LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » renzo montagnoli http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 CONVERSAZIONE CON PRIMO LEVI – di Ferdinando Camon http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/03/18/conversazione-con-primo-levi-di-ferdinando-camon/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/03/18/conversazione-con-primo-levi-di-ferdinando-camon/#comments Mon, 18 Mar 2013 18:59:36 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=5064 Conversazione con Primo LeviPubblico l’intervista a Ferdinando Camon, curata da Renzo Montagnoli, in merito al volume “Conversazione con Primo Levi” (Guanda).

Su LetteratitudineNews è disponibile una recensione firmata dallo stesso Montagnoli.

Massimo Maugeri

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INTERVISTA A FERDINANDO CAMON (su “Conversazione con Primo Levi“)

a cura di Renzo Montagnoli

- La Sua è un’intervista realizzata in un arco di tempo piuttosto lungo e in più incontri; considerato che all’epoca (all’incirca nella prima metà degli anni ’80) non esisteva ancora Internet e quindi non era possibile effettuare il tutto con uno scambio di messaggi elettronici, Lei ricorse a incontri diretti con lo scrittore nella sua città natale (Torino), a scambi di telefonate e raramente in via epistolare. Fu indubbiamente un impegno non trascurabile, anche se ne valeva la pena. Che cosa la spinse però a contattare Primo Levi per intervistarlo?
Mi spinse un complesso di colpa. Come ho scritto da qualche parte, andare a parlare con Primo Levi per me significava andare a Canossa. C’è nel libretto, se uno lo legge bene, un punto di attrito tra Levi e me, che mi fu ascritto a colpa dalla stampa tedesca e francese di destra. Levi sosteneva che la colpa dello Sterminio era del personaggio che dominava la Storia, e cioè Hitler. Levi aveva un’idea eroica della Storia. La Storia la fanno  Grandi, i dominatori, gli domi eroi. Costoro sono il vento che scuote il mare, sul quale i popoli galleggiano come sugheri. Lui aveva un’idea ristretta della Grande Colpa. Io sostenevo allora (cioè: mi aggregavo a chi sosteneva) una colpa collettiva, la responsabilità di massa. Che non vuol dire di ogni tedesco, singolarmente preso. Ma del popolo tedesco, nel suo insieme. Questa tesi ha finito poi per scalzare la tesi di Levi: Hillberg e Goldhagen e tanti altri parlano sempre e solo di una “responsabilità di massa” dei tedeschi per lo Sterminio. E pongono, Hillberg specialmente, la tesi che lo Sterminio fu l’ultima fase di un’opera di espulsione ed esclusione durata molti secoli. Dapprima fu detto agli ebrei: “Potete vivere in mezzo a noi, a patto che diventiate come noi. Convertitevi”. Fu l’epoca delle conversioni coatte. Poi fu detto: “Non siete diventati come noi, andate a vivere da un’altra parte”. Fu l’epoca dei ghetti. Il nazismo venne per attuare la terza fase: “Né fra noi né lontano da noi, non potete vivere da nessuna parte. Ovunque siate, dovete morire”. Ma questa terza fase non sarebbe stata possibile senza la seconda, e la seconda senza la prima. E su quella fasi ha un’impronta fondante la civiltà euro-occidentale, della quale io, come tutti qui, siamo figli. Levi è una nostra colpa. Recensendo il mio libretto “Conversazione con Primo Levi”, la stampa tedesca di destra (ma sono comunque grato che la Germania l’abbia tradotto) e la stampa francese di destra (ma sono grato che il libretto sia stato tradotto e recitato in teatro in una ventina di città, e la pièce dovrebbe ripartire di nuovo quest’anno) giudicavano Levi “obiettivo”, nell’attribuire la colpa al solo Führer, e me “razzista”, nel coinvolgere il popolo  tedesco. Si crede che veder girare un proprio libro nel mondo sia una gioia, invece è un martirio.

- Si potrebbe dire che Hitler nel popolo tedesco è riuscito a far emergere determinate caratteristiche che prima erano sopite, o comunque in letargo. Al riguardo mi pare che Marlene Dietrich abbia espresso sostanzialmente lo stesso concetto e lei appunto era tedesca.
C’è un passo della conversazione, all’argomento “Il diavolo nella storia”, in cui Lei dice: –Tuttavia, nei momenti delle grandi riprese dei loro movimenti morali e religiosi, loro pescano sempre in un repertorio di perdizione, di dannazione, di… e Levi aggiunge: – Di demoniaco? Al che la sua risposta è questa: – Di demoniaco, che coinvolge e annulla la stessa divinità…
La pregherei di precisare quali siano questi momenti in cui sono emerse caratteristiche di diabolica perdizione e di abbandono al male. Già che ci sono, mi risulterebbe che accadimenti simili non hanno caratterizzato solo i tedeschi, ma anche i polacchi e i russi.

Nella mia memoria si affacciava un brano di uno storico tedesco, che commentava come adesso dirò l’avvento del luteranesimo. Lo può trovare nell’Antologia di Critica Storica di Armando Saitta, in tre volumi, per Laterza. Il brano è questo: Lutero sta dialogando con un seguace, gli espone il suo concetto di Dio e di giustizia divina, come questa giustizia sia legata alla Grazia e separata dai merito. “Ma come si può amare un Dio come questo?” esclama terrorizzato l’allievo. “Amarlo?” risponde Lutero, “io lo odio”. Questa confessione di Lutero, che odia il proprio Dio, mi entrò nel cervello allora, ero studente di liceo classico, e non m’è più uscita. Nella mia cultura di euro-mediterraneo è inammissibile. Se non erro, Freud s’interrogava su quel che facevano i tedeschi del suo tempo, e rispondeva che erano “battezzati male”, cioè “mal cristianizzati”. In questi giorni mi sto occupando di Primo Levi, presento sulla “Stampa” un libro di Frediano Sessi intitolato “Il lungo viaggio di Primo Levi”, e mi son riletto le opere concentrazionarie di Levi: i custodi del lager non erano uomini, non avevano niente di umano. Nell’incontro del ’38 al Brennero con Mussolini, Hitler gli portò in regalo le opere di Nietzsche rilegate in pelle. Hitler non ha mai taciuto che intendeva realizzare il Superuomo di Nietzsche con le sue SS. L’avvento del Superuomo è teorizzato in “Così parlò Zarathustra”. “Tre incarnazioni dello Spirito io vi narro – esordisce Zarathustra -, com’esso divenne cammello, e di cammello leone, e di leone fanciullo”. Lo Spirito-cammello è il Cristianesimo. “Qual cosa pesa di più?” chiede lo Spirito cammello, partendo  per il proprio deserto, “ditemelo, o eroi, affinché io me lo sobbarchi”. Ma, fratelli miei, non significa questo immergersi nell’acqua putrida della verità, senza scacciare da sé i rospi viscidi e i vermi schifosi?” Le SS servivano a depurare l’acqua della vita dai rospi viscidi e dai vermi schifosi, a correggere l’umanità, perché com’era stata creata non andava bene.

- Comprendo; mi pare, però, di aver capito che in fondo Levi in questa conversazione non attribuisce le colpe dell’Olocausto al popolo tedesco e penso che questo atteggiamento gli sia derivato dal timore di essere pure lui considerato un razzista. Tuttavia, in un altro suo libro (I sommersi e i salvati) esplicitamente incolpa i tedeschi per la loro volontaria indifferenza. A Pag. 29 dell’argomento La colpa di essere natiLei dice, fra l’altro: – E cioè il problema di trovarsi a scontare la colpa di essere nato. Perché credo che questa fosse la <<colpa>> che distingueva l’ebreo dal politico o dal prigioniero di guerra. I quali scontavano una battaglia persa, o una opposizione politica; la l’ebreo per il solo fatto di essere nato doveva scontare questa <<colpa>> : la colpa di esistere.
Concordo pienamente, ma mi sono sempre chiesto perché proprio l’ebreo, ed è una domanda a cui ho cercato di dare più di una risposta. Se non si è trattato di una scelta dovuta al caso, la colpa di essere nato deriva forse da una altra colpa, così come concepita a lungo dalla Chiesa, soprattutto quella luterana: gli ebrei erano coloro che avevano immolato Gesù Cristo. Qual è la sua opinione al riguardo?

Il nazismo però non si presentava come un movimento cristiano, inteso a punire i nemici del Cristianesimo, anzi si poneva come pagano, anti-cristiano, legato ai miti del suolo e del sangue, al culto della forza, della razza, delle tradizioni ancestrali. A un certo punto fu ordinato che nelle chiese luterane, sull’altare, accanto alla Bibbia, fosse collocata una spada. Il “Mein Kampf” è stato un libro proibito per mezzo secolo, ma in Italia lo stampava una casa editrice di estrema sinistra, la ERS, Edizioni Riforma dello Stato, fondata e diretta da Armando Cossutta, che era un fuoriuscito dal Pci, a sinistra del Pci. Io l’ho trovato, l’ho comprato e l’ho recensito, sull’”Unità”. Ho letto il libro alla ricerca del “sistema” di Hitler, se voleva la guerra o no, contro chi, a che scopo, se preparava lo sterminio degli ebrei, e perché. Il libro è chiarissimo. È lo sfogo di una nevrosi fobica-depressiva, che diventa aggressiva. Hitler è sgomento per la sconfitta della Germania, e spaventato per la potenza di Francia e Inghilterra. Sogna la vendetta. Per la vendetta gli serve un popolo compatto, obbediente, educato militarmente, fisicamente robusto. Raccomanda che nelle scuole non s’insegni il francese, ma la boxe. Inculca l’odio verso gli ebrei, ma non li accusa mai di qualche colpa specifica (hanno fato questo male o quello), ma li accusa di tutte le colpe in generale. L’odio verso gli ebrei, non avendo una colpa da correggere, è immotivato e perciò implacabile. Gli ebrei vanno sterminati perché sono ebrei. Non importa se per sterminare gli ebrei dedichi uomini, mezzi, risorse e tempo, che sarebbero necessari per vincere la guerra: anche quella contro gli ebrei è una guerra, serve a liberare la Germania e l’umanità.

- Certamente, il Mein Kampf è talmente chiaro che nessuno che lo legga potrebbe dire che Hitler da agnello si era trasformato, una volta giunto al tepore, in lupo feroce.
Mi scusi, però, se ritorno alla domanda, che non è frutto di curiosità: perché sempre l’ebreo deve essere un capro espiatorio? Forse ciò è dovuto a più concause, non ultima quella religiosa. Vede, la cosa mi interessa sia come parte del genere umano, sia per motivi personali. Del resto, se Hitler ha praticato l’annientamento sistematico degli ebrei, questi hanno sempre patito nella storia persecuzioni più o meno ampie; al riguardo, basti pensare ai pogrom e andando più indietro nel tempo la Spagna del XV secolo. Forse non è in grado di darmi una risposta compiuta, come in verità non lo sono nemmeno io, ma Hitler non si è inventata la persecuzione degli ebrei, l’ha adottata e ne ha fatto uno scopo della sua vita, applicandola con metodo e ferocia.

Conversazione con Primo LeviEcco, io pongo questa esatta domanda a Levi, a pagina 17, e lui la rifiuta: dice che “non i tedeschi odiavano gli ebrei”, ma “Hitler odiava gli ebrei” e “ i nazisti odiavano gli ebrei”. Quando io cerco di trovare radici lontane del superomismo dei tedeschi nella loro mitologia, e m’interrogo sulla separazione che loro pongono tra merito e salvezza, opere e grazia, lui ribatte che non c’è traccia di questo in Goethe. Ammette però che il diavolo è una presenza fondamentale nella loro formazione. Io mi spingo fino ad affermare che l’irruzione dei popoli germanici nella storia degli altri popoli europei non hanno effetti diversi dall’irruzione della peste e delle epidemie, lui ritorna a limitare questo ruolo ai tedeschi nazisti, e questo ha prodotto un curioso effetto nella circolazione del mio libretto di conversazioni con Levi in Germania e in Francia: c’è in Germania e in Francia anche una stampa di destra, che s’è buttata su queste pagine ribadendo che Levi assolve i tedeschi mentre Camon  li condanna, quindi Camon è il vero razzista, che combatte il razzismo tedesco con un razzismo antitedesco. Allora queste accuse erano possibili, oggi non più. Perché oggi il concetto di “responsabilità di massa”, “responsabilità collettiva” è molto più chiaro, diffuso ed accettato, anche dai tedeschi, fino alla cancelliera Angela Merkel. Gli ebrei sono stati sradicati dal loro suolo nel 70 dopo Cristo, da Tito, che non era ancora imperatore, soprannominato “deliciae generis humani”, il quale ordinò l’uccisione di tutti i maschi in età di armi e la cacciata delle donne e dei bambini. La diaspora degli ebrei comincia allora, e finisce dopo la seconda guerra mondiale. A differenza di altri popoli, gli ebrei hanno conservato cultura, religione, tradizione, non scomparendo nei popoli dentro i quali confluivano, e questo ha sempre distinto le comunità ebraiche negli studi, nella scienza, nelle arti, nei commerci, nella produzione…: nelle università, tra i premi nobel, tra gli scienziati, insomma nelle classi dirigenti, la presenza di ebrei è sempre stata alta. Può darsi che questo li abbia esposti alla visibilità, e la visibilità all’odio: e che così il loro merito (avere una forte comunità ebraica è una fortuna per un popolo) sia diventato un demerito (se qualcosa va male, si può dare la colpa a loro). Ma ripeto: nei testi degli “odiatori degli ebrei” non c’è mai un’accusa chiara, c’è solo un odio viscerale, nebuloso e onnicomprensivo. È appena uscito qui da noi in Italia un libro di Céline, col titolo “Céline ci scrive”, pubblicato da una piccola casa editrice di destra, contiene le lettere e gli articoli di Céline contro gli ebrei: me lo sono subito procurato proprio per vedere se Céline chiarisce, una volta per tutte, le ragioni del suo antisemitismo, ma niente, lo ripete infinite volte ma non fornisce alcuna ragione. C’è un film di Godard in cui un marito torna a casa e dice alla moglie: “Sai la notizia? Il governo ha deciso di eliminare tutti i medici e gli ebrei”, e la moglie: “Perché i medici?”.

- Mi sembra quindi di comprendere che alla base di questo odio razziale ci sia una irrazionalità, una sorta di atavica prevenzione che deriva da un popolo che è riuscito, pur integrandosi, a mantenere la propria individualità. Dove sta l’irrazionalità? Nella mancanza di presupposti, anche fasulli, che alimentino l’antisemitismo e del resto, anche in persone insospettabili, ho sentito più volte questo ragionamento: “Se gli ebrei sono stati trattati così, un motivo ci sarà”.  Ecco che implicitamente in questi soggetti che, ripeto, non sono degli estremisti, esiste una prevenzione che se non scatena un odio razziale, però fa sì che questo possa essere tollerato. E da qui mi sorge spontanea la domanda: non posso credere che la maggioranza del popolo tedesco avesse in sé quest’odio razziale, mentre invece credo che per quel ragionamento che ho espresso prima abbia di fatto accettata come logica la persecuzione degli ebrei. Quindi non erano carnefici, ma tacitamente complici o al più indifferenti, il che non sminuisce la loro responsabilità.
Qual è la sua opinione al riguardo?

La mia risposta è questa. Curiosamente, il “Mein Kampf” non è un libro delirante-aggressivo, che nasca dalla volontà di conquistare il mondo e sterminare gli ebrei. È un libro fobico-depressivo, che nasce dallo spavento. Hitler è terrorizzato dalla strapotenza di Francia e Inghilterra, le ammira e le teme. Tutta la personalità e il programma di Hitler sono esplosioni del trauma per la sconfitta della Germania: la Germania uscì dalla Prima Guerra Mondiale non solo vinta, ma annichilita e umiliata. Il “Mein Kampf” è la rivolta contro questa umiliazione. Il collante che unisce Hitler al suo popolo, quel filo elettrico lungo il quale lui scarica i fulmini della sua forsennata oratoria, è la vendetta. Si sente sempre nei suoi discorsi, nei suoi scritti, un concetto elementare, primordiale, insostenibile da ogni punto di vista, ma di facile presa sulla massa: noi tedeschi abbiamo perso, perché?, perché non siamo “noi tedeschi”, in mezzo a noi ci sono dei non-tedeschi, i quali ci corrompono e ci indeboliscono. Per questo abbiamo perso. La nostra sconfitta è colpa degli ebrei. Eliminando gli ebrei, compiamo una giustizia retroattiva. In Céline c’è un punto in cui il grande scrittore esclama: “Non è forse chiaro a tutti che questa guerra è colpa degli ebrei?”. Naturalmente non c’è mai un episodio, un fatto, una situazione in cui si possa individuare una colpa degli ebrei verso la Germania o la Francia, ma accusare gli ebrei della sconfitta nella prima guerra aveva molti effetti utili a Hitler, in primo luogo questo: si liberava la coscienza dei soldati tedeschi dal peso di una disfatta, si scaricava quella disfatta su un nemico interno, e così i soldati potevano tornare a sentirsi invitti ed invincibili. Da notare che anche storici non-tedeschi hanno scritto che le condizioni di pace imposte ai tedeschi a conclusione della Prima Guerra Mondiale erano inique e insopportabili, il popolo tedesco non poteva in nessun modo reggerle, erano in un certo senso vendicative. E dunque l’esplosione di Hitler sarebbe stata la vendetta per una vendetta. Ma io non sono uno storico, le ragioni per cui andavo a parlare con Levi non erano storico-politiche, ma morali e sociali.

- E’ indubbiamente vero che condizioni di pace imposte di fatto costituirono i prodromi della seconda guerra mondiale, ma giustamente come dice lei i motivi che l’hanno indotta a intervistare Primo Levi non sono di carattere storico o politico, bensì morali, forse ancor più che sociali. E quindi è opportuno rientrare nel tema principale, che presenta spunti di notevole interesse, come quando Levi fornisce una spiegazione alla sua domanda volta a comprendere, come psicologicamente parlando, si riuscì a condizionare, meglio ancora a circonvenire un popolo quale quello tedesco. Levi risponde che il mezzo fu la propaganda e l’arma spettacolosa la comunicazione di massa, la manipolazione della folla, sperimentata dapprima dai regimi totalitari e poi, come anche ora, in costanza di una democrazia più di apparenza che di sostanza. Passo comunque al altro, all’argomento 6, quello del lager nazista e di quello comunista.
Verso la fine c’è una Sua domanda che partendo dal fatto che Se questo è un uomo è considerato oggi un testo esemplare della cosiddetta “letteratura concentrazionaria” cerca di comprendere i motivi per i quali gli editori l’hanno rifiutato per diversi anni. E qui fra la risposta di Levi trovo una stranezza, una non sincerità. Infatti dice: Se spegne il registratore glielo dico. E poi il risultato  non è eclatante, bensì si accenna a una disattenzione nella lettura.
Non ci credo, non posso crederci, perché lo spegnere il registratore equivale a non voler ufficializzare un discorso. Ora non so quel che poi Le ha detto Levi e se Lei possa ora riferirlo, ma comunque, in ogni caso, ha un’idea del perché di questi ripetuti rifiuti di pubblicazione?

La mia “Conversazione con Primo Levi” ha avuto più edizioni e più editori, e credo che le ultime edizioni diano una risposta al suo dubbio. Io il libretto l’avevo pensato per Garzanti, gli avevo proposto una collanina agile, di volumetti di poche pagine, 100 o meno, di autori o su temi di attualità, saggi, racconti, confessioni. Lui rifiutò dicendo: “Libri come coriandoli? Mai”. Allora i primi libretti di quella collanina, progettata come collana-rivista, li feci io a casa mia. Li stampavo in una tipografia veneta, le tipografie venete, e del Nord-Est in generale,  costano molto meno di quelle lombarde. Di ogni volumetto tiravo 5-6 mila copie, e le spedivo alla sede grafica della Garzanti, a Cernusco sul Naviglio. Avevamo un contratto, Garzanti ed io, lui alla consegna pagava come già venduta la metà della tiratura che riceveva. Io con quei soldi pagano tutte le spese e ne avanzavo. Il primo volume andò bene, il  secondo pure, gli altri (ne feci 6) pure, e a quel punto Garzanti decise di fare lui una collanina sulle 100 pagine, di formato snello, e la chiamò proprio “Coriandoli”. La inaugurai io, con un racconto intitolato “Il canto delle balene”. Ricordo ancora il giorno che presentammo la collana, in via della Spiga, Franco Fortini, Piero Camporesi ed io. La “Conversazione con Primo Levi” però aveva ormai una sua storia, non la trasferimmo nei “Coriandoli”. Esaurita la mia tiratura, la ripubblicammo in una collanina intitolata “I libri di”, poi la chiese Guanda ed è ancora in Guanda, ci sarà una prossima edizione presso le edizioni della Università di Pisa ma sarà un’edizione su licenza di Guanda. Nelle prime edizioni ho rispettato il volere di Primo Levi, e quando pronuncia il nome di chi rifiutò il suo libro per Einaudi e mi chiede di spegnare il registratore, affinché quel nome non restasse, io quel nome non l’ho messo. Poi c’era troppa pressione dei lettori e dei giornali, che volevano saperlo, quel nome. Allora, nelle ultime edizioni, l’ho messo. Il “Corriere della Sera” sul supplemento culturale, allora diretto da Riccardo Chiaberge, imbastì una discussione. Il nome è quello di Natalia Ginzburg, ed è stupefacente che una scrittrice ebrea non abbia sentito la potenza della denuncia di quel libro di un fratello ebreo, che doveva restare nei secoli e nel mondo il testimone numero 1 dello Sterminio. La Ginzburg era ancora viva, quando il “Corriere” aprì la polemica, e intervenne, ma senza dire niente d’importante: le solite cose, non ero io che decidevo, decideva tutto Cesare Pavese, e così via.  Non credo ci sia niente di misterioso sotto: si tratta del giudizio sbagliato di una consulente inadeguata. Tutto qui. Primo Levi però non è facile da capire e da valutare. Più tardi, la casa francese Gallimard ripeté l’errore di rifiutarlo, e questo quando Levi era già noto nel mondo, proprio alla fine della sua vita. Ci ho sofferto molto, per quel rifiuto. È una storia complicata.

- La Sua risposta è indubbiamente convincente, perché come sappiamo non è la prima volta che un consulente editoriale cade in un errore grossolano (al riguardo basti pensare alla tormentata vicenda della pubblicazione del “Gattopardo”) e può darsi che la Ginzburg sia stata anche condizionata dal fatto di essere ebrea, il che, magari nell’incertezza che dovrebbe avere avuto sulla validità dell’opera, deve aver pesato non poco, nel timore che un giudizio positivo, seguito da un insuccesso commerciale, potesse esserle rimproverato per una scelta che qualcuno in azienda e anche fuori poteva attribuire alla comune appartenenza. In fondo stupisce di più il rifiuto della Gallimard, poiché ormai Levi non era certo uno sconosciuto. È a conoscenza dei motivi per cui l’editore francese decise di non pubblicare l’opera?

Era un mio ripetuto consiglio al direttore editoriale della Gallimard, di pubblicare “I sommersi e i salvati”. Il direttore era Hector Bianciotti, nato in Argentina, da genitori italiani, piemontesi, poi fuggito dall’Argentina e vissuto in Francia, a Parigi. Un grande scrittore, un suo libro autobiografico è tradotto in italiano da Feltrinelli. Persona mite, affabile, gentile, con un senso squisito per i libri. Fu nominato membro de l’Académie Française, la cosiddetta Accademia degli Immortali, un posto a cui teneva molto, perché gli assicurava una rendita mensile. Per la cerimonia d’insediamento lui doveva presentarsi vestito come un cavaliere del Settecento, calzoni aderenti corti al ginocchio e giaccia attillata color verde, bordata in oro, con al fianco uno spadino. I suoi invitati dovevano indossare lo smoking. M’invitò, ma io non avevo uno smoking. Mi scusai e non ci andai. Col senno del poi, e visto che lui è morto prestino, non solo me ne pento, ma anche me ne vergogno. Mi giustifico attribuendo la causa alla mia cronica mancanza di denaro. Ma questo avvenne dopo. Torniamo a Levi.
Levi non era tradotto in Francia, e questo mi sembrava assurdo. Io avevo tutte le opere tradotte da Gallimard e avevo un rapporto col suo direttore Bianciotti.  Insistevo perché traducesse “I sommersi e i salvati”, gli mandavo lettere. Lui mi chiamava al telefono e mi rispondeva: “Ferdinandò, non ci piace”. Io rispondevo: non vi piace? Ma come lo leggete? seduti? Non dovete leggerlo restando seduti, dovete cadere in ginocchio. Era una lotta lunga, era ancora in corso quando concludevo con Levi la conversazione contenuta in questo libretto. Per aiutare “I sommersi e i salvati” sono andato a Torino, a incontrarlo di nuovo, era una domenica, e insieme con lui scegliemmo una decina di pagine da pubblicare subito su “Panorama”. Lui preferì le ultime, quelle che terminano con l’affermazione: “C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. Esce l’intervista su “Panorama”, e chiamo “Libération” per chiedere spazio, un paio di pagine nelle quali spiegare ai francesi perché devono leggere Levi. “Libération” accetta. Mando il mio pezzo, piuttosto lungo. Levi muore di sabato. “Libération” mi chiama alla domenica, mi legge tutta la traduzione del pezzo, lo approvo parola per parola, il pezzo esce. Il martedì mi arriva una lettera di Primo Levi. Levi era morto al ritorno dalla solita passeggiatina di fine settimana, e io mi dico: ”Se mi arriva oggi, martedì, questa lettera l’ha imbucata sabato, a metà passeggiata, adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi”. Apro la lettera. È una lettera vitale, piena di progetti, “mi mandi l’articolo di Libération quando esce, mi sappia dire se Gallimard vuol qualche altra copia dei miei libri”, non è affatto la lettera di uno che dieci minuti dopo si suicida. Perciò io sono fra coloro (siamo tre o quattro) che non credono al suicidio. Non ho le prove del voler-morire, mentre ho le prove del voler-vivere. Due giorni dopo mi chiama Bianciotti: “Ferdinandò, l’editore Albin Michel vuol prendere “I sommersi e i salvati”, ti preghiamo di dire alla vedova, signora Lucia, che anche noi vogliamo prendere “I sommersi e i salvati””. Due settimane dopo altra telefonata: “Albin Michel vuol prendere due libri di Levi, di’ alla signora Lucia che anche noi prendiamo quelle due opere”. Un mese dopo mi trovo a Brescia, alla libreria Ulisse (che adesso non c’è più, era una libreria raffinata, diretta da un libraio che era anche uno scrittore squisito, Umberto Stefani), sto presentando il mio libro “La donna dei fili”, squilla il telefono: era ancora Bianciotti che mi cercava trafelato per darmi questo incarico: “Albin Michel vuol prendere quattro libri, ti preghiamo di trasmettere alla signora Lucia, e alla casa Einaudi, questo messaggio: la Gallimard è disposta  a prendere tutti i libri di Levi che si possono prendere, a condizioni non inferiori a quelle di nessun altro”.  Non è finita. Un mese dopo, altra telefonata di Bianciotti: “Ferdinandò, Albin Michel vuol portarci in processo, perché dice: voi lo avete rifiutato e io l’ho preso, perché adesso mi ostacolate? Ritiratevi”, se tu Ferdinandò ci mandi quella lettera di Levi, nella quale lui esprime il desiderio di essere pubblicato da Gallimard, ci aiuti”. Mando una fotocopia della lettera, e la questione si chiude, Primo Levi esce da Gallimard. C’è un piccolo strascico: quando esce in Francia “I sommersi e i salvati”, l’Istituto Italiano di Cultura organizza una giornata di presentazione, lei conosce la sede dell’Istituto, è in Rue de Varenne 50, pubblica anche una rivista che si chiama col nome della via e numero del civico, è una sede magnifica, ampia e sontuosa, le stanze sono piene, tutta la Parigi colta aspetta, io arrivo e un signore che non conosco mi s’accosta mormorando una cantilena: “Monsieur Camon, io non la benedico, io non la benedico”, il Direttore dell’Istituto accorre e mi trascina via, io gli chiedo: “Chi è questo signore? E perché non mi benedice?”, “Non ci badi – fa il Direttore -, è il traduttore che Albin Michel aveva già assunto, gli dispiace molto di non tradurre Levi, e pensa che la colpa sia di Camon”. Ecco, le cose andarono così. La mia conclusione è questa: “Levi è troppo”, al primo impatto (Natalia Ginzburg, Hector Bianciotti…) ispira un rifiuto che è un gesto di autodifesa, un istinto di sopravvivenza. Levi non commuove il lettore, non lo turba: lo tramortisce.


- E’ una vicenda quasi da vaudeville e non a caso il teatro è la Francia; dispiace molto che Levi non ne abbia visto la conclusione e che la morte l’abbia colto anzitempo. Al riguardo, potrebbe essere stato un incidente, un malore improvviso, o anche un subitaneo sconforto; di certo non lo sapremo mai, ma in fondo poco importa, perché la morte è uno di quegli eventi che prima o poi accade a tutti, quella morte a cui era sfuggito quasi miracolosamente ad Auschwitz; mi sembra che questa “fortuna” (ma il termine è probabilmente improprio) gli sia tuttavia pesata, un po’ come per il protagonista di Diceria dell’untore. Poi, come emerge dall’intervista, qualcuno addirittura ha voluto vedere un disegno superiore in questa sua salvezza, circostanza che ha indignato Levi perché, come dice lui stesso, sembrerebbe che Dio avesse concesso dei privilegi, salvando qualcuno e condannando qualcun altro. Con questo arriviamo alle ultime righe della conversazione, al punto in cui Lei domanda: “Cioè Auschwitz è la prova della non esistenza di Dio?” e Levi risponde: “ C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio.” (Sul dattiloscritto, a matita, ha aggiunto: Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo).
Credo che queste ultime righe, oltre a concludere una conversazione di estremo interesse, siano molto emblematiche; personalmente vedo un Levi certamente non ateo, e tantomeno agnostico, però è un uomo che cerca di capire, ricorre alla razionalità per cercare il trascendente, in un percorso senza sbocco. E allora arrivo alla domanda: secondo Lei, Levi credeva in un’Entità superiore, o comunque era alla continua ricerca di una risposta al perché della morte e soprattutto al perché della vita?

È lui stesso che risponde, nella conversazione. Dice che aveva ben ricevuto un’educazione religiosa, ma che Auschwitz l’ha spazzata via. La sua conclusione è: “C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. La mia impressione è stata allora, e torna ad essere ogni volta che rileggo questo passo, che Levi volesse proprio introdurre nel pensiero filosofico una prova della non-esistenza di Dio, da contrapporre ai sistemi dei filosofi che sostengono l’esistenza, per esempio Sant’Anselmo d’Aosta. “Dio c’è per questa e questa ragione”, dicono questi filosofi. “Dio non c’è, perché c’è Auschwitz” obietta Levi. Per me, la conversazione si chiudeva lì. Quando gliel’ho mandata, per un’ultima approvazione, mi aspettavo che lui correggesse qualche parola, ma non un concetto così essenziale, così fondamentale. Ci ho ragionato molto.  Dopo le prime edizioni, a partire dalla traduzione francese, ho aggiunto una prefazione con cui chiarisco ciò che per me significa quell’aggiunta: Levi aveva espresso una negazione assoluta dell’esistenza di Dio, ma se ne pente e riapre la questione: afferma che Dio non c’è, dunque il problema è chiuso, questa è la soluzione, ma subito corregge che “non trova una soluzione”, dunque il problema resta aperto, chiarisce che il non-trovarla non mette fine alla ricerca, infatti aggiunge ancora “la cerco ma non la trovo”: il messaggio finale è quello di una continua ricerca continuamente esposta allo scacco. La conclusione “c’è” o “non c’è” sarebbe comunque pacificante, la conclusione “non trovo ma cerco” resta aperta a un’angoscia che non ha fine.


- Secondo me questa continua ricerca dimostra che in fondo Levi credeva che esistesse qualche cosa; la sua non era una negazione assoluta, anzi partiva da una deduzione personale quando diceva: “Dio non c’è, perché c’è Auschwitz.”  In fondo in lui era inconcepibile che Dio avesse consentito l’olocausto e se fosse stato ateo il problema non si sarebbe posto, anzi il fatto stesso della Shoah sarebbe stato un rafforzamento della sua convinzione. Comprendo che per lui questa ricerca sia stata un problema angosciante, ma solo perché ha voluto fare di una deduzione un ragionamento logico e senza dimenticare che l’essenza stessa di chi crede è il persistere del dubbio.
Siamo alla fine di questa conversazione, che per fortuna non ci ha impegnato per tutto il tempo che ha caratterizzato la Sua con Primo Levi e credo che questo sia il momento di tirare delle somme, di azzardare dei giudizi.
So che non è facile e so pure che parlare di quest’uomo Le riesce difficoltoso, ma è proprio per questo che la domanda che segue ha il suo senso.
Che cosa ha rappresentato e continua a rappresentare per Lei Primo Levi?

Il rapporto tra me e Primo Levi è il rapporto tra uno scrittore “minore” e uno non soltanto “maggiore”, ma “massimo”. Levi era come dev’essere uno scrittore, e come, nel mio piccolo, tento di essere io: uno scrittore “separato”, che si presenta al mondo con i libri, non in tv, non nei giornali, non nei premi. Perciò era uno scrittore dimenticato. Si stampavano storie della letteratura, in cui Levi non c’era. Ricordo che il manuale di storia letteraria più diffuso allora nei licei e nelle università, cioè quello di Natalino Sapegno, era giunto alla 43esima ristampa, e a Primo Levi non dedicava neanche una riga. Ne ho parlato col direttore del supplemento letterario della “Stampa”, che allora era Luciano Genta, e lui mi ha consigliato: “Scrivi un ‘Parliamone’”. Il “Parliamone” era una rubrica-jolly, firmata ora da un collaboratore ora da un altro, in cui si esponeva un problema letterario-culturale-editoriale del momento. Scrivo il “Parliamone”. La mia domanda era: “Si può ristampare 43 volte una storia letteraria, e dimenticare sempre Primo Levi?”. Alla 44esima edizione, Natalino Sapegno include Primo Levi con queste parole: “È forse il più grande scrittore italiano del secolo”. Allora la mia domanda diventa: può una storia letteraria italiana dimenticare per 43 edizioni il più grande scrittore del secolo? Da che cosa nasceva questa dimenticanza? Dal fatto che Levi viveva rintanato, non andava a convegni, non partecipava a dibattiti, non si faceva notare in nessun modo; se pubblicava un libro, l’editore mandava le copie alla stampa, ma non sollecitava nessuna risposta. Si comportava come deve comportarsi uno scrittore: scrive i libri e sparisce. Sono convinto che fargli avere il Nobel sarebbe stato possibile e facile. Questa mia “Conversazione”, della quale stiamo parlando qui, è uscita in Svezia, sono andato a presentarla a Stoccolma, all’Istituto Italiano di Cultura e all’Università: c’erano molti ascoltatori, studenti, docenti, giornalisti, scrittori (a Stoccolma, se vien presentato all’Istituto di Cultura Italiano un autore, gli intellettuali svedesi accorrono perché sanno che lì si trova il vino italiano; non è che nei negozi e nei ristoranti il vino italiano sia introvabile, ma è carissimo, perché è gravato da una pesante tassa che non va al Fisco ma alla Casa Reale), c’erano anche membri dell’Accademia di Svezia, votanti al Nobel, e parlando con loro ho avuto la netta sensazione che, se Levi fosse stato presentato al Nobel, gliel’avrebbero dato. Ma questa è un’operazione strana, che non dipende per niente dal Ministero della Cultura o dell’Istruzione, ma solo dal Ministero degli Esteri. I nostri Istituti Culturali all’estero sono gestiti dalla Farnesina. Anche questa è un’assurdità. Ma parliamoci francamente: cosa aggiungerebbe il Nobel, a Primo Levi? Nulla.

Grazie, caro Camon, per la bella conversazione, dalla quale esce un quadro ancor più completo della straordinaria personalità di Primo Levi.

Conversazione con Primo Levi

di Ferdinando Camon

Presentazione dell’autore

Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabattolo

Guanda Editore

www.guanda.it

Collana Quaderni della Fenice

Pagg. 75

ISBN 9788882469290

Prezzo € 10,00

© Letteratitudine

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LA POESIA: SPECIALITA’ DEI PERDENTI? http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/26/la-poesia-specialita-dei-perdenti/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/03/26/la-poesia-specialita-dei-perdenti/#comments Thu, 26 Mar 2009 21:45:00 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/letteratitudine/2007/06/11/la-poesia-specialita-dei-perdenti/ La poesia è una specialità dei perdenti?
Ripropongo con questa domanda secca uno dei miei post permanenti dedicati alla poesia. Questo post treva origine da un articolo del 2007 pubblicato da Berardinelli sul Domenicale de Il Sole24Ore. Credo che sia ancora attualissimo.
In coda potrete leggere un’intervista in tema che mi ha rilasciato Renzo Montagnoli.
Dunque… la poesia è una specialità dei perdenti?
A voi.
Massimo Maugeri

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Post dell’11 giugno 2007

La poesia annoia? La poesia è ghettizzata? La poesia è in crisi? Sono in crisi i lettori di poesia?

Qualche giorno fa, per l’esattezza il 27 maggio, Alfonso Berardinelli ha pubblicato un articolo sul Domenicale de Il Sole24Ore. Un articolo che ha fatto molto discutere. Il titolo è emblematico: “Togliamo la poesia dal ghetto”.

Ancora una volta, partendo dallo spunto offerto da Berardinelli, potremmo tornare a domandarci cosa si intende per poesia e chi è poeta. La discussione, per la verità, ha toccato altri punti. Per esempio: Chi legge poesia? E, soprattutto, chi è davvero in grado di valutare un testo di poesia?

Scrive Berardinelli: “Chi si accorge che un libro di poesia è brutto o inesistente sono sì e no cento persone. Di queste cento, quelle che lo dicono sono una ventina. Quelle che lo scrivono sono meno di cinque.”

Ma prima ancora di giungere a questa conclusione si domanda: “chi conosce a memoria un paio di testi scritti dalle ultime generazioni di poeti?”

È pessimismo o realismo, quello di Berardinelli?

Vi riporto quest’altro stralcio dell’articolo, che coincide con una ulteriore serie di domande:

“Chi potrebbe credere oggi che fino a vent’anni fa “testo poetico” era sinonimo di testo letterario e che tutta la teoria della letteratura, da Jakobson in poi, ruotava intorno alla nozione di “funzione poetica del linguaggio”? Ora i teorici, quando ci sono, si occupano di romanzi. La poesia sembra  diventata la specialità dei “perdenti” e i critici che se ne occupano dimostrano un’inspiegabile vocazione al martirio. Chi li inviterà mai a un convegno? Quale giornale recensirà i loro libri?”

Spunti, domande e considerazioni che giro a voi, amici di Letteratitudine.

Cosa ne pensate?

Ha ragione Berardinelli?

C’è qualcuno, tra voi, che ritiene di rientrare nel ristretto gruppo di cento persone in grado di accorgersi che un libro di poesia è brutto o inesistente?

La parola è vostra.


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INTERVISTA A RENZO MONTAGNOLI

Renzo Montagnoli nasce a Mantova l’8 maggio 1947. Laureato in economia e commercio, dopo aver lavorato per lungo tempo presso un’azienda di credito ora è in pensione e vive con la moglie Svetlana a Virgilio (MN).
Ha vinto con la poesia Senza tempo il premio Alois Braga edizione 2006 e con il racconto I silenzi sospesi il Concorso Les Nouvelles edizione 2006.
Sue poesie e racconti sono pubblicati sulle riviste Carmina, Isola Nera, Prospektiva e Writers Magazine Italia, oltre a essere presenti in antologie collettive e in e-book.
Ha pubblicato le sillogi poetiche Canti celtici (Il Foglio, 2007) e Il cerchio infinito (Il Foglio, 2008).
E’ il dominus del sito culturale Arteinsieme e del blog Armonia delle parole.

Quando hai scritto la tua prima poesia?
Tralasciando qualche cosina da fanciullo, di cui peraltro non ho più memoria, la prima poesia è abbastanza recente e risale ai primi del 2003. Prima leggevo, oltre alla narrativa, anche poesie, soprattutto queste, in parte per una comodità legata ai tempi ristretti a causa dell’attività lavorativa.

Sei laureato in economia e commercio e per molti anni hai lavorato in banca. Come è possibile conciliare la creatività poetica con un lavoro che, di norma, è considerato “freddo” e “asettico”?
Quando lavoravo in banca non scrivevo poesie e nemmeno racconti; mi dedicavo tutto all’attività e non potevo, anche per una questione psicologica, nemmeno ipotizzare di stilare una poesia. C’è da dire che, però, potevo usufruire di una certa creatività, perché il ruolo che ricoprivo (responsabile dell’ufficio legale) non era asettico, con tutte le cause legali che avviavo o che vedevano come convenuto il mio istituto. Questo mi ha consentito di non spossessarmi di quanto avevo appreso, ovviamente a scuola, in campo letterario, anzi vi attingevo per predisporre le comparse di risposta, o per integrare le conoscenze legali nel redigere le citazioni. Penso che questo lavoro sia il meno bancario che possa esistere e infatti non nascondo che mi piaceva molto.

Conosci il romanzo “La morte in banca” di Pontiggia? Cosa ne pensi?
Ne ho sentito parlare, ma non l’ho mai letto. Penso che sia una descrizione del lavoro del bancario, impiegato spesso malvisto dagli esterni perché freddo, addirittura glaciale, e inoltre rappresenta ai più il tentacolo di un moloch pachidermico e insensibile quale è nell’opinione comune qualsiasi azienda di credito. Ci sono impiegati così, con una spanna di pelo sul cuore, e che per la carriera sono disposti a tutto, ma ci sono anche quelli che lavorano a testa bassa e che riescono perfino a risultare simpatici ai clienti.

C’è un poeta del passato che consideri come tuo “Maestro”?
Tutti. Da ognuno che ho letto ho imparato qualche cosa e dire quale è stato più prodigo di conoscenza nei miei confronti mi è difficile. Tuttavia, visto che c’è da fornire una risposta, mi permetto di fare tre nomi:
Publio Virgilio Marone, per la ricerca quasi ossessiva della purezza nello stile, ma soprattutto perché non tanto con l’Eneide, ma con Le bucoliche e Le georgiche ha saputo creare opere di straordinaria attualità.
Giovanni Pascoli, sfortunato, chiuso nell’alveo familiare, ha saputo fondere metrica classica e profondità di pensiero.
Giuseppe Ungaretti, un uomo nato troppo tardi e morto troppo presto. Mi spiego meglio: è indubbio che lui è il capostipite della corrente ermetica, che si è esaurita troppo velocemente, anzi direi che se n’è andata con lui. Ungaretti mi ha sempre colpito per quei versi così immediati che dicono tanto con poco.
Comprendo che ho citato tre maestri d’eccezione e che come allievo assomiglio un po’ a Pierino, però sono autori che ho studiato e ristudiato, che mi sono entrati dentro e dai quali forse, a volte, riesco ad attingere qualche cosa.

Che differenza c’è, a tuo avviso, tra poesia e componimento poetico?
La poesia ricorre al significato semantico delle parole, componendole in suoni e adottando un ritmo, così che ne scaturisce una musicalità. In pratica il poeta compone, ricorrendo anziché alle note, alle parole e in questo contesto esistono diverse tipologie di componimenti poetici, che hanno caratteristiche peculiari di costruzione e di ritmo, come, tanto per citarne alcuni, il poema o la ballata. Così come esiste il componimento musicale esiste anche quello poetico.

Poeti si nasce o si diventa?
Il talento è innato, ma per svilupparlo occorrono studio e applicazione. Quindi, sarebbe meglio dire che poeti si nasce, ma che scrittori di poesie si diventa.

La poesia è una specialità dei perdenti?
Occorre preliminarmente vedere che cosa si intende per perdente. In una società come la nostra, in cui il valore di un individuo si misura con i suoi profitti, è senza dubbio vero; è fuori discussione che anche il più famoso dei poeti ritrae dalla sua arte assai meno di un mediocre narratore. Del resto, quando di parla con qualcuno e quello ti chiede che cosa scrivi, se rispondi che sono poesie ti guarda con un’aria di commiserazione. Non credo che i poeti siano dei narratori falliti o comunque dei perdenti, penso invece che, come qualsiasi individuo, si sentano realizzati in ciò che riescono a esprimere. La capacità di trasmettere emozioni agli altri sondando dentro se stessi è solo una piccola parte della soddisfazione che un poeta può provare; il sapere interagire con il mondo e con il proprio “io” finisce con il far scoprire nuovi orizzonti prima del tutto impensabili e questa continua ricerca è al tempo stesso punto di arrivo della conoscenza e stimolo per nuovi traguardi. Non vedo pertanto né perdenti, né vincenti, ma solo dei realizzati.

Cosa consiglieresti a un poeta esordiente che ha velleità di pubblicazione?
Che è una tragedia! E’ strano, perché ci sono tanti che scrivono poesie e assai meno che le leggono. Ne consegue che il ritorno economico di un libro di poesia non è frequente ed ecco allora che molti editori (non tutti a onor del vero) chiedono all’aspirante poeta di contribuire alle spese di pubblicazione. E’ deprimente, ma mi ricordo che un certo Pincherle, più noto come Moravia, pubblicò il primo romanzo esclusivamente a sue spese.
Egoisticamente gli consiglierei di farsi conoscere attraverso Internet, magari ricorrendo ad Arteinsieme, che non pubblica tutto e tutti, ma fa una certa cernita in modo da avere un livello qualitativo medio più che soddisfacente.

Hai nuove pubblicazioni in cantiere?
Pubblicazione è un nome grosso. Vedi in genere scrivo sillogi tematiche e attualmente una c’è, molto lontana dal completamento, ma esiste.
Non so dirti nemmeno l’epoca presumibile in cui sarà terminata, perché l’importante è che scriva qualche cosa che mi soddisfi. Poi, se avrò la fortuna che venga pubblicata, bene, ma in caso contrario la metto su Arteinsieme.

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BIRGITTA TROTZIG, GÜNTER GRASS E POETI LETTERATITUDINIANI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/13/birgitta-trotzig-gunter-grass-e-poeti-letteratitudiniani/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/13/birgitta-trotzig-gunter-grass-e-poeti-letteratitudiniani/#comments Tue, 13 Jan 2009 22:58:43 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/01/13/birgitta-trotzig-gunter-grass-e-poeti-letteratitudiniani/ poesia.jpgQuesto è un post dichiaratamente dedicato alla poesia…
Colgo l’occasione per presentare le nuove opere poetiche di due grandi autori: Birgitta Trotzig e Günter Grass. E contestualmente ne approfitto per presentare le silloge di alcuni poeti che – in un modo o nell’altro – hanno “incrociato” questo blog. Mi piace chiamarli poeti letteratitudiniani: Cristina Bove, Domenico Calcaterra, Carlo Carabba, Andrea Di Consoli, Elio Distefano, Gianfranco Franchi, Patrizia Garofalo, Marco GattoRenzo Montagnoli, Alfio Patti, Leandro Piantini, Franco Romanò, Maria Teresa Santalucia Scibona.
In fondo al post troverete le immagini delle copertine dei libri coinvolti. Cliccandoci sopra si apriranno pagine di approfondimento.
Mi piacerebbe che i poeti letteratitudiniani (ne approfitto per precisare che nessuno di loro è stato messo al corrente di questo post) ci presentassero la loro opera e ci offrissero una poesia da essa estratta (magari quella che ritengono particolarmente significativa). Poi li invito a interagire tra loro… e a rispondere alle eventuali domande degli altri frequentatori del blog.

Ai poeti letteratitudiniani chiedo: quando avete incontrato la poesia?

A tutti chiedo, rifacendomi a questo vecchio post (la poesia specialità dei perdenti?)
- ha ancora senso, oggi, scrivere e leggere poesie?
- perché scriverle? perché leggerle?

Veniamo a Birgitta Trotzig e a Günter Grass: le loro opere poetiche che ho il piacere di segnalarvi sono “Nel fiume di luce. Poesie 1954-2008” (Mondadori) di Birgitta Trotzig (tradotte e curate da Daniela Marcheschi) e “Dummer August” (Raffaelli) di Günter Grass (con prefazione di Claudio Groff).
I due suddetti volumi, e gli approfondimenti che leggerete di seguito, mi stimolano a formulare altre due domande:
- fino a che punto la parola può essere intesa come principio generativo, come legge per la creazione del mondo? (riferimento a Trotzig)
- se ogni “macchia vincola” fino a che punto la parola può, se non cancellarla, quantomeno… compensarla? (riferimento a Grass)
Di seguito la recensione di Bianca Garavelli (per il libro della Trotzig) e una scheda sulla silloge di Grass.

Massimo Maugeri

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“Nel fiume di luce. Poesie 1954-2008″ di Birgitta Trotzig – € 13,00 – 2008, XXV-251 p., Curatore Daniela Marcheschi  – Mondadori

di Bianca Garavelli- Avvenire del 27/12/2008

La parola come principio generativo, ‘legge’ per la creazione del mondo. È questa l’idea centrale che anima la poesia della svedese Birgitta Trotzig, intensa protagonista della letteratura del suo paese nel Novecento e oltre.
Un’autrice, nata a Goteborg nel 1929, fin da giovanissima dedita alla scrittura e fin da giovane convertita alla fede cattolica, in cui la forte dimensione religiosa ha segnato a tal punto la scrittura da creare una sorta di fusione fra i generi, attraverso uno stile visionario in cui la potenza generativa della parola si esprime creando immagini e metafore vertiginose, senza distinzioni asfittiche fra prosa e poesia.
Daniela Marcheschi ne ha adesso tradotto curato con affettuoso rigore un’edizione complessiva per Mondadori, che raccoglie, con ricche scelte antologiche, tutti i principali libri poetici di Birgitta Trotzig. E ha il valore aggiunto di un dialogo costante fra traduttrice e autrice. Il titolo, Nel fiume di luce, sintetizza bene la potenza visionaria di questa poesia che, per certi aspetti, somiglia a quella del Dante paradisiaco, quando descrive i più alti luoghi dei beati, dove le presenze individuali si fondono e trasformano in una continua mutazione di forme luminose.
Così, come nel contrapporsi che è anche un fondersi fra bene e male, la poesia e la prosa di Trotzig sembrano partecipare dell’energia che ha dato origine all’universo, ne sono la prova letteraria, per così dire. E se le sue poesie tendono ad assumere ritmi prosastici, con versi lunghi e immagini complesse che si dipanano in ampi spazi sulla pagina, anche nei suoi romanzi, per ora non tradotti in Italia, gli stessi temi e gli stessi ritmi della poesia trovano dimora. Come in Levande och doda (‘Vivi e morti’), dove luce e ombra, vita e morte coesistono mostrando come nella materia misteriosa che compone l’universo sia proprio la compresenza degli opposti la sostanza, e la scintilla che genera la vita.
Sono riflessioni che ricordano, in parte, l’idea visionaria di un racconto di Borges, La scrittura del dio, il cui protagonista ricorda un’antica tradizione, secondo cui una frase di origine divina, scritta alle origini della terra, avrebbe scongiurato i mali del mondo. Così nella scrittura di Trotzig la parola è essere vivente, perfettamente partecipe della natura dei viventi lettori, e al tempo stesso chiave per accedere al mistero. Lo si comprende dal modo in cui l’autrice lascia muovere le immagini, come se una volta posate sul foglio procedessero con movimento proprio (e Immagini è il titolo del suo libro del 1954), che parlano dei misteri della fede, come nella poesia Getsemani che con incredibile partecipazione emotiva racconta l’inizio della Passione.
O in quella dedicata al ‘Bambin Gesù’ di Praga, ‘travestito nell’abito d’oro scuro da imperatore’, dove la presenza oggettiva del mistero nella realtà quotidiana è filtrata attraverso il ricordo di un viaggio. Infatti l’altro aspetto importante della scrittura di Trotzig, coesistente con la visionarietà, è la sua densa corporeità, la capacità di entrare nella materia del mondo e riviverla, con la stessa intensità con cui penetra senza paura nella dimensione cosmica. Come di un viaggio nell’anima l’autrice può parlare della sua stessa vita, e dell’amore che prova per le terre in cui ha vissuto, tra cui l’Italia, superando i «Confini della parola» (titolo di un altro suo libro, del 1968) grazie al duttile strumento poetico che ha costruito.
Bianca Garavelli

da “Nel fiume di luce” di Birgitta Trotzig
Il viaggio fuori da un’asfissia, la nascita che riduce in pezzi sotto e sopra. Urlo, grido, sillabe. Più nessuna pretesa, nessuna esigenza sopravvissuta, non si dichiara niente su alcunché – si invoca, si rivolge la parola, si elemosina, si scongiura, fastidio, prima nell’invocazione “io”, prima nell’invocazione “vivo”.
Parola, riti, cattedrali, spezzati, infranti, esplosi, sudici. Nel buio, attraverso il buio, grido senza voce, parola rivolta senza labbra. Tutto il tempo “fa ruotare la terra con il suo peso di vivi e morti”.

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Dummer August – Günter Grass – € 12,00 – 2008, 110 p. – Raffaelli (collana Poesia contemporanea)

Questa raccolta nasce come reazione -risposta agli attacchi, spesso molto violenti, che in Germania – ma anche in Italia e un po’ in tutta Europa hanno accolto la confessione di Grass (contenuta nell’autobiografia “Sbucciando la cipolla”) di aver fatto parte per poche settimane negli ultimi mesi di guerra, a diciassette anni, di un’unità delle temute Waffen-SS, corpo elitario dell’esercito tedesco composto da fedelissimi di Hitler (ne abbiamo parlato anche qui). Un evento spiacevole che in qualche modo ha scalfito l’immagine di un uomo e di uno scrittore che fino a quel momento (agosto 2006) si era sempre trovato “dalla parte giusta” ed era considerato la coscienza critica della Germania. Con queste poesie, Grass si difende con le sue armi, quelle del grande scrittore che sa trascendere ampiamente dall’occasione fornita dall’episodio.
Con testo originale a fronte. I traduttori sono Claudio Groff, Claudia Crivellaro, Caterina Barboni, Elena Bollati, Velia Februari e Irene Montanelli.

LA MIA MACCHIA
Tardi, dicono, troppo tardi.
In ritardo di decenni.
Annuisco: sì, ce n’è voluto
prima che trovassi parole
per l’usurata parola vergogna.
Accanto a tutto ciò che mi rende riconoscibile
ora mi rimane appiccicata una macchia,
netta quanto basta
per gente
che indica con dito senza macchia.
Addobbo per gli anni che restano.
O forse si doveva provare il travestimento,
stendere il velo pietoso?
D’ora in poi mi circonderebbe la quiete
in mezzo a rane gracidanti.
Ma già dico sì, no e nonostante.
Non si può mascherare
il torto sanzionato.
Mai troppo tardi ciò che fu ed è
viene chiamato per nome.
La macchia vincola.

(da Dummer August di Günter Grass)

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I LIBRI DEI POETI LETTERATITUDINIANI

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AGGIORNAMENTO DEL 16 GENNAIO 2009

Nel latte della madre
di Filippo Tuena

Prediligo postazioni rialzate,
Battute dal vento, anche se pericolose
Per i colpi vaganti o l’ingordigia dei cecchini
Che prima della fine del turno
Vogliono ancora una volta far centro.

Ma in queste notti arabe
Sono i cumuli di macerie che m’aggradano di più
Perché a volte, sotto, li sento ancora lamentarsi,
Con voce sempre più sottile o insistente pervicacia.

Eppure moriranno entro pochi minuti
Ed è inutile affannarsi a sollevare le pietre,
Scalzare travi, rotolare macigni.

E’ la polvere che li condanna. S’incolla alla gola
O alle ferite sanguinanti e li sigilla come
Statue di gesso o sale. Immobili. Fermàti nel tempo
Come i calchi degli schiavi di Ercolano.

Per esperienza so che, passata l’orda,
Li ritroveranno quando spianeranno le macerie,
Solitamente avvinghiati alle madri.
Del resto il loro mondo era davvero poca cosa:
Un seno un poco avvizzito, un battito rassicurante del cuore.

Askenazita di Bolechov che hai pigiato il bottone,
Palestinese di Hebron che hai caricato il mortaio,
Texano di Dallas che hai il grilletto facile,
Talebano di Kabul che hai il coltello affilato:
Non cucinerai l’agnello nel latte della madre.

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MICHELANGELO LA GRANDE OMBRA. Incontro con Filippo Tuena http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/09/michelangelo-la-grande-ombra-incontro-con-filippo-tuena/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/09/michelangelo-la-grande-ombra-incontro-con-filippo-tuena/#comments Mon, 08 Dec 2008 23:32:40 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/12/09/michelangelo-la-grande-ombra-incontro-con-filippo-tuena/ michelangelo_buonarroti_statua.JPGParliamo di Michelangelo. Il grande Michelangelo Buonarroti. L’occasione ce la fornisce la ri-pubblicazione del libro di Filippo Tuena “Michelangelo la grande ombra” (Fazi, pagg. 313, euro 12).
Tuena – nel libro - si è interessato alla parte finale della vita di Michelangelo, ponendosi (e ponendo) le seguenti domande:
Perché Michelangelo, ormai anziano e malato, declinò i continui inviti di Cosimo de’ Medici a fare rientro a Firenze? Era trattenuto a Roma dagli obblighi di lavoro per il papa o era altro a impedirgli il ritorno in patria? .
Un romanzo che, come ha sostenuto Paolo Di Stefano sulle pagine del Corriere della Sera “ha il dono di essere insieme godibile e denso di tutte le inquietudini e le disillusioni che segnarono il glorioso autunno del Rinascimento”.
Ce ne parla in maniera più approfondita Renzo Montagnoli: di seguito potrete leggere la recensione al libro e un’intervista rilasciata dallo stesso Filippo Tuena.
A voi chiedo di discutere della vita e delle opere di Michelangelo. Vi siete mai soffermati a riflettere sulle opere di Buonarroti? Sulla loro importanza?

E naturalmente vi invito a interagire con Filippo Tuena (che parteciperà alla discussione), mentre Renzo Montagnoli mi aiuterà a moderarla e ad animarla.
Massimo Maugeri


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Michelangelo La grande ombra di Filippo Tuena
Fazi Editore – www.fazieditore.it - Narrativa romanzo
Pagg. 313 – ISBN: 9788881129737 -Prezzo: € 12,00

Recensione di Renzo Montagnoli

Leggere un libro di Filippo Tuena è sempre un’esperienza del tutto particolare, perché si può star certi, ogni volta, di trovarsi di fronte a una spiccata originalità, sia come struttura che come stile, entrambi mai ripetitivi.
La sua espressione artistica, infatti, non è mai rivolta a soddisfare il gusto di un pubblico assuefatto a modi di scrivere tradizionali, ma è il frutto di una ricerca che se nelle prima pagine può disorientare finisce poi con lo stupire, il meravigliare, perché non c’è nulla come la novità che possa veramente colpire il lettore attento.
Inoltre ci si accorgerà che successive riletture faranno scoprire nuovi motivi di riflessione, mantenendo inalterato il gradimento dell’opera.
Tuena, per parlarci di un Michelangelo al termine della sua vita, avrebbe potuto scrivere un romanzo tipicamente storico, magari avvincente, e invece ha saputo costruire una narrazione che travalica i limiti propri di quel genere, offrendoci non solo un affresco di pregevole fattura, ma un’approfondita disamina dei rapporti fra arte e potere e tra disfacimento senile e decadenza di un periodo storico di grande rilievo quale fu il Rinascimento.
Con queste finalità imbastisce un tessuto letterario che prende spunto da una domanda: perché l’ormai anziano, quasi inabile Michelangelo rifiutò i pressanti inviti di Cosimo de’ Medici a rientrare a Firenze? Che cosa determinò in lui la ferma decisione di non fare ritorno in patria e di morire così a Roma?
Si tratta di un quesito senza apparente risposta, tanto che si potrebbe pensare alle bizze di un vecchio, oppure addirittura a un pretesto dell’autore per imbastire il solito romanzo storico, e invece ci troviamo fra le mani un’opera dai mille risvolti, da finalità che a primo colpo non si scorgono, ma che nel loro insieme danno corpo e sostanza a un lavoro di straordinaria qualità.
Filippo Tuena infatti rivela ancora una volta la capacità di stupire, di essere artista alla ricerca dell’originalità dei propri lavori, tanto che non si smentisce con questo Michelangelo La grande ombra, già uscito otto anni fa sempre per i tipi di Fazi e ora in un’edizione rinnovata non solo nella veste, ma anche con modifiche e implementazioni.
L’autore si pone la domanda e cerca la risposta avviando un’indagine che vede protagonisti, di volta in volta, chi conobbe Michelangelo negli ultimi anni della sua vita, nomi talora famosi, come lo stesso Cosimo de’ Medici o Giorgio Vasari, tanto per citarne due, e altri meno noti, ma non per questo meno importanti per giungere al risultato principale, nonché per affrontare altri argomenti di interesse più generale.
Come le pietruzze, sapientemente accostate l’una all’altra, vanno a formare un mosaico, le testimonianze sono singole voci di un coro e con le loro specificità danno vita a un ritratto incredibilmente palpitante del grande pittore e scultore fiorentino.
Un uomo, esso, affetto da profonda solitudine, propria solo dei grandi geni che si sentono lontani dalla quotidianità degli altri uomini, impossibilitati a condurre un’esistenza normale; è una solitudine che al contempo esalta la sua arte, ma che anche lo isola, gli fa avvertire fortemente come la creatività sia concepibile solo con la massima astrazione e l’altrettanto massima libertà.
Michelangelo non torna a Firenze perché Cosimo de’ Medici rappresenta il potere, il principe che pretende la proprietà intellettuale di quell’opera d’arte che l’artefice invece sente solo sua.
Ma dal coro di voci, costituite da uomini con inevitabili pregi e difetti, quali l’invidia, il malanimo, emerge anche un altro elemento che, oltre a connotare la fase di declino del Rinascimento, proietta la specie umana ai nostri giorni, con gli stessi vizi e le stesse virtù, comuni dei mortali e che nulla contribuiscono all’accrescimento di valori della specie stessa.
Tuena non disprezza questi personaggi, anzi conferisce loro una propria dignità, facendoli anche portavoce di riflessioni su cui il lettore è indotto a soffermarsi, perché risultano tipiche dell’esistenza e quindi sempre di attualità. Al riguardo trascrivo alcune righe della testimonianza del poeta Giovan Battista Strozzi, righe che danno la misura di ciò che l’uomo pensa e sente quando avverte il declino della vita “Mi si viene a dire che Michelagniolo ha compiuto una scelta simile. O, non parlo di palazzi affrescati, di broccati, di arazzi. Del lusso, in una parola. Ma parlo del buio di una stanza, del rinchiudersi in se stesso, del cercare in sé la verità che fuori ci appare artefatta. Mai più grandi sepolture per le morti altrui; mai più affreschi per altri edifici. Tutto per sé è quello che produceva.”
E’ tutto un susseguirsi di opinioni, e anche di supposte verità, di autoreferenzialità, ma pure di profonda convinzione dei propri limiti; sono personaggi che riemergono dalle tenebre, si agitano, ricorrono a un linguaggio che l’autore di fatto ha inventato (una sorta di gradevole commistione tra rinascimento e moderno), operano freneticamente come tante formiche all’ombra del genio, ammiratrici, ma anche invidiose, perché incapaci di comprendere che cosa ci sia realmente al fondo della creazione di quei capolavori. Quei monumenti, quegli edifici, quelle statue che non finiscono di sorprendere sono al tempo stesso l’estasi e il tormento di un autore la cui genialità è tale da rendergli impossibile la convivenza con i comuni mortali.
Da questo libro, quindi, emerge non solo l’eterno contrasto fra potere e libertà artistica, ma scaturisce anche un ritratto veritiero, spesso impietoso, della condizione umana, di una specie dotata del bene dell’intelletto, eppure così fragile, così immatura da non riuscire a comprendere nemmeno se stessa.
Ci si chiederà comunque perché il titolo sia Michelangelo La grande ombra. Che cos’è quest’ombra? E’ quella in cui agiscono gli artisti dell’epoca inferiori al genio che brilla di luce propria, o è qualche cosa d’altro?
Se consideriamo già le pagini iniziali, con un Cosimo de’ Medici emiplegico, con un filo di bava che gli scende da un angolo della bocca, quasi un cadavere vivente, ma conscio del suo stato, e se poi leggendo percepiamo nelle risposte degli altri intervistati il timore, sempre latente ma che riemerge nell’occasione, della naturale conclusione della vita umana, a cui non pochi sono prossimi, o addirittura vi sono già giunti, emerge prepotente l’atmosfera dell’ombra della morte che aleggia su tutto, a riprova che la caducità è propria di tutti uomini, geni o sconosciuti che siano.
In questo quadro di dolorosa, ma naturale angosciante incertezza per il dopo, si viene così a delineare anche la decadenza di un periodo storico così importante per le arti quale fu il Rinascimento. Del resto i frutti, ormai marcescenti, del Concilio di Trento arriveranno non solo a condizionare la vita degli uomini, ma anche a creare un’epoca di illiberalità, una sorta di reazione metodica e oppressiva, di cui anche Michelangelo, ormai defunto, fu vittima, visto che si decise, con una stoltezza che si commenta sé, di metter le braghe alle figure ignude del Giudizio Universale.
Nella lotta fra libertà creativa e potere temporale quest’ultimo riprese il sopravvento, ma, per sua fortuna, Michelangelo già non c’era più.
Renzo Montagnoli
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Filippo Tuena è nato a Roma nel 1953 e vive a Milano. E’ laureato in Storia dell’arte.
Ha pubblicato:
Il tesoro dei Medici (Giunti Art & Dossier, 1987); Lo sguardo della paura (Leonardo, 1991), Premio Bagutta Opera Prima; Il tesoro dei Medici (De Agostani, 1992), in collaborazione con Anna Maria Massinelli; Il volo dell’occasione (Longanesi, 1994); Il diavolo a Milano (Ikonos, 1996); Cacciatori di notte (Longanesi, 1997); Tutti i sognatori (Fazi, 1999), Premio Super Grinzane-Cavour; La grande ombra (Fazi, 2001); La passione dell’error mio. Il carteggio di Michelangelo (Fazi, 2002); Quattro notturni (Aletti, 2003); Il volo dell’occasione (Fazi, 2004), nuova edizione; Le variazioni Reinach (Rizzoli, 2005), Premio Bagutta; Il diavolo a Milano – nuova edizione e Fantasmi di Schumann a Manhattan (Carte Scoperte, 2005); Michelangelo. Gli ultimi anni (Giunti Art & Dossier, 2006); Ultimo Parallelo (Rizzoli, 2007), Premio Viareggio.
Sito web: http://digilander.libero.it/filippotuena
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INTERVISTA A FILIPPO TUENA (nella foto)
di Renzo Montagnoli

Il romanzo è in pratica un’indagine svolta dall’autore, cioè da te, per appurare per quale motivo Michelangelo non sia voluto ritornare a Firenze negli ultimi anni della sua vita, nonostante gli inviti ripetuti di Cosimo de’ Medici. Sei andato a ritroso nel tempo interrogando tanti personaggi, alcuni noti, altri meno e altri ancora del tutto sconosciuti, una serie di ritratti di notevole efficacia. Allora, secondo te, per quale motivo Michelangelo è rimasto a Roma dov’è morto, e non è rientrato in patria?
- Mah, guarda, non è detto che sia l’autore a formulare le domande. Tu sai di quanto sia convinto del ruolo autoriale del lettore, di quanto una lettura coinvolta determini il piacere e persino la passione che può scaturire da un libro. Quindi sì, la persona che formula la domanda, (perché il libro ruota tutto attorno a una domanda) che ascolta i monologhi, potrei anche essere io ma senza sovraccaricare l’identificazione. Qui ci sono persone che parlano, identificabili, e qualcuno che ascolta, meno riconoscibile. Questo è il gioco, il meccanismo.
Quanto al dato storico, Michelangelo morì a Roma e fu trasportato a Firenze poche settimane dopo, secondo quanto aveva chiesto. Non c’era però mai voluto tornare dal 1534 e quindi per quasi trent’anni. Alla base di questo rifiuto vi sono molte motivazioni anche di carattere personale ma soprattutto c’era la situazione politica di Firenze, la fine della repubblica, il ritorno del ducato e la figura di Cosimo I, monarca assoluto col quale Michelangelo non aveva intenzione di entrare in rapporti anche se finì poi per fornire consigli su alcune fabbriche fiorentine come Palazzo Vecchio o la Biblioteca Laurenziana. Michelangelo sentiva fortemente il conflitto tra artista e committente, non poteva sopportare che il suo lavoro venisse utilizzato per giustificare in qualche modo la presa di potere da parte di Cosimo. Non voleva lavorare per un sovrano assoluto. Questa decisione comportò grandissime rinunce, quali sono quelle che deve sostenere un esiliato, ancorché rispettato, come Michelangelo.

Come nei tuoi precedenti lavori il personaggio è un pretesto per costruire un’opera la cui portata e la cui valenza va oltre lo stesso. Anche in questo caso la figura di un Michelangelo, ormai vecchio e solo, è in funzione di un discorso più ampio che gradirei che tu riassumessi di seguito, magari anche riferendo della genesi di questo romanzo che penso ti avrà impegnato non poco, soprattutto per le indispensabili ricerche di carattere storico.
- Michelangelo anziano è certamente molto legato a Léon Reinach e a Robert Scott – i protagonisti dei miei più recenti libri. L’argomento è sempre la devastazione del corpo umano o desideri che non si realizzano o il senso del destino a cui tutti siamo sottomessi. Avendo scelto di ripercorrere gli ultimi anni di Michelangelo era inevitabile che il libro prendesse questa piega desolata, anche se penso che sia una mia cifra abbastanza riconoscibile. Tieni conto che ho scritto il libro dopo un mio personale e volontario esilio da Roma a Milano e certe pagine sono piuttosto autobiografiche. Tra l’altro l’ho scritto in un tempo relativamente breve, meno di un anno, perché la formula dei monologhi mi consentiva grande libertà di azione e io stesso concedevo ai personaggi grande libertà. Non sempre, ti sarai accorto, rispondono a tono, spesso deviano dall’assunto, vanno per loro conto, persi nei loro pensieri, innamorati delle loro malinconie.
Alla base c’è un grande lavoro di ricerca, perché è dal 1985 che m’interesso di Michelangelo e soltanto nel 2000 ho pensato di scrivere un romanzo. In quei 15 anni ho letto tutto quello che Michelangelo aveva scritto, un immenso epistolario, una corposa raccolta di versi, persino i conti della spesa e una quantità spaventosa di testimonianze dirette. Meno m’interessava la critica mia contemporanea perché avevo l’impressione che potesse allontanarmi dalla ricostruzione di un ambiente e di un’epoca.
Tra l’altro Michelangelo anziano è in qualche modo il modello per tutti quelli che amano ciò che non è perfetto, ciò che viene abbandonato, è l’ideale argomento per coloro che ritengono che l’opera d’arte sia semplicemente l’ombra di qualcos’altro, irrecuperabile. Una visione del mondo neoplatonica – Michelangelo era un grande neoplatonico – tutta diretta a recuperare quel che si è perduto e che riaffiora per frammenti. Immagina i relitti galleggianti di una nave. Conoscendo i miei libri capirai come mi muovo tra questi relitti.

Oltre la proprietà intellettuale dell’opera d’arte, che penso sia una giusta rivendicazione di ogni autentico artista, in Michelangelo quindi c’era anche forte il desiderio che i frutti del suo genio non venissero utilizzati per giustificare l’ascesa al potere di Cosimo. In effetti lui era stato un sostenitore della repubblica, tanto da dover andarsene con la caduta di questa.
Questo concetto penso sia riproponibile in tutte le epoche, nel senso che l’autentico artista non dovrebbe essere al servizio del potere. Tuttavia, di coerenza intellettuale come quella di Michelangelo se ne trova pochina, scorrendo la storia.
Al riguardo, la tua opinione qual è, cioè l’artista deve mettersi a disposizione del potere, deve con le sue opere glorificarlo, o invece deve essere avulso dalla realtà politica del momento, onde esprime in completa libertà il suo genio?

- Michelangelo pone, a metà del cinquecento, uno dei quesiti più complessi del fare artistico: la proprietà dell’opera d’arte. Considerandola più il prodotto di un’idea che della manualità è evidente che se ne sentiva proprietario anche una volta che l’aveva terminata e che questa, materialmente, non gli apparteneva più. Michelangelo è l’unico artista del cinquecento – e il primo – che scolpisce statue importanti per se stesso. Il Bruto, la Pietà Bandini e la Pietà Rondanini sono opere personali, realizzate senza la spinta di una commissione ma solo rispondendo a un’intima necessità.
Volendo fare un paragone con la letteratura odierna, o del secolo appena trascorso, il suo atteggiamento non è diverso da quello di Kafka, di Joyce, di Proust, ma con quattro secoli di anticipo.

Da ultimo, un tuo giudizio personale, ma di competente in materia, sull’arte di Michelangelo.
- Guarda, io più che dall’arte, sono rimasto travolto dall’umanità di quest’uomo, dal suo desiderio di onestà intellettuale. La sua arte è il prodotto di questo pensiero, ed è grande e continua a commuoverci perché risponde a domande etiche piuttosto che estetiche, perché mette in discussione questioni che esulano dal fare artistico e coinvolgono la sfera esistenziale. Come mi scrisse una volta Romeo De Maio, “Michelangelo dà un senso alla vita.”
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AGGIORNAMENTO DEL 10 dicembre 2008

dal volume “Michelangelo la grande ombra” di Filippo Tuena

Francesco Amadori, detto Urbino,
scalpellino e domestico

Io glielo dissi subito che potevamo permetterci di meglio che quella casetta buia di fronte alla Colonna Traiana.
Oddio, Roma per me era comunque uno splendore. Venivo da Casteldurante e poi da Firenze che è bellissima, sì, ma non antica. Roma invece era la meraviglia delle meraviglie. E se il Tevere non è imponente come l’Arno ed è più lento e limaccioso, non taglia però come quello la città dritto come un fuso, senza fantasia. No, il Tevere fa una bella ansa, che intenerisce, che è cosa rara, proporzionata, naturale.
Ma la casa, a Macel de’ Corvi, poteva scegliersela meglio, se avesse voluto. La verità è che cercava proprio una cosa così, senza pretese. Buia. Quasi volesse nascondersi. Avrebbe potuto finire in Belvedere. Avrebbe potuto comprarsi un palazzo come Sangallo o Raffaello. Avrebbe potuto scegliersi un cardinale, Salviati o Ridolfi, o una famiglia nobile e ricca, come gli Strozzi o gli Altoviti, e vivere con loro. Scelse Macel de’ Corvi: il monnezzaro, i macellai, i panettieri, gli scalpellini. Scelse di starsene per proprio conto.
E poi, quando la prese, forse ancora non sapeva che ci avrebbe vissuto per il resto dei suoi giorni. In quell’anno, nel 1532, noi facevamo ancora avanti e indietro tra Firenze e Roma; quattro mesi lì, il resto a Roma. Così aveva deciso Papa Clemente, che voleva che Michelagniolo terminasse le fabbriche di San Lorenzo: la Sagrestia e la Biblioteca. Perché della facciata della Basilica, ci s’era fatta una croce sopra, tanto sa-rebbe venuta a costare, di marmi, di sculture e d’impresa e mai s’era neppure principiata.
Così io credo che lui avrebbe potuto pensare che una casetta come quella di Macel de’ Corvi sarebbe andata benissimo anche se non era proprio la più elegante e prezio-sa di Roma. Ma poiché doveva starci lontano per dei mesi, era meglio che fosse una cosa che non portava via tanto tempo e denaro per mantenerla. Michelagniolo in que-ste cose era economo. E infatti, quando stavamo a Firenze, la casa era vuota. Ci veniva ogni tanto un amico, a controllare che i ladruncoli non si rubassero le galline e i frutti dell’orto non marcissero; e li coglieva e li regalava agli amici: fra’ Sebastiano, don Tommaso.
Ecco, sicuramente così aveva pensato: una piccola casa e un piccolo impegno.
Ma poi accaddero, uno dopo l’altro, come chicchi di un rosario, quei fatti che lo portarono via da Firenze. Papa Clemente che voleva il Giudizio dipinto sulla parete della Sistina; la lite a Firenze con il Duca Alessandro; i dissapori con i parenti; l’umiliazione con Febo; e Tommaso che era a Roma e che rubava l’anima e ogni pensiero al mio padrone..
Così come la calamita attrae il ferro e come la bussola indica sempre il nord, l’animo di Michelagniolo prese quella direzione che l’attrazione gl’indicava e non poté, mai più, volgere altrove lo sguardo.
Delle cose che lui lasciò a Firenze: opere, affetti, sofferenze, volle dimenticarsene. Soprattutto a me dispiace che quelle belle opere, statue e architetture, siano rimaste abbandonate. E che la memoria d’esse si sia cancellata nell’animo di chi le aveva create. Più volte ho cercato di convincerlo a tornare sui suoi passi e se non voleva farlo per onorare un Duca che detestava, che almeno lo facesse per pietà verso la sua arte; che nessun altro vi avesse a metter le mani e rovinasse quelle belle proporzioni. Ma lui ha fatto rocca del suo convincimento e nulla ho potuto contro la sua scelta. E così la casa di Macel de’ Corvi divenne il carapace d’una tartaruga, la nicchia d’un mollusco, la tana d’un orso. Divenne la sua casa per la vita. E la mia, fino a quando la morte non m’ha portato via.
Perché io subito l’ho capito che in quella casa c’eravamo venuti per morirci. E morendo io, come lui ha scritto, gli ho insegnato a morire. Ma di questi insegnamenti, oggi, morti tutti e due, che cosa rimane. Meglio sarebbe stato imparare a vivere, perché la vita è lunga e difficile e incerta, e l’atto della morte, brevissimo, e facile, e sicu-ro. E tutti, quando è il momento, sanno come fare, anche se non è cosa che ci si può preparare, perché accade una volta soltanto e quella volta basta per sempre.
Un ossario comune

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