LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » roberto alajmo http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 ARRIVA LA FINE DEL MONDO (e ancora non sai cosa mettere) http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/02/18/arriva-la-fine-del-mondo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/02/18/arriva-la-fine-del-mondo/#comments Mon, 18 Feb 2013 16:50:11 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=4774 Rimetto in primo piano questo post dedicato alla “fine del mondo” (secondo i Maya, ma non solo) per dare l’occasione alle autrici e agli autori dell’antologia ULTIME NOTIZIE: FINE DEL MONDO (Navarra editore) di dire la loro sull’argomento.

Massimo Maugeri

* * *

Post del 18 dicembre 2012
Arriva la fine del mondo (e ancora non sai cosa mettere)Cari amici, ci siamo. Secondo i Maya, la fine del mondo si verificherà il prossimo 21 dicembre. Se ciò dovesse essere vero, questo potrebbe essere l’ultimo post di Letteratitudine. Uso il condizionale perché, nel caso in cui la fine del mondo iniziasse di sera, farei in tempo – venerdì mattina – ad accogliere in radio Melania Mazzucco (prossima ospite di “Letteratitudine in Fm”) e a pubblicare il relativo post. Voi, naturalmente, fate il vostro dovere per disinnescare la profezia mayana (o mayese?). Toccate ferro, o “altrove” (se è il caso). Andate a caccia di cacche di cane sui marciapiedi e schiacciatele con coraggio. Insomma, impegnatevi al massimo per scongiurare la catastrofe.
Che poi, a pensarci bene, come dovrebbe verificarsi questa fine del mondo? Improvvisa inversione dei poli? Arresto della rotazione terrestre? Pandemia? Impatto con un asteroide? Esplosione di una supernova? Queste domande le ho prese in prestito dalla scheda del volume di Roberto Alajmo intitolato “Arriva la fine del mondo (e ancora non sai cosa metterti)” (Laterza, 2012).
La funesta profezia del 21 dicembre 2012 è solo un esempio”, ci dice Roberto Alajmo. “L’ultimo, se i Maya avevano ragione. Il fatto è che periodicamente l’umanità si prepara a sloggiare dal pianeta Terra. Millenarismi di ogni tipo per secoli hanno attirato la credulità popolare, e ogni scampato pericolo è sempre servito solo come carburante per la profezia successiva. In particolare, però, è la generazione di noi contemporanei quella che sta coltivando con maggiore convinzione l’idea di essere l’ultima della Storia del Mondo. Dopo di noi, il diluvio: e pazienza per i posteri. Potrà essere un collasso finanziario, oppure un drammatico stravolgimento climatico. Forse un’ondata migratoria devastante. Uno tsunami di spazzatura. Una guerra mondiale. La fine delle risorse petrolifere. Oppure tutte queste cose assieme, senza escludere i classici del cinema: impatto con un meteorite o invasione di extraterrestri. Se pure i Maya avessero torto, un’Apocalisse sembra davvero alle porte. Se non altro la fine del mondo così come siamo abituati a viverlo da qualche secolo a questa parte. Ecco lo specifico contemporaneo: ci sentiamo talmente sicuri di un’imminente Apocalisse che ci siamo convinti di non poter fare nulla per fermarla. Se ne ricava la più classica delle profezie che si autoverificano: siccome la fine del mondo ci sarà, ci sarà la fine del mondo”.
Troverete un approfondimento sul libro di Roberto Alajmo cliccando qui. Cliccando su LetteratitudineNews, invece, avrete la possibilità di leggere un testo messo a disposizione da Roberto appositamente per questo dibattito.

In ogni caso non c’è dubbio che la profezia dei Maya abbia fatto presa sull’immaginario collettivo del pianeta Terra. E che tale suggestione sia stata fonte di ispirazione anche nel mondo della fiction. Come te la immagini la fine del mondo? Questa, per esempio, è stata la domanda alla base del progetto editoriale delle “Cronache dalla fine del mondo”: un’antologia di racconti, curata da Laura Costantini per i tipi di Historica edizioni, che ha coinvolto ben 25 autori ai quali è stato chiesto – appunto – di “immaginare” la fine del mondo. Su LetteratitudineNews, avrete la possibilità di leggere la prefazione di Maurizio de Giovanni.

Vi propongo di approfondire la conoscenza dei due libri citati, approfittando della partecipazione al dibattito degli autori coinvolti. Per favorire la discussione, provo a formulare qualche domanda “in tema”.

1. Che tipo di emozione, o reazione, ha suscitato in voi l’apprendimento della notizia della “fine del mondo” profetizzata dai Maya?

2. La diffusione della notizia della profezia ha causato davvero una sorta di psicosi collettiva, oppure no? Qual è la vostra percezione?

3. La popolazione del 2012 è più “immune” dal rischio di “superstizione apocalittica” rispetto a quella delle generazioni dei secoli scorsi, oppure – paradossalmente – la facilità della circolazione delle notizie e la maggiore possibilità di interazione (anche online) rendono tale rischio ancora più alto?

4. Domanda/gioco a) – giusto per sdrammatizzare. Vi viene chiesto di scrivere un messaggio, un testo breve. In caso di “fine del mondo” solo il vostro messaggio potrà essere salvato dall’oblio a beneficio di ipotetici posteri o di eventuali extraterrestri curiosi. Cosa scrivereste?

5. Domanda/gioco b) – giusto per esorcizzare. Se dovesse arrivare la fine del mondo, che abito indossereste?

Grazie in anticipo per la partecipazione.

Massimo Maugeri


© Letteratitudine

LetteratitudineBlog
LetteratitudineNews
LetteratitudineRadio
LetteratitudineVideo

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2013/02/18/arriva-la-fine-del-mondo/feed/ 156
L’E-BOOK E (È?) IL FUTURO DEL LIBRO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/06/20/ebook-e-il-futuro-del-libro/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/06/20/ebook-e-il-futuro-del-libro/#comments Mon, 20 Jun 2011 21:07:59 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3368 Vorrei riprendere la discussione sull’e-book già avviata a partire da questo post, offrendo come spunto per ulteriori riflessioni (e per un approfondimento del dibattito) la pubblicazione di questo nuovo volumetto che ho realizzato per i tipi della piccola casa editrice “Historica” (disponibile, ovviamente, anche in formato elettronico). Il titolo è già un punto di domanda: “L’e-book e (è?) il futuro del libro”.
L’intento non è quello di fornire approfondimenti tecnici sull’e-book, ma di divulgare opinioni emotive sull’argomento. Per far ciò ho coinvolto alcuni tra i più rappresentativi addetti ai lavori del mondo del libro – scrittori, editori, editor, critici letterari, giornalisti culturali – che hanno gentilmente messo a disposizione il loro parere (da qui il sottotitolo…).
Ho chiesto loro di ragionare sul “fenomeno e-book” ed esprimere un’opinione facendo riferimento alle seguenti domande: Cosa ne pensa dell’e-book? Come immagina il futuro dell’editoria e della letteratura tenuto conto del “peso crescente” delle nuove tecnologie? E cosa ne sarà dei libri di carta? C’è il rischio che possano diventare “pezzi da collezione”?
Dopo una parte introduttiva sulla evoluzione del libro elettronico e sugli e-book readers, e dopo una sintetica analisi di mercato, questo piccolo volume offre le “opinioni emotive” sull’e-book fornite da: Roberto Alajmo, Marco Belpoliti, Gianni Bonina, Laura Bosio, Elisabetta Bucciarelli, Ferdinando Camon, Daniela Carmosino, Antonella Cilento, Paolo Di Stefano, Valerio Evangelisti, Vins Gallico, Chiara Gamberale, Manuela La Ferla, Nicola Lagioia, Filippo La Porta, Gianfranco Manfredi, Agnese Manni, Diego Marani, Dacia Maraini, Daniela Marcheschi, Michele Mari, Raul Montanari, Antonio Paolacci, Romana Petri, Antonio Prudenzano, Giuseppe Scaraffia, Elvira Seminara, Filippo Tuena, Alessandro Zaccuri.

Vorrei coinvolgere nello sviluppo della discussione anche voi, proponendo come sempre alcune domande (e invitandovi a fornire la vostra risposta, se potete)…

1. L’e-book è davvero il futuro del libro?

2. Se sì, fino a che punto?

3. Che cos’è un libro: un supporto cartaceo, o il suo contenuto? O entrambi?

4. Tra un volume rilegato di fogli bianchi e un romanzo leggibile su un e-book reader, quale dei due è… più libro?

5. Come immaginate il futuro dell’editoria e della letteratura tenuto conto del “peso crescente” delle nuove tecnologie?

6. Cosa ne sarà dei libri di carta? C’è il rischio che possano diventare “pezzi da collezione”?

7. Una diffusione “significativa” dell’e-book  potrebbe favorire l’incremento della lettura?

La discussione on line proseguirà – per chi potrà partecipare – alla Feltrinelli Libri e Musica di Catania (via Etnea, n. 285 ) giovedì 30 giugno 2011, alle h. 18.

Vi aspettiamo!

Massimo Maugeri

P.s. Ne approfitto per segnalare questo post di Lipperatura incentrato sull’attuale crisi dell’editoria determinata dal decremento della vendita dei libri (il post riprende un articolo pubblicato su Repubblica, con dichiarazioni di Marco Polillo – presidente dell’Aie – anche sul “fenomeno e-book”)

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/06/20/ebook-e-il-futuro-del-libro/feed/ 207
GIUDIZIO UNIVERSALE SULLA TV CHE VORRESTE http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/01/11/giudizio-universale-sulla-tv-che-vorreste/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/01/11/giudizio-universale-sulla-tv-che-vorreste/#comments Tue, 11 Jan 2011 21:25:38 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2893 Qualche settimana fa ho ricevuto una mail da Dario De Marco, della redazione di Giudizio Universale.

Nella mail Dario mi proponeva di organizzare una discussione sulla “Tv ideale” partendo da alcuni articoli – pubblicati sulla rivista – predisposti da alcuni scrittori e intellettuali (tra cui frequentatori e amici di questo blog come Roberto Alajmo, Antonella Cilento, Carlo D’Amicis, Michela Murgia, Sandra Petrignani).

Accolgo con molto piacere l’invito di Dario e di Giudizio Universale, ma – come sempre – l’esito di questo dibattito (su “la Tv che vorreste/vorremmo”) dipenderà dalla vostra partecipazione…
Peraltro, sarebbe interessante (almeno, secondo me) provare a tracciare – in breve – la storia della televisione in generale e della televisione italiana in particolare. E poi potremmo riflettere su alcune citazioni in tema che saranno inserite nel corso della discussione.
Ecco, intanto, una serie di domande (siete tutti invitati a rispondere).

Che tipo di rapporto avete con la Tv?

Quali sono, in generale, i pro e i contro della televisione?

Che tipo di contributo ha dato la televisione italiana alla cultura?

Quali sono i programmi di oggi che guardate con maggior piacere?

Quali programmi del passato vi piacerebbe che venissero rimessi in onda?

In generale: che tipo di televisione vorreste? Che tipo di programmi vi piacerebbe vedere?
(Provate, magari, a proporre una sorta di format).

Gli interventi più interessanti, inseriti tra i commenti, potrebbero rimbalzare sulle pagine di Giudizio Universale.
Vi ringrazio in anticipo per la collaborazione.

Massimo Maugeri

Extrapost: ringrazio Marilù Oliva per la pubblicazione di questa intervista su Thriller magazine


]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/01/11/giudizio-universale-sulla-tv-che-vorreste/feed/ 194
L’ARTE DI ANNACARSI, il viaggio in Sicilia di Roberto Alajmo http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/30/arte-di-annacarsi-roberto-alajmo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/30/arte-di-annacarsi-roberto-alajmo/#comments Tue, 30 Mar 2010 21:50:15 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1864 Ultimata la lettura de “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia” (Laterza, 2010) ho pensato: credo che questo sia uno dei migliori libri (se non il migliore) di Roberto Alajmo. E di ottimi libri – tra romanzi e saggi – Alajmo ne ha già scritti parecchi. Ricordo: Un lenzuolo contro la mafia (1993); Repertorio dei pazzi della città di Palermo (1995); Almanacco siciliano delle morti presunte (1997); Notizia del disastro (2001, Premio Mondello); Cuore di madre (2003, Premio Selezione Campiello, finalista al Premio Strega); È stato il figlio (2005, Premio Super Vittorini e Super Comisso); La mossa del matto affogato (2008); Le ceneri di Pirandello (2008) e – sempre per Laterza – 1982, memorie di un giovane vecchio; Palermo è una cipolla.

Prima di accennare ai contenuti di questo volume, vorrei soffermarmi sul brano scelto come epigrafe. Si tratta di un testo estratto da “La luce e il lutto” di Gesualdo Bufalino, che recita così: «Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui è tutto mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale. Una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio…»

La citazione riportata in epigrafe finisce qui, anche se poi – subito dopo – , in “La luce e il lutto”, Bufalino fornisce una sua risposta alla domanda “Tante Sicilie, perché?”
Bufalino risponde così: «Perché la Sicilia ha avuto la sorte di ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità, né so se sia un bene o sia un male.»
Un bene o un male, dunque? Chi lo sa? Forse Goethe aveva le idee un po’ più chiare, giacché ebbe modo di sostenere (come è noto): «L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito: soltanto qui è la chiave di tutto».
Certo, per credere che soltanto in Sicilia ci sia la chiave di tutto ci vuole molta immaginazione. Del resto, come sosteneva Sciascia: « L’intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione? »
E di immaginazione, a volte, ce ne vuole tanta… come quella che mosse il sommo Dante per la scrittura della sua Commedia:

«E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo… »

(dal Paradiso, canto VIII)

(Magari vi chiederò quale preferite, tra le suddette citazioni… e magari potreste proporne altre).

Ma torniamo a “L’arte di annacarsi”. La prima domanda che il lettore (non siciliano) deve necessariamente porsi nell’affrontarne la lettura, è la seguente: cosa significa annacarsi?
In verità, per trovare la risposta non dovrà faticare molto; basterà girare il volume e leggere quanto scritto in quarta di copertina:
“Annacare/annacarsi = affrettarsi e tergiversare, allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo di spostamento”.

Un esempio calzante dell’arte di annacarsi – lo evidenzia lo stesso autore – è fornito nell’ambito delle feste religiose… dove Madonne, santi e canderole vengono portati in processione con un andamento danzante, ondeggiante, non necessariamente (e comunque non solo) in avanti, ma spesso di lato e senza disdegnare piccole retromarce. Forse si potrebbe dire che l’arte di annacarsi (per rimanere nell’ambito della metafora danzesca) è una sorta di sintesi tra una appariscente tarantella e il ballo della mattonella. Insomma, ciò che conta è produrre, appunto, il massimo del movimento, con il minimo di spostamento. In linea, peraltro, con la celebre frase de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ecco: il cambiamento immutevole è un ossimoro che è ben contratto nel termine “annacarsi”.

L’arte di annacarsi, dunque. Un titolo che sintetizza le apparenti contraddizioni e gli immobili mutamenti di una terra multiforme dove però è possibile trovare la chiave di tutto con un po’ di immaginazione: Marsala, Palermo, Ustica, Porto Palo, Favignana, Agrigento, Siracusa, Tindari, Catania, Gela, Taormina, Messina (sono solo alcune delle tappe di Alajmo). Un viaggio che si tramuta in racconto ironico e sferzante, ma che – in fin dei conti – ha sullo sfondo l’amore per questa terra: “un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.

Che il siciliano sia avvezzo all’ironia lo sosteneva anche Cicerone (in Verrem – Actio Secundae – Liber Quartus – De Praetura Siciliensi) : “Numquam est tam male Siculis, qui aliquis facete et commode dicant (Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani, essi lo commenteranno con una battuta di spirito).
Ma l’ironia di Roberto Alajmo non si ferma alle classiche battute di spirito, o ai giochi di parole; essa – viceversa – si espande in ragionamenti volti a evidenziare paradossi, contraddizioni e situazioni ai limiti dell’inverosimile. È un’ironia intelligente e pessimista, quella di Alajmo; precisa e affilata come un bisturi, capace al tempo stesso di stigmatizzare facendo sorridere, lasciando tuttavia spazio alla speranza: “Ma esiste anche una parte di Palermo la cui coscienza non è ancora del tutto anestetizzata. Proprio quando tutto sembra annacquato e perduto, ecco che dal nulla, miracolosamente, la speranza rinasce. E a farla rinascere sono i pazzi. I famosi pazzi di Palermo. Quelli veri e quelli che vengono fatti passare per pazzi. Pazzo è colui che non si adegua allo stato delle cose, che non si lascia trascinare dalla corrente, che si rifiuta di portare coscienza e cervello all’ammasso. I talenti che nascono fuori dai circuiti convenzionali. I giovani che riescono ogni tanto a fare breccia nel deleterio scetticismo cittadino e a creare un movimento di opinione in grado di trasformarsi da un momento all’altro in autentica rivolta morale”. (cfr. pag. 30 – “L’arte di annacarsi” – Palermo. Teoria e tecniche dell’annacamento).

Non mi dilungo ulteriormente e vi rinvio alla bellissima recensione di Simona Lo Iacono (che ho coinvolto in questo post chiedendole di scrivere di questo libro e di darmi una mano a moderare e animare la discussione che ne seguirà). In chiusura del post… la prefazione del libro, gentilmente concessami dall’autore.

Per incentivare la discussione provo a porre qualche domanda:

- Ai siciliani (scrittori e non): vi ritrovate nell’arte di annacarsi? Ovvero… vi annacàte? E tra i due significati del termine, in quale vi ritrovate di più? (Questa domanda è finalizzata a sorridere un po’ insieme)

- Ai non siciliani che non hanno mai visitato l’isola: che percezione avete della Sicilia?

- Ai non siciliani che hanno visitato l’isola: la percezione che avevate della Sicilia, ha trovato riscontro nella vostra visita? Cos’è che vi ha colpito di più?

- La Sicilia rappresentata nei libri, nel cinema, nella televisione è rispondente alla realtà?

- Tra le citazioni sulla Sicilia (riportate sopra), quale vi sembra la più calzante? Ne avete altre da proporre?

Di seguito, l’articolo di Simona Lo Iacono e la prefazione del libro.

Massimo Maugeri

——–

Roberto Alajmo: “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”
recensione di Simona Lo Iacono

Maupassant venne in Sicilia attratto dalla Venere conservata a Siracusa.
L’aveva vista per la prima volta nell’albo di un viaggiatore, in fotografia. “Fu probabilmente lei che mi decise ad intraprendere il viaggio; parlavo di lei e la sognavo in ogni istante, prima ancora di averla vista. (…) è la donna così com’è, così come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere. (…). La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne.
Anche la Sicilia è donna. Anche la Sicilia è il simbolo della carne.
Affrontare un viaggio in Sicilia, dunque, da straniero o da isolano, da pellegrino o da esule, non è che affondare in quella carne. Percorrerne le cavità, i promontori. I vuoti. Con vista da amante. Con paura d’amante. Con la consapevolezza che prendere la Sicilia è anche lasciarla, o farsene abbandonare. È l’atto finale e disperato dell’amplesso là dove persino la compattezza dell’isola è un’illusione.
E possederla vuol dire frantumarla, farne scaglie. Resti.
Così Roberto Alajmo ne “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”.
Annacarsi per un siciliano è più che affrettarsi. È anche prendere tempo senza fare realmente qualcosa, vivendo una sospensione mista di perplessità, noia, mancanza reale di voglia. E sembrerebbe forse assurdo a chi crede che la lingua sia un perfetto assioma e che le parole debbano avere un senso (e uno soltanto), che in una locuzione coesistano due significati tanto opposti quanto in “annacarsi”.
Andare, ma anche restare. Volere. Ma anche non volere. Non avere tempo. Ma anche averlo, allungarlo, impigrirlo. Vivere, in sostanza. Ma anche morire.
E tuttavia questa assurdità non stupirebbe mai un siciliano. Non chi – come noi – al tutto, e al contrario di tutto, si abitua fin dall’alzata dello sguardo su questa terra, e all’affioro dei sensi percepisce: no. Ma che vuol dire sì. E il mare. Che vuol dire anche cielo. E l’isolamento. Che vuol dire anche stare al centro del mondo.
Nessuno più del siciliano è triste e contento di esserlo, orgoglioso ostentando pietà, ostile palesando ospitalità, individualista fingendosi indignato di non far parte del tutto.
Contraddizione, o meglio adattamento, al caso, alle circostanze che mutano rotta, ai destini capovolti e poi di nuovo ristabiliti, a un andare della storia al rovescio e poi di nuovo al dritto, ma senza mai veramente sapere cosa è dritto e cosa è rovescio.
Una baldoria dell’uomo e delle sue oscenità, dei suoi vizi e anche delle sue debolezze, o forse solo ostinazione alla sopravvivenza. All’incosciente vivere oggi senza soppesare un futuro. Ché il futuro, alla fine, non è mai dipeso da noi.
Sorrido vedendo che Roberto ne “l’arte di annacarsi” elenca i “luoghi comuni” allumandoli di luce buona, di storia, di spiegazioni. Facendo crollare le certezze di ogni buon turista che approdando qui in cerca di fichi d’india, carretti siciliani, coppole e lupare, più di ogni altra cosa sarà segnato dalla luce e dall’ombra, dalle colature dei tramonti. Dagli scenari di certe città che si aprono come un sipario (Noto) e si svuotano di notte per non vivere che lontano dalle quinte. Che si parano a festa in sontuosi abiti da processione (Trapani), allungando il Venerdì Santo per tutto l’anno. O che edificano stadi del ghiaccio (Catania) a un passo dall’Etna che bolle.
Di Siracusa, non dirò, da buona siracusana, perché assaporo le parole che Roberto ha dedicato a piazza Duomo, alla sua luce bianca, lattea, di una qualità riservata agli dèi e alle creature dell’aria. Mi soffermerò invece su Avola, o su Portopalo, tutti territori facenti parte della giurisdizione del Tribunale che dirigo e da cui mi provengono quelli che io chiamo i “processi del mare”: clandestini ammarati e pescati dalle reti. Pesci con gambe e occhi scuri, sopravvissuti alle onde. Viandanti senza scalo e giunti a me senza nome.
Roberto ne raccoglie le storie riferite ai crocicchi di vie, sulle albe di pescherecci che rientrano. Racconta di quella notte del Natale ‘96 in cui si persero 300 naufraghi che s’inturbinarono tra le correnti. I loro fantasmi si aggirano ancora da queste parti, senza pace e senza sepoltura, forse rigettati in mare una volta ripescati dall’acqua.
Un discorso a parte merita Palermo, dove la decadenza degli edifici viene coltivata come un fasto e dove a ogni sbrecciatura più o meno grave di intonaci, a crepe e lineature del tempo, è facile rimediare con una decisione provvisoria che fa presto a diventare definitiva, o con una panacea adatta a ogni male: la transenna.
E poi l’effigie di madre. Che la Sicilia sa mascherare di reverenza al marito, ma che s’infratta dietro apparenze di remissività. Sorrido davanti alla buffa immagine della “madre ebrea” a cui sono assimilati, nel libro, i siciliani. Che non dice al figlio: se non mangi ti ammazzo. Dirà piuttosto, senza preoccuparsi di dissimulare il ricatto: se non mangi mi ammazzo.
E mi balza dal passato l’immagine di mia nonna, spannata come un’anima e drittissima su gambe che sostenevano una figuretta di nemmeno un metro e venti. Diceva: facite chiddu ca vulite (fate quello che volete). Tanto, poi, si faceva sempre quello che diceva lei.
La mafia, infine. L’unico luogo comune che esiste per davvero. E che ha invece l’abilità di fingersi irreale e fantasioso, più una leggenda eroica da brigante. Con molti ragionevoli motivi, in fondo, per esistere.
Un fumo, più che una mentalità. O piuttosto una ventata di quelle gustose, che portano odore di soffritto e padella, e che segui incantato come da una Circe. Salvo poi a scoprire che non provenivano dalla cucina.
Più che la sua abilità nel nascondersi colpisce la nostra capacità di non vederla, di non farsene toccare come se invece che cosa nostra, fosse sempre cosa d’altri.
Solo quando approda nei tribunali sembra assumere consistenza, materia, sangue.
Fino a che, dalle grate, torna a uscire fuori come un filo di fumo.
Roberto Alajmo non tace responsabilità. Non sorvola sulle ataviche ribaltature di ruoli. Lo stato che manca e lo stato che punisce. Che dà e che ritira la mano. Che non sa amare e che si sente in colpa.
È forse un siciliano verace, uno di quelli che per viaggiare resta al suo posto, e che per inforcare le lenti e guardare sa che non è necessario andare troppo lontano. Di certo, è un siciliano che ama pur sapendo che quell’atto d’amore è morte, discesa agli inferi, eremitaggio.
Se ammanta con ironia le mancanze, è solo perché – in fondo – sa che l’unico modo per sopravvivere, qui, ora è sempre, è svolare con leggerezza di acrobata, o con levità di illusionista.
Un circense, il siciliano. Che transuma di vita in vita, e che cambia solo in apparenza. Che forse è come quella “passiata” sullo stretto. Sempre in bilico tra due mondi. Su una soglia.
E allora meglio l’arte di “annacarsi”, di fare e non fare. Di allungare e accorciare.
A ben pensarci, annacarsi viene da “naca”, che è la culla del neonato che pencola lentamente.
Un buon modo per dire che oscillare è forse l’unico ormeggio alla terra ferma.

————-

LE MANI AVANTI: PREMESSA

di Roberto Alajmo

roberto-alajmoCircola con insistenza l’idea che la Sicilia e i siciliani siano diversi, rispetto al resto d’Italia. Diversi e più complicati. La risposta può essere articolata pirandellianamente: no, ma credono di esserlo, e questo li rende diversi e più complicati. In ogni caso, però, a ogni passo di ragionamento si rischia di essere fraintesi, per cui meglio sgomberare il campo dai possibili equivoci. Non si tratta di una diversità rivendicativa. Non è la diversità della Catalogna o dei paesi Baschi. O meglio: certe volte sì, ma solo nelle sue manifestazioni più esteriori e velleitarie. Nella casistica più interessante il sicilianismo non è orgoglio, ma rimorso. La Sicilia si sente diversa dal resto d’Italia, e nei suoi abitanti migliori questa diversità si trasforma in senso di colpa. Perché si tratta di una diversità contagiosa, che col tempo ha infettato il resto del paese. Nemmeno più tanto una diversità, quindi, ormai. Da quando Leonardo Sciascia aveva preconizzato lo spostamento verso nord dell’ideale linea della palma, la sicilianizzazione del paese ha proceduto speditamente, fino a raggiungere l’arco delle Alpi. E ancora procede: è in corso una seconda passata, destinata a rendere il paese più omogeneamente arretrato.
Il viaggio in Sicilia rappresenta allora una indagine sull’identità nazionale. Indagine metaforica, a cannocchiale rovesciato. Se è vero quel che diceva Goethe, che non si può capire l’Italia senza vedere la Sicilia (“è qui la chiave di tutto”), attraversare il continente siciliano significa indagare il collasso di tutta la nazione. In questo senso, il viaggio può rappresentare una discesa agli inferi.
Anche per godere della bellezza più recondita è necessario immergersi in quell’abisso che è la Sicilia. Non si può fare a meno di ravvisare la bruttezza diffusa, il sistematico disprezzo per gli spazi comuni, l’incapacità delle persone anche migliori di fare rete e porre rimedio a queste distorsioni. Viaggiare attraverso la Sicilia significa sporcarsene. E si tratta di uno sporco persistente, di quelli più difficili da trattare.
Per chi in Sicilia ci è nato e ci vive, intraprendere un viaggio attraverso la propria terra è un modo di fare autoanalisi. Di scoprire tutta una serie di cose che già sapeva senza saperlo. Persino il viaggiatore interno ha sentito molto parlare di quest’isola, i luoghi comuni agiscono anche sul suo modo di vedere le cose. Ciò che rivede, in un certo senso, è come se lo rivedesse per la terza volta; le prime due attraverso i propri occhi e attraverso gli occhi del mondo. Si viaggia certe volte con l’intento di essere confermati nelle idee ricevute da altri. Oppure si viaggia per approfondire un viaggio precedente. E però capita pure un’altra cosa: di certi posti non ci si sazia mai. Ci si alza dalla tavola imbandita prima di essersi saziati del tutto, tenendo da parte un po’ di fame per la volta successiva. Oltretutto saziarsi di Sicilia è rischioso; significa un po’ pure sdegnarsene.
Raccontare l’esperienza di un viaggio in Sicilia è una responsabilità che nei secoli si sono assunti in parecchi, ognuno a modo suo, con risultati che ognuno è libero di giudicare in autonomia. Al Idrisi, il geografo. Ibn Giubair, il funzionario. Gregorovius, lo storico. Houel, il pittore. Brydone, lo scienziato. Swinburne, il poeta. Goethe, Maupassant e Dumas, gli scrittori. Questi solo per citare quanti hanno lasciato tracce nelle opere, del loro viaggio nell’estremo lembo meridionale d’Europa. Anche alla luce di questi precedenti, è inutile provare a essere oggettivi; e velleitario risulta provare a essere soggettivi. Bisogna tenere conto dell’occhio di chi legge, che in cambio dell’attenzione si aspetta qualcosa. Giusto. Questo però rende ancora più tormentoso il compito di chi viaggia e racconta la Sicilia essendoci nato. Perché i siciliani hanno la tendenza diventare apprensivi, quando devono rendere conto agli estranei di sé e della propria terra. Sanno che devono misurarsi con una quantità di luoghi comuni che vanno dalla mafia allo scirocco, e molto altro ancora.
Come se non bastasse, ci sono pure i luoghi comuni posticci. Per esempio, quelli che vanno sotto l’etichetta di invenzione della tradizione. È comodo per lo straniero credere, e per i siciliani lasciargli credere, una serie di cose. E la natura dà il suo contributo al consolidamento dei luoghi comuni più infondati: il paesaggio siciliano è ovunque contraddistinto da una pianta, il ficodindia. In ogni angolo, in ogni connessione fra roccia e roccia si trova un ficodindia. Non esiste una pianta più caratteristica. Eppure non è endemica, non è neppure di origini mediterranee, visto che l’importarono gli spagnoli dal centroamerica. E se la natura si permette queste integrazioni della realtà, perché gli uomini non dovrebbero travisare a loro volta? Ecco allora l’astuzia del fotografo che durante la mattanza mafiosa dei primi anni ottanta correva da un posto all’altro per documentare i morti ammazzati nelle strade. Per muoversi più rapidamente si muoveva in vespa, e sul predellino trasportava un vaso con un piccolo ficodindia. Arrivato sul luogo del delitto, disponeva il vaso in modo che almeno una pala della pianta entrasse nell’inquadratura. Sosteneva che i giornali del Nord in quel modo comprassero le foto più volentieri.
Altro equivoco che viene assecondato: il carretto siciliano. Ormai in giro se ne vedono pochissimi, e quelli che si vedono o sono dentro un museo o vengono adoperati come attrazione turistica: una foto sul carretto, sulla piazza di Monreale, vale cinque euro. Modica cifra per qualcosa che siamo portati a immaginare come genericamente antico. Eppure il carretto siciliano, così colorato e impennacchiato è un’invenzione che ha poco più di cento anni. Più che antico, al massimo può essere considerato vecchio. E nemmeno significativo, dato che il temperamento dei siciliani prevede pochi colori e ancor meno impennacchiamenti: quelli estroversi sono i napoletani.
Lo stesso discorso vale per il dolce più siciliano che ci sia, la cassata: un’invenzione pure quella. Ecco come nascono le leggende. C’era un pasticcere palermitano, tale Gulì, che alla fine dell’Ottocento decise di specializzarsi. Nel suo laboratorio di corso Vittorio Emanuele si mise a produrre quasi esclusivamente frutta candita. Come molti siciliani di tenace concetto, aveva deciso di contraddire l’opinione più radicata. Allora come oggi, tutto il mondo nutriva nei confronti della frutta candita un sentimento comune: la ripugnanza. Non la voleva nessuno. Se c’era, veniva scartata accuratamente. Non si conosce il motivo per cui Gulì si convinse del contrario, che ci fosse all’orizzonte un boom di richieste per la frutta candita. Sta di fatto che il suo laboratorio si ritrovò in breve tempo intasato di zuccata e mandarini imbalsamati. Col magazzino pieno e sull’orlo della bancarotta, ebbe un’intuizione che gli consentì di riciclare tutto quel ben di dio. Prese spunto da un dolce di origini molto più antiche, la cassata, quella che oggi viene chiamata cassata al forno: un involucro di pasta frolla ricoperto di cannella e zucchero a velo che custodisce il cuore di ricotta e cioccolato. Su questa base lavorò di fantasia, imbarocchendo il tutto con glassa di zucchero, pasta di mandorle e naturalmente montagnole di frutta candita a fare da guarnizione. Libero ognuno, poi, di scartare la decorazione e assaporare il resto. Il risultato venne prontamente denominato cassata siciliana in modo da sbaragliare anche l’ombra della concorrenza da parte dell’umilissima cassata originale, che si trovò da un momento all’altro privata della propria identità.
La fortuna del nuovo dolce e del suo inventore fu quella di trovare subito un formidabile veicolo promozionale. La facoltosa famiglia dei Florio, che a Palermo ospitava regnanti e aristocratici di tutta Europa, fece della nuova cassata il suo dono di rappresentanza. Questi ospiti partivano da Palermo come altrettanti involontari testimonial, convinti che quel coloratissimo coacervo di zuccheri rappresentasse la Sicilia più vera. E ne incarnava, invece, soltanto la facciata.
Tutta questa premessa sui luoghi comuni serve a introdurre il luogo comune per eccellenza. Meglio affrontarlo subito, però, prima che cominci a impestare l’aria: la mafia. Il resto del mondo tende a credere che in Sicilia i mafiosi se ne vadano in giro col cartellino di riconoscimento o con la lupara a tracolla. Al contrario, quasi sempre tengono un profilo basso, confidando in un genere di riconoscibilità più sottile. Si palesano se questo si rende necessario, confidando che chi deve sapere chi sono, lo sa già. Per il resto, la mafia è un odore. Una puzza. Qualcosa che avverti senza necessariamente sapere da dove proviene. È come la puzza di qualcosa che uno dei tuoi ospiti ha calpestato. Tu non sai esattamente chi, ma sai che qualcuno l’ha calpestata. Magari per discrezione non sollevi il problema, perché pare scortese. Ma dovresti, invece, perché altrimenti sarai costretto a subire quell’odore per tutto il tempo che i tuoi ospiti si tratterranno. Quel che succede nella realtà di tutti i giorni.
Se si sforza un po’, tuttavia, anche l’osservatore più superficiale in certe situazioni può riconoscere la puzza che a zaffate ogni tanto gli capiterà di avvertire. È l’odore di un’apocalisse che è italiana e siciliana al tempo stesso. Quello che si profila come il Grande Collasso Nazionale è destinato a cominciare dal sud. O forse è già cominciato. Rimane da stabilire se sarà un’apocalisse climatica o sanitaria, un’ondata anomala di spazzatura o un’escalation criminale. E rimane da stabilire pure esattamente da dove comincerà: Campania o Sicilia. Le due regioni guardano alle rispettive piaghe con una torva, reciproca forma di consolazione, che confina con l’insidiosa formula del tanto peggio, tanto meglio. Tempo fa successe che a Napoli le casalinghe presero a pietrate i poliziotti che tentavano di arrestare alcuni rapinatori, e il questore commentò: Scene del genere non le ho viste nemmeno a Palermo. Questo smosse un bel po’ di suscettibilità fra la popolazione isolana, dove pure circostanze del genere si ripetono di frequente: come si permette questo signore di adoperare la Sicilia come parametro del peggio? Ma il questore aveva ragione: fra Napoli e Palermo si disputa una corsa al male maggiore.
Se anzi in tutto il meridione scene come quella delle pietrate ai poliziotti avvengono di rado, è solo perché lo Stato ha rinunciato a esercitare il proprio controllo su zone di territorio sempre più vaste, dove la polizia non prova manco a intervenire. In Sicilia se viene rubato un ciclomotore ci si fa una croce sopra, oppure si paga il riscatto per averlo restituito dalla stessa persona che l’ha rubato. La denuncia viene considerata un’usanza desueta perché c’è stata, nel corso del tempo, una tacita cernita dei reati perseguibili. La fase repressiva viene esercitata quasi solo se è destinata a ottenere il consenso generalizzato della popolazione. Quando in passato si sono fatte spettacolari retate di posteggiatori abusivi di colore, lavavetri o di prostitute extracomunitarie, è successo che la gente abbia persino applaudito allo spiegamento delle forze dell’ordine. Diverso è se si tratta di uno spacciatore indigeno. In questo caso scatta, per la morale comune, l’attenuante generica di sempre: Mischino, è patrifamigghia.
In fondo Sicilia e Campania sono figlie entrambe dello stesso Stato assistenziale, caratterizzato dall’essere allo stesso tempo troppo e troppo poco presente. Lo Stato si comporta col meridione come quei genitori che per farsi perdonare le proprie assenze compra un sacco di regali al figlio. In questo modo pensa di essersi lavato la coscienza, e si sorprende quando poi scopre che il figlio è cresciuto male, diventando un delinquente. Allora gli dà uno schiaffo, e si sorprende ancora di più quando il figlio glielo restituisce, lo schiaffo. Ecco, Palermo e Napoli sono figli dello stesso padre. Solo che questo padre ormai ha rinunciato a provarci, coi ceffoni. Un trattamento che riserva solo ai figli degli altri.
Non molto tempo fa i giornali si sono occupati di una ricerchina universitaria condotta nelle scuole di Palermo, un sondaggio dal quale risultava che per la maggior parte degli alunni, interrogati in forma anonima, la mafia era tutto sommato un male se non necessario, almeno accettabile. L’opinione diffusa che veniva fuori era un luogo comune più radicato di quanto si creda, almeno in Sicilia: la mafia dà lavoro. Non appena i dati vennero resi noti, si scatenò una tempesta di indignazione. Si andava dall’accusa di poca significatività del campione sondato, a un’altra più generica di scarsa sensibilità antimafia. In sostanza: gli autori della ricerca erano colpevoli quantomeno di aver lasciato agli studenti la possibilità di esprimere un’opinione del genere senza dar loro nemmeno una sculacciata. I titolari dell’indignazione erano intellettuali, magistrati, deputati, parenti di vittime della criminalità organizzata, e il risultato fu che il sondaggio venne seppellito dallo sdegno generale.
Era stato toccato un nervo scoperto. La coscienza delle persone perbene si rifiutava di accettare un’opinione tanto politicamente scorretta. Fu l’occasione mancata per avviare una discussione su questo semplicissimo argomento: oltre che spiacevole, è anche vero o no, che la mafia dà lavoro? Forse era l’occasione per ammettere che l’opinione maggioritaria emersa da quel sondaggio non era poi tanto inverosimile. Per chi in Sicilia ci vive, basta guardare alla realtà con disincanto per accorgersi che è proprio vero: è la mafia che distribuisce il poco lavoro che c’è. Durante le conversazioni in Sicilia capita di sentirselo dire nelle più svariate circostanze, soprattutto dalle persone culturalmente meno avvertite, che di questa affermazione non colgono anche la grossolanità e la superficialità. Il riflesso condizionato è di liquidare chi esprime un’opinione del genere con una dose di civile insofferenza. Ma a pensarci bene, non hanno torto. Anche quando materialmente è lo Stato a praticare un’assunzione, paramafioso è il sistema di reclutamento: a meno che non si creda che la mafia sia solo il braccio affiliato della mafia stessa. La condizione in cui l’aspirante lavoratore viene tenuto è di oppressione mafiosa. E la diffusione delle forme di lavoro a garanzia diminuita, con il lavoratore tenuto sulla corda praticamente in eterno, non fa altro che incrementare lo spirito di sudditanza: ciò che maggiormente fa il gioco della mafia, trasformando in favori quelli che veramente dovrebbero essere diritti. Applicate in terra di Sicilia – in assenza di una cultura d’impresa che sia veramente radicata, e veramente cultura – le regole del liberismo attengono sì alla sfera economica, ma vengono alterate da quella antropologica.
In Sicilia e nelle regioni del meridione d’Italia lo Stato ha deciso, più o meno consapevolmente, di delegare la funzione dell’ufficio di collocamento. Cercare un lavoro significa chiederlo agli amici, e tenerselo stretto significa tenersi cari gli amici. Per questo il precariato è un’arma nelle mani di chi altera il mercato del lavoro: rappresenta una garanzia di fedeltà. Gli amici contano. È sempre un amico quello che si cerca quando un parente viene ricoverato in ospedale, quando si vuole comprare un’automobile, quando si cerca un prestito e in cento altre occasioni quotidiane, dalle più innocenti in giù.
Anziché spiegare alle scolaresche che la mafia è brutta e cattiva, allora, sarebbe il caso di spiegare come davvero stanno le cose: la mafia dà lavoro, sì, ma lo fa pagare a un prezzo estremamente alto. Il prezzo da pagare è il sottosviluppo. Bisognerebbe spiegare una volta per tutte che l’arretratezza del meridione d’Italia è un’arretratezza creata artificialmente, che si nutre della secolare pioggia di finanziamenti regionali, statali ed europei. Spieghiamo che la mafia dà lavoro dopo aver personalmente creato la mancanza di lavoro. Spieghiamo che senza spezzare questo circolo vizioso la mafia continuerà a detenere il monopolio del mercato dell’occupazione. Spieghiamo che la mafia, ai siciliani, in un certo senso piace. Piace ai commercianti e agli imprenditori, che in cambio del pizzo ottengono dal racket servizi migliori di quelli dello Stato, e inoltre temono i costi e i tempi lunghi di un’insurrezione morale. Piace a tutti i siciliani, che assuefatti ai favori concessi alla loro sudditanza, sono disposti a rinunciare ai diritti della cittadinanza, ne hanno anzi persino dimenticato l’esistenza. Spieghiamo, infine, perché mai lo Stato ha ritenuto di cedere alla mafia la gestione del diritto al lavoro. E chiediamoci se per caso ha voglia di riprenderselo, prima o poi, questo famoso diritto.
Che la mafia dia lavoro è, in Sicilia, un luogo comune. Ma di una sottospecie particolarmente insidiosa: un luogo comune fondato. E di una sotto-sottospecie ancora più insidiosa: un luogo comune fondato su convinzioni superficiali. Nelle vignette del disegnatore Gianni Allegra, l’idea-immagine più forte è rappresentata da un omino appeso a un filo. È una specie di acrobata disperato: forse c’è stato un tempo in cui camminava sul filo, anziché aggrapparcisi. Magari in passato quell’omino è stato un’attrazione circense, capace di arrivare da un capo all’altro del suo filo con brillantezza e spavalderia. Ora l’omino a quel filo rimane appeso con una sola mano, a stento riesce a restare immobile senza precipitare di sotto.
L’omino appeso al filo è uno dei simboli più azzeccati della condizione di chi vive in Sicilia. L’omino si sforza di rimanere aggrappato al filo, di arrivare da un capo all’altro della sua esistenza, ma di nulla può essere certo. Deve stare attento pure alle risposte che dà al suo interlocutore, il grosso topo che nelle vignette rimane sul ciglio del burrone. L’omino si quartìa, come si dice: tende a tutelarsi. Istintivamente si sarebbe indotti a parteggiare per lui, se non altro per ripulsa nei confronti del topone. Ma colui che osserva farebbe bene a non scegliere, fra i due antagonisti. Di certo non può piacergli il topone, ma anche la condiscendenza nei confronti dell’omino appeso al filo non ha una vera ragion d’essere.
Anzi, sarebbe bello se una volta o l’altra quel filo si spezzasse, e che l’omino precipitasse. Che si schiantasse. Che per una volta il suo quartiarsi non fosse premiato con una forma di stentata sussistenza. Chi osserva, se non è un politico, non deve rispondere a un elettorato quartiandosi a sua volta, per cui è libero di rifiutare la solidarietà al più debole solo perché è il più debole. Dal più debole è giusto pretendere che aiuti se stesso in una maniera che vada oltre il semplice quartiamento. Troppe volte si sono visti omini che dopo essere rimasti più o meno a lungo a dondolare appesi a un filo, finivano per accettare l’aiuto del topone. Il quale topone, poi, non li salvava nemmeno: li rimetteva magari sopra il filo, ossia in una condizione di precarietà appena migliore di chi sta sotto. Quella condizione di precaria stabilità che ai toponi serve per guadagnarsi la gratitudine e il consenso.
Ecco, per questo sarebbe bello che una volta per tutte il filo si spezzasse, o che le forze abbandonassero l’omino lasciandolo precipitare. Perché ciò che nelle vignette di Allegra non si vede è quanto veramente sia profondo il baratro che si trova sotto ai suoi piedi. Potrebbe pure trattarsi solo di un piccolo salto, un saltello dopo il quale l’omino sarebbe in grado di camminare da solo, grazie alle sue gambe. Senza doversi quartiare di fronte a nessun topone.
Tutta questa desolazione non sarebbe poi tanto grave se riguardasse solo il nostro presente. Ma in realtà è il futuro che stiamo ipotecando. Ossia il tempo che lasciamo ai nostri figli. L’incubo delle persone perbene, in Sicilia è che il proprio figlio possa decidere di fare il negoziante, o l’imprenditore. Dovere di un buon padre è quello di educare il proprio figlio a non cacciarsi nei guai, ma una volta che c’è finito, cercare in ogni modo di tirarlo fuori. Al proprio figlio non si può raccontare la favoletta tutta teorica dell’antimafia e prescrivergli il coraggio di non pagare. Specialmente perché è nostro figlio e specialmente perché si tratta di questo Paese e di questo momento storico. A parte il fatto che il coraggio non è un medicinale che si possa prescrivere.
Se un ministro dichiara che con la mafia bisogna convivere, è facile che altrove la cosa venga classificata come l’ennesima boutade governativa e, nella confusione generale, presto liquidata. Ma a questo serve sparare molte cazzate: che poi qualche cazzata importante rischia di passare inosservata. A chi vive in Sicilia, la semplice frasetta pronunciata dal ministro un sacco di tempo fa è arrivata come arriva a valle, in forma di valanga, una palla di neve che qualcuno a monte ha lanciato per malignità o anche semplice noia. E vale più del lavoro di centinaia di insegnanti che per anni e anni si sforzano di inculcare agli alunni il senso della legalità. È facile che il dubbio se lo faccia venire un ragazzo che si appresta a entrare nella vita produttiva: è più giusto ascoltare uno sfigato insegnante sottopagato, teorico astratto dell’antimafia, oppure un autorevole ministro?
Il dubbio nasce pure dal fatto che le istituzioni hanno un atteggiamento schizofrenico, nella lotta alla mafia. Da un lato la fase repressiva: se non puntualissima, almeno volenterosa. Dall’altro un lavoro capillare nelle scuole, come educazione alla legalità. In mezzo, per quanto riguarda la fase propositiva, se si esclude l’antimafia da parata: zero assoluto. Anzi, tutta una serie di segnali in controtendenza, ostentati perché intenda chi ha orecchie per intendere.
In fondo anche in Sicilia vale la legge del mercato: il cittadino si rivolge a chi gli offre la miglior qualità di servizi. E moltissimi servizi istituzionali sono stati in quest’isola più o meno esplicitamente privatizzati e delegati a Cosa Nostra. Questo ottiene il negoziante in cambio del pizzo: servizi. Protezione, licenze annonarie, gestione controllata della concorrenza, prestiti agevolati, allacciamenti abusivi di luce, acqua e gas. Nemmeno tanto poco.
Che poi siano servizi illegali, regole distorte, e che illegale e distorto sia il metodo di applicazione, è un altro discorso. Così come è un altro discorso che a trovare molto comodo pagare il racket sia la grande maggioranza dei negozianti. Si fanno affari, col racket. Ci si marcia.
Bisogna purtroppo ammettere che lo Stato non rappresenta un’alternativa credibile. Non in Sicilia, dove Stato e Cosa Nostra si sovrappongono in continuazione. Per capire la frustrazione dei siciliani meglio intenzionati bisogna pensare al personaggio di Giancarlo Giannini in Mimì Metallurgico. Per non sottostare alle vessazioni del capomafia locale, che è Turi Ferro, caratterizzato da un triangolo di nei sulla guancia, Mimì si rivolge al maresciallo dei carabinieri, che però è impersonato sempre da Turi Ferro, sempre con i tre nei sulla guancia. Allora scappa al nord, ma anche qui il procacciatore di lavoro è Turi Ferro coi tre nei. Allora va al sindacato, ma persino lì c’è Turi Ferro con i suoi nei. E così via.
La mafia è come l’acqua, prende la forma del contenitore che la accoglie. E se il contenitore della mafia sono le istituzioni, anche ammettendo che un livello fisiologico di inquinamento sia inevitabile, mai in tempi storici si ricorda una capienza di questa portata. La forma dell’acqua mafiosa oggi è un grande lago tranquillo, talmente fermo da risultare stagnante.
Malgrado qualche segnale in controtendenza, il negoziante onesto viene messo nelle condizioni di chi esce dalla trincea e si lancia nel territorio avverso impugnando la bandiera della legalità, ma una volta in campo aperto si ritrova solo. Solo, malgrado tutte le rassicurazioni e i telefoni antiracket di questo mondo. Per cui la sensazione è che vada crescendo il numero di coloro che pensano, a torto o a ragione: né con questo Stato, né con Cosa Nostra.
Certo, i siciliani, tramite elezioni, hanno abbondantemente contribuito alla deriva di questo Stato e di queste Istituzioni. E altrettanto certo: ci sono i segnali di una prossima, nuova ondata antimafia, che arriva soprattutto dai giovani che hanno riempito i muri di Palermo di adesivi contro il racket e poi hanno fondato Addiopizzo, ricordando che proprio sul fatalismo, sul pessimismo è fondato il sottosviluppo che strangola la Sicilia.
Ma il dovere delle persone perbene è andare oltre la retorica e affrontare i nodi strutturali. È comprensibile che la mafia abbia interesse a tenere nascosta alla pubblica opinione la realtà del mercato del lavoro e quella delle estorsioni: la detenzione del potere passa attraverso la gestione di un profilo basso, senza ostentazioni. Meno comprensibile è che tante persone di provata militanza antimafia non accettino di ammettere quello che è uno stato di fatto. Nessuna persona perbene, se conosce le cose di Sicilia dovrebbe scandalizzarsi a sentir dire che la mafia dà lavoro, o che in certi ambienti pagare il pizzo risulta conveniente. Prendere atto della realtà è il passo preliminare verso qualsiasi ipotesi di soluzione del problema. Per riuscire efficacemente a spremersi un brufolo, bisogna prima procurarsi uno specchio e avere il coraggio di guardarci dentro.
Il viaggio più difficile è quello che si inoltra fin dentro lo specchio.

© Roberto Alajmo – Laterza
Diritti riservati

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/03/30/arte-di-annacarsi-roberto-alajmo/feed/ 227
IL SUD NELLA NUOVA NARRATIVA ITALIANA http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/11/24/il-sud-nella-nuova-narrativa-italiana/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/11/24/il-sud-nella-nuova-narrativa-italiana/#comments Tue, 24 Nov 2009 19:45:08 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1376

Parliamo di letteratura, parliamo di Sud. L’occasione ce la fornisce questo interessante saggio di Daniela Carmosino (docente presso l’Università del Molise, editor e consulente editoriale) uscito di recente per i tipi di Donzelli con il titolo: “Uccidiamo la luna a Marechiaro. Il Sud nella nuova narrativa italiana”.
Ecco la scheda del libro:
Oggi che i problemi del Sud d’Italia sono temi di successo su cui puntano media ed editoria, viene da chiedersi: che ne è stato del riscatto sociale e culturale del Mezzogiorno che una quindicina d’anni fa pareva imminente? Questo volume è un ideale grido di battaglia “futurista” dei giovani scrittori – Saviano, De Silva, Parrella, Cilento, Cappelli, Pascale – che, a partire dagli anni novanta, hanno deciso di raccontare un Sud svincolato dagli stereotipi del paradiso turistico o dell’inferno senza redenzione, svincolato dalla pizza, dal mandolino e dal vittimismo. Un sud diverso, aggiornato al presente: il sud della nuova criminalità e della nuova borghesia, degli extracomunitari integrati e dei lavoratori precari. A metà tra il saggio e il reportage, la ricostruzione e il pamphlet, il testo esamina il fenomeno della rinascita della narrativa meridionale tanto auspicata negli anni novanta, e nel frattempo raccoglie dichiarazioni inedite, ragiona su contestazioni e polemiche e finisce per toccare questioni che oltrepassano i confini del sud. Sempre nel tentativo di ricostruire, al di là delle più immediate letture, un fenomeno tuttora fonte di dibattiti e capire il ruolo che può avere la letteratura nella comprensione e nella rappresentazione del sud di oggi.

Mi piacerebbe organizzare un dibattito su questo interessante volume ragionando insieme a voi sul “Sud nella nuova narrativa italiana” e sulle tematiche a esso connesse. Inoltre vorrei tentare di mettere “a confronto” Daniela Carmosino con alcuni degli scrittori citati nel suo saggio. Fino a questo momento ho avuto modo di contattare: Roberto Alajmo, Gaetano Cappelli, Antonella Cilento, Francesco Dezio, Giuseppe Montesano, Antonio Pascale, Livio Romano (i quali – compatibilmente con i loro impegni – cercheranno di prendere parte, più o meno direttamente, alla discussione).
Naturalmente sono invitati a partecipare al dibattito tutti gli altri amici scrittori, critici, giornalisti culturali, lettori, ecc.
Come al solito proverò a porre alcune domande al fine di favorire la discussione. Eccole:

Che rapporto dovrebbe avere un autore nei confronti della tradizione letteraria?

La tradizione letteraria (e quella meridionale, in particolare) deve essere vista più come un fardello di cui liberarsi o come punto di riferimento da cui ripartire? E perché?

È corretto parlare di “regionalismo letterario”? Se sì, quali dovrebbero essere gli elementi distintivi? (Per esempio: più “il luogo” o “il linguaggio”)? E i “canoni caratterizzanti”? Fino a che punto la letteratura è circoscrivibile entro ambiti regionali?

Chi ha maggiori possibilità di narrare di un luogo (nella fattispecie del Sud d’Italia) con efficacia maggiore: lo scrittore che ci vive e ha la possibilità di osservarlo dal di dentro, o quello che – essendosene allontanato, quantomeno fisicamente – riesce a guardarlo con più distacco?

Qual è il ruolo della narrativa italiana (e meridionale), oggi? Può contribuire, in qualche modo, a incidere sulle coscienze, a “rimisurare l’immaginario” (spesso deviato dai media), oppure – come sostiene Antonio Pascale (vedi video in basso) – bisogna puntare più sul ruolo dell’intellettuale (inteso come “amministratore del sistema”) che sul ruolo della narrativa?


Nella letteratura di oggi (meridionale e non) c’è – e/o ci deve essere – ancora spazio per il mito? E per la metafora?

E ancora… che rapporto c’è tra la letteratura di oggi (meridionale e non) e i nuovi e vecchi media?

Infine una richiesta accorata: quella di rispettare lo spirito e la filosofia di Letteratitudine. Auspico, dunque, che questo dibattito possa essere caratterizzato dalla presenza di opinioni diverse (anche contrapposte) ma sempre espresse con garbo e nel rispetto delle opinioni altrui.
Grazie mille.
Massimo Maugeri

P.s. Avrò il piacere di presentare Daniela Carmosino a Catania – presso la libreria Tertulia (Via Michele Rapisardi, 1) venerdì 27 novembre, ore 18,30. Insieme a me: Caterina Pastura… e diversi ospiti (tra cui, molti scrittori)
Segue la recensione al libro apparsa su l’inserto settimanale Tuttolibri de La Stampa.

——————

Da TUTTOLIBRI del 12-09-2009
Narratori del Sud. Una vitale officina oltre Saviano e le eredità ingombranti

di FELICE PIEMONTESE

Tra i fenomeni letterari che hanno caratterizzato l’ultimo decennio del Novecento, c’e’ stato l’emergere di una nuova generazione di scrittori meridionali che hanno cercato di affrancarsi da ingombranti eredita’ e di raccontare – in modi naturalmente molto diversi – cio’ che sotto i loro occhi il Sud stava diventando o era gia’ diventato. In citta’ di alta valenza simbolica e narrativa, come Napoli e Palermo, e poi in luoghi meno inflazionati da libri, cinema e media – come la Puglia e la Basilicata – le pigre consuetudini letterarie sono state sovvertite dall’irrompere di narratori capaci di coprire quasi l’intero arco dei generi letterari: il noir e il fantastico, il grottesco e il satirico, il reportage «d’autore» e il barocco rivisitato, la ricostruzione storica e il pamphlet hanno avuto i loro cultori piu’ o meno dotati, ottenendo vasta (e talvolta sproporzionata) attenzione da giornali e riviste, pronti a dar credito a tutto cio’ che si presenta come «novita’». Il «fenomeno» Saviano, alla fine, non ha fatto altro che dare ulteriore evidenza – e in termini numericamente impressionanti – a cio’ che era sotto gli occhi di tutti, e oggetto di dibattito, magari falsandolo un po’, il dibattito, perche’ e’ sembrato a un certo punto che quella di Saviano fosse l’unica via percorribile, il che ovviamente non e’. Tutt’altro che priva di valide motivazioni, dunque, la ricerca della saggista Daniel Carmosino dedicata appunto al «Sud nella nuova narrativa italiana» e baldanzosamente intitolata (e’ pur sempre l’anniversario del Futurismo) Uccidiamo la luna a Marechiaro. Una ricognizione a tutto campo, come si dice, di (quasi) tutto cio’ che si e’ prodotto in ambito narrativo nell’ultimo quindicennio in quella parte d’Italia a sud di Roma, nella quale peraltro, per cio’ che riguarda la societa’ civile, sono accadute, nel periodo, cose di non poco conto. La speranza, con relativa enfasi, di un «nuovo Rinascimento», la «stagione dei sindaci», la disillusione, le stragi di camorra, le prime pagine dei giornali di tutto il mondo sulla questione monnezza, il peso sempre crescente della criminalita’ organizzata nella vita quotidiana, nell’economia, nell’organizzazione sociale. Centrale, secondo la Carmosino, in un fenomeno che ha peraltro infinite sfaccettature, la cesura rispetto alla piu’ recente tradizione meridionale, per cercare agganci e riferimenti in luoghi diversi, oppure privilegiando una sorta di istintivita’ che di riferimenti ritiene di poter fare a meno (e «in certe ingenuita’, in certa esibita naivete’ pare di scorgere una scarsa conoscenza» dei cosiddetti «padri», dice l’autrice. Mi e’ accaduto cosi’ di leggere con un certo sconcerto, in un’intervista, che una pur apprezzata, giovane scrittrice come Valeria Parrella stia «scoprendo» Celine). E la novita’, vera o presunta, dell’approccio impone la necessita’ – dice Carmosino – di «forgiare uno strumento linguistico capace di nominare il mondo ‘’secondo l’autore”», costruendo quindi «un ponte sul vuoto di senso delle parole e delle icone desemantizzate dell’ammaliante retorica meridionalista, neorealistica o mediatica che sia». Esigenza, in verita’, non da tutti avvertita con uguale urgenza: assai presente, ad esempio, in un autore colto come Montesano, molto meno in altri, la cui scrittura poco di discosta da quella giornalistica. Costante, comunque, secondo l’autrice, la spinta a «demolire» i molti stereotipi di cui tuttora si compiacciono la narrativa piu’ tradizionale e il giornalismo nel suo complesso, tranne rare eccezioni. Con strumenti critici che attingono alla sociologia e alla linguistica, e soprattutto all’ermeneutica (e con molte ripetizioni) la Carmosino ci da’ un quadro esauriente della produzione di autori come il gia’ citato Montesano e Pascale, Da Silva e Cilento, Cappelli e Alajmo, Parrella e Franchini, Piccolo e Atzeni, mettendo in luce punti di contatto e differenze nel comune processo di fuoriuscita da una sorta di «canone meridionalistico» che si e’ imposto nel tempo e che e’ sembrato a un certo punto una specie di camicia di forza.

uccidiamo-la-luna-a-marechiaro

—————
—————

Aggiornamento del 26 novembre 2009

e-finita-la-controraAggiorno il post introducendo un altro libro perfettamente in tema con il dibattito in corso su “il Sud della nuova narrativa italiana”.
Si tratta di un’antologia curata da Filippo La Porta e pubblicata da Manni. Si initola “È finita la controra. La nuova narrativa in Puglia” e contiene brani dai romanzi di Cosimo Argentina, Vito Bruno, Gianrico Carofiglio, Carlo D’Amicis, Giancarlo De Cataldo, Girolamo De Michele, Mario Desiati, Omar Di Monopoli, Nicola Lagioia, Alessandro Leogrande, Elisabetta Liguori, Annalucia Lomunno, Flavia Piccinni, Andrea Piva, Emiliano Poddi, Pulsatilla, Angelo Roma, Livio Romano, Angela Scarparo.
Ecco la breve scheda del libro: “In questa antologia Filippo La Porta fa il punto sulla narrativa pugliese che, a partire dagli anni Novanta, vive una sua Nouvelle Vague, o Rinascimento, o in qualunque modo lo si voglia chiamare. 19 autori nati tra il 1956 e il 1986 provano a dare un senso, anzi sensi diversi alla mutazione delle Puglie.
Raccontano delle contraddizioni e dell’incanto di una terra che può declinarsi al plurale; e di fallimenti che non sono solo dissipazione ma anche creatività ed epica.
Si legge una inconsapevole opposizione alla modernità e un suo irresistibile, inquietante, fascino
.”
Filippo La Porta ne ha parlato a Fahrenheit.
Invito Filippo La Porta e gli autori inseriti nell’antologia – compatibilmente ai loro impegni, e se ne hanno voglia – a partecipare alla discussione in corso.
Massimo Maugeri

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/11/24/il-sud-nella-nuova-narrativa-italiana/feed/ 315
IL PRIMO AMORE NON SI SCORDA MAI, ANCHE VOLENDO di Roberto Alajmo http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/10/il-primo-amore-non-si-scorda-mai-anche-volendo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/10/il-primo-amore-non-si-scorda-mai-anche-volendo/#comments Fri, 10 Oct 2008 21:00:06 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/10/il-primo-amore-non-si-scorda-mai-anche-volendo/ iltempodellemele.jpgIn questo periodo di forti ansie caratterizzato dai crolli di Borsa e dallo spettro di una recessione globale che pare difficilmente evitabile, ogni tanto – per tirare un po’ il fiato – può essere utile pensare con leggerezza al proprio passato.
Ecco. Provate a tornare un po’ indietro nel tempo…
Vi ricordate, per esempio, la prima volta che avete corteggiato qualcuno (o che qualcuno ha corteggiato voi)?
E il primo bacio?
Chi se lo ricorda?
È stata un’esperienza magica o… imbarazzante? Vi è mai capitato di pensarci, seppur a distanza di anni?
Roberto Alajmo ci ha ri-pensato. E ha scritto questo divertentissimo pezzo.
Vi invito a leggerlo e a interloquire con lui.
E poi… be’… raccontate la vostra esperienza, se vi va. Il primo bacio. Il primo corteggiamento. O anneddoti raccontati da altri o di cui voi siete stati testimoni.
Infine, sarà proprio vero che il primo amore non si scorda mai… anche volendo?
Massimo Maugeri

————

IL PRIMO AMORE NON SI SCORDA MAI, ANCHE VOLENDO
di Roberto Alajmo

Poi arriva quell’estate in cui tutti si innamorano. Tutti si innamorano di tutti. Un mese prima, una settimana prima, per l’altro sesso ogni femmina è stucchevole e ogni maschio è puzzolente; un mese dopo, una settimana dopo, invece, è come se avesse ceduto una diga e fosse venuto giù tutto quanto.
Un’inondazione ormonale. Tutti i ragazzi si innamorano allo stesso tempo di tutte le ragazze. E viceversa, si spera. Dev’essere qualche polline nell’aria di inizio giugno, perché non è pensabile che i brufoli sentimentali dell’intera generazione attorno ai tredici anni decidano di sbocciare esattamente nella stessa settimana dello stesso mese dello stesso anno.
Insomma, arrivò quell’estate miracolosa e anche io mi innamorai: di tutte le femmine nel loro complesso, più un certo numero di femmine nello specifico. In particolare, dopo una serie di macchinosi sondaggi (io parlo al mio amico che parla alla sua amica che parla a lei che parla alla sua amica che parla al mio amico che parla a me, eccetera) venne stabilito che – forse, in certe condizioni, se tutto andava bene, se proprio ci tenevo – avrei potuto provarci con una certa Daniela P.
Daniela P. non era né brutta né bella: ma era bionda, il che la faceva entrare nel novero delle femmin-femmine. C’erano anche le femmine-maschio, come Patrizia V., che essendo sportiva e compagnona faceva innamorare di sé mazzi interi di ragazzetti fino a quel momento cripto-omosessuali. Patrizia V. era perfetta per una mutazione non traumatica delle preferenze erotiche.
Daniela P. invece era già femmina al cento per cento. Non arrivo a dire che avesse avuto già altri fidanzati, ma insomma: la sua amica aveva detto al mio amico che mi aveva detto che potevo provarci. La tirai molto per le lunghe, al punto che lei stessa disse alla sua amica che disse al mio amico che mi disse che io forse ero un po’ stronzo. Io allora dissi al mio amico eccetera che non ero per niente stronzo, ma aspettavo il momento buono per rimanere solo con lei. Appena lo seppe, chiese alla sua amica eccetera il motivo per cui allora non la invitavo a fare una passeggiata, anziché nascondermi sempre nel gruppo degli amici comuni. Non mi nascondo affatto, dissi al mio amico eccetera. Considerando tutti i passaggi che servivano per ogni battuta della nostra conversazione a distanza, il corteggiamento durò due mesi, da giugno ad agosto.
Il momento buono arrivò finalmente una mattina, attorno a mezzogiorno. Faceva molto caldo, eravamo in spiaggia e indossavamo soltanto il costume da bagno. La invitai a fare una passeggiata e lei accettò. Fu una passeggiata silenziosa, perché io nel frattempo cercavo di ripassare la parte. Le ipotesi previste erano due:
a) Baciarla.
b) Farle la dichiarazione.
L’ipotesi b aveva alcuni vantaggi, il principale dei quali consisteva nella possibilità di prendere tempo. Una ragazza seria, infatti, non avrebbe mai risposto subito di sì. Avrebbe risposto: Ti Do Una Risposta Alla Festa Di Sabato. Che era la formula convenzionale adoperata per non apparire subito troppo disponibile e anche per mettere un po’ di fretta ad eventuali altri corteggiatori.
Probabilmente avrebbe detto alla sua amica che avrebbe detto all’amico di qualcun altro: allora, che intenzioni ha l’amico tuo? Si dichiara o no? Il tempo stringe. Ultima chiamata. Una dichiarazione d’amore era una specie di OPA, Offerta Pubblica di Acquisto. In un certo senso serviva a stanare altri corteggiatori titubanti.
Ma pure per il maschio dichiarante questa formula possedeva i suoi vantaggi. Almeno nel mio caso: avrei potuto approfittare della dilazione per documentarmi (ma come?) sul da farsi dopo che la dichiarazione avesse ottenuto un esito positivo. L’ipotesi a, per quanto mi riguardava, era esclusa per mancanza di una tecnica baciatoria anche solo approssimativa. Era su questa tecnica che mi sarei dovuto documentare prima della festa di sabato, se tutto andava bene.
Ci sedemmo in silenzio su una panchina, e sempre in silenzio fissammo la strada davanti a noi. Furono lunghi minuti, durante i quali io rimasi quasi sempre in apnea. Di sicuro dovevo aver trattenuto a lungo il respiro prima di sfiatare come una balena che emerge dal mare in mezzo a un trionfo di schiuma:
– Sentitivuoimettereconme?
Proprio così, tutto attaccato e trafelato. Lì capii che Daniela P. non era una ragazza seria, perché anziché rimandarmi alla festa di sabato, mi rispose subito:
– Sì.
E così ero punto e a capo. Seguì un altro lungo silenzio, che per quanto mi riguarda fu denso di preoccupazioni. Una su tutte: adesso dovrò baciarla. A quei tempi baciare una ragazza era qualcosa di impensabile, come lo scudetto al Palermo o guidare una moto con cambio a pedale. E io l’avrei dovuto fare subito. Senza una prova, senza i consigli di un amico più scafato, senza un manuale di istruzioni da consultare.
Tuttavia il silenzio si prolungava da troppo. Decisi di passare ai fatti. Approfittai del fatto che lei non mi guardava per allungarmi nella sua direzione e darle un bacio su una guancia. Uno solo. Sulla guancia. Ma con molte intenzioni. Un bacio intenzionale. Talmente pieno di intenzioni era quel bacio, che qualcosa si commosse dentro di me. Qualcosa fra stomaco e pancia. Ma a pensarci bene, forse, ancora più in basso.
A quel tempo si usavano quei costumi da bagno di marca Speedo fabbricati in un tessuto sintetico e lasco, facile a smagliarsi sugli scogli e, soprattutto, assolutamente inadatto a nascondere quel genere di commozione che in me aveva scatenato quell’unico bacio sulla guancia di Daniela P.
La situazione era molto imbarazzante. Mi illudo ancora oggi che lei non si fosse resa conto di nulla, anche perché appena capii quel che stava succedendo io assunsi la posizione del Pensatore di Rodin, ostentando un’attitudine alla meditazione di cui io stesso ignoravo le proporzioni. Rimasi nella posa del Pensatore di Rodin per almeno mezz’ora. Bisogna considerare che in un ragazzo di tredici anni certe commozioni possono risultare persistenti. Lei mi chiese a un certo punto:
– Torniamo dagli altri?
In fondo ormai eravamo fidanzati – ingrizzati, si diceva – e non restava molto da dire. Io però non mi sentivo pronto a fare la mia prima passeggiata mano nella mano con lei, specialmente facendo mostra al mondo della mia commozione. Le risposi teatralmente:
– Vai tu. Io ho bisogno di restare solo.
Dovette essere molto colpita dalla mia riflessività, sempre escludendo che le fosse sfuggita la mia commozione. Sta di fatto che mi lanciò un ultimo sguardo e si avviò da sola, lasciandomi alle meditazioni. Io lasciai passare qualche minuto e mi allontanai nella direzione opposta, camminando in maniera maldestra per mantenere anche all’impiedi la posizione del Pensatore.
Con lei ci rivedemmo altre volte, ma sempre in mezzo ad altri ragazzi. Nessuno dei due fece mai più cenno a quella vicenda. Non ci furono altri baci fra noi, né altri momenti di commozione. Se quella mattina davvero non si accorse di niente, Daniela P. dev’essere ancora oggi convinta di avere avuto a che fare con un cretino. E francamente, preferisco così.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/10/10/il-primo-amore-non-si-scorda-mai-anche-volendo/feed/ 112
LA MOSSA DEL MATTO AFFOGATO di Roberto Alajmo http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/07/la-mossa-del-matto-affogato-di-roberto-alajmo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/07/la-mossa-del-matto-affogato-di-roberto-alajmo/#comments Wed, 06 Aug 2008 23:05:52 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/07/la-mossa-del-matto-affogato-di-roberto-alajmo/ Avevamo avuto modi di accennare all’uscita del nuovo romanzo di Roberto Alajmo in questo post (dedicato al volume “1982″, edito da Laterza).
Ne parliamo, adesso, in maniera più approfondita ripartendo dal titolo del libro: La mossa del matto affogato (Mondadori, 2008, pagg. 241, euro 17).

Per chi conosce bene il gioco degli scacchi la mossa del matto affogato non è una novità. Si tratta di uno scacco matto speciale, il più umiliante: il re, bloccato dai propri stessi pezzi, non può più muoversi.
“…Attraverso una serie di sacrifici, l’avversario ti ha chiuso in gabbia. Uno dopo l’altro sono i tuoi stessi pezzi ad averti circondato e messo in un angolo da cui non puoi più scappare. Nel giro di poche mosse sei passato dall’illusione di poter vincere sfruttando i suicidi in serie dell’avversario, alla frustrazione di doverti suicidare tu, senza possibilità di scelta, e di fronte alla minaccia di un unico cavallo superstite. Per quanto l’avversario sia ormai dissanguato, l’ultima mossa servirà solo a stringerti il cappio attorno al collo…”
Il brano tra virgolette è estrapolato dal romanzo.
Un romanzo come una partita a scacchi, dove il titolo di ciascun capitolo è il codice di una mossa (dalla prima fino allo scacco finale). Un romanzo di ventisei capitoli, una partita in ventisei mosse.
Il protagonista (e il giocatore) si chiama Giovanni Alagna: un impresario teatrale che opera in una città siciliana (Palermo?) e che ha improntato attività e vita avvalendosi, all’occorrenza, di imbrogli più o meno gravi. Un personaggio algido e determinato, ma che finirà con il rivelarsi uno sconfitto. Un “vinto” che si aggiunge alla schiera di quelli già tratteggiati da Roberto Alajmo nei precedenti romanzi (Cuore di madre e È stato il figlio). Con la differenza che, stavolta, il perdente è un uomo di cultura, un uomo alquanto noto.
Alagna ottiene successo, beneficia delle luci della ribalta, conduce una vita persino al di sopra delle proprie possibilità. Poco importa se, per farlo, deve ricorrere al bluff, alle bugie, alle omissioni. Poco importa se – di fatto – si ritrova a usare gli altri con noncuranza e semplicità strabilianti, basandosi sul motto: “meglio rimorsi, che rimpianti!”
Meglio rimorsi, sì; ma quando i rimorsi crescono all’eccesso e hanno la faccia di tua moglie Elvira (che decide di cacciarti fuori di casa dopo l’ennesimo tradimento), o il viso duro e quasi ostile delle tue due figlie che non si fidano più di te; quando il rimpianto assume le dimensioni catastrofiche di atti di violenza compiuti ai tuoi danni da delinquenti senza scrupoli, mandati a riscuotere soldi che non sei in grado di restituire; allora, Giovanni Alagna, cominci a capire che la partita sta prendendo una piega che non avevi preso in considerazione. Cominci a capire che stai perdendo.
Alla fine non ti rimane che inscenare un’uscita di scena melodrammatica, da par tuo. Un’uscita di scena con i riflettori puntati addosso. Tu attore, e gli altri – chi ti ha amato e chi ti ha odiato – intorno a te, a farti da pubblico (o almeno, così ti pare) mentre ti ritrovi paralizzato da una serie di scelte sbagliate. Fine della partita, Alagna. Scacco matto. Non ti resta che affogare.
L’utilizzo della “seconda persona” nelle frasi precedenti non è casuale, ma riflette una coraggiosa e originalissima scelta narrativa dell’autore. Quella di scrivere un romanzo tutto in “seconda persona”, dalla prima all’ultima parola. Un romanzo, però, che scorre lieve, veloce (come la scrittura del suo autore: pulita, scevra da orpelli stilistici, frasi retoriche, pesanti aggettivazioni) e che riesce a colpire duro. Come usa dire lo stesso Alajmo: “I miei libri sono facili da mangiare, difficili da digerire”.

Ora, vi invito a interagire con l’autore del libro – che parteciperà al dibattito -, magari ponendogli domande.

Intanto mi chiedo, e vi chiedo: vi è mai capitato di riconoscere in voi stessi comportamenti autolesionisti al punto da sentirvi… affogare?
E poi, a vostro avviso, cosa significa esser perdenti nel nuovo millennio?
Il perdente dei nostri tempi equivale al perdente del secolo scorso, dei secoli scorsi?
È cambiato qualcosa, o – dopotutto – l’uomo è sempre uguale a se stesso di fronte ai propri fallimenti?
Prima di chiudere vi segnalo questa bella intervista della “nostra” Simona Lo Iacono pubblicata su LibMagazine.
Massimo Maugeri

AGGIORNAMENTO del 10 agosto 2008
Roberto Alajmo mi ha messo a disposizione le prime pagine del libro. Potrete leggerle di seguito
(Massimo Maugeri)

La mossa del matto affogato – Cap. I

Ora concentrati, non ti distrarre. Bisogna assolutamente che riesca a pensare qualcosa da gettare in faccia alle persone venute fin qui. Loro se l’aspettano, e anche a te conviene approfittarne. Sono i momenti in cui basta una parola, una frase, per rovesciare l’opinione che il mondo si è fatto su una determinata persona. O per rafforzarla, a seconda dei casi. Tu devi puntare decisamente a rovesciarla. Hanno tutti dei preconcetti, su di te: se li sono fatti nel tempo e sarà difficile convincerli a cambiare idea proprio ora. Però è sicuro che non ci saranno altre occasioni: adesso o mai più. L’hai capito, no? Tutta questa gente è venuta perché ha delle aspettative. Detto in sintesi: sperano di vederti morire. Te la senti di deluderli?
Non scherzare, il momento è serio. È uno di quei frangenti da affrontare con un minimo di consapevolezza perché è come un riflettore che si accende sulla tua vita. Bisogna farsi trovare pronti. Niente di peggio che lasciarsi sorprendere con un dito nel naso o con la biancheria sporca: rischi di restare cristallizzato in quella condizione nei secoli dei secoli. Devi aver cura della tua igiene fisica e morale, svuotare i cassetti da tutta la roba compromettente. Buttare tutto. Nella spazzatura, proprio. E proprio tutto: ogni singola cassetta, rivista, oggetto, lettera, diario, qualsiasi cosa.
Bisognerebbe. Eppure non lo si fa mai, si rimanda. Per cui, quando poi succede il disastro, è sempre troppo tardi. L’ideale sarebbe pensarci per tempo, fare pulizia di frequente, cancellare la posta elettronica e i messaggi dal telefonino. Mai lasciarsi prendere dalla pigrizia, perché da un momento all’altro il grande riflettore della cronaca potrebbe illuminare la tua vita e svergognarti per sempre.
In casi del genere, lo sputtanamento assume le forme più impensate. Una perquisizione postuma da parte della polizia, per esempio: basterebbe una soffiata, una falsa segnalazione, un errore di notifica, e la tua esistenza verrebbe rivoltata come un calzino. C’è sempre qualche buco che speravi di nascondere all’interno della scarpa. Non puoi sapere quanta gente frugherà nella tua stanza, ma prova a immaginarli mentre guardano ovunque, pure dietro ai libri, sullo scaffale della saggistica.
Se anche la polizia non venisse a perquisire la casa, rimarrebbe sempre la penosa ricognizione degli eredi. Nel cassetto, in mezzo a lettere e souvenir dei momenti felici, è sempre pronto a spuntare l’oggetto indicibile, quello che mai e poi mai un estraneo avrebbe potuto immaginare. Diranno: pareva una persona così perbene, così gentile, e invece anche lui aveva le sue debolezze. Tutto il resto sarà dimenticato: da quel momento in poi, fino all’eternità, la tua memoria rimarrà associata alla vergogna, fosse anche l’unica vergogna che ti eri concesso nell’arco della vita.
Oltre al fatto in sé, morire comporta una serie di effetti collaterali. Quindi, prudenza. Meglio evitare, per esempio, di sparare cazzate in punto di morte. Conviene tenere da parte qualche bel pensiero per quando servirà; sperando di avere il tempo per rifletterci. Ma anche preparandosi prima, non è detto che poi si riesca a trovare modo di pronunciare le ultime parole famose, e di pronunciarle come si deve. In ogni caso, niente di preordinato. L’eccesso di preparazione rischia di far perdere quel minimo di spontaneità che è fondamentale per un finale di partita senza troppa retorica.
A proposito di finali e di partite: una volta ti hanno raccontato di un tizio che era un maniaco del poker. Dalla mattina alla sera non faceva altro che sbirciare cinque carte una dopo l’altra. Ma sempre, proprio in continuazione, anche quando era solo: aveva inventato il poker con tre morti, una variante in cui a giocare e a vincere era solamente lui. Insomma, quando viene il suo momento questo tizio cade in coma, e ci rimane per un mese. Poi un giorno, improvvisamente, apre gli occhi e guarda i parenti al capezzale come se fosse sorpreso di vederli lì. Li fissa, muove le labbra per dire qualcosa, e i parenti si fanno ancora più sotto per ascoltare quale ultimo messaggio ha da regalare trovandosi sulla soglia dell’aldilà, resuscitando apposta da un coma che pareva irreversibile. E lui, distillando le ultime energie, apre la bocca e dice una sola singola parola:
- Cip.
Ti rendi conto? Cip, e muore. Un’occasione del genere buttata via, l’attesa di tutto quel pubblico di parenti e amici andata delusa. O forse no, perché se adesso tu ti trovi nella situazione in cui ti trovi e perdi tempo a raccontare una storiella del genere vuol dire che quell’unica parola, cip, meritava di essere detta, meritava di essere ricordata e meritava di essere raccontata. Ancora oggi, almeno tu sei qui a riflettere su quel cip, su quello che voleva significare nel contesto dell’esistenza di quel tizio. O a quello che non voleva significare. Perché esiste anche la possibilità che mentre muori stai facendo o pensando qualcosa di assolutamente irrilevante, nell’economia complessiva della Storia dell’Umanità. Viene la morte e ti trova impreparato.
Impreparato: sarebbe bello poter pronunciare questa parola impunemente, come si faceva a scuola. Arriva la morte, tu rispondi:
- Impreparato.
E lei:
- Va bene, ma ti voglio risentire prima che finisca il quadrimestre.
Al massimo, certe volte, ti mettevano una piccola i sul registro, e ogni discussione era aperta su come interpretarla. Faceva media o no, quella i di impreparato? Mistero. Dipendeva dall’umore degli insegnanti, dalla disposizione d’animo che ciascuno di loro aveva nei tuoi confronti.
Se anche in un momento come quello che stai vivendo l’impreparazione fosse motivo di rinvio, potresti almeno guadagnare tempo. Prima della fine del quadrimestre c’è un sacco di tempo, o almeno così ti sembra quando devi scampare all’interrogazione su un argomento di cui non sai niente. Purtroppo invece no: la fine del quadrimestre e gli scrutini arrivano sempre prima di quanto tu possa immaginare.
Ecco, vedi? Se morissi in questo preciso istante, nel Registro Universale dei Pensieri Formulati in Punto di Morte, rimarrebbe scolpita in maniera indelebile questa cazzatina della i sul registro di classe. Che figura, se qualcuno andasse a controllare. Che occasione sprecata. Ma chi se ne frega? Gliene frega qualcosa, a Dio? Adesso, nella situazione in cui ti trovi, non è il momento di aprire una digressione sulla effettiva esistenza di Dio; ma sulla Sua sfera di interessi magari sì. Che ne sai? Lo possono incuriosire gli ultimi pensieri di un singolo morituro? Tutte le cose che stai pensando adesso vanno a finire registrate da qualche parte? No, perché se funziona così allora è il caso di fermarsi un attimo a pensare sul serio. Evitiamo di fare altre figure di merda. Anche perché il tuo interlocutore in questo momento non è solo l’eventuale Dio. Ci sono un sacco di persone che si aspettano da te un’uscita all’altezza di tutto il resto. Si tratta di non deluderle: arrivati a questo punto sarebbe un peccato.
Intanto però i minuti passano, e continui a divagare. Nell’ambito dell’inaccettabile spreco della tua morte, stai per sprecare anche quest’ultimo istante di fama cristallizzata che ti è concesso. Almeno potresti fare come dicono che succeda: che nell’ultimo istante ti ripassa in mente tutta la vita trascorsa. In questa evenienza qualcuno aveva individuato un’ipotesi di vita eterna. Perché nella vita che ti ripassa davanti agli occhi c’è anche quell’ultimo istante che tutti li contiene. Proprio tutti: compreso quell’ultimo istante che tutti li contiene, compreso quell’ultimo istante che tutti li contiene, compreso quell’ultimo istante, eccetera, eccetera. Se non ti sbagli, dev’essere stato Borges. Ecco: nella circostanza potresti sfoderare una citazione di Borges, che fa sempre un certo effetto. Ma le persone che hai davanti non sanno nemmeno chi è, Borges. Nel contesto, sarebbe uno spreco. Ancora uno spreco.
È triste che tutte le persone attorno a te in un momento del genere siano tanto ignoranti. Non sono all’altezza di assistere allo spettacolo che stai per offrire loro. Purtroppo ognuno ha il pubblico che si ritrova, e nemmeno tu te lo sei potuto scegliere. Ce l’hai e te lo devi tenere. Però ammettilo: nel bene e nel male, te lo sei meritato, un pubblico così. Sono le persone che hanno seguito l’ultima parabola della tua esistenza così come l’hai voluta costruire tu, secondo i tuoi criteri. Alcuni ti hanno seguito fedelmente per ore, giorni, settimane, mesi; per anni, addirittura. Chi più chi meno, sono gli stessi che hanno creduto in te. Solo che ora ti si sono rivoltati contro. Tu non sei cambiato, ma loro sì. Molte di queste persone hanno scoperto che le avevi ingannate, e hanno gettato la maschera dell’amicizia, della stima, del rispetto che ti avevano tributato fino a ieri. Questo ti pare veramente assurdo, perché invece fra ieri e oggi tu non sei cambiato. Assolutamente no. Per l’intero arco della tua vita sei rimasto sempre fedele allo stesso personaggio.
In fondo, però, puoi ancora sfruttare la loro ignoranza. Non è necessario che stia lì a spiegare chi era e chi non era Borges, sempre ammesso che la citazione gli appartenga davvero. Non ne avresti nemmeno la possibilità, del resto. Fregatene, come te ne sei sempre fregato. Fai pure finta che sia roba tua, questa storia di tutta la vita che ritorna a scorrere nell’ultimo istante, e così all’infinito. Ti hanno creduto sempre, vuoi che non ti credano proprio adesso? È solo un piccolo sforzo. Chi avrebbe il coraggio di mentire, nelle condizioni in cui ti trovi?
E prima ancora, scusa tanto: chi l’ha detto che tu debba morire sul serio?

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/08/07/la-mossa-del-matto-affogato-di-roberto-alajmo/feed/ 138
1982 di Roberto Alajmo http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/27/1982-di-roberto-alajmo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/27/1982-di-roberto-alajmo/#comments Thu, 27 Mar 2008 21:23:52 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/27/1982-di-roberto-alajmo/ Ogni anno ha il suo fascino. Ogni anno ha le sue luci e le sue zone d’ombra. Eppure ci sono anni che riescono a infilarsi meglio di altri nelle pieghe dell’esistenza. Per Roberto Alajmo il 1982 rientra nella suddetta categoria.
1982” (pagg. 167, euro 10) è il titolo di un volume edito di recente da Laterza e che fa parte dell’ottima collana “Contromano” dove Alajmo, peraltro, è già presente con “Palermo è una cipolla”.
In queste “Memorie di un giovane vecchio”, questo il sottotitolo, l’autore siciliano passa in rassegna il suo personale 1982 per spaziare, poi, dalla politica al cinema, dallo sport alla televisione, dalla musica alla letteratura, disegnando abilmente una fitta rete di incroci tra le esperienze del singolo e fatti e avvenimenti di interesse collettivo.
Non v’è dubbio che in Italia, quando si parla di 1982, il pensiero corre al Mundial spagnolo vinto dalla mitica nazionale di Bearzot. E agli azzurri campioni del mondo è dedicato un importante capitolo, sebbene l’autore del volume – come racconta egli stesso – fu costretto a seguire alcune delle partite più importanti attraverso una misera radiolina “su una torretta a fare la guardia al nulla”. Sì, perché il 1982 è anche l’anno in cui Alajmo presta il servizio di leva; quello in cui i capelli cominciano a incanutirsi e la ragazza gli volta le spalle.
Anno importante, si diceva. Passano a miglior vita gente del calibro di Philip K. Dick, Gilles Villeneuve, Ingrid Bergman, Grace Kelly. Nascono i calciatori Adriano, Kakà, Gilardino, Cassano, la valletta Eleonora Pedron e il motociclista Marco Meandri. Vanno in onda i canali televisivi Italia 1 e Rete 4. Debutta Radio Deejay. Viene al mondo il primo bambino in provetta, va sul mercato il compact disc, mentre la rivista “Time” assegna il titolo di uomo dell’anno – con tanto di foto – a un personaggio particolare: il computer.
Alajmo dimostra ancora una volta che è possibile scrivere ottimi libri affidandosi a una scrittura leggera, frizzante e ironica (persino autoironica). Una scrittura che sa essere lieve anche quando si misura con il racconto di storie dure e traumatiche: dalla guerra delle Falkland a quella del Libano, dall’omicidio di Pio La Torre a quello di Carlo Alberto dalla Chiesa, dallo scandalo del Banco ambrosiano al suicidio di Roberto Calvi.
Notizie, quelle citate, che sfiorano l’autore senza riuscire a coinvolgerlo fino in fondo. Effetto dei risvolti alienanti del servizio militare; almeno fin quando un esaurimento nervoso “salvifico” (“Se mi date un’altra volta un fucile in mano, io mi ci sparo”) non riesce a sottrarlo dalle grinfie della caserma.
“Che poi”, scrive in chiusura Alajmo, “a pensarci col senno di poi, non è stato affatto così tremendo. Malgrado tutto il resto, la mia vita è risultata tutto sommato felice, a partire da quell’anno e per tutti gli anni che sono venuti di seguito, discendendo, per quanto mi riguarda, proprio dal 1982. Ecco, in sintesi, come è andata a finire. O era del mondo, che vi interessava sapere?”
Massimo Maugeri
—-
1982 di Roberto Alajmo
Laterza, Contromano, 2007
pagg. 167, euro 10
____________________

____________________
Cari amici,
vi invito a intervenire in questo post:
- dialogando con Roberto Alajmo, in merito al suo libro;
- provando a raccontare il “vostro” 1982 nello spazio di un commento
(cos’è stato quell’anno per voi? avete ricordi particolari? aneddoti o esperienze da raccontare?).


Di seguito avrete la possibilità di leggere il primo capitolo del libro che presentiamo.

_______

_______

E poi un’anticipazione sul nuovo romanzo di Alajmo che uscirà a breve per Mondadori. Il titolo è: “La mossa del matto affogato”. Un romanzo dove, con implacabile leggerezza e ironia, si racconta la disfatta di un avventuriero, mostrando l’estraneità improvvisa che talvolta possono riservare i rapporti affettivi.
Ho letto qualche brano del libro e vi assicuro che è davvero molto particolare, anche per via della scelta tecnica di improntare la narrazione con l’uso della seconda persona.

_______

_______

(PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE LATERZA, PUBBLICHIAMO IL PRIMO CAPITOLO DEL LIBRO “1982 – MEMORIE DI UN GIOVANE VECCHIO”, DI ROBERTO ALAJMO)

PROLOGO

NON È UN CAPELLO

In questi casi, il classico dei classici è svegliarti una mattina, andare in bagno, sciacquarti la faccia e scrutare nello specchio. Dopodiché accorgerti di qualcosa e avvicinarti ancora un po’ alla tua immagine riflessa per accertarti di aver visto bene. Non può essere. Sì che può essere.
Sì, effettivamente.
C’è.
Il capello bianco. C’è. Il capello bianco c’è.
Dev’essere spuntato durante la notte. Non c’è altra spiegazione possibile, perché ieri non c’era e oggi invece sì. Cerchi di consolarti pensando che prima o poi doveva succedere. Minimizzi, ti sforzi di prenderla con ironia. Certe volte funziona. Dipende. Rimane comunque da stabilire come regolarsi ora che è successo. Poi verrà il tempo delle eventuali tinture, ma lì per lì l’istinto porterebbe a prenderlo con due dita e cercare di estirparlo, prima che la sua presenza possa contagiarsi agli altri capelli, rinviando così almeno di qualche giorno la svolta psicologica che si prospetta nella tua vita, una soglia paragonabile al compimento dei venti, trenta, quarant’anni. Quando scopri che ti è spuntato il primo capello bianco sei portato a fare riflessioni di un certo spessore, stilare bilanci, formulare propositi. Se non ti viene in mente nulla di significativo da tramandare almeno a te stesso vuol dire che sei davvero povero di spirito. Strano: dai capelli bianchi ci si aspetta che siano forieri di saggezza, oltre che di depressione.
Oppure, se riesci a resistere al primo istinto distruttivo, dopo avere individuato e preso fra due dita quell’unico capello bianco, ti fermi a indugiare sulla sorte che deciderai di destinargli. E alla fine lo lasci vivere, nel ricordo di quella scaramanzia che intima: sette capelli bianchi ricresciuti per ognuno strappato via. La rappresaglia tricologia funge da deterrente, ma i sette capelli bianchi dopo una settimana probabilmente ti spunteranno lo stesso, crudeli come certi nazisti da film, che malgrado il sacrificio dell’eroe, davano ordine di procedere lo stesso con la fucilazione degli ostaggi.
Così succede, di solito. Comunque si voglia reagire, il giorno della scoperta del primo capello bianco è di quelli cruciali, da segnare nel calendario della tua vita a caratteri maiuscoli. Neri e maiuscoli.
Nel mio caso, però, la dinamica è diversa. Niente risveglio, niente specchio, niente soprassalto alla scoperta del singolo capello bianco, né tentazione di strapparlo via. Tutto è successo in un periodo in cui non mi guardavo mai allo specchio. Diciamo quasi mai. Mi trascuravo un po’, o forse la cura dell’aspetto fisico era diventata meno importante. Da qualche mese la mattina avevo ridotto al minimo le abluzioni e persino le funzioni corporali per cercare di guadagnare tempo e presentarmi puntuale all’adunata del mattino. Perché sì: era il periodo del servizio militare. Non che mi piacesse indugiare a letto dopo la sveglia. Tutt’altro. Anzi, quando mi capitava di svegliarmi anzitempo, correvo in bagno e mi lavavo prima degli altri. Questo perché dieci minuti dopo il suono della tromba, nei bagni si creava un ingorgo umano cui cercavo sempre di sfuggire, provando a scansare la pesantezza dei primi scherzi da caserma della giornata.
Il mio sistema consisteva nell’indossare la divisa prima ancora di lavarmi. E solo poi, quando la maggior parte degli altri era intenta alla vestizione, quando l’ingorgo si scioglieva, andavo in bagno e mi immischiavo ai ritardatari ancora in mutande, io che già indossavo persino il basco d’ordinanza, per non lasciarlo in camerata col rischio che me lo fregassero. Si fregavano tutto, pure i baschi. Per non bagnare i vestiti mi lavavo alla meno peggio, limitando al massimo il contatto con l’acqua gelata, oltre che coi commilitoni. Non mi piacevano i commilitoni. Per niente. Né loro, né la situazione in cui mi trovavo. E per la verità, sospetto, nemmeno io piacevo a loro.
Insomma, in quel periodo allo specchio mi guardavo poco, e malgrado l’ora di punta ai bagni fosse passata, mi restava poca voglia di indugiare nella cura del dettaglio estetico personale. Inoltre, per il motivo che ho detto, quando mi capitava di guardarmi allo specchio, il più delle volte indossavo il berretto. Quindi, il giorno in cui il famoso Primo Capello Bianco ha deciso di spuntarmi sulla testa, io me lo sono perso in pieno. Non ho dovuto mai affrontare il dubbio strappo-non strappo, per il semplice motivo che quando me ne sono accorto, i capelli bianchi erano diventati già troppi per essere affrontati in termini di sterminio collettivo.
Non è neppure escluso che possano essere diventati bianchi tutti assieme, magari in un momento di particolare stress. Dicono che succeda. O almeno succede nei romanzi dell’orrore: vedi un fantasma, e all’improvviso ti si imbiancano i capelli. Per quanto riguarda me, tuttavia, non c’è stato nessun fantasma, nessun istante di stress particolare. Si tratta di un momento difficile da individuare, perché tutto quel periodo era di particolare stress. La chimica che presiede a questo genere di mutazioni è imperscrutabile, e difatti non ricordo un inciampo particolare o uno di quegli spaventi che provocano, secondo la leggenda, l’imbiancamento repentino Può darsi che sia stato così: ma non lo so; per il semplice motivo che, non guardandomi allo specchio per lunghi periodi, non potevo accorgermene.
Né potevo sperare che se ne accorgesse qualcuno dei miei compagni d’arme; guardarsi reciprocamente, notare un dettaglio nell’aspetto personale di un altro era non proibito, ma di sicuro fuori luogo, indizio sicuro di effeminatezza. Ergo: né io guardavo gli altri, né gli altri guardavano me. Vivevamo con un paraocchi che ci ostruiva ogni visione laterale. Potevamo vedere solo gli oggetti che ci si presentavano frontalmente, individuare solo i beni di prima necessità e soddisfare solo bisogni primari: bere, mangiare, respirare. Stop: anche gli altri bisogni primari, come vedremo, potevano essere sospesi. Solo esercitando un letargo dell’intelligenza e dello spirito potevamo garantirci l’unico obiettivo possibile, nel contesto, ossia arrivare alla fine dei trecentosessantacinque giorni che ci toccava trascorrere in caserma. Cioè, sopravvivere. Ogni altra attività si configurava come un lusso e dunque, ancora, come indizio di effeminatezza. Leggere era effeminato, ascoltare musica era effeminato, persino andare in chiesa era considerata una manifestazione di effeminatezza. Guardare i capelli degli altri sarebbe stato il massimo dell’effeminatezza. Per cui non so se qualche mio effeminato commilitone si è accorto del fatto che i miei capelli erano diventati bianchi. Di sicuro nessuno mi ha detto niente, finché sono rimasto in caserma. Nemmeno io l’avrei fatto. Se mi fossi accorto di una mutazione del genere su un mio commilitone, me ne sarei stato zitto. Non volevo certo passare per effeminato.
È stata la mia fidanzata di allora, Maria, che se ne è accorta quando mi ha rivisto dopo quasi un mese, in occasione della prima licenza. Mi ha guardato senza espressione e ha detto:
- Hai i capelli bianchi.
Così ha detto. Senza un punto esclamativo alla fine, senza ironia o tenerezza. Senza allarme o compatimento. Come una pura e semplice constatazione. Io sono caduto dalle nuvole:
- Che dici?
Naturalmente sono corso allo specchio più vicino per verificare l’entità del danno. Lei non mi ha seguito, è rimasta ad aspettarmi in soggiorno. Il suo restare, contrapposto all’ipotesi di seguirmi con amore, avrebbe dovuto rivelarmi molte informazioni che per il momento era meglio ignorare. Un problema per volta. Sono andato in bagno da solo e ho guardato i miei capelli. La proliferazione di quelli bianchi era molto più avanzata di quanto potessi immaginare, tanto che mi sono chiesto distintamente come avessi fatto a non accorgermene prima. Ho mosso la testa passando le dita fra i capelli per verificare che non fosse uno scherzo della luce riflessa, ma no: quelli bianchi erano davvero moltissimi. Non proprio maggioranza, ma di sicuro, almeno, minoranza più che qualificata. Spiccavano sul nero in maniera uniforme, senza zone di concentrazione. Impensabile procedere a un’estirpazione individuale.
Ho immaginato che fosse successo la notte prima, ma ho dovuto ammettere di fronte a me stesso che non era affatto probabile. Poteva essere successo una notte qualsiasi del mese precedente, oppure anche un poco alla volta, nell’arco dello stesso periodo. La sostanza non cambiava. La sostanza era che i miei capelli avevano cominciato a imbiancare in maniera drastica.
La scoperta è bastata a rovinare l’incontro con Maria, incontro che pure avevamo (avevo) desiderato con spasmi di passione inediti, se si considerano i precedenti del nostro rapporto. Lei stessa, che nei primi tempi fra noi era quella più innamorata, stentava a riconoscere quella retorica passionale di cui farcivo le lettere che le spedivo dalla cattività. A Orvieto, dove espiavo il periodo del cosiddetto CAR, vivevo in una solitudine animalesca, circondato da creature primordiali, prive di qualsiasi sensibilità umana. In quei trenta giorni mi ero aggrappato al ricordo di Maria in maniera disperata, fino a capovolgere i ruoli consolidati nel nostro rapporto, dove fino ad allora io ero stato la parte più sfuggente. Per forza: lei era tutto ciò che rimaneva del mio passato di essere umano per cultura e sentimenti. Lei era la mia ancora di salvezza. Lei e I., naturalmente. Ma quello di I. è un altro discorso, che affronteremo al momento opportuno.
Quando sono tornato in soggiorno Maria era ancora dove l’avevo lasciata. Io ho detto solo:
- E’ vero, sono tutti bianchi.
Al che mi sarei aspettato che lei rispondesse: Ma no, ma che dici, non tutti, sono solo un po’ bianchi. Invece lei non l’ha detto. Non ha nemmeno abbozzato qualcosa che somigliasse a una forma di consolazione. Mi ha risposto:
- Eh, te l’ho detto.
Dopodiché la conversazione fra noi ha preso altre strade, strade più convenevoli, tralasciando del tutto la scoperta dei capelli bianchi. Col senno di poi, posso dire di non ricordare nulla, di quel che abbiamo detto. Posso anzi dire di non avere mai saputo nulla, di quella conversazione. Non si ricorda, tecnicamente parlando, qualcosa che all’inizio si ricordava: ma non è questo il caso. Lei parlava e io non ascoltavo. Ero distratto. La mia mente era dirottata su quell’unico binario possibile: i capelli bianchi. Mi erano venuti i capelli bianchi.
Nella maniera certo approssimativa dei ventenni, mi rendevo conto di avere appena varcato una soglia biologica impercettibile e fondamentale, però. Il mio corpo aveva cominciato a invecchiare. Stavo mutando. Era cominciata una metastasi incruenta che però sempre metastasi risultava. E il destino di quella mutazione sapevo quale sarebbe stato. Il destino innominabile, lontanissimo, eppure, a partire da quell’indizio che avevo appena scoperto, un po’ più vicino.
Mentre Maria parlava, io pensavo ai fatti miei. Per la precisione: cercavo di capire che cosa avesse provocato quella proliferazione di capelli bianchi. Doveva per forza esserci un motivo scatenante. Doveva esserci e dovevo scoprirlo. A un certo punto la mia ragazza – il mio ingrizzo, si diceva a Palermo in quegli anni – mi ha richiamato all’ordine dei discorsi che stava facendo. Discorsi più che impegnativi, che riguardavano la fine dell’amore e altri dispiaceri di minor conto. Le circostanze mi spingevano ad abbandonare l’indagine sui motivi della canizie. Ma una parte di me, mentre Maria mi stava lasciando, non smetteva di ruminare. Non vale la pena di pensarci, mi dicevo. Ormai è successo, amen. Ora la mia ragazza mi sta dicendo che ha deciso di lasciarmi, concentriamoci su questo. Fin quando, effettivamente, Maria ha ottenuto la mia attenzione ed è riuscita a farmi il discorsetto che si era preparata, alla fine del quale mi sono ritrovato single, oltre che vittima di una canizie già in stato di avanzamento. È stato allora che ho scelto di stabilire delle priorità, lasciando perdere le riflessioni sui capelli e concentrando piuttosto ogni sforzo per rimediare al nuovo stato di solitudine sentimentale.
A distanza di tempo, tuttavia, mi viene il sospetto di aver sbagliato nella selezione delle priorità. Forse, se non avessi lasciato perdere, se avessi proseguito le indagini nell’immediatezza dei fatti, sarei riuscito a scoprire il motivo per cui avevo cominciato a invecchiare. Addirittura, una volta scoperto il movente, avrei potuto intervenire sulle cause e risolvere il problema alla radice, restando giovane ancora per un po’, se non per sempre, come allora credevo possibile. Non l’ho fatto, e ancora me ne dispiaccio.
Arrivano però momenti della vita in cui bisogna tornare indietro e riflettere. Come quando in autostrada si scopre che bisognava imboccare una certa uscita. Ormai è troppo tardi, siamo andati troppo avanti, non si può tornare a marcia indietro. Tuttavia è possibile uscire dall’autostrada successivamente e tornare indietro percorrendo strade secondarie. Strade, certe volte, addirittura divergenti rispetto alla nostra destinazione. Non solo è possibile tornare indietro, ma addirittura bisogna farlo. Non c’è altra possibilità. Chi l’ha detto che ormai è troppo tardi? Non è passato poi troppo tempo. Non stiamo parlando di un passato talmente remoto da non poter essere ricostruito, almeno per sommi capi.
Per cui, ho deciso. È arrivato il momento di portare a termine l’indagine lasciata in sospeso a suo tempo e capire perché i miei capelli sono diventati bianchi proprio allora. Scoprire dove è cominciata la mutazione, e con la mutazione la china discendente. Dove io ho sbagliato a imboccare l’uscita dall’autostrada. E forse non solo io: è il genere umano, l’intero pianeta terra che a partire da quel momento ha iniziato a perdere la sua innocenza. È ora di tornare indietro, al dove, al quando e al perché.
Cominciamo a inquadrare l’anno.
Era il millenovecentottantadue.

]]>
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/03/27/1982-di-roberto-alajmo/feed/ 103