contemporanea nonostante sia stata scritta trecentocinquant’anni prima. L’idea che lo prende lo porterà a eseguire, a Venezia nel settembre del 1960, quel Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD annum che è la ricomposizione, per strumenti, di tre madrigali gesualdiani.

E questo è l’altro argomento: la composizione come ricomposizione, la scrittura come rapporto con il passato, la creazione come traduzione.

E qui ci sono scimmie, foche, vulcani che eruttano, guerre mondiali, cagnetti zoppi e forse saggi, uomini-uccello, studiosi di musica rinascimentale, Aldous Huxley e Wystan Auden, Robert Craft, Vera Stravinskij, Charles-Ferdinad Ramuz e una certa Catherine, Dostoevskij seduto su un vecchio divano in una casa sul canale Krjukov, a Pietroburgo, la Biennale di Venezia, Londra e New York come impedimenti alla composizione, i colori che hanno le opere, armonie e disarmonie, soprani col singhiozzo, traduttrici italo-americane e infermiere odessite, contralti e mezzosoprani che imparano a cantare facendo «AWWWWWSSSSSH» e «AWWWWWARK».
Questo è, per sommi capi, ciò di cui Madrigale senza suono parla.

Madrigale contiene due lettere (una lunga), una cronaca che è il protocollo di venti giorni e quarantasette anni, e che si specchia in commenti che compongono quasi un diario.
Ci sono parti gotiche e parti buffe, e c’è il mio consueto, piccolo bestiario. C’è la storia, la biografia documentata, ma impastata di leggende e dicerie popolari, e a volte questi due aspetti diventano uno.
Soprattutto, è un romanzo fatto per voci, perché chiude un percorso: quello iniziato nel 2011 con Il demone a Beslan e proseguito quattro anni più tardi con Il giardino delle mosche; là, nel Demone, c’era una voce monologante contraddetta da altre; nel Giardino, la lunga confessione di Čikatilo era nel finale ripresa e ribaltata da un altro io narrante; in Madrigale, le voci sono tante (dopotutto, un madrigale può avere cinque, sei, perfino sette voci): la principale è forse inattendibile e falsa, le altre si intrecciano su di lei, la seguono, la commentano, la confutano – ne fanno insomma il contrappunto.
Porta per sottotitolo Morte di Carlo Gesualdo, principe di Venosa perché il Giardino era una possibile Vita di Andrej Čikatilo. Ci deve essere continuità tra i libri di un autore: benché siano opere indipendenti l’una dall’altra, diverse per voce e ambiente ma non per ambizione, fanno parte di un’opera più grande, di cui sono capitoli. Insomma: i libri sono tanti, l’opera è una.

Finisco dicendo che non so bene dire perché io mi sia innamorato di Carlo Gesualdo: di sicuro, mi sono avvicinato a lui perché attratto, prima che dalla musica, dalla sua vita, ma poi è successo qualcos’altro. Senza dubbio non avrei scritto il libro se non avessi incrociato, studiando il principe, Igor’ Stravinskij: l’80% di Madrigale parla di Gesualdo, ma è Stravinskij la chiave grazie alla quale sono entrato nel romanzo: Stravinskij è il Novecento, secolo di elezione, ma soprattutto è qualcuno che mi ha permesso di non fare un romanzo del tutto storico. Senza di lui, avrei avuto a disposizione semplicemente una grande storia secentesca; con lui, ho potuto creare una relazione a distanza, un gioco di rimandi tra due secoli e due anime, per così dire. È in questa relazione, in questo strambo rapporto padre-figlio che sta il senso di Madrigale senza suono e la ragione per cui è stato scritto.

(Riproduzione riservata)

© Andrea Tarabbia

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La scheda del libro

La musica più pura, il più efferato dei delitti, in un gioco di specchi potente e sottilissimo.

Un uomo solo, tormentato, compie un efferato omicidio perché obbligato dalle convenzioni del suo tempo. Da lì scaturisce, inarginabile, il suo genio artistico. Gesualdo da Venosa, il celebre principe madrigalista vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento, è il centro attorno a cui ruota il congegno ipnotico di questo romanzo gotico e sensuale. Come può, è la domanda scandalosa sottesa, il male dare vita a tale e tanta purezza sopra uno spartito? Per vendicare l’onore e il tradimento, il principe di Venosa uccide Maria D’Avalos, dopo averla sposata con qualche pettegolezzo e al tempo stesso con clamore. Fin qui la Storia. Il resto è la nostalgia che ne deriva, la solitudine del principe: è lì, nel sangue e nel tormento, che Andrea Tarabbia intinge il suo pennino e trascina il lettore in un labirinto. Questa storia − è ciò che il lettore scopre sbalordito − ci parla dritti in faccia, scollina i secoli e arriva fino al nostro oggi, si spinge fino a lambire i confini noti eppure sempre imprendibili tra delitto e genio. Con un gioco colto e irresistibile, tra manoscritti ritrovati e chioe di Igor Stravinskij − che nel Novecento riscoprì e rilanciò il genio di Gesualdo − Andrea Tarabbia, scrittore tra i migliori della sua generazione, costruisce un romanzo importante, destinato a restare. L’edificio che attraverso “Madrigale senza suono” Tarabbia innalza è una cattedrale gotica da cui scaturisce la potenza misteriosa della musica. È impossibile, per il lettore, non spingere il portale. E, una volta entrato, non restarne intrappolato.

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Andrea Tarabbia è nato a Saronno nel 1978. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi La calligrafia come arte della guerra (2010), Il demone a Beslan (2011), Il giardino delle mosche (2015; Premio Selezione Campiello 2016 e Premio Manzoni Romanzo Storico 2016) e il saggio narrativo Il peso del legno (2018). Nel 2012 ha curato e tradotto Diavoleide di Michail Bulgakov. Madrigale senza suono è il suo primo romanzo per Bollati Boringhieri. Vive a Bologna.

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ROSELLA POSTORINO vince il PREMIO CAMPIELLO 2018 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/09/16/rosella-postorino-vince-il-premio-campiello-2018/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2018/09/16/rosella-postorino-vince-il-premio-campiello-2018/#comments Sun, 16 Sep 2018 07:01:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=7930 ROSELLA POSTORINO con il romanzo “Le assaggiatrici” (Feltrinelli), è la vincitrice della 56ª edizione del PREMIO CAMPIELLO

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L’edizione 2018 del Premio Campiello è stata vinta con ampio margine da Rosella Postorino, autrice di “Le assaggiatrici” (Feltrinelli): 167 voti sui 278 pervenuti dai 300 componenti della giuria popolare. Il video della premiazione è disponibile cliccando qui.

In seconda posizione, 42 voti, Francesco Targhetta con “Le vite potenziali” (Mondadori). Terza classificata, 29 voti, Helena Janeczek autrice di “La ragazza con la Leica” (Guanda) con cui ha vinto l’edizione 2018 del Premio Strega. In quarta posizione, con 25 voti, Ermanno Cavazzoni autore di “La galassia dei dementi” (La nave di Teseo). Al quinto posto, con 15 voti, Davide Orecchio autore di “Mio padre la rivoluzione” (Minimum Fax).

Di seguito la puntata radiofonica di Letteratitudine dedicata a “Le assaggiatrici” (Feltrinelli), con l’ampio intervento di Rosella Postorino in conversazione con Massimo Maugeri.

In streaming e in podcast su RADIO POLIS

trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e postproduzione: Federico Marin

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PER ASCOLTARE LA PUNTATA CLICCA SUL PULSANTE “AUDIO MP3″ (in basso), O CLICCA QUI

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Con Rosella Postorino abbiamo discusso del suo nuovo romanzo intitolato “Le assaggiatrici” (Feltrinelli).

Rosella Postorino, ispirandosi alla storia vera di Margot Wölk (assaggiatrice di Hitler nella caserma di Krausendorf), ha raccontato la vicenda eccezionale di una donna in trappola, fragile di fronte alla violenza della Storia, forte dei desideri della giovinezza. Di seguito, la scheda sul libro e la biografia letteraria dell’autrice.

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Rosella Postorino“Le assaggiatrici” (Feltrinelli).

“Il mio corpo aveva assorbito il cibo del Führer, il cibo del Führer mi circolava nel sangue. Hitler era salvo. Io avevo di nuovo fame.” Fino a dove è lecito spingersi per sopravvivere? A cosa affidarsi, a chi, se il boccone che ti nutre potrebbe ucciderti, se colui che ha deciso di sacrificarti ti sta nello stesso tempo salvando?
La prima volta che entra nella stanza in cui consumerà i prossimi pasti, Rosa Sauer è affamata. “Da anni avevamo fame e paura,” dice. Con lei ci sono altre nove donne di Gross-Partsch, un villaggio vicino alla Tana del Lupo, il quartier generale di Hitler nascosto nella foresta. È l’autunno del ’43, Rosa è appena arrivata da Berlino per sfuggire ai bombardamenti ed è ospite dei suoceri mentre Gregor, suo marito, combatte sul fronte russo. Quando le SS ordinano: “Mangiate”, davanti al piatto traboccante è la fame ad avere la meglio; subito dopo, però, prevale la paura: le assaggiatrici devono restare un’ora sotto osservazione, affinché le guardie si accertino che il cibo da servire al Führer non sia avvelenato.
Nell’ambiente chiuso della mensa forzata, fra le giovani donne s’intrecciano alleanze, amicizie e rivalità sotterranee. Per le altre Rosa è la straniera: le è difficile ottenere benevolenza, eppure si sorprende a cercarla. Specialmente con Elfriede, la ragazza che si mostra più ostile, la più carismatica. Poi, nella primavera del ’44, in caserma arriva il tenente Ziegler e instaura un clima di terrore. Mentre su tutti – come una sorta di divinità che non compare mai – incombe il Führer, fra Ziegler e Rosa si crea un legame inaudito.
Rosella Postorino non teme di addentrarsi nell’ambiguità delle pulsioni e delle relazioni umane, per chiedersi che cosa significhi essere, e rimanere, umani. Ispirandosi alla storia vera di Margot Wölk (assaggiatrice di Hitler nella caserma di Krausendorf), racconta la vicenda eccezionale di una donna in trappola, fragile di fronte alla violenza della Storia, forte dei desideri della giovinezza. Come lei, i lettori si trovano in bilico sul crinale della collusione con il Male, della colpa accidentale, protratta per l’istinto – spesso antieroico – di sopravvivere. Di sentirsi, nonostante tutto, ancora vivi.

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Rosella Postorino Rosella Postorino (Reggio Calabria, 1978) è cresciuta in provincia di Imperia, vive e lavora a Roma. Ha esordito con il racconto In una capsula, incluso nell’antologia Ragazze che dovresti conoscere (Einaudi Stile Libero, 2004). Ha pubblicato i romanzi La stanza di sopra (Neri Pozza, 2007; Premio Rapallo Carige Opera Prima), L’estate che perdemmo Dio (Einaudi Stile Libero, 2009; Premio Benedetto Croce e Premio speciale della giuria Cesare De Lollis) e Il corpo docile (Einaudi Stile Libero, 2013; Premio Penne), la pièce teatrale Tu (non) sei il tuo lavoro (in Working for Paradise, Bompiani, 2009), Il mare in salita (Laterza, 2011) e Le assaggiatrici (Feltrinelli, 2018). È fra gli autori di Undici per la Liguria (Einaudi, 2015).

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trasmissione curata e condotta da: Massimo Maugeri

regia e post produzione: Federico Marin

PER ASCOLTARE LA PUNTATA CLICCA SUL PULSANTE “AUDIO MP3″ (in basso), O CLICCA QUI


La colonna sonora della puntata: “Moonlight Serenade” di Glenn Miller; “Lili Marleen” di Marlene Dietrich; Wiener Sängerknaben – Fuchs; “In The Mood” di Glenn Miller.


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MARCO BALZANO vincitore del PREMIO CAMPIELLO 2015 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/14/marco-balzano-vincitore-del-premio-campiello-2015/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/14/marco-balzano-vincitore-del-premio-campiello-2015/#comments Mon, 14 Sep 2015 15:00:03 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6889

È stato MARCO BALZANO, con il romanzo “L’ultimo arrivato” (Sellerio), a vincere la 53^ edizione del Premio Campiello, ottenendo le maggiori preferenze dalla Giuria dei Trecento Lettori anonimi e superando gli altri quattro concorrenti: Paolo Colagrande con “Senti le rane” (Nottetempo), Vittorio Giacopini con “La Mappa” (Il Saggiatore), Carmen Pellegrino con “Cade la terra” (Giunti) e Antonio Scurati con “Il tempo migliore della nostra vita” (Bompiani).
Di seguito proponiamo:
- un video tratto dalla serata della premiazione, svoltasi il 12 settembre 2015 al Teatro “La Fenice” di Venezia e condotta da Geppi Cucciari e Neri Marcorè
- il contributo che Marco Balzano ha scritto appositamente per Letteratitudine, dove “racconta” il suo romanzo (vincitore, appunto, del Premio Campiello 2015).

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MARCO BALZANO racconta il suo romanzo L’ULTIMO ARRIVATO (Sellerio) – vincitore del PREMIO CAMPIELLO 2015. Le prime pagine del libro sono disponibili qui

La storia di un bambino e di un viaggio, le avventure e le disavventure di un piccolo emigrante con la testa piena di parole. «Balzano mostra come la letteratura sappia, e possa, parlare del mondo che ci circonda» (Marco Belpoliti, l’Espresso).

di Marco Balzano

C’è un paese che confina con quello dove abito io e questo paese si chiama Baranzate. È una piccola città alle porte di Milano. Una volta, dopo i tagli della riforma Gelmini, ci sono pure finito a fare qualche giorno di supplenza. In classe c’erano due italiani e una ventina di stranieri. Un odore denso aleggiava tra i banchi, come se fossimo a un mercato indiano. Non che io sia stato mai da quelle parti, ma il mio olfatto lo immagina così, con l’aroma troppo umano di quella prima media di Baranzate. E poi ci sono passato per nove mesi, per i controlli di routine che Anna doveva fare in gravidanza. Nei reparti dell’ospedale Sacco i cartelli hanno sempre la scritta in arabo, cinese e spagnolo. Altro che l’internazionalità dell’inglese. Poi, poco più avanti, c’è il campo nomadi, da cui venivano tre o quattro dei ragazzetti che avevo in classe.
Da alcuni studi risulta che Baranzate sia il terzo comune d’Europa per immigrazione. Un’immigrazione che, per altro, si addensa in una sola parte della città, e principalmente nella famosa via Gorizia. In quella via ci ha vissuto anche mia madre, emigrata a 14 anni con zio Nicola, suo fratello maggiore. Due terroni, che in quella via avranno ritrovato compaesani o almeno corregionali. Gente che si piazzava lì, giusto il tempo di avviarsi una vita dall’altra parte dello stivale. Poi, una volta che la vita si era avviata, se ne andava e non ci tornava più. Anche chi ci abita oggi fa così. Anche loro riconoscono chiaramente un posto arrangiato e non hanno intenzione di farselo andare bene per troppo tempo. Via Gorizia è da sempre la via degli ultimi arrivati. Con i palazzoni affacciati sulla strada e le fabbriche intorno che da qualche anno, se non hanno già chiuso, faticano molto più di ieri o hanno lasciato il posto ad altro. Adesso lì dentro non ci trovi più i terroni ma cinesi, arabi, peruviani, nordafricani. Ecco, se dovessi dire da dove nasce l’idea primordiale del romanzo, risponderei che comincia dalla contemplazione di via Gorizia. Dalla metaforicità di questo luogo, che trova molti analoghi alle porte delle città del triangolo industriale.
Poi qualcuno, non mi ricordo chi, mi ha raccontato che negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta ci arrivavano anche bambini, che scappavano dalla fame e da un futuro che non poteva riservare nessuna sorpresa o speranza di miglioramento. Dunque mia madre lì dentro non si sarà potuta sentire nemmeno la più piccola. La notizia mi ha colpito e in fretta mi sono messo a studiare l’argomento. Ho letto saggi sociologici, anche molto datati ma che mi restituivano la percezione di allora: alcuni aneddotici, altri statistici, altri ancora di interviste. La conclusione era chiara, dell’emigrazione infantile non se n’è parlato molto. E se n’è raccontato ancora meno. Poi ho intervistato questi bambini emigranti, oggi più o meno settantenni. Un signore mi rimandava a un altro. Un ex compagno di fabbrica, di partito, un vicino di casa, un parente… Mentre facevo le interviste la storia non mi era ancora chiara, ma avevo capito che volevo scrivere sia del bambino che dell’adulto, uno solo non mi bastava. Sarebbe stato celebrativo il bambino, riduttivo l’anziano. E così nella storia si sente prima la voce del “picciriddu”, un Ninetto pelleossa di dieci anni che fa fagotto e se ne va da San Cono col cuore stretto, e un Ninetto pelleossa sessantenne che scorrazza per Milano in bicicletta cercando di rifarsi una vita. Lasciare la palla al bambino è stato divertente: la sua voce ha spazzato via tutte le paure di scivolare nella retorica. I bambini trovano il tutto nel nulla, gli adulti il nulla nel tutto, dice Leopardi. Ed è verissimo. Potevo farlo parlare come volevo, farlo saltellare di qua e di là come un passero. I suoi occhi potevano descrivere in presa diretta l’esplorazione, la sua mente doveva essere impegnata a vivere e non a pensare di vivere. Così lo spettro di finire nel sociologico e nel resoconto si è allontanato. Altrimenti avrei buttato tutto. Sì perché io volevo raccontare una storia, una vita: certo, realistica, ma il realismo deve complicare il reale, non riferirlo. E infatti Ninetto è prima di tutto un uomo, con la sua unicità: ha un gusto tutto suo per la parola, ha sogni ricorrenti strampalati, una concezione di Dio che glielo fa immaginare come una mano grande e invisibile che lo sostiene e non lo fa cadere. Anche se poi cadrà. Lo vediamo sul treno del sole – così si chiamava il convoglio che portava al Nord gli emigranti in quegli anni – che cerca di fare amicizia, poi a Milano dove lavora come galoppino di una lavanderia e matura giorno dopo giorno una progressiva insofferenza per il paesano Giuvà, il contadino con cui emigra perché la sua famiglia non può partire insieme a lui. Gliene combina di tutti i colori, a Giuvà (sì, certo, il nome è un omaggio a Fontamara di Silone, il romanzo dei poveri cristi): gli mozzica il pollicione del piede mentre dorme, gli ride dietro, lo sfotte davanti a tutti e poi lo abbandona scappando su un tram. Finalmente libero. E finalmente solo. Dopo arriva la vita in locanda con una squadra di muratori abruzzesi e poi la vita in una baracca di legno con altri muratori, calabresi questa volta. Qui conoscerà Maddalena, che sposerà con la fuitina. Insomma è tutta un’avventura: fino a quando compie quindici anni. Allora, come praticamente tutti gli emigranti con quella storia, entra in fabbrica. A scandire il tempo, da quel giorno, ci pensa la catena di montaggio, che espelle la varietà del mondo in nome della stabilità economica e della fine della fame. Nemmeno sposarsi con Maddalena – allegra, gioviale, capace di metterlo in riga – scaccia una malinconia che si infiltra sempre più dentro. La vivacità della vita in strada è un ricordo che rotola indietro e anche se Maddalena è un’ottima cuoca e vorrebbe aprire una trattoria sul mare la routine della fabbrica soffoca tutto, anche i sogni. Restano le paure più profonde e un’esistenza che sembra scorrere a prescindere.
L'ultimo arrivatoTutto questo ricorda Ninetto quando se ne sta con le mani dietro la nuca, sdraiato sulla branda del carcere di Opera. Non sa dire invece perché ha usato il coltello che l’ha portato in cella per dieci anni. Ora non è più il 1960, siamo nel 2007, e tra poco sarà libero. Potrà ritornare da Maddalena, che l’ha odiato ma l’ha aspettato. A casa lui e lei vorrebbero dirsi tante cose ma dopo dieci anni non è facile: così lui fuma alla finestra e lei cucina o guarda la televisione. La complicità tra marito e moglie fa capolino solo qualche giorno, quando ci si sfiora per sbaglio una mano o un lembo di vestito. Niente è più uguale, nemmeno Milano, che pure Ninetto gira in bicicletta col naso in aria, fermandosi a fumare sulle panchine del parco Sempione. La crisi si vede: sono spuntati i grattacieli dell’Expo, il bar sotto casa se lo sono comprati i cinesi, gente che non sa nemmeno preparare un caffè decente. Lui ai nuovi immigrati non riconosce quasi niente, non la fatica, non i traumi che sono stati suoi. Ci gira alla larga. Eppure a furia di pedalare finisce col parlarci, addirittura due marocchini gli offrono il lavoro di consegna-pizze mentre tutti gli altri gli chiedono di compilare su internet il curriculum europeo. E rieccolo ancora galoppino, ancora in giro per Milano. Come se il tempo fosse un eterno ritorno.
In tutto questo vuoto si fa strada un desiderio che già in carcere, nello squallore della cella, Ninetto avvertiva: raccontare la sua storia a chi può custodirla. Questo scrigno innocente è la nipotina mai vista. Si chiama Lisa, figlia della sua unica figlia, che ha deciso di non fargliela conoscere per dimostrargli il disprezzo per ciò che ha fatto. Ninetto da quando è nata la immagina: fantastica di portarla in giro, prenderle la mano, proteggerla dal mondo, che è sempre prudente affrontare con un coltello in tasca. La sua storia è l’unica cosa che gli è rimasta, tutto il resto si è perso per strada. Ad essere capace di scrivere l’avrebbe lasciata sul diario che gli aveva regalato il suo idolo, il maestro Vincenzo della scuola di via dei Ginepri, a San Cono, che gli faceva imparare i versi di Pascoli a memoria e gli aveva messo voglia di diventare poeta o maestro elementare anche lui. Però quella pagina è rimasta sempre bianca, la mano si irrigidiva ogni volta che impugnava la penna. Invece, quando vedrà la bambina che gioca con nonna Maddalena, e quando la strapperà da lei per qualche ora portandola in via Gorizia, in una sorta di viaggio agli inferi in cui lui veste i panni di un poco saggio Virgilio, Ninetto sentirà di non meritare perdono, ma di aver riscattato almeno parzialmente la paura di vivere senza lasciare traccia.

(Riproduzione riservata)

© Marco Balzano

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Marco Balzano è nato a Milano nel 1978, dove vive e lavora come insegnante di liceo. Ha esordito nel 2007 con la raccolta di poesie Particolari in controsenso (Lieto Colle, Premio Gozzano). Nel 2008 è uscito il saggio I confini del sole. Leopardi e il Nuovo Mondo (Marsilio, Premio Centro Nazionale di Studi Leopardiani). Il suo primo romanzo è Il figlio del figlio (Avagliano 2010, finalista Premio Dessì 2010, menzione speciale della giuria Premio Brancati-Zafferana 2011, Premio Corrado Alvaro Opera prima 2012), tradotto in Germania presso l’editore Kunstmann. Con Sellerio ha pubblicato Pronti a tutte le partenze (2013) e L’ultimo arrivato (2014, Premio Campiello 2015).

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SPECIALE PREMIO CAMPIELLO 2015 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/11/speciale-premio-campiello-2015/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2015/09/11/speciale-premio-campiello-2015/#comments Fri, 11 Sep 2015 14:44:42 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=6879 SPECIALE PREMIO CAMPIELLO 2015

Sabato 12 settembre verrà decretato il vincitore della 53^ edizione del prestigioso premio letterario tra i seguenti cinque finalisti: Marco Balzano, Paolo Colagrande, Vittorio Giacopini, Carmen Pellegrino, Antonio Scurati. Sul post, i contributi speciali di Letteratitudine

Concorrono per la vittoria finale della 53^ edizione del Premio Campiello Marco Balzano con L’ultimo arrivato (Sellerio), Paolo Colagrande con Senti le rane (Nottetempo), Vittorio Giacopini con La Mappa (Il Saggiatore), Carmen Pellegrino con Cade la terra (Giunti) e Antonio Scurati con Il tempo migliore della nostra vita (Bompiani).

I CONTENUTI SPECIALI DI LETTERATITUDINE

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L'ultimo arrivato

Marco Balzano - L’ultimo arrivato (Sellerio)

Negli anni Cinquanta a spostarsi dal Meridione al Nord in cerca di lavoro non erano solo uomini e donne pronti all’esperienza e alla vita, ma anche bambini a volte più piccoli di dieci anni che mai si erano allontanati da casa. Il fenomeno dell’emigrazione infantile coinvolge migliaia di ragazzini che dicevano addio ai genitori, ai fratelli, e si trasferivano spesso per sempre nelle lontane metropoli. Questo romanzo è la storia di uno di loro, di un piccolo emigrante, Ninetto detto pelleossa, che abbandona la Sicilia e si reca a Milano. Come racconta lui stesso, “non è che un picciriddu piglia e parte in quattro e quattr’otto. Prima mi hanno fatto venire a schifo tutte cose, ho collezionato litigate, digiuni, giornate di nervi impizzati, e solo dopo me ne sono andato via. Era la fine del ‘59, avevo nove anni e uno a quell’età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e niente affatto quello dei balocchi”. Ninetto parte e fugge, lascia dietro di sé una madre ridotta al silenzio e un padre che preferisce saperlo lontano ma con almeno un cenno di futuro. Quando arriva a destinazione, davanti agli occhi di un bambino che non capisce più se è “picciriddu” o adulto si spalanca il nuovo mondo, la scoperta della vita e di sé. Ad aiutarlo c’è poco o nulla, forse solo la memoria di lezioni scolastiche di qualche anno di Elementari. Ninetto si getta in quella città sconosciuta con foga, cammina senza fermarsi, cerca, chiede, ottiene un lavoro. E tutto gli accade come per la prima volta…

LEGGI su LetteratitudineNews l’autoracconto di MARCO BALZANO (dedicato a “L’ultimo arrivato” – Sellerio)

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Senti le ranePaolo Colagrande - Senti le rane (Nottetempo)

Al tavolino di un bar, Gerasim racconta a Sogliani la storia di un terzo amico seduto poco più in là, ed è una storia molto avventurosa. Ebreo convertito al cattolicesimo per chiamata divina, Zuckermann prende i voti e diventa “il prete bello” di Zobolo Santaurelio Riviera, località balneare di “fascia bassa”: agli occhi dei fedeli passa per un santo, illuminato, alacre e innocente. Ma un pomeriggio di fine estate, mentre intorno al suo nome diventano sempre più insistenti le voci di miracoli, a Zuckermann si offre la visione della Romana, la figlia diciassettenne di due devoti parrocchiani. Da lì in poi, fra pallidi tentativi di espiazione, passioni e gelosie, cui fanno da contrappunto le vaneggianti digressioni di Gerasim e Sogliani, dall’Uomo vitruviano agli etologi fiamminghi, dagli asceti di Costantinopoli all’Ikea, da Rossella O’Hara all’olio di nespolo babilonese, lentamente si consuma una tragedia sentimentale che travolge l’intera comunità e trova il suo epilogo in riva a un fosso…

LEGGI su LetteratitudineNews l’autoracconto di PAOLO COLAGRANDE (dedicato a “Senti le rane” – Nottetempo)

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La mappaVittorio Giacopini - La mappa (Il Saggiatore)

Monti, laghi, colline, forre, fortilizi e contrafforti, borghi, strade, slarghi: vedere tutto, come se si fosse per aria, e tutto rappresentare in una mappa, con dettagli minuti, badando a distanze, rilievi, proporzioni: squadrare il mondo, illuminarlo, dargli ordine. E questo l’obiettivo di Serge Victor, ingegnere-cartografo al seguito di Napoleone durante la Campagna d’Italia. Figlio esemplare dei Lumi, nemico di fole balzane e superstizioni, adepto dell’”Encyciopédie” di Diderot e d’Alembert – alle cui parole si aggrappa con una devozione non lontana dal fideismo che la Rivoluzione si era incaricata di smantellare -, Serge Victor riceve l’ordine dal Generale in persona di riprodurre i corsi e i ricorsi della Campagna, di fermare su carta e nel tempo i nuovi confini d’Italia, che il demiurgo Napoleone, N., l’Imperatore, va ridisegnando e riplasmando, sempre più a suo piacimento. Così, mentre il còrso conquista la penisola e, non pago, invade l’Egitto, Serge lavora alla sua magnum opus, in compagnia di uno scalcinato poeta tutto sdegno e fervore e dell’ammaliatrice Zoraide, la sua Maga, che della ragione rappresenta il doppio, il sonno, e prefigura l’assedio portato ai Lumi dalle sotterranee pulsioni che, nella Storia come nell’animo dell’uomo, non conoscono sopore.

LEGGI su LetteratitudineNews l’autoracconto di VITTORIO GIACOPINI (dedicato a “La mappa” – Il Saggiatore)

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Cade la terraCarmen Pellegrino - Cade la terra (Giunti)

Alento è un borgo abbandonato che sembra rincorrere l’oblio, e che non vede l’ora di scomparire. Il paesaggio d’intorno frana ma, soprattutto, franano le anime dei fantasmi che Estella, la protagonista di questo intenso e struggente romanzo, cerca di tenere in vita con disperato accudimento. Voci, dialoghi, storie di un mondo chiuso dove la ricchezza e la miseria sono impastate con la stessa terra nera. Capricci, ferocie, crudeltà, memorie e colpe di un paese condannato a ritornare alla terra. Come tra le quinte di un teatro ecco aggirarsi un anarchico, un venditore di vasi da notte, una donna che non vuole sposarsi, un banditore cieco, una figlia che immagina favole, un padre abile nel distruggerle. Con Carmen Pellegrino l’abbandonologia diviene scienza poetica. E questo modo particolare di guardare le rovine, di cui molto si è parlato sui giornali e su internet, ha finalmente il suo romanzo.

ASCOLTA, cliccando sul pulsante “audio”, la puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” con CARMEN PELLEGRINO (dedicata a “Cade la terra” – Giunti)

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Il tempo migliore della nostra vitaAntonio Scurati - Il tempo migliore della nostra vita (Bompiani)

Leone Ginzburg rifiuta di giurare fedeltà al fascismo l’8 gennaio 1934. Pronunciando apertamente il suo “no”, imbocca la strada difficile che lo condurrà a diventare un eroe della Resistenza. Un combattente mite, integerrimo e irriducibile che non imbraccerà mai le armi. Mentre l’Europa è travolta dalla marcia trionfale dei fascismi, questo giovane intellettuale formidabile prende posizione contro il mondo servile che lo circonda e la follia del secolo. Fonderà la casa editrice Einaudi, organizzerà la dissidenza e creerà la sua amata famiglia a dispetto di ogni persecuzione. Questa è la sua storia vera dal giorno della sua cacciata dall’università fino a quello in cui è ucciso in carcere. Nel racconto rigoroso e appassionato con il quale Scurati le rievoca, accanto a quella di Leone e Natalia Ginzburg, scorrono però anche le vite di Antonio e Peppino, Ida e Angela, i nonni dell’autore, persone comuni nate negli stessi anni e vissute sotto la dittatura e le bombe della Seconda guerra mondiale. Dai sobborghi rurali di Milano convertiti all’industria ai vicoli miserabili del “corpo di Napoli”, di fronte ai fucili spianati, le esistenze umili di operai e contadini, artisti mancati e madri coraggiose entrano in risonanza con le vite degli uomini illustri. Accostando i singoli ai grandi eventi, attraverso documenti, fotografie e lettere, ricordi famigliari e memoria collettiva, Antonio Scurati resuscita il nostro passato.

ASCOLTA, cliccando sul pulsante “audio”, la puntata radiofonica di “Letteratitudine in Fm” con ANTONIO SCURATI (dedicata aIl tempo migliore della nostra vita” – Bompiani)

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Altre informazioni sulla 53^ edizione del PREMIO CAMPIELLO

Per la prima volta la finale del Premio Campiello verrà trasmessa in diretta sul satellite. La cerimonia conclusiva della 53^ edizione del concorso letterario promosso da Confindustria Veneto andrà in onda sabato 12 settembre a partire dalle ore 20.05 sul canale 832 di Sky e Tivùsat.

La serata verrà inoltre trasmessa in diretta sul digitale terrestre dalle tv del Consorzio Reti Nord Est, che comprende Telenuovo, Telechiara, TVA Vicenza ed Antennatre, a copertura di tutte le province del Veneto, del Trentino Alto Adige, del Friuli Venezia Giulia e delle province di Mantova e Brescia per la Lombardia, Ferrara per l’Emilia Romagna. La cerimonia sarà visibile anche in streaming sul sito delle televisioni del Consorzio Reti Nord Est.

Per il terzo anno consecutivo lo spettacolo sarà condotto da Geppi Cucciari e Neri Marcorè, che torneranno sul palco della Fenice a proporre un connubio tra momenti d’intrattenimento, approfondimento culturale e dialogo con gli autori finalisti. La serata finale sarà organizzata dalla casa di produzione ITV MOVIE, che tra le principali produzioni televisive ha realizzato Italialand con Maurizio Crozza, G’Day con Geppi Cucciari, Glob spread con Enrico Bertolino e Volo in diretta con Fabio Volo.

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La vita prodigiosa di Isidoro SifflotinIl vincitore del Premio Campiello Opera Prima è Enrico Ianniello La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin (Feltrinelli).

Sulla caviglia dello stivale Italia, là dove sta l’osso pezzillo, nasce il nostro eroe, Isidoro Sifflotin. Nella casetta di Mattinella, che sta su da trecento anni e “non crollerà mai”, il prodigioso guagliunciello Isidoro affina una dote miracolosa, ricevuta non si sa come da Quirino, il padre strabico, poetico e comunista, e da Stella, la mamma pastaia. Qual è questa dote? La più semplice: Isidoro sa fischiare, e fischia in modo prodigioso. Con il suo inseparabile merlo indiano Alì dagli sbaffi gialli, e l’aiuto di una combriccola stralunata, crea una lingua nuova, con tanto di Fischiabolario, e un messaggio rivoluzionario comincia magicamente a diffondersi. Proprio quando il progetto di un’umanità felice e libera dal bisogno sta per prendere forma, succede qualcosa che mette sottosopra l’esistenza di Isidoro. “Tutto quello che cresce si separa”: con addosso questo insegnamento di mamma Stella, Isidoro, ormai ragazzo, scopre Napoli e si imbatte, senza neanche rendersene davvero conto, in un altro linguaggio prodigioso e muto: quello dell’amore.

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Il Premio Fondazione il Campiello è stato invece assegnato a Sebastiano Vassalli per la sua opera narrativa di grande spessore etico e storico; purtroppo la recentissima scomparsa dello scrittore costringerà gli organizzatori a una consegna per interposta persona di tale premio, che Vassalli aveva accettato con grande soddisfazione rilasciando una dichiarazione che verrà riprodotta nel libretto di sala della cerimonia finale.

Su LetteratitudineNews abbiamo dedicato uno speciale in OMAGGIO A SEBASTIANO VASSALLI.

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Il vincitore verrà scelto dalla Giurati dei Trecento Lettori anonimi. I Giurati vengono selezionati su tutto il territorio nazionale in base alle categorie sociali e professionali, cambiano ogni anno e i loro nomi rimangono segreti fino alla serata finale.

Il Premio Campiello, istituito nel 1962 dagli Industriali del Veneto, è promosso e gestito dalla Fondazione Il Campiello, composta dalle sette Associazioni Industriali del Veneto e dalla loro Confindustria regionale. E’ la più importante iniziativa in campo culturale promossa da Confindustria Veneto e rappresenta uno dei pochi casi di successo in Italia di connessione concreta e strategica tra mondo dell’impresa e della cultura. Nel corso degli anni il Premio ha raggiunto il vertice delle competizioni letterarie italiane.

La 53^ edizione del Premio Campiello è realizzata sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali; riceve il patrocinio e il sostegno della Regione del Veneto ed è resa possibile grazie al concorso di: Banca Popolare di Vicenza, Eni, Manpower Group, Assicurazioni Generali, Gruppo Save, Fiera di Vicenza, Anthea, Permasteelisa Group, Adacta Studio Associato, Fiamm, SUM; in collaborazione con MUVE – Fondazione Musei Civici Venezia e Grafiche Antiga.

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Carmine Abate – vincitore del Premio Campiello 2012 http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/09/02/carmine-abate-vincitore-del-premio-campiello-2012/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2012/09/02/carmine-abate-vincitore-del-premio-campiello-2012/#comments Sun, 02 Sep 2012 17:01:41 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4276 Info su LetteratitudineNews ]]>

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QUOTE ROSA IN LETTERATURA? IL CASO CAMPIELLO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/23/quote-rosa-in-letteratura-il-caso-campiello/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/23/quote-rosa-in-letteratura-il-caso-campiello/#comments Mon, 23 Jun 2008 07:15:47 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/06/23/quote-rosa-in-letteratura-il-caso-campiello/ La giuria del Campiello, presieduta da Gianni Letta, ha selezionato i cinque libri che si contenderanno l’ambìto premio letterario:
- Eliana Bouchard, con Louise. Canzone senza pause (Bollati Boringhieri)
- Benedetta Cibrario, con Rossovermiglio (Feltrinelli)
- Paolo Di Stefano, con Nel cuore che ti cerca (Rizzoli)
- Chiara Gamberale, con La zona cieca (Bompiani)
- Cinzia Tani, con Sole e ombra (Mondadori).
La giuria, all’unanimità, ha indicato Paolo Giordano per La solitudine dei numeri primi (Mondadori) come vincitore del riconoscimento Opera Prima. Si dovrà attendere il 30 agosto per conoscere il vincitore assoluto del Premio Campiello che sarà scelto da una giuria di 300 lettori nel corso di una cerimonia al Teatro La Fenice di Venezia.

Questa, la cronaca.
Ora… pare che, in prima istanza, la giuria del Premio avesse deciso di selezionare una cinquina di sole donne. E che la presenza di Paolo Di Stefano non fosse – come dire – prevista.
Insomma… polemiche.
Seguono un pezzo caustico di Nico Orengo (pubblicato su Tuttolibri) e un altro di Giuliano Zincone (pubblicato sul Domenicale del Sole24Ore) dove l’autore si finge uno scrittore disposto a cambiar sesso pur di rientrare nella cinquina del Premio.

Mi domando (e vi domando)…
Il mondo della letteratura italiana necessita, forse, di “quote rosa”?
Ritenete che le scrittrici siano state (e siano tuttora) penalizzate?
Se sì, cosa fare per assicurare un maggiore “equilibrio”?
Siete d’accordo con le scelte della giuria del Campiello?

A proposito: Chi vincerà il Campiello 2008?

Massimo Maugeri

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Dalla rubrica FULMINI di Nico Orengo (pubblicato su Ttl del 14/6/2008)

Campiello affonda la critica

Mentre allo Strega si attende la vittoria di Rea con «Napoli Ferrovia», sul Campiello ci sono acque volutamente agitate. Volutamente perché la nuova gestione cerca scandalo e visibilità. Lo si è visto nelle due ultime edizioni con la retrocessione di Buttafuoco e Fruttero. Ora, parte della giuria, quella più lontana dalla letteratura, ha deciso che i finalisti fossero solo donne. C’è scappato un maschio ma è decisamente un Campiello al femminile. Strano criterio che lascia fuori scrittori come Vitali e Longo. Ci si chiede cosa ci stiano a fare critici come Nigro, Beccaria e Mondo.
Nico Orengo

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L’oppossum di Giuliano Zincone (pubblicato sull’inserto “Domenica” de Il Sole24Ore del 15/6/08)

Alla Spett. Giuria Tecnica del Premio Campiello. Sede.

Gentile Giuria, apprendo dalla stampa che avevate deciso di scegliere una cinquina femminile per il vostro stimato premio letterario. Poi, forse per sbaglio, avete nominato anche un maschio, uno solo. Quote rosa o dittatura rosa? Adesso si spiega la mia esclusione. Mi chiamo Fabio Zumbo e vi avevo sottoposto il mio ultimo romanzo, “Gino & Daniela” (ed. Fichidindia). Sono sicuro che non l’avete nemmeno guardato. E’ la storia forte e delicata della relazione tra una signora cinquantenne (Daniela) e un opossum di nome Gino. La scintilla è innescata dalla noia esistenziale aggravata dalla solitudine urbana e dai guasti dell’anomia capitalistica. Entra in gioco l’ottusa e violenta gelosia del marito di lei, Ugo, del tutto insensibile all’ansia di libertà della moglie, e al suo diritto a vivere la propria vita. Gino, invece, è single e, come spesso accade ai “diversi”, s’impegna in compiti che gli italiani rifiutano. Qui appare la necessità di contemperare il dovere dell’accoglienza con la necessità della sicurezza, oltre all’eterno conflitto tra solidarietà ed egoismo. Tolleranza e dialogo. Queste cose, insomma.
In una drammatica sequenza, il mio romanzo non manca di sottolineare che anche i nostri connazionali furono discriminati, quando la miseria li spinse a viaggiare verso lidi stranieri. Gino, del resto, è perfettamente integrato e produttivo. Grazie alla sua coda prensile, l’opossum è capace di esercitare mille mestieri e, nella seconda metà del libro, si riscatta dalla sua condizione sottoproletaria, associandosi con il procione Fabrizio (detto anche Orsetto Lavatore), nella gestione precaria della lavanderia “Stira & Ammira”. Non vorrei sembrare immodesto, ma credo proprio che il mix degli incontri clandestini tra gli amanti, la robusta denuncia della xenofobia, dell’inettitudine della casta politica, della sostanziale assenza delle istituzioni e della carenza di strutture (palestre e piscine) adatte agli svaghi degli opossum e dei procioni, facciano del mio romanzo non certo un banale thriller, ma soprattutto un documento che spiega la violenza/indifferenza che deprime la nostra società e che la condanna alla decadenza morale. C’è una via d’uscita? Mistero. Un barlume s’accende quando, nel libro, Monsignor Martinho (Teologia della Liberazione) sorride all’opossum e alla signora, benedicendoli: “Amor omnia vincit”. Sarà proprio così? La mia opera è aperta.
Signori della Giuria, voi avete bocciato il mio libro perché sono un maschio. Rimedierò. Vi scrivo da Casablanca, dove sono in lista d’attesa, ascoltando canzoncine tipo “You must remember this”, per diventare una Ingrid Bergman che si chiamerà Fabia Zumba, e che potrà concorrere senza handicap al prossimo premio letterario. Ho già in mente lo scoop: Sansone era femmina, per questo aveva i capelli lunghi. E Dalila era maschio, per questo glieli ha tagliati. Io mi rassegno e mi adeguo, qui a Casablanca. Però voi riflettete un momento, rispettabili Giurati. Ve la immaginate una Oriana Fallaci che accetta di entrare in cinquina soltanto perché è donna? Lo sapete che cosa vi avrebbe abbaiato e dove vi avrebbe mandati? Io aspetto il delicato intervento, accanto al pianoforte del vecchio Sam. Però mi ricordo un pomeriggio del 1966, a Mantova. Si consegnavano i premi “Isabella d’Este”, riservati a dodici donne eccezionali. C’era anche la principessa-sarta Irene Galitzine, che non disprezzava affatto i maschi. E c’era Maria Bellonci: un drago, una vipera. Qualcuno osò chiamarla Signora. E lei si ribellò: “Macché signora e signora! Io sono Maria Bellonci e basta!”. Domani avrò il mio bisturi, qui a Casablanca. Ma non diventerò come la grande Maria. Anzi, perderò qualcosa.
Giuliano Zincone

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