LETTERATITUDINE di Massimo Maugeri » Sarah Zappulla Muscarà http://letteratitudine.blog.kataweb.it Un open-blog. un luogo d\'incontro virtuale tra scrittori, lettori, librai, critici, giornalisti e operatori culturali Sat, 11 Dec 2021 09:58:57 +0000 http://wordpress.org/?v=2.9.2 en hourly 1 OMAGGIO A SEBASTIANO ADDAMO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/15/il-giudizio-della-sera-di-sebastiano-addamo/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/15/il-giudizio-della-sera-di-sebastiano-addamo/#comments Wed, 15 Jul 2020 16:40:29 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=1099 In occasione del ventennale della morte di Sebastiano Addamo (Catania, 18 febbraio 1925 – Catania, 9 luglio 2000) mettiamo in primo piano questo post (con relativo dibattito online) incentrato sull’opera principale dello scrittore catanese: “Il giudizio della sera”

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IL GIUDIZIO DELLA SERA di Sebastiano Addamo

È arduo pensare di riproporre ai lettori di oggi un romanzo uscito senza alcun clamore 35 anni fa. Arduo se non altro perché le novità editoriali sono tante da creare tempeste sui banconi dei librai. Eppure la qualità letteraria di alcuni vecchi libri è tale da giustificare l’azzardo.
Con queste parole Matteo Collura inizia la recensione del romanzo “Il giudizio della sera”, di Sebastiano Addamo (nella foto), ripubblicato da Bompiani nel 2008 a cura di Sarah Zappulla Muscarà (originariamente pubblicato, nel 1974, da Garzanti).
Poi, lo stesso Collura, nella suddetta recensione (pubblicata sul Corriere della Sera del 14 ottobre 2008) conclude: Non è da credere in un successo postumo di questo narratore, che fu preside di liceo e fine intellettuale, ma in una sua giusta collocazione nell’ambito dei valori letterari del secondo Novecento italiano, sì. E va dato atto alla Bompiani di tentarci (…).

Sebastiano Addamo, mio conterraneo, è nato a Catania, nel 1925 e ivi si è spento nel 2000. Non lo so se – riprendo le parole di Collura – il successo postumo arriderà ad Addamo, ma (nel mio piccolo) avverto l’esigenza di fare quanto possibile per divulgare la conoscenza di questo autore e delle sue opere; proprio a partire da questo romanzo: “Il giudizio della sera”.

Sulla nota in quarta di copertina del libro, leggiamo quanto segue: “Narratore, poeta, saggista, Sebastiano Addamo ha percorso un cammino coerente, sostenuto sempre da rigore stilistico e morale. È l’universo siciliano a nutrire l’immaginario dello scrittore, che già pienamente si esprime in questo romanzo di formazione, toccando corde tematiche di grande intensità emotiva: il viaggio di conoscenza reale e simbolico di cinque adolescenti. La Catania di Addamo non è quella “molle e pastosa” che da l’impressione di “camminare in mezzo al sole” di Vitaliano Brancati, né quella aperta sul mare, “luccicante sotto il sole a picco” di Ercole Patti, ma quella misera, squallida, del quartiere della prostituzione, teatro della guerra e del fascismo. Un quartiere che diviene il simbolo del degrado del nostro tempo.”
Vi invito a leggere questo post, e a discutere di questo libro e della figura Sebastiano Addamo, partendo dai contributi che troverete di seguito: la recensione di Laura Marullo (che mi darà una mano a coordinare e a moderare il post), quella – già citata – di Matteo Collura e la prefazione della curatrice del libro: Sarah Zappulla Muscarà.
Inoltre, come sempre, mi piacerebbe avviare una discussione parallela a quella sul libro. Mi colpisce molto il titolo di questo romanzo di Addamo (Il giudizio della sera). Un titolo che – come meglio evidenziato dai contributi a seguire – ha una forte valenza “nicciana”.
A me il giudizio della sera evoca l’immagine di uno specchio in cui ciascuno di noi – volente o nolente – è costretto a guardarsi… alla fine di un giorno della nostra vita, o di un periodo, o di un’esistenza intera.
Vi chiedo di affondare lo sguardo in quello specchio e vi domando (domanda difficilissima): qual è il giudizio della vostra sera?
(chi avrà il coraggio di rispondere?)
E poi (domanda più generica): il giudizio della sera è più un trampolino di lancio o un ostacolo per il giorno (o il periodo) che verrà?
Attendo i vostri contributi.
Massimo Maugeri

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Sebastiano Addamo, “Il giudizio della sera”, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Milano, Bompiani, 2008, pp. 159.

recensione di Laura Marullo


Una deflagrante ansia di annientamento sottende il vitalistico moto di rivolta di cinque adolescenti lentinesi contro la tanatofila “era dei Padri” di una Catania asservita al fascismo e sconciata dal secondo conflitto mondiale nel romanzo di Sebastiano Addamo “Il giudizio della sera”, apparso da Garzanti nel 1974 ed ora pubblicato per i tipi di Bompiani a cura di Sarah Zappulla Muscarà. Un’opera di rilevante interesse nell’ambito della letteratura siciliana di fine secolo per avere indagato, con impietoso mordente demistificatorio, la crisi dei sistemi di valore di una società e di un’intera epoca, la delusione ideologica del Novecento che apre inaspettatamente alla speranza sia pure attraverso la freudiana esperienza, dolorosa ma necessaria, del “parricidio”. Vi riconduce il nicciano titolo che, per il tramite dell’ambigua immediatezza dell’aforisma, forma prediletta perché assiduamente praticata da Addamo, immette nella dimensione dell’attivismo superomistico che invita a superare l’inquietudine esistenziale provocata dalla guerra ed affermare l’esigenza di un radicale rinnovamento etico.
Romanzo di formazione in cui fa incursione l’autobiografia, “Il giudizio della sera” ripercorre il tortuoso itinerario di conoscenza dei giovani protagonisti, Gino, “alter ego” dello scrittore, Pippo, Carletto, Gianni e Morico, in un’avventura vitale alla scoperta del sesso che si contrappone allo scenario di “morte immanente” di cui è espressione il capillare luridume del quartiere a luci rosse di San Berillo, “regno delle prostitute”, dove aleggia “odor di cesso e di piscio di gatto […], odore di putrefazione e di liquami infetti”, funerea metafora del degrado materiale e morale di un “mondo borghese che ancora non sapeva di contemplare la propria morte”. Come sottolinea la curatrice nel lucido saggio introduttivo, “l’istintualità esuberante, il febbrile desiderio di sperimentazione fortemente collide con la sempre più stagnante, fatiscente, truce atmosfera cittadina soffocata dal giogo del fascismo e della guerra”. Immersa nel torpore e nell’indolenza, la “vecchia siciliana malinconia della morte e del disfacimento”, in quell’oblomovismo che afferma l’esistere astenendosi dall’agire, la Catania di Addamo, materica più che immaginifica, esibisce i sintomi di quella letale “malattia che era la guerra” già impressi sui volti di un’umanità derelitta, di esseri disperati preda di un’ancestrale inedia, in cui la reificazione e la mercificazione sanciscono l’alienazione e l’angoscia del nulla. Ne emerge un’antropologia negativa, ritratta con cruda deformazione espressionistica ma sempre con forte partecipazione emotiva, in cui orde fameliche di prostitute sciamano, lasciando echi lugubri e perverse, lungo le vie del sesso, via delle Finanze, via Coppola, via Di Prima, via di Sangiuliano, imbrattate di quel “vasto putrescente addobbo escrementizio” che è a un tempo simbolo e rifiuto della guerra: “Tutto divenne guerra. […] Sopravvenne l’odore di piscio. Inopinatamente, senza alcun preavviso, dilagò, s’impose, si impossessò della città. […] La guerra dilagò con tale odore”. È una ferale sociologia degli odori quella di cui si serve Addamo per mostrare le ferite suppuranti di una città ammorbata e ribadire il suo atto di accusa nei confronti delle distorsioni del potere e dell’abiezione della guerra. Ma la guerra, osserva acutamente Sarah Zappulla Muscarà, “non è quella di lunghe, inespugnabili trincee, di mirabolanti avanzate, di manovre vittoriose propagandate da mendaci bollettini del regime. […] È quella delle ‘carte da lutto’ affisse alle porte delle vedove ridotte alla prostituzione, dei volti sformati, disperati di creature forsennate”.
Accentuando una disposizione analitica favorita dal fertile humus di Lentini, patria di Gorgia, Sebastiano Addamo, “poeta-pensatore” come non a caso lo definì Leonardo Sciascia cui lo unì una comunione d’intenti letterari ed esistenziali, l’impegno civile, la tensione morale, il pessimismo ontologico, armato degli strumenti della riflessione filosofica, evidenti in un tessuto narrativo intramato da un fitto citazionismo puntualmente decriptato dalla curatrice che ne individua la fonte nell’opera di Kirkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Heidegger, Husserl, Sartre, fra gli altri, ingaggia una strenua lotta di liberazione da tutte le forme di ipocrisia sulle quali ha allignato la civiltà occidentale e la cultura meridionale. Lo documenta la dissacrazione di archetipi a falsi miti di cui è sconcertante metafora l’insano amplesso del giovane Gino con la degenere, laida figura materna della padrona della squallida pensione e infine lo scenario apocalittico del bombardamento aereo su Catania che traduce l’attesa palingenetica di un mondo migliore da quello consegnato dai Padri.
L’ironia provocatoria, il raziocinare pensoso, il moralismo risentito, innervano un impianto narrativo sdoppiato nei piani paralleli della memoria e della riflessione, destrutturando la tradizionale forma romanzesca mediante l’intervento di “chiose spiegative” che, come un manzoniano “cantuccio dell’autore”, danno voce al grido di protesta di quei “chierici traditi”, quegli intellettuali ai quali, ribadisce lo scrittore, bisogna “guardare per sapere quale è la posizione più utile”.
Sospinto da un sentimento di “laica trascendenza” che miri alla rivelazione dell’“oltre” a partire dall’oscurità in cui vive l’uomo moderno in seguito al crepuscolo degli idoli, come il nicciano viandante con la lanterna in mano, Sebastiano Addamo stana, lumeggiandola con i lampi della sua scrittura, la scotofilia di anonimi piccolo-borghesi, sempre animato dal raggiungimento di un superiore imperativo etico che dà corpo alla cifra stilistica di tutta l’opera sua.
Laura Marullo

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Addamo, la Sicilia come filosofia

di Matteo Collura

da il Corriere della Sera del 14-8-2008

È arduo pensare di riproporre ai lettori di oggi un romanzo uscito senza alcun clamore 35 anni fa. Arduo se non altro perché le novità editoriali sono tante da creare tempeste sui banconi dei librai. Eppure la qualità letteraria di alcuni vecchi libri è tale da giustificare l’ azzardo. È il caso del breve romanzo di Sebastiano Addamo dal bel titolo Il giudizio della sera, pubblicato da Garzanti nel 1974 e ora ristampato da Bompiani (pp. 159, 8,60), con una nota critica di Sarah Zappulla Muscarà, cui certamente si deve la riproposta. Addamo racconta di una comunità siciliana negli anni della Seconda guerra mondiale vista con gli occhi di alcuni adolescenti. Una sorta di romanzo di formazione, dove prevale l’ abilità narrativa, senza eccessivi ricami e tuttavia complessa, piena, fortemente evocativa e in grado di restituire il senso di un momento storico in quel particolare luogo, Catania. Niente a che vedere – sia ben chiaro – con Brancati o con Ercole Patti o con Vittorini (e facciamo questi nomi perché il luogo di cui Addamo racconta è una città della Sicilia orientale e perché nella scoperta del sesso, evento centrale nel romanzo, si potrebbe pensare al Garofano rosso); niente a che vedere altresì con i narratori siciliani oggi più presenti nell’ attenzione dei lettori e della critica. Con questo romanzo, Sebastiano Addamo riesce a dare – ecco giustificata appieno la scelta della casa editrice Bompiani – un ritratto primigenio dell’ isola e nello stesso tempo attuale: di una attualità chiarificatrice per chi vuol darsi la pena di capire la patria di Gorgia e di Pirandello, oltre che gustarla nel suo sconcertante esotismo. In questo romanzo troverete inserti o pause esplicative non dico indispensabili, ma certamente utili a meglio comprendere la contorta filosofia siciliana, mostrandola nelle sue semplici impalcature primitive. Un esempio: «Al mio paese, ma in molti paesi, e specie del Sud e della Sicilia, come c’ era un fascismo d’ accatto, miserabile, fatuo e minchionesco, così c’ era un’ opposizione pure d’ accatto, molto misteriosa, quasi inutile, risentita, e sia pure onesta. Ma come il marxismo fu la coscienza del proletariato e diventò la coscienza per la stessa borghesia – il neocapitalismo cosiddetto che cosa è, se non appropriazione e uso del marxismo ma nel senso contrario? -, così, all’ inverso, un sistema ridicolo e imbelle produce un’ opposizione se non ridicola certo imbelle». O ancora: «Nella prevalenza della natura c’ è esattamente il limite della storia. Forse per questo la Sicilia sta ancora attendendo la “sua” storia». Ecco, forse Corrado Alvaro può andar bene se proprio si vogliono trovare apparentamenti all’ autore del Giudizio della sera, o Sebastiano Aglianò, cui dobbiamo la sempre utile inchiesta rudemente intitolata Che cos’ è questa Sicilia?. Anche se nella descrizione delle plebi catanesi e delle prostitute sospinte nel baratro dell’ abiezione si coglie una luciferina cifra narrativa che potrebbe far pensare a Curzio Malaparte. Ma Addamo – e si vedrà meglio se altri suoi libri verranno riproposti – ha lasciato una sua personale impronta letteraria. Alcuni suoi titoli vanno ricordati: Un uomo fidato, 1978; I mandarini calvi, 1978; I chierici traditi, 1978; Le abitudini e l’ assenza, 1982, Palinsesti borghesi, 1987. Carlo Bo, esattamente trent’ anni fa, annotava: «Addamo è uno scrittore che aspetta ancora il suo momento, un momento che forse non verrà mai, data la natura del giuoco letterario predominante e dato anche il carattere estremamente riservato dello scrittore». Non è da credere in un successo postumo di questo narratore, che fu preside di liceo e fine intellettuale, ma in una sua giusta collocazione nell’ ambito dei valori letterari del secondo Novecento italiano, sì. E va dato atto alla Bompiani di tentarci, così come sta facendo con altri autori per fortuna tra noi, come Giuseppe Bonaviri di cui sono appena usciti i racconti fantastici raccolti sotto il titolo L’ infinito lunare (p. 288, 9,20).
Matteo Collura

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Come i neofiti dell’oscuro
di Sarah Zappulla Muscarà

Il giudizio della sera. Chi ripensa all’opera della sua giornata e della sua vita, quando è arrivato stanco alla fine, giunge di solito ad una malinconica considerazione: tuttavia la colpa di ciò non sta nel giorno e nella vita, bensì nella stanchezza. Immersi nell’attività, non abbiamo di solito il tempo per esprimere giudizi sulla vita e sull’esistenza, e neppure quando siamo nel pieno del godimento: ma se una volta arriviamo a far ciò, non diamo più ragione a colui che ha aspettato il settimo giorno e il riposo per trovare molto bello tutto ciò che esiste, – egli ha perduto il momento migliore”. Così Friedrich Nietzsche con la frantumazione, l’ambiguità, l’immediatezza dell’intuizione dell’aforisma che è, osserva Sebastiano Addamo, “come il lampo nella notte: la illumina vivissimamente, ma subito dopo rende il buio più denso e compatto”.
Dettato da acre riflessione critica sulla condizione della società italiana sconvolta dalla drammaticità degli eventi bellici del secondo conflitto mondiale, dall’esigenza di fornire una risposta all’angoscia nichilista e all’inquietudine esistenziale scaturite dal disfacimento etico, ideologico e religioso dell’Occidente, metafora della negazione della cultura dei padri, dell’alienazione e della reificazione, Il giudizio della sera (apparso per la prima volta nel 1974, per i tipi di Garzanti) è dolente allegoria della variegata fenomenologia umana contemporanea sospesa in perpetuo travaglio tra bene e male, luce e buio, slancio vitale e meditazione sul nulla. Una dialettica di antinomie tesa a superare il pessimismo, il male di vivere, la crisi del potere con i suoi frutti avvelenati, per affermare l’esigenza di un radicale rinnovamento, di un energico ribaltamento di valori, contrapporre con Albert Camus al mito di Sisifo l’uomo in rivolta, addomesticare l’“assurdo”, sancire la fine di un’epoca e il palesarsi di un’altra. Per non perdere “il momento migliore”. Fosse pure quello del “parricidio”.
Sorretto da salda cultura filosofica e letteraria, lucida, cartesiana razionalità, sfiduciata visione del mondo, Sebastiano Addamo, d’impervia e contratta malinconia, ripercorre, con occhi invasi di smagato, irredimibile risentimento, il viaggio di conoscenza reale e simbolico di cinque adolescenti siciliani, braccati dai demoni di una città e di un presente di illusori miraggi, che si traduce in una vera e propria discesa agli inferi.
Al Bildungsroman, romanzo di formazione e generazionale, in Il giudizio della sera si affianca, in termini manifesti, la prospettiva dell’autobiografia. Gino, alter ego dello scrittore, Pippo, Carletto, Gianni, e Morico, abbandonata Lentini per seguire gli studi liceali a Catania, avviano un tortuoso processo di crescita attraverso l’impatto con le due traumatiche esperienze della sessualità e della guerra.
Stagliata sullo sfondo delle tiepide atmosfere serotine di un “ridolente autunno”, immota nel pantano di un’atavica, secolare ignavia, sonnecchiante in “quel tempo friabile”, in quella vita “eterna”, ingannata dalle menzogne del fascismo, oltraggiata dalla crescente miseria, violata dalle bombe, Catania, dapprima “tenera e profonda”, poi “tetra e raggomitolata”, è teatro del rituale di morte e risurrezione di una cultura e di una società, scenario apocalittico di una “laica Pasqua” (Vincenzo Consolo), di un canto del cigno di quel “mondo borghese che ancora non sapeva di contemplare la propria morte”. Quel “mondo borghese” che s’accampa con insistenza opaco nella narrativa successiva dello scrittore, da Un uomo fidato a I mandarini calvi a Palinsesti borghesi.
L’istintualità esuberante, l’ebbrezza dionisiaca, il febbrile desiderio di sperimentazione dei giovani protagonisti fortemente collide con la sempre più stagnante, fatiscente, truce atmosfera cittadina soffocata dal giogo del fascismo e della guerra, segnata dal degrado materiale e morale. Ma è un mesto picarismo la brama di conoscenza filtrata dalla spasmodica ricerca del sesso. Alle scorribande notturne, alle ricognizioni fugaci, ai primi acerbi approcci si alternano malinconiche riflessioni, enigmatici dubbi, dilanianti interrogativi da cui erompe l’aspirazione al cambiamento che si fa rabbia, l’energia distruttrice che si fa ribellione, l’apertura alla speranza che si fa attesa palingenetica. La storia “è solo un’occasione, che si tratta di rendere feconda con una rivolta vigile”, ancora con Camus. È il cruento trapasso generazionale dall’“era dei Padri” all’“età del parricidio”. L’acquisizione della maturità – “imparare il mondo” – di Gino si consuma infatti tra le macerie di una umanità corrotta e corruttrice, sotto un bombardamento che si traduce in atto di accusa di ogni totalitarismo familiare, politico, etico, dando corpo all’angoscia di annientamento sottesa al tragico sentimento della “morte immanente”.
Scaturita dall’incandescente rovello filosofico sul disagio della civiltà conseguente alla crisi dei sistemi di valore, l’analitica esistenziale di Addamo, nel solco del pensiero di autori a lui cari, Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Heidegger, Husserl, Sartre, fra i principali, ma pure intrisa della linfa della consuetudine mediterranea alla riflessione, si dispiega in termini demistificanti. Una demistificazione di pregiudizievoli, vetusti retaggi culturali finalizzata alla conquista del senso autentico dell’individualità al di là di ogni pastoia. È la “lacerazione del velo di Maya” di cui parla Schopenhauer, la necessità di sollevare la spessa coltre di inibizioni, districare l’intricata tramatura di falsi miti che bloccano, mortificandone lo spirito dionisiaco, le pulsioni vitali e la tensione conoscitiva verso l’essenza più profonda dell’uomo.
Si dipana nei meandri della geografia dell’“oscuro” l’itinerario gnoseologico tracciato dall’autore secondo cui l’uomo è “origine e nulla” e la contemporaneità “il luogo per ogni anacronismo”. In un’epoca lacerata dal nicciano grido “Dio è morto”, compito dello scrittore non è “tranquillizzare”, bensì “inquietare”, scuotere dal torpore di metafisiche certezze, ma soprattutto, “contaminandosi con la laidezza quotidiana, fraternamente coinvolta nella rissa giornaliera degli uomini”, rivelare “l’oscurità che è nell’uomo, nei suoi gesti, nel suo tessuto emozionale” e restituire infine “la vigile inquietudine per una realtà altra”. In precario equilibrio sull’incerto discrimine fra narrazione realista e saggio filosofico, percorso da un sentimento di “laica trascendenza”, Il giudizio della sera è animato da quella spinta verso l’“oltre” che è a un tempo deiezione del principio heideggeriano dell’“essere” e dolorosa coscienza del nulla, dell’“essere-per-la-morte”.
Acuita da vigile percezione sensoriale, l’attività euristica dei giovani adolescenti approda alla sinistra consapevolezza del potere “nientificante” della morte. È soprattutto l’odorato ad incidere più profondamente nella sfera psichica penetrando fino alle radici della vita. “Il naso, che è veicolo o tramite” presiede infatti alla scoperta dell’orrore per la condizione stessa dell’esistere. Agente di un processo di trasferimento di senso che rinvia a precisi significati metaforici, l’odore acquista un’importanza primaria nel modello di scepsi delineato da Addamo, che scoperchia il maleodorante quartiere di San Berillo, dove aleggia “odor di cesso e di piscio di gatto”, “odore di putrefazione e di liquami infetti”. L’odore tristo, fetido, turpe, individua “l’evento”, eccita gli impulsi sessuali, palesa la guerra. Ne guizzano funebri lampi di “cedimento, corruzione, abominio, disordine e talvolta anche rivolta” (Oltre le figure). Il puzzo, che già con Dante “’l profondo abisso gitta”, è sublimazione di “terrori senza speranza”. Evoca “l’oscuro, l’infero”. Certifica il decesso. È l’“olor de la muerte” di Ernest Hemingway. Ha valenza teologica, testimoniando il “giudizio di Dio”, secondo Fedor Dostoevskij.
Un nauseabondo, funereo lezzo di decomposizione soffia nel quartiere di San Berillo, “regno delle prostitute”, “vecchie, giovani, scarmigliate e feroci”, “melma oscena, tenebrosa e virulenta di un torrente che però […] nasceva certo dall’Es singhiozzante e spasmodico, ma certo pure dal mondo stesso dove la merce governa più che esservi governata”. Labirinto che si accende nell’oscurità diramandosi in vicoli bui, sordidi, disfatti, via delle Finanze, via Coppola, via Maddem, via Di Prima, via Rapisarda, via di Sangiuliano, pullulanti di protettori, ruffiani, deboli, perdenti, deturpati da immedicabili ferite, ammorbati dalla miseria, dal fetore, dal disordine. “Prima forma di baratto” la prostituzione, secondo l’annotazione di Carl Marx, posta in epigrafe al romanzo. E Walter Benjamin: “L’ambiente oggettivo degli uomini assume sempre più scopertamente la fisionomia della merce”. Fedele all’istanza lukacsiana dell’arte come “rispecchiamento”, Addamo denuncia, con l’incedere serpeggiante della corruzione, la mercificazione, l’alienazione, le distorsioni della logica capitalistica che, come avverte Alain Robbe-Grillet, conducono alla progressiva reificazione ed eclisse della persona di fronte al predominio acquisito, per contro, dalle cose. E così se le “puttane” divengono “oggetti, merce, e mezzi di merce”, gli aranceti, immagine della conquista della verghiana “roba” da parte dei contadini proletari, ma pure “ruolo”, “status”, “filosofia e visione della vita”, perdono l’attributo di prodotti trasfigurandosi in “esseri vivi e volitivi”, in venerati “feticci”, l’odore del loro succo in odore di “sangue, odore di fatiche e di miseria”.
All’universo derelitto, emarginato delle prostitute l’autore guarda con scettico disincanto e implicazione empatica, sempre tuttavia con tormentato sentimento della tragicità della vita e della morte. Quello stesso sotteso alla descrizione, permeata di plastica sensibilità pittorica, della Visita di Henri de Toulouse-Lautrec nel racconto Lo zio Isidoro, confluito nella silloge Palinsesti borghesi: “Le solite puttane che il mostriciattolo sapeva raccogliere. Le puttane stavano con la veste rialzata in attesa della visita periodica: i volti guardai, ma soprattutto le pance delle due donne, dove niente dava adito alla pietà […] e nemmeno all’orrore, ma c’era la giovinezza e la vecchiaia, la ferocia di quel volto di ragazza che non guardava verso nessuna parte sicura soltanto di sé, la sua pancia tesa e tonda come un cocomero che a passarci l’unghia si spacca; e la fine di tutto segnata sull’altro volto, la fine di tutto segnata da quella pancia che sbandava da tutti i lati, la stanchezza d’una memoria che non ha più orizzonti”. Una bruciante pietas, una teologia negativa, in cui l’autore si carica del dramma dell’uomo orfano di Dio, promana dalla pagina di Addamo: “una pietà anche eccessiva vale sempre più della crudeltà assoluta”. Scrive Fedor Dostoevskij: “Uomo, uomo, non si può vivere del tutto senza pietà”. E Georges Rouault, a proposito della potente bellezza che trasuda dalla feroce crudezza del polittico dell’Altare di Isenheim: “Per rifare il terribile crocifisso di Matthias Grünewald, che con le sue mani contratte, i piedi torti, rattrappiti, fa piegare la croce, per rinnovare il dramma in una parola, bisognerebbe avere ancora in cuore una fede simile alla sua”.
Persuaso con Leonardo Sciascia che la letteratura è “luogo di svelamento della realtà anche morale”, in linea con il principio dell’“ethos della scrittura”, cifra di tutta l’opera sua, Sebastiano Addamo, dinnanzi alla decadenza della carne e all’abbrutimento morale, si fa veemente difensore del valore supremo della dignità: “Soltanto avanti negli anni avrei imparato che anche una puttana fa parte della razza umana, ed è questa a secernere se stessa e il proprio contrario, secerne bile e amore e sventura; il terrore e i sogni; la spada e l’ostensorio; il male e il bene; secerne anche dignità, e perciò essa – la dignità – si può trovare dappertutto, innocente sempre e sempre colpevole in ogni luogo”. Con tassativa asciuttezza, ne La metafora dietro a noi: “È il vuoto. L’assenza dell’assenza” la condizione del suo esistere. Anche Pierre-Joseph Proudhon addita nella prostituzione “il sacrificio della dignità umana all’egoismo, alla cupidigia, all’orgoglio, al piacere, a tutte le seduzioni inferiori”. Oggetto di divagazioni oniriche, di “voglie oscure e trepidanti”, di malsana sessualità, le prostitute assurgono ad emblema del “tragico dilemma esistenziale” del catanese: il sesso “dispotico e aspro”, freudiano principio del piacere in cui sembra consistere l’essenza della vita, perseguito con accanimento, voracità, avidità e al contempo velato di malinconie repentine, ansie funeste, “sensi di colpa”, “ancestrale memoria di madri e alvei”, come pure di deterrenti icone di santi. Con la secca perentorietà di quello stile aforistico prediletto da Addamo, Nietzsche annota: “Il cristianesimo, col suo disprezzo del mondo, ha fatto dell’ignoranza una virtù, l’innocenza cristiana, forse perché il più frequente risultato di questa innocenza è […] il senso della colpa”. “Il sesso e l’utilizzo dei suoi strumenti non sono che il compenso del vuoto dell’inedia, della solitudine”, chiosa lo scrittore. Desiderio di morte dietro cui si cela il perenne bisogno di un appagamento che la realtà non può offrire. Irrisione di falsi pudori, stanco filisteismo, l’insano, dissacratore amplesso del giovane Gino con la laida figura materna della padrona infrange archetipi e tabù nel furore iconoclasta che investe istituti familiari e religiosi.
L’atmosfera del romanzo alterna all’iniziale vago senso d’allegrezza, esplicitato attraverso la descrizione dei luoghi “asettici” di via Etnea, con le scintillanti cupole dei Minoriti, della Collegiata, del Duomo, da cui promana il “rumore pulsante della vita”, viale XX Settembre, avvolto da un “silenzio pulito ed elegante”, da una “calma lunga e sicura che si diradava all’intorno come zagara”, il presagio minaccioso, lugubre, ferale della “fine”. Sono, ancora una volta, empiristiche sensazioni, primordiali rielaborazioni dell’esperienza sensibile, di cui l’autore si serve per liberare la ragione da ogni passiva acquiescenza alla tradizione e ad ogni autorità, a veicolare i segni della diffusione, sempre più invasiva, nella vita quotidiana di quella letale “malattia che era la guerra”. Catania come Orano de La Peste di Camus è infettata da un morbo funesto di cui è sintomatico l’afrore del capillare luridume che assedia la città: “Tutto divenne guerra. […] Sopravvenne l’odore di piscio. Inopinatamente, senza alcun preavviso, dilagò, s’impose, si impossessò della città. […] La guerra dilagò con tale odore”. Con Aristotele: “Nihil in intellectu quod prius non fuit in sensu”. E in rapida escalation “dopo l’urina venne la merda”. Ma “l’analità” costituisce a un tempo simbolo e rifiuto della guerra: “lasciti immondi e impuri […] densi quasi di una ideologia […], incaricati – nella loro degradante inerzia di degradazione – d’una speranza che a nessuno era chiara”.
La guerra non è quella di lunghe, inespugnabili trincee, di mirabolanti avanzate, di manovre vittoriose propagandate dai mendaci bollettini del regime. È quella dei marciapiedi imbrattati di un “vasto putrescente addobbo escrementizio”, delle “carte da lutto” affisse alle porte delle vedove ridotte alla prostituzione, dei volti sformati, disperati di creature forsennate. È monito contro l’asservimento al potere, contro la falsificazione della realtà. Per Leone Tolstoj: “la storia sarebbe una gran bella cosa, se solo fosse vera”. Ha radici lontane nel tempo la guerra, è la lotta verghiana per la sopravvivenza, ricerca affannosa di cibo, pugnace desiderio di primitività. Il vero nemico da sconfiggere “la vecchia sorella fame”.
L’amaro disincanto dell’autore nei confronti della storia, “luogo dell’inesistente”, è ferma condanna dell’immobilismo, del trasformismo della politica siciliana. Il ritardo e la diversità s’intitola significativamente la lettera che Sebastiano Addamo indirizza a Pier Paolo Pasolini, dalle pagine della rivista “Nuovi Argomenti” (poi ne I chierici traditi), sottolineando tuttavia in tale binomio una rivendicazione di alterità, il segno peculiare del vivere in Sicilia. La “Sicilia afosa, calda, luminosa, ma dove la troppa luce – abbacina, stordisce, macera […] – diventa spesso densa e oscura nube di scirocco”, generando “una specie di alterazione ottica” secondo cui “le polemiche arrivano già quasi scontate, i clamori attutiti, quasi spenti, chiusi in una soffice nebbia, rarefatti, remoti e quasi incredibili”, dove perciò “il ritardo non sempre implica negatività, ma quasi sempre implica ‘diversità’”. L’isola, dove “l’unica cosa che veramente si muove è la terra quando distrugge il Belice o sono gli emigranti”, ribadisce con forza lo scrittore nel romanzo, “sta ancora attendendo la ‘sua’ storia”.
Con lento ma affilato bisturi, Addamo scava solitudini, piaghe, attossicamenti, intramando all’asprezza del giudizio morale i toni di una smorzata ironia. Alla scrittura il compito di ‘sublimare’ il bottino di sofferenze lasciato dalla guerra. Ma la scrittura, avverte, “può valere non tanto ad accreditare fede nella parola, bensì a tener conto della sua disperata impotenza” (Vittorini e la narrativa siciliana contemporanea). Di fronte alla sofferenza e alla morte la parola si assottiglia, si radicalizza, diviene lamento. O urlo d’inesprimibile dolore. Come quello di Edvard Munch. E infine silenzio: “Il silenzio comincia a essere l’unico modo di parlare, lo spazio del soggetto si restringe, la parola come espressione di reagire e modo di solidarietà, si spezza. Le ragioni dell’individuo collimano con l’afasia” (Oltre le figure).
Moderno aruspice dello scacco storico del nostro tempo, con prosa scettica, a tratti barocca, d’indignata razionalità nelle zone parenetiche, l’autore de Il giudizio della sera, innestandosi in una illustre tradizione siciliana di realismo, se ne discosta in virtù di un’aggressiva dilatazione espressionista che forza il dato reale caricandolo di significati che sfiorano il simbolo. Una galleria di squallidi ritratti di una società in putrefazione accoglie maschere raccapriccianti, dalle sconciature fisiognomiche, dai profili slabbrati, dalle devastazioni crudeli. E sono seni che divengono “otri spenti”, o “molli globi dove le vene azzurre si frastagliavano, quasi la carne si fosse assottigliata sotto quei vermi lunghi che la ingoiavano”, corpi trasfigurati in sacchi pieni di “ossa ammassate e lacerate” o in “carne malata”.
Di forte valenza evocativa la scala cromatica della tavolozza di Addamo. Come la pittura di Renato Guttuso in cui taluni giardini del pittore di Bagheria, intrisi di “serena mestizia”, “celano e svelano nel loro tripudio la vecchia siciliana malinconia della morte e del disfacimento”. L’armonia coloristica di stampo mediterraneo, con le “accese policromie del carretto”, con il “rosso e il giallo dell’arancia, il verde lucente delle sue foglie, oltre al turchino del cielo e del mare”, si spegne nella fredda monocromia dei toni del grigio che appannano la vista come il grigio del fumo derivante dalla deflagrazione delle bombe. Un fumo grigio era, non a caso, l’originario titolo del romanzo.
È la Sicilia a nutrire l’immaginario di Sebastiano Addamo. La sua Catania non è tuttavia quella “città sdraiata a terra, peggio: coricata a terra!”, la cui aria “molle e pastosa” dà l’impressione di “camminare in mezzo al miele”, di Vitaliano Brancati, né quella aperta sul mare, “luccicante sotto il sole a picco”, su cui volano “gabbiani roteanti”, “calma e accogliente” di Ercole Patti. Ma non appare, d’altra parte, la luce della Sicilia ai suoi scrittori soltanto in apparenza dispiegata solarità, costantemente insidiata com’è dalla tenebra? Essa stessa lutto? La luce e il lutto intitola Gesualdo Bufalino una raccolta di articoli che ci restituiscono le due facce contrastanti, ossimoriche dell’isola. Come i “neofiti dell’oscuro” fra bagliori di luce nelle tenebre della notte (Il giro della vite).

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(post pubblicato originariamente il 22 settembre 2009)

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]]> http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2020/07/15/il-giudizio-della-sera-di-sebastiano-addamo/feed/ 190 ESSERE FIGLI D’ARTE: PRIGIONE O OPPORTUNITÀ? IL “TIMOR SACRO” DI STEFANO PIRANDELLO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/10/24/timor-sacro-stefano-pirandello/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/10/24/timor-sacro-stefano-pirandello/#comments Mon, 24 Oct 2011 14:34:20 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=3637 padri-e-figli-d-arteL’essere figli di una persona nota in campo artistico, è più un peso o un privilegio (nel caso in cui il figlio volesse ripercorrere la strada del padre)?
È più una prigione o un’opportunità?
Qualcosa di cui approfittare o da cui rifuggire?
Per esempio, se Sophie Auster, figlia dello scrittore Paul, anziché fare la cantante e l’attrice avesse deciso di darsi alla letteratura, avrebbe più o meno successo di adesso?
E se Stella McCartney, figlia dell’ex beatle Paul, avesse deciso di dedicarsi alla musica piuttosto che alla moda, sarebbe riuscita a sfondare?
E Julian Lennon? Se non fosse stato figlio di John, sarebbe più o meno noto di quanto in effetti oggi è?

Non è facile rispondere: è presumibile che dipenda dall’importanza del nome. È improbabile, cioè, che il figlio di un gigante dell’arte possa raggiungere i risultati del genitore. Anche se è bene non generalizzare in maniera assoluta. Per esempio, prendiamo questi due big di Hollywood: meglio Kirk Douglas o Michael Douglas?

Insomma, vi invito a dire la vostra sul tema “padri e figli d’arte… e relative ripercussioni” (magari potreste proporre altri esempi). Nel contempo, vi presento un caso e un libro che rientrano in maniera perfetta nella tematica proposta.

Qualcuno lo indica già come uno dei nuovi possibili casi letterari. Un romanzo postumo, firmato da un autore che porta uno dei cognomi più celebri della storia della letteratura. Un cognome che, probabilmente, lo ha penalizzato. Non è facile, infatti, essere figli di Luigi Pirandello e portare avanti il sogno, o meglio, la “necessità” della scrittura cercando di sfuggire al fastidioso e inevitabile peso del confronto. È quello che è successo a Stefano Pirandello, primogenito di Luigi, scrittore raffinato, schivo, costretto a ricorrere a uno pseudonimo (Stefano Landi) per pubblicare i suoi lavori senza incorrere, appunto, nel rischio di rimanere oscurato dall’ombra paterna.
pirandello_timor-sacroIl lavoro di tutta una vita di Stefano Pirandello, cominciato negli anni Venti e riveduto più volte fino alla scomparsa dell’autore (avvenuta a Roma il 5 febbraio 1972), è un romanzo che vede la luce per la prima volta in questi giorni grazie all’impegno editoriale della Bompiani e alla cura dell’ordinario di Letteratura Italiana nell’Università di Catania Sarah Zappulla Muscarà (che ha già avuto il merito di dare nuovo lustro alle opere di Bonaviri, Patti e Addamo). Si intitola “Timor sacro” (Bompiani, pagg. 336, € 14,00) ed ha caratteristiche metanarrative giacché il protagonista, lo scrittore Simone Gei (alter ego dell’autore), è alle prese con la stesura di un’opera di esaltazione del fascismo. Nella narrazione, la storia di Gei si alterna a quella dell’albanese Selikdàr Vrioni, sfuggito alle arcaiche leggi di vendetta privata della sua stirpe.

Sono molteplici gli elementi di interesse di questo romanzo. Tra questi, come già accennato, l’aspetto metaletterario (“Timor sacro” è un romanzo sulla genesi del romanzo, dunque un metaromanzo), ma anche la natura autobiografica e i riferimenti – sebbene mascherati e trasfigurati – ai componenti della tormentata famiglia Pirandello (il padre Luigi, la madre Maria Antonietta Potulano, i fratelli Fausto e Lietta), agli amici più intimi di Luigi e di Stefano e a varie personalità di quegli anni. Non è difficile riconoscere tra le righe del libro letterati del calibro di Corrado Alvaro, Corrado Pavolini, Massimo Bontempelli, o politici come Ciano e Bottai, o scrittori come D’Annunzio, Malaparte, Alberto Savinio, Silvio D’Amico. Ma da “Timor sacro” emergono anche i risvolti inevitabili di un’epoca: la proclamazione dell’impero, la pena di morte, la figura del Boia, le leggi razziali. Su tutto, si erge il forte legame con il padre. Un legame che è totale, ma al tempo stesso tormentato. Amoroso, eppure tirannico.
«Romanzo pericoloso e di tutta una vita, l’inedito Timor sacro», – scrive nella prefazione Sarah Zappulla Muscarà – «erudito, alchemico, cui compete la dimensione dell’immaginario, come vuole Milan Kundera, ma pure della realtà, talora tragica, inesorabilmente violentata e compassionevolmente stravolta». Romanzo che «dell’itinerario esistenziale di Stefano ripercorre le tappe fondamentali. L’entusiasmo irredentista, la partenza per il fronte, la dura cattività, la beffa risorgimentale, il non facile reinserimento del reduce, la vicenda amorosa, l’emancipazione dal padre, la scelta definitiva dell’arte».
Diversi, dunque, i motivi per leggere “Timor sacro”. E il fatto che questo romanzo raggiunga per la prima volta gli scaffali delle librerie, dopo quasi quarant’anni dalla morte del suo autore, conferma la veridicità del titolo dell’ultimo intenso capitolo dell’opera: “Il libro traversa la vita e va oltre”.

Oltre che della tematica in generale, avremo modo di discutere anche di questo libro di Stefano Pirandello. L’amica Laura Marullo, docente presso facoltà di lettere dell’Università di Catania, mi darà una mano a moderare e ad animare la discussione.

Ma aspetto, ovviamente, i contributi da parte di tutti gli amici di Letteratitudine!
Come sempre, grazie in anticipo.

Massimo Maugeri

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http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/10/24/timor-sacro-stefano-pirandello/feed/ 260
150 ANNI DALLA NASCITA DI FEDERICO DE ROBERTO http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/01/18/150-anni-dalla-nascita-di-federico-de-roberto/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2011/01/18/150-anni-dalla-nascita-di-federico-de-roberto/#comments Tue, 18 Jan 2011 20:04:29 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/?p=2917 Centocinquanta fa, il 16 gennaio del 1861, nasceva Federico De Roberto. Lo ricordo qui, nell’ambito di questa rubrica letteratitudiniana dedicata a “ricorrenze, anniversari e celebrazioni“.
Quando si parla di De Roberto, il pensiero va subito alla sua opera principale “I Vicerè“.
Ecco… mi piacerebbe che, in questa pagina, con il vostro contributo, venisse ricordato sia l’autore, sia l’opera…

Seguono le solite domande, volte ad avviare la discussione…

1. Che rapporti avete con le opere di Federico De Roberto?

2. Avete mai letto “I Vicerè”? Pensate che leggerete, o ri-leggerete, questo libro?
(quest’ultima, più che una domanda, è un invito)

3. Ritenete che “I Vicerè” contenga ancora elementi di attualità? Se sì, quali?

4. Se doveste selezionare una citazione tratta da “I Vicerè”, o da un’altra opera di De Roberto, quale scegliereste? E perché?

5. Qual è l’eredità che De Roberto ha lasciato nella letteratura italiana?

Siete tutti invitati a intervenire sia per rispondere alle domande, ma anche semplicemente per riportare citazioni, note biografiche, considerazioni, recensioni e… quant’altro possa contribuire a ricordare la figura di questo grande autore della letteratura italiana vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento.
Di seguito, un’articolo di Sarah Zappulla Muscarà pubblicato sulla pagina cultura del quotidiano “La Sicilia” del 14 gennaio 2011 (ma non è escluso che il post possa essere aggiornato con ulteriori contributi).

Massimo Maugeri

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da LA SICILIA del 14.11.2011

Una chiave per «I Viceré»: bilancio amaro e sfiduciato di un secolo agonizzante

di Sarah Zappulla Muscarà

Centocinquanta anni fa, il 16 gennaio del 1861, nasce a Napoli Federico De Roberto. Presto però si trasferisce nella odiata-amata Catania dove, pur con lunghe parentesi a Milano e a Roma, trascorre l’intera esistenza. Allorché nell’agosto del 1894 l’editore milanese Galli pubblica il romanzo “I Vicerè”, Federico De Roberto è pertanto poco più che trentatreenne ma, fecondo e infaticabile sin dai verdi anni, si è già conquistata notorietà negli ambienti letterari in virtù di una pervicace militanza.
“Hai fatto un lavoro con ’sei para di…!’” entusiasta gli scrive il 3 ottobre Luigi Capuana. E alludendo ai tanti personaggi ancora vivi nelle cronache, a cui De Roberto aveva abbondantemente attinto, e nella memoria dei contemporanei: “Dall’”Illusione” ai “Vicerè” hai fatto non un salto, ma una volata lunga, meravigliosa. Oh come sono contento! Che piacere mi hai dato! Quanti ritratti perfettissimi! Quel Padre Blasco! quel Consalvo! quel Don Eugenio! Ma tu dovresti farmi un piacere per mettermi in caso di gustarlo meglio; dovresti mandarmi ‘una chiave’, con i nomi veri, perché parte non li rammento. Figuriamo che se ne dice costì! Quel Consalvo (stavo per dire quel ‘Marchese di S. Giuliano’) è una meraviglia addirittura! […] Bravo! Bravo!”.
E il 21 ottobre Giovanni Verga: “È una ‘machine’ poderosa che hai messo in piedi, e dei ‘cristiani’ di carne e d’ossa che mi sembra aver conosciuto. Anzi a questo proposito ti dico che ti sei fatto un bel cuscinetto costì a Catania, fra tutti cotesti Uzeda che si riconosceranno allo specchio, deputati, senatori o semplici minchioni che sieno!”. Una “vera e stupenda “trovata”" che avrebbe guadagnato efficacia da una severa, impietosa sfrondatura, da una “maggior parsimonia” di scrittura. Ma nulla del “gran quadro” tracciato da De Roberto è sacrificabile, contrariamente al giudizio di chi ha fatta sua, nelle opere più felici, la michelangiolesca “arte del levare”.
“I Vicerè” hanno il respiro possente, la forza sovrana, la maestosità soverchiante della grande narrativa europea da Leone Tolstoj a Thomas Mann a Hermann Broch. Stesi nel giro di pochi anni, hanno comportato un impegno e uno sforzo eccezionali che lasceranno il segno nel fisico dello scrittore, definito dal medico svizzero Paul Dubois, antesignano della psicoterapia, “uno dei più rari ed espressivi esempi dell’isterismo mascolino”.
Il primo romanzo del ciclo, “L’Illusione”, che ne è anticipata porzione, è apparso appena pochi anni prima, nel 1891. Vi è adombrata una giovanile passione per Giovannina Calì Paternò Castello, andata in sposa al marchese di Santelia, evocata nel personaggio di donna Teresa Uzeda Duffredi di Casaura.
Il terzo romanzo, “L’Imperio”, è la storia di Consalvo Uzeda e dell’Italia contemporanea, in cui lo scrittore dello sconcio disfacimento dell’aristocrazia, con corrosiva rapacità di sguardo, con smorfia ilarotragica, si propone di mettere a nudo la molteplicità di problemi e di grovigli della vita post-risorgimentale, la deludente realtà politica, sociale, etica dell’Italia parlamentare che darà luogo all’avvento del fascismo.
Il romanzo che dovrà “fare colpo”, il “libro terribile” che dovrà “fare l’effetto d’una bomba”, come scrive alla madre donna Marianna degli Asmundo, attenderà a lungo per vedere la luce, incompiuto e postumo, nel 1929.
Ma “una terribile bomba” sono già “I Vicerè”. Acre il pessimismo scientifico, velenosa la denuncia dell’improntitudine della storia, tragica la solitudine del potere. “La vecchia razza” aveva zolianamente intitolato De Roberto in origine il romanzo, saga (potente ma non epica) della famiglia degli Uzeda di Francalanza discendente dai Vicerè spagnoli di Sicilia. Nell’accezione insieme fisiologica, patologica, “di costume”. Degenerata sia sul piano fisico sia su quello morale, prepotente, corrotta, preda di fissazioni, manie, violente e repentine contraddizioni, abbacinata demenza: “Razza degenere”, “Razza di matti, questi Francalanza!”, tutti “Strambi!… Cocciuti!… Pazzi!…”.
“I Vicerè”, romanzo didascalico, collettivo, polifonico e policromo, s’inscrive nell’eredità ideologica di Verga insieme a quelle opere che dal “Mastro-don Gesualdo” a “I vecchi e i giovani” di Pirandello, a “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, a “Il vecchio con gli stivali” di Brancati, al “Consiglio d’Egitto”, al “Contesto” di Sciascia, oppongono alle “magnifiche sorti e progressive” la teoria dell’eterno ritorno di uomini e di eventi, sancendo l’immobilismo esistenziale e storico. Lontano tuttavia dall’essenzialità della scrittura verghiana, per quell’indugiare, con crudele distacco e feroce acrimonia, sulle deformità, follie, perversioni della famiglia egemone degli Uzeda di Francalanza, sul decadimento di una “stirpe esausta”.
Bislacchi, litigiosi, avidi, boriosi, arroganti, al pari degli antenati spagnoli, con bieco opportunismo, con camaleontico trasformismo, i Vicerè manterranno l’indiscusso privilegio del potere traendo profitto dagli accadimenti risorgimentali di cui mortificano la grandezza.
Personaggio “chiave” del romanzo e della sua filosofia Consalvo, in cui è palesemente riconoscibile Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, nel 1879 divenuto, a soli 27 anni, sindaco della città etnea e quindi deputato, sottosegretario, ambasciatore e ministro degli Esteri fino alla scomparsa, al tavolo di lavoro, nel palazzo della Consulta a Roma nell’ottobre del 1914.
Intellettuale inquieto, eccentrico, dalla personalità complessa, insicura e superba, a De Roberto, scrive Pirandello, “la letteratura italiana deve uno dei suoi più solidi romanzi, un’opera monumentale: “I Vicerè”". Romanzo del disincanto storico, della crisi della società meridionale e insieme bilancio amaro, sfiduciato, di una generazione, di un’epoca, di un “secolo agonizzante”.
(da “La Sicilia” del 14.1.2011 – pag. 22)

“I VICERE’”: la recensione di Renzo Montagnoli

I Viceré è indubbiamente il romanzo più famoso di Federico De Roberto, un’opera piuttosto corposa che a stento ed eufemisticamente può rientrare in una collana di tascabili. Considerato da non pochi critici un autentico capolavoro (Sciascia addirittura scrive che dopo I Promessi Sposi è il più grande romanzo che conti la letteratura italiana), ma in un certo qual modo stroncato da Benedetto Croce (Il libro di De Roberto è prova di laboriosità, di cultura e anche di abilità nel maneggio della penna, ma è un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore) è in effetti un romanzo complesso, anche strutturalmente, e presenta luci e ombre, di cui tuttavia le seconde non ne intaccano l’intrinseca valenza.
E il valore è indubitabile, perché I Viceré, nel descrivere le vicende dei numerosi componenti della nobile famiglia siciliana Uzeda, finisce con l’essere la devastante biografia di una nazione, un’immagine impietosa di ciò che siamo noi italiani, con una narrazione impregnata da una forte vena critica e ironica.
La storia in effetti è costituita dalla vittoria, in apparenza, della rivoluzione patriottica siciliana e dal suo pratico insuccesso, con un esito quindi impietoso e deludente di tutto il processo risorgimentale, perché le risultanze siciliane vengono di fatto estese all’intero paese. In questo senso De Roberto è stato un’analista del fenomeno non solo attento a tutti i suoi risvolti, ma anche profetico, come infatti sembrerebbe testimoniare l’attuale situazione italiana, di Stato di forma, ma non di sostanza.
Per quanto ovvio balza subito alla mente un altro capolavoro, quel Gattopardo pur esso in grado di anticipare situazioni successive, ma scritto molto tempo dopo I viceré ed è quindi logico supporre fosse stato letto e in un certo qual senso preso a spunto e ad esempio da Tomasi di Lampedusa.
Dice bene Matteo Collura quando scrive che “Nel cospicuo contributo dato dagli scrittori siciliani alla moderna letteratura italiana, s’impone un dato costante: la delusione per la mancata rivoluzione promessa dal Risorgimento, il fallimento delle speranze dei meridionali nel compiersi dell’Unità d’Italia. Viene da lì gran parte dei mali che continuano ad affliggere questo Paese, la scarsa autorevolezza dello Stato, le divisioni e incomprensioni tra regioni del Nord e regioni del Sud e, propriamente oggi, il rischio dello scardinamento dell’unità nazionale.”.
Indubbiamente, basterebbe solo questa visione profetica per classificare I Viceré come un capolavoro, ma c’è dell’altro, quali la caratterizzazione dei personaggi, invero troppi, ma precisa e rappresentativa di modi d’essere e pensare, l’atmosfera quasi irreale di un corpo in decomposizione pronto però a trasmigrare in un altro, fermo restando l’obiettivo di conservare le proprie prerogative. Negli Uzeda c’è tutta una famiglia stranamente attuale, con vizi, furberie, astuzie, cialtronerie e perciò senza cuore. De Roberto non ha pietà per questi personaggi, ma non travalica mai il limite sottile fra avversione e odio, quasi da spettatore e cronista di fatti che avverte come emblemi di una realtà ben più grande.
Benedetto Croce non ha quindi compreso l’effettivo significato dell’opera, soprattutto quando dice che non illumina l’intelletto, forse perché aborre l’idea che quello stato di cui fa parte è una struttura altamente imperfetta che deriva dal fallimento delle idee risorgimentali, pregevoli, eccellenti nelle intenzioni, scomparse nella realizzazione.
L’opera è invece indubbiamente pesante, troppo lunga, e caratterizzata da un ritmo lento che induce a frequenti soste durante la lettura, difetto che tuttavia incide in modo trascurabile sull’effettivo rilevante valore.
Da leggere, senza dubbio.

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OMAGGIO A GIUSEPPE BONAVIRI http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/13/giuseppe-bonaviri/ http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2009/05/13/giuseppe-bonaviri/#comments Tue, 12 May 2009 22:01:10 +0000 Massimo Maugeri http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2008/11/04/giuseppe-bonaviri/ POST DEL 22 MARZO 2009

Ho appena appreso la notizia. Giuseppe Bonaviri, uno dei più grandi scrittori del Novecento, è morto ieri sera (21 marzo 2009) all’età di 84 anni. L’avevo incontrato di recente – nel mese di maggio dell’anno scorso – presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania. Giorno 19 marzo l’aspettavamo al Palazzo della Cultura in Via Museo Biscari 5, a Catania, per un pubblico omaggio organizzato da Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla in occasione della ri-edizione de «La ragazza di Casalmonferrato», (romanzo del 1954) – La Cantinella. Le condizioni di salute non gli hanno consentito di essere presente.
A lui il mio e il nostro pensiero…
Non aggiungo altro. Ripropongo il post pubblicato martedì, 4 novembre 2008: Omaggio a Bonaviri.
In coda potrete leggere una lunga intervista esclusiva che Giuseppe Bonaviri ha rilasciato a Massimiliano Perrotta (che ringrazio per avermela concessa).
Grazie, Giuseppe, per le grandi opere letterarie e i bellissimi scritti che ci hai lasciato.
Massimo Maugeri

P.s. In data 15 settembre 2011, questo post è stato tradotto in lingua estone e pubblicato qui.

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Post di martedì, 4 Novembre 2008
giuseppe-bonaviri.jpgÈ con molto piacere che dedico uno spazio “speciale” a uno dei grandi autori del Novecento letterario italiano: il più volte candidato alla vittoria del Premio Nobel, Giuseppe Bonaviri.
Sarah Zappulla Muscarà, nella sua prefazione alla nuova edizione de “L’infinito Lunare” (Bompiani, 2008, € 9,20, p. 264), lo presenta così: “Giuseppe Bonaviri è nato l’11 luglio 1924, “al canto delle cicale”, a Mineo, paesino alto su un monte, in provincia di Catania, fondato da Ducezio, re dei Siculi. Lì erano nati nel Seicento il padre gesuita Ludovico Buglio che, nel corso della sua lunga vita missionaria in Cina, pubblicò ben ottanta volumi, fra cui la Summa teologica di San Tommaso d’Aquino, in elegante lingua cinese; sempre nel Seicento il poeta Paolo Maura, autore del poemetto autobiografico in dialetto siciliano La pigghiata (La cattura); e nell’Ottocento Luigi Capuana, uno dei maggiori esponenti del Verismo, i cui interessi spaziarono dal giornalismo alla narrativa, alla critica, alla poesia, alla favolistica, al teatro, allo spiritismo. Da queste radici geografiche e antropologiche – “A Miniu li pueti a ccientu a ccientu / pirchì è lu mastru di lu puitari”, come suona il detto popolare – scaturisce il canto, sorretto dalle più variegate letture, di Bonaviri. Il suo esordio risale al 1954, con “Il sarto della stradalunga”, apparso nella collana einaudiana “I gettoni”. Da quel lontano romanzo che, come ben intuirono Vittorini, Calvino e la Ginzburg, rivelava nel giovane sottotenente medico lo scrittore di razza, Bonaviri non finisce di stupirci. “Le sue cortesie sono come i frutti del giardino di Armida, che ‘E mentre spunta l’un l’altro matura’”: così da Mineo il 24 giugno 1884 il conterraneo Luigi Capuana a Federico De Roberto. Lo stesso potrebbe dirsi dei dolci frutti di Bonaviri. Di quelle “possibilità infinite di conoscenza” che gli riconosce Sebastiano Addamo. Gli è che dalla mitica pietra della poesia dell’altipiano di Camuti, contrada di Mineo, odorante “di fior di nepitella e di iris”, “Parnaso siculo”, “Elicona dei rustici poeti”, l’omphalos dei greci, di cui narra anche il medico palermitano studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè, lamento doloroso e nostalgico, specola dell’anima, patria incorrotta della memoria, dalla madre donna Papè Casaccio, “decameron vivente”, dal padre don Nanè, l’ingenuo poeta de “L’arcano”, per misteriose, labirintiche vie ctonie e cromosomiche, Giuseppe Bonaviri ha ereditato il “potere di fare miracoli” che possiede il vecchio “Gesù a Frosinone”. Il potere incantatorio del narratore in grado di dar vita a quella suspension of disbelief di cui parla Samuel Coleridge.”

Mi piacerebbe organizzare un grande dibattito sulla figura di Bonaviri. E per farlo mi avvarrò del supporto della già citata Sarah Zappulla Muscarà (ordinaria di Letteratura Italiana nell’Università di Catania), e della sua prefazione a “L’infinito Lunare”, di cui avete già letto uno stralcio qui sopra; del critico e scrittore Subhaga Gaetano Failla (il quale, tra l’altro, mi darà una mano a coordinare e a animare la discussione), che ci offre un’intervista al celebre autore di Mineo (l’intervista, realizzata insieme alla sorella Valeria Failla, è apparsa sulla rivista cartacea “Orizzonti” n. 26, aprile-luglio 2005); e di Rawdha Zaouchi-Razgallah (italianista e docente di letteratura italiana presso l’Università del «7 Novembre a Carthage» di Tunisi), che ci offre un duplice spunto (e punto di vista) sulla scrittura di Bonaviri.

Nei prossimi giorni aggiornerò il post introducendo alcune immagini e un video da me realizzati nel mese di maggio di quest’anno presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Catania, in occasione di un pubblico incontro con Bonaviri.

Il dibattito è incentrato sulla figura di Giuseppe Bonaviri e sulle sue opere (cercherò di coinvolgere gli amici della Fondazione Bonaviri); ma ne approfitto per proporre un argomento di discussione collaterale che, in parte, abbiamo già avuto modo di affrontare in altre occasioni. Nella prefazione della Zappulla Muscarà a “L’Infinito Lunare” leggiamo il seguente stralcio virgolettato: “Credo che per colui che scrive non per mestiere ogni libro rappresenti come un immergersi in un labirinto di se stesso per entrare dentro, per mezzo delle parole, in un disagio vitale che soltanto con la pagina scritta si può curare”.
Esiste davvero un potere salvifico della scrittura? E fino a che punto la scrittura è in grado di curare il disagio vitale?

Non credo che Bonaviri avrà modo di partecipare al dibattito, ma di certo ne sarà informato in maniera dettagliata.

Massimo Maugeri

________________

L’INFINITO LUNARE – Bompiani, 2008, € 9,20, p. 264
introduzione di Sarah Zappulla Muscarà

Accomunati da un sottile filo rosso, il clima di fiaba, d’onirica, surreale, inquietante evasione dalla grigia e triste realtà quotidiana, in assoluta libertà d’immaginazione, i dieci racconti della silloge L’infinito lunare di Giuseppe Bonaviri, apparsa per la prima volta nel 1998. Teso a colmare, per il tramite di un novellare che è, come in un quadro di Chagall, “perpetuo inseguimento del desiderio”, la sua (e nostra) solitudine di vecchi prometei incatenati, in perenne lotta nell’inane tentativo di svincolarci dai ceppi dello spazio e del tempo. Specularmene vi coesistono le molte sue anime di scrittore, medico, scienziato. Così come dialetticamente vi coesistono sicilianità e universalità. Nella consapevolezza che “tutto è vano travaglio”, “‘noi siamo simili alle foglie che nascono e poi muoiono’ negli incantati boschi di mandorli e querce e pioppi e carrubi della Sicilia, circondata, di là dal comune mare, dall’Oceano che sempre risuona”, e inutili sono “i sillogismi della mente” in cerca di Dio, “ruotante natura”, “aura perfetta”, “Uovo-centrale”: “l’anima muore e rinasce da un gioco di pensieri e d’angosce”. Né vale imprecare “contro quel povero cristo dell’autore”, “uomo musolungo nato per vivere in solitudine”, vocato all’affabulazione, finito per sempre impigliato nel suo stesso teatrino di stupori, che fa confondere “fra realtà e sogno anche noi poveri spettatori”. È la sartriana morbosità di creare, “necessità primaria e univoca”, “fine assoluto e dirompente, di fronte al quale ogni altro accadimento si pone in sottordine”.
Al pari della tela di Max Ernst, L’occhio del silenzio, dove emergono prepotentemente, suggerite dall’inconscio, emblematiche, allucinate immagini di un insoffribile quotidiano, in Martedina il narratore, che s’identifica con l’autore, per quel forte tasso di autobiografismo che ne sorregge l’intera opera, per quel continuo intrecciarsi di piano del vissuto, piano della creatività, piano del fantastico, mal conciliando lavoro e denaro con il guardarsi dentro, col magmatico fluire degli umori, per narcisistico amore di sé votato all’unicità dell’arte, intraprenderà un viaggio interplanetario verso Plutone: “Credo che per colui che scrive non per mestiere ogni libro rappresenti come un immergersi in un labirinto di se stesso per entrare dentro, per mezzo delle parole, in un disagio vitale che soltanto con la pagina scritta si può curare”. La scrittura è sofferenza, ma sofferenza liberatrice, esplorazione dell’io e dell’universo, ricerca di felicità, seducente infermità eppure fonte inesauribile di guarigione, benefica terapia, “per il resto, è caduco il vivere”.
Abbandonata Mineo per sposare Martedina, una ragazza di Casalmonferrato (“‘Di Casalmonferrato?’ mi chiese mio zio Giuseppe quando lo seppe. ‘Sei il primo parente che sceglie la propria donna fuori Sicilia; in Piemonte, per giunta. In qualche punto, la nostra famiglia comincia ad incrinarsi’”), il medico Zephir (sotto il cui nome l’autore anche altrove ama celarsi) si trasferisce a Valfrancesca con la moglie, paga della sua semplice vita, affollata di gozzaniane piccole cose inutili. Ma, gravato dall’indomita inadeguatezza a vivere con colleghi venali, primari, assistenti, nei quali non si riconosce, tenta altre imprese. Liberatosi del lavoro in ospedale, fatto di “ore contate”, di “notti insonni”, di “uomini che muoiono”, per il fallimentare commercio di uova, galline, conigli, il riscatto dalla misera condizione giunge dal cosmo, da un folle volo su una navicella lanciata ai confini del sistema solare. Con gli altri astronauti tuttavia Zephir vive nel ricordo di quanto di più puro ha lasciato sulla terra, ora nostalgico dei domestici lari, degli affetti parentali, dei luoghi dell’infanzia, dei riti, dei profumi, della natura. Per l’inquieto medico (“Figlio, la tentazione non è perdizione, ma inquietudine. Chissà, se non ci sarà inquietudine anche nella morte”) e gli ardimentosi compagni nessun approdo possibile, perduti come sono nell’infinito silenzio della dimensione stellare, lontani anni luce dalla terra, naviganti tra “globi di fuoco candido. E poi vuoto e scuro. E ancora globi luminosi e circolari”, annichiliti infine da “una cascata di mondi e di sonno”: “Il sonno mi venne incontro col rombo di un fiume. (…) E chiamai ’Alqama, Runa, Giamil, Ayala. Mi parve che mio padre, al-Aggiàg, e il vecchissimo nonno Shimon mi venissero incontro dalla sotterranea Alcamuch (…) e di camminare addormentato su un carretto di là, a Zebulonia, il mio paese, verso il piano di Camuti, venendo da Vallenuova, in una notte in cui c’è solo uno scintillio di stelle, e Martedina e mia madre Alulia e i miei figli sono morti e non si sente nessuno, né il vento che chiama i pastori né l’uggiolio dei cani che viene dalle chiuse degli ulivi”.
Si assiste, in Martedina, ad una progressiva rarefazione del vivere. Gli intensi profumi ed i vivaci suoni del mercato, del fiume Liri, dei campi e delle strade di Valfrancesca, si scolorano nella bigia monocromia degli abissi spaziali, pervasi dal buio, dal silenzio, dalla fissità. Al calore della vita quotidiana, rinsanguata da semplici gioie e dolori, a minime e pur intense emozioni, si contrappone il gelo, progressivamente anche interiore, di un viaggio che vuole essere fuga ma che diviene itinerario di morte.
Il Viaggio astrale del “dormiente Zephir” che “dissolse nel sogno l’intricato reale” è ancora “un veleggiar verso la morte” (Arthur Schopenhauer), “inutile polvere stellare”, “annerita spirale” sulla quale si aggroviglia il pensiero speculativo dipanandosi da Eraclito a Platone, da Spinoza a Kant, dall’esistenzialismo al fenomenologismo, dalla teoria della razionalità scientifica all’anarchismo metodologico: “È una forza antigravitazionale che mi sospinge, figlio, / fuori dal dilettoso mondo, costretto io / ormai dall’espansiva ruota di galassie / e supergalassie, mari illimiti che rilucono / in distorsioni di tempospazio che ci intinge / e ci trasfigura, flusso di fotoni anch’io / in una equivalenza massa-energia / e in apparente simultaneità di ritmi stellari”.
L’insistito tema del viaggio, come la scrittura anch’esso sanità, è indomita ansia di conoscenza, inesausta esplorazione esistenziale husserliana, “antinoési”, “anti-pensiero”.
Altro viaggio nel cosmo Giovanni Verga sulla luna, “la commediola buffa” nella quale agiscono, con Verga e il suo immortale personaggio, mastro-don Gesualdo, moderni eroi dell’immaginario infantile, il cartone animato Sailor-moon, il bonario attore comico americano Ollio, un gruppo di cento bambini di cui capomanipoli sono Leopoldo e Niccolò, nipotini dello scrittore, gente comune di tutte le razze, esponenti di una società feroce, regnanti, magistrati, manager, artisti, uomini di malaffare. Un viaggio che ha luogo nell’anno 3223 e origina da quelle terre che “una volta si stendevano fra Vizzini, Licodia Eubea, Mineo, Francofonte, e giù andando verso Scordia e Palagonia” dove “non erano rimasti né boschi di ulivi, né solitari noci, né, altresì, siepi di polverosi fichidindia, o mandorli, o aranceti, né si vedevano volare, nel ventilare del mattino, falchi e sparvieri sui poggi rocciosi”.
In tensione fra essere e apparire, la Sicilia, terra di ancestrali contraddizioni e di stravaganti antinomie, non ha alimentato di sé un giuoco ironico volto a scardinare, o forse burlare, le leggi dello spazio inteso nella sua duplicità di spazio concettuale e spazio percettivo?
Un incessante trascorrere dalla sofferenza umana alla ricerca dell’essere, dall’individuo ai sassi, alle piante, agli uccelli, al firmamento, dal microcosmo al macrocosmo. Ma l’estraneazione dalla realtà, la vena fantastica, la dimensione magica, la metamorfosi, la trasmigrazione e trasmutazione nel tempo e nello spazio, sospinto da un mitico, epico e pur fragile ulissismo, una costante dell’opera in versi e in prosa di Bonaviri, non è disimpegno politico-sociale, giacché su Plutone o sulla Luna reiterati sono i riferimenti critici alla contemporaneità e persistono angosciosi interrogativi, aspirazioni, desideri, sofferenze, malinconie, solitudini. La mente corre al silente universo di Isaac Asimov. O alla “miseria aguzza come selci” dell’infanzia a Mineo, densa di tenaci memorie. E non solo. Caustica la denuncia delle iniquità dei Grandi della terra – “gli adepti alla Massima Associazione per l’incremento dell’Oro” che hanno organizzato “per il progresso della scienza” l’allunamento di violacee astronavi –, politici, le cui ambigue parole dai “toni lugubri” brillano di un “nero opale”, cardinali “che non amano Cristo”, industriali, ministri, mafiosi. Scopo della missione studiare le modalità per distruggere la Luna “di grosso ostacolo alle relazioni umane interplanetarie”; utilizzare i “picciriddi”, i “poveri children”, per i trapianti d’organi e per creare un circuito di clonazione degli “Eletti”; risolvere il problema “di milion di milion di milion di milioni” di disoccupati lanciandoli “nel sistema planetario e oltre”. Un potere col tempo sempre più spietato. Una satirica messa in stato d’accusa dell’umanità intera con swiftiano sguardo ilare e amaro come in La Beffària. Mentre “scrittori e scrittorelli, poeti e poetucoli, pittori e dipintori, scalpellini, scultori, attori, attrici e attricette pampanose”, cantautori “dalle chitarre ripiene di miliardi” sono preda di uno “sconfinato narcisismo” e Beethoven si rammarica di non aver mai pensato ad una “teoria musicale, con aggiunti pentagrammi, dei suoni fecali e stercoracei”, di certo “immortale per… la storia dell’uomo”.
In sovvertimento cronotopico, vi affiora il lucido farneticare della ragione e della fantasia della fiaba teatrale Giufà e Gesù, dove medesimi ingredienti – il narratore-cantore di cui si ode soltanto la voce, il cartone animato fatto con “carta, polistirolo, pongo, colori, creta, juta, sensori, fili e filetti intrecciati, resine, e terra d’ocra”, i bambini, con a capo Leopoldo e Niccolò, approdati sulla Luna stavolta per essere salvati, il musicista Beethoven, la commistione di prosa e versi – sono amalgamati con funambolica visionarietà e deflagrante accusa dei mali, delle storture, delle follie della società contemporanea.
Una sotterranea carica eversiva, umoristica, parodistica, percorre la scrittura bonaviriana. Come quando Ollio ricorda che i pescatori delle sue scogliere di San Francisco tiravano a riva reti piene, oltre che di gozzi, meduse, polipi, dentici, saraghi, saramaghi, pescispada, di “pesci-fo ridenti” e perfino di “pesci-d’alema con baffetti da cui nascevano i pensieri”; o racconta la fiaba di un mondo dove tutto succedeva alla rovescia, “se uno ammazzava dieci, venti, o quaranta persone facendo finta di pentirsi diventava collaboratore di giustizia e, a poco a poco, salendo nella scala gerarchica, giudice di prima istanza”; dove tutti volevano divenire miliardari e regnanti, una corsa all’oro che “si scovava anche fra la cacca degli uomini”; dove “i Regni si creavano e si ottenevano subito con le guerre”. Né mancano Elena di Troia, “oh, no, sbaglio, di Troina in provincia di Enna”, lady Diana Spencer, che “piange i suoi perduti amori nel buio della morte”, torte che parlano, “Skis, kisses, love, love, love! slaping, sfz sfrytstz”.
Ricorrente il vezzo, nel perpetuo travaso tra vissuto e immaginario, di ancorarsi a propagginazioni intrafamiliari e cromosomiche, di accennare insistentemente a sé, agli amici, di sottolineare date e particolari minuti della propria quotidianità, come a fissarne il ricordo, a difendere un intero patrimonio di affetti, emozioni, cultura, lentamente stratificatosi, dall’inesorabile trascorrere del tempo. Disperato ancoraggio ad un territorio interno che garantisca, con Salvator Dalì, La persistenza della memoria. Fotografie di sogni fatti a mano con l’intento di materializzare immagini irrazionali.
“Solo i saggi e gli stolti non sognano, mentre singolari sono i sogni di coloro che nutrono emozioni speciali, diverse, originali”, con Feng Menglong. Peculiarità del sogno l’analogia con l’esperienza passionale, con cui condivide l’illusoria libertà, che dilata e comprime tempo e spazio in modo irreale. Al fondo permane il mistero che il sogno solleva sulla nostra identità. “Il sogno ci rende libero l’animo” dichiara don Chisciotte nella “commediola in due atti senza epilogo” Il giovin medico e don Chisciotte dove al medico in un cronicario Michele Rizzo, impotente a curare, non rimane altro, “ragionier della morte”, che registrare “vecchi che muoiono e muchachos morti, mai nati”, vale a dire gestire oniricamente un camposanto.
Uno straniante orizzonte metaforico, un festoso guazzabuglio di citazioni e autocitazioni, una fantasmagoria linguistica che mescida insieme in un variopinto, stravolgente cocktail, stilemi e favelle diverse, trecentismi, arcaismi, aulicismi, dialettismi, neologismi, lessico scientifico, grecismi, inglesismi, spagnolismi, arabismi. E l’espediente della prorompente contaminatio, del divertito pastiche, l’accumulo scoppiettante di simboli, assonanze, onomatopee, è teso a cogliere segrete vibrazioni, intime risonanze, saporose sonorità. L’ironia (e l’autoironia) non può non investire pure l’inventività, l’originalità della scrittura, elusiva, allusiva, efflorescente, in virtù della quale le formiche guardano “in piagnimento” (giacché i suoi nipotini “non hanno mai visto delle formiche in pianto, ma in piagnimento sì”); i disoccupati “ – i jurnatari – aspettavano, zappa o zappulla in spalla, la mattina in piazza per essere ingaggiati”. E ancora, ma stavolta “dell’errore ebbero orrore e orripilarono i dottori in lettere”, la ranocchia “insegnante” nella “rabbiosa fretta sbagliando disse: Qual’è, qual’è, qual’è?” (Il popolo delle rane); e il corvo Cratete “si sarà a capofitto buttato, chiudendo volutamente le penne rematorie (non meglio ‘remiganti’?)” (Cratete ovvero Compilatio singularis di luoghi arpinati).
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INTERVISTA A GIUSEPPE BONAVIRI – dalla rivista “Orizzonti” n. 26, aprile-luglio 2005
di Subhaga Gaetano Failla e Valeria Failla

Devo l’incontro con le opere di Giuseppe Bonaviri ad un giorno fortunato d’estate di molti anni fa. Vagavo per le strade di Tropea con alcuni amici. In una libreria si vendevano libri a prezzi scontati. Guardai, mi impolverai le dita, ma nessun libro mi attraeva. Poi, un titolo mi catturò: La divina foresta di Giuseppe Bonaviri. Lessi il libro in una spiaggia assolata del Tirreno meridionale. In epigrafe aveva una frase di Empedocle: “Perché un tempo fui fanciullo e fanciulla, arbusto e uccello e muto pesce del mare”.
La scrittura magmatica, sontuosa, m’incantò e mi trasportò in un tempo immobile, sospeso.
Nelle settimane, nei mesi che seguirono, rivelai la scoperta ad un paio d’ amici e a mia sorella, con la quale ho preparato questa intervista. La passione per la scrittura di Bonaviri ci accomuna ancora oggi, simili a cercatori che parlano a bassa voce d’una lontana miniera d’oro. Finalmente, poi, quasi due anni fa, sono andato a Frosinone a far visita allo scrittore.
Abbiamo passeggiato insieme vicino alla sua casa, in un pomeriggio di fine estate. In tempi così carichi di stili aggressivi, di arroganza politica, di idiozie televisive incontrare un uomo siffatto, con un’aura di bontà, di semplicità e saggezza è davvero inconsueto. Alla mia partenza, mi ha atteso sulla porta per donarmi un sorriso e un ultimo saluto.
Giuseppe Bonaviri ha pubblicato oltre trentacinque opere, di prosa e di poesia, tra le quali anche un volume di saggi (L’arenario, Rizzoli, 1984), è stato più volte candidato al Nobel, tradotto in molte lingue, perfino in cinese e arabo, di lui hanno scritto in Italia Vittorini, Calvino, Sciascia, Manganelli, Gramigna, Manacorda, Pampaloni (mi fermo qui, l’elenco è lunghissimo), eppure egli oggi non ha qui da noi, a mio parere, un riconoscimento adeguato alla sua grandezza.
Bonaviri è nato a Mineo (Catania) l’11 luglio 1924, primo di cinque figli del sarto don Nanè e di donna Giuseppina Casaccio. Si laurea in medicina a Catania nel 1949, frequenta poi il corso allievi ufficiali a Firenze, è ufficiale medico a Novara ed in seguito viene trasferito a Casale Monferrato. Ritorna a Mineo, dove svolge la professione di medico prima, poi di ufficiale sanitario. Nel 1957 lascia la Sicilia per sposarsi con Lina Osario e trasferirsi in Ciociaria. Da allora vive a Frosinone, dove ha svolto la professione di medico cardiologo fino alla pensione. Ha due figli: Giuseppina ed Emanuele.
Su uno dei suoi primi ricettari di medico termina di scrivere Il sarto della stradalunga. Il romanzo viene pubblicato nel 1954 nella collana “I Gettoni” della casa editrice Einaudi curata da Elio Vittorini, il quale a proposito dell’opera sottolinea il “senso delicatamente cosmico col quale l’autore rappresenta il piccolo mondo paesano su cui c’intrattiene, trovando anche nelle erbe e negli animali, nei sassi, nella polvere, nella luce della luna o del sole, un moto o un grido di partecipazione alle povere peripezie del sarto e dei suoi”. Molti anni dopo Italo Calvino in Notti sull’altura (Rizzoli 1971) sembra ritrovare quel “senso delicatamente cosmico” di cui parlava Vittorini. “I personaggi del romanzo” scrive Calvino nell’Introduzione “si sparpagliano a raggiera sulla mappa di questa Sicilia fatta di tutti i tempi e tutti i luoghi, e decifrano come in una fitta rete di corrispondenze misteriche i segni dei minerali e le metamorfosi delle piante…”
La scrittura di Bonaviri “sente il fascino del divino”, osserva Luca Orsenico in una recente intervista, ed è intimamente legata ad “una sacralità non confessionale”, come dice nella stessa intervista l’Autore. Le sue narrazioni tornano interminabilmente alla sua natia Mineo e attingono a quegli “aspetti metafisici” dice Bonaviri “che noi bambini un tempo, sia quando andavamo in vacanza con la nonna che aveva perso ben diciassette figli su ventiquattro, sia quando andavamo a scuola la mattina verso l’alba, percepivamo con chiarezza, tanto è vero che scuotevamo gli alberi per svegliare gli spiriti che secondo noi stavano ancora dormendo”. E di aspetti metafisici è ancora intessuto, in una narrazione commossa, memorabile, l’ultimo romanzo Il vicolo blu (Sellerio 2003), mentre nella nuova raccolta di poesie I cavalli lunari (Scheiwiller 2004) anche il corpo umano diventa materia poetica, espressa con l’intensità di straordinarie illuminazioni.
Nella scorsa estate, a Mineo, in occasione dell’ottantesimo compleanno dell’Autore, si è svolto un convegno che ha ospitato traduttori dell’opera bonaviriana provenienti da varie parti del mondo, ed è stata inaugurata una “Fondazione Bonaviri” che si occupa dello studio e della valorizzazione della sua opera.
Nell’intervista che segue, svolta telefonicamente, il lettore perderà – inevitabilmente – l’ascolto della voce di Bonaviri, profondamente immersa in modulazioni siciliane, dolcemente musicale, simile ad un canto d’antichi poeti proveniente da un mondo d’armonia.
- Le sue biografie dicono che lei ha cominciato a scrivere a otto anni. Mi può parlare del suo incontro con la poesia e la scrittura?
Tenga presente che io sono nato a Mineo in provincia di Catania, un paese che si trova ad altitudine di 500 metri, e che Giuseppe Pitrè, il grande folklorista, definiva il Parnaso Siculo, in quanto tra contadini e artigiani e anche analfabeti c’era almeno il 20% di persone che poetavano. Per cui il mio impatto, il mio contatto, il mio primo incontro con la poesia è stato facile perché ce l’avevo attorno: tutti poetavano, mi sembrava una cosa usuale. E cominciai a scrivere qualche poesiola attorno agli otto anni. Poi, un certo criterio secondo me più qualificante, mi portò a incominciare a scrivere a quattordici anni tre romanzi, in uno dei quali, dal titolo “Un omicidio tra i selvaggi”, c’è la storia di un giovane che per una ragione amorosa ammazza il padre e la madre. Mi pare che anticipava ampiamente tutti questi massacri sia librari che reali che ci sono oggi. Le poesie a cui cominciai a credere iniziai a scriverle a quindici anni, a parte quelle scritte prima.
- Perché, nonostante l’iniziazione precoce alla scrittura, ha poi scelto di laurearsi in medicina?
Beh, a me pareva di poter imparare un mestiere di cui ero in quel momento affascinato. Forse perché ero in piena guerra quando mi sono iscritto, nel ‘43. Si avvicinava questa era tecnologica, nuova, ansiosa e ansiogena che ci è arrivata dopo il Cinquanta, dopo la fine della guerra. È stata forse una intuizione o meno, cioè fui affascinato dall’idea di fare una sperimentazione, delle sperimentazioni, sul nostro corpo: il mio sogno primo era di fare in modo che gli uomini – Dio ne liberi – non dormissero più, così si guadagnavano molte ore di attività, di psichismo, e così via.
- Il lavoro di medico ha sicuramente assorbito buona parte del suo tempo e poi c’era anche la famiglia da tirare su. Come è riuscito a soddisfare la passione per la scrittura?
È stato indubbiamente lavorare il doppio, ho faticato molto perché ho fatto sempre il medico. Tra l’altro non ho nemmeno diritto alla pensione, dopo tanti anni come specialista cardiologo nella Unità Sanitaria tra Frosinone e Ceccano. Eravamo considerati dei lavoratori autonomi esterni. Adesso questa legge è caduta. E quindi praticamente è stato un doppio lavoro. Non c’è rapporto tra la scrittura e il lavoro di medico. Il solo rapporto consiste nel fatto che come medico sono sceso – ho detto più di una volta – nei labirinti del dolore umano. Ho un’esperienza che tanti altri che sono scrittori qualificati, o tali si credono, non hanno assolutamente. Una vasta esperienza anche della gioia, della guarigione.
- Lei da quasi cinquant’anni risiede a Frosinone. Come vive questa distanza dalla Sicilia?
A lungo andare ci si crea un lavoro, una famiglia, dei nipoti che vengono a integrare gli affetti perduti. Ho perduto due sorelle, per ictus, mio padre, mia madre, mio fratello. Siamo rimasti in due: io sono il più vecchio. È come trasferire un albero da una zona ad un’altra zona. L’albero a poco a poco si adatta ai venti, all’humus.
- Nelle sue opere la trama narrativa è impregnata di elementi del mondo arabo. In che modo si è avvicinato a questa cultura?
Sono memorie infantili che mi arrivavano attraverso le fiabe di mia madre e così c’è anche il recupero, scorporato, di quello che è stato. È sottinteso che ormai non c’è quasi niente, tranne i residui archeologici. Il siculo di per sé non amava gli arabi, perché li considerava anti-cattolici.
- La morte nella cultura occidentale subisce un costante processo di rimozione, nelle sue opere invece è un tema ricorrente. Mi può dire qualcosa al riguardo?
È un tema ricorrente un po’ perché per natura sono pessimista e temo, temo, che per tutti al di là della morte non resti niente. Se noi potessimo raccogliere tutte le ossa di miliardi e miliardi di persone morte e lanciarle con dei razzi – oggi facili da avere – nel sistema planetario, tutte queste ossa (per darne un valore cosmico divino) diventerebbero miliardi, miliardi e miliardi di piccoli satelliti di Mercurio, di Marte, ecc. E io spero solo che la morte valga nel senso, non della memoria che lasciamo agli altri, ma d’un qualcosa che realmente ci fa sopravvivere come unità pensante, anche se per poco tempo. Non riesco ad aderire completamente alla visione soteriologica del cristianesimo.
- Il suo paese natale, Mineo, patria anche di Luigi Capuana, ha rappresentato, come mi diceva, una sorta di Arcadia Siciliana. Cosa è rimasto per lei di quella esperienza?
Sono vissuto in Sicilia fino a venticinque anni. Non sono mai uscito dalla Sicilia prima di quell’età. Allora era difficile anche avere il denaro per andare, fuori. Sono andato via per fare il corso di allievo ufficiale medico a Firenze e poi ufficiale medico in Piemonte. E stata una grande esperienza, in quanto ho conosciuto qualcosa di assolutamente nuovo e diverso dalla Sicilia. Ma l’infanzia è stata per me il Giardino delle Esperidi: tante deità che immaginavamo presenti negli alberi, nella pioggia, gli spiriti, i racconti, le fiabe di mia madre, la miseria, il senso filosofico dei poveri, i proverbi. Insomma, un mondo sconfinato.
- Nel suo più recente libro di poesie “I cavalli lunari” viene cantato il corpo umano nel suo aspetto biologico. Da cosa scaturisce questa scelta poetica?
Beh, un bel momento io mi son detto che la poesia sempre punta su temi apparentemente un po’ superiori a quelli che sono i momenti contingenti della nostra esistenza. In fondo ancora seguiamo, secondo me, un filone petrarchesco che pone sempre temi delicati, angelicati, superiori. Mentre ci sfugge che, per esempio, dentro di noi, dal cavo orale all’estremità anale, abbiamo circa un milione di miliardi di batteri. Essi sono con noi. E perché non guardare, non porre questo su un piano o su un tentativo di farne poesia, quando sono elementi unicellulari che vivono con noi? E perché non dare importanza al sudore del nostro corpo, al cattivo odore, ai buoni odori, cioè al corpo come corporalità, come un insieme di organi ben armonizzati tra di loro? (finché c’è la salute…).
- Gennaro Savarese afferma che il suo stile non può che provenire da “quel Mezzogiorno d’Italia dove (…) i confini tra scienza e fantasia, pensiero e immaginazione sono stati sempre assai più incerti che in altre aree culturali italiane”. Condivide questa analisi?
In passato indubbiamente era così. Ma adesso credo che sia tutto uniformato, ormai, tranne per quel che riguarda tradizioni locali oppure differenze di ordine socio-economico (di lavoro o meno) che esistono tra Nord e Sud, una certa educazione che al Nord è più “austriaca”, nel senso migliore della parola, e al Sud invece è più disordinata. Ma in passato presumo che – settanta o ottanta anni fa – questa linea sfumata, incerta c’era..
- Nella mia infanzia (sono di origine calabrese) c’era una sorta di divieto di uscire nella cosiddetta controra, nel dopopranzo assolato dell’estate. “Non andate in giro all’ora delle streghe” diceva mia madre a noi bambini…
Beh, anche per noi c’era questo divieto. Non dormire in campagna sotto i noci anche, perché altrimenti i noci ti portavano appresso. Voci strane, presenze improvvise di spiriti… E lo stesso vale per la controra. Era quasi come un uscir fuori dalla luce usuale che ci spetta, che è la luce del mattino. La controra inizia ad avvicinarsi al crepuscolo e alla sera, in cui tutto si rovescia, per cui anche il nostro modo di rapportarsi col mondo visibile o invisibile, ammesso che l’invisibile ci sia. C’è una grande linea discordante: la linea discordante tra spiritelli, voci, fantasmi, morti, essenza di morte.
- Definirebbe, come Pirandello, l’assegnazione del Nobel, a cui lei più volte è stato candidato, “una pagliacciata”?
Beh, una pagliacciata no, perché altrimenti tutte le cose della vita sono, gira e rigira, una pagliacciata. Anche presentarsi con una tesi di laurea e prendersi una laurea… è un premio a cui a poco a poco tutti hanno dato importanza, si è creata questa fama. Sono in 15-16 membri scelti e cooptati, dopo la morte di qualcuno sostituiti, ed hanno anche le loro amicizie, le loro simpatie, le conoscenze. Se tiene presente che non esiste un italianista, la lingua italiana non è conosciuta. Ecco perché spesso sono più favoriti quelli che scrivono in inglese. Poi, c’è una visione ancora un po’ tardo-antimarxista, una specie di borghesia illuminata che pensa sempre al testamento di Nobel, il premio si deve dare a coloro i quali dicono qualcosa di nuovo per la società, per far migliorare la società. Se si parla del cosmo, di spiriti, di un mondo pieno per l’appunto di presenze, di deità – vero o non vero – loro istintivamente si allontanano. Ed inoltre alcuni componenti cercheranno di imporre i loro giudizi in seno al collegio. È una cosa umana come tutte le cose umane. Il motivo per cui abbia assunto una tale importanza dipenderà dal fatto che l’uomo ha bisogno sempre che ci sia un qualcosa che diventi il vertice, il re, il genio. Noi uomini abbiamo sempre bisogno del padre, di puntare su qualcosa che sia il vertice della forma mentale, il vertice della cultura, il vertice della capacità guerresca, il grande guerriero, e così via.
- Nelle righe conclusive del suo ultimo romanzo “Il vicolo blu”, da me amatissimo, si legge: “E in un bel suono, Linuccia disse – Ritornerà la luce. Non la sentì nessuno, solo io e mio fratello, che ora non c’è più.” Avrebbe voglia di dirmi cos’è questa luce?
La luce… Mi devo un po’ rifare a quanto diceva il sarto: “…scrivendo, comprendere che il mondo dovrà migliorare” (dalle prime pagine del romanzo di Bonaviri, “Il sarto della stradalunga”, Nota degli Autori), cioè che ci possa essere un miglioramento nella visione culturale, religiosa, etica del mondo. Però, il solo fatto che mio fratello che era morto l’ha sentita e solo io poi sono rimasto a sentirla lascia una grossa banda di incertezza. Questa luce che arriverà o che dovrebbe arrivare… Spero questo non sia sfuggito: uno solo rimane a sentirla questa voce, e l’altro che l’ha sentita è morto, quindi già significa che c’è una zona di buio, di incertezza.

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LA SCRITTURA DI GIUSEPPE BONAVIRI
di Rawdha ZAOUCHI-RAZGALLAH

Bonaviri è un autore che fa riflettere sulla vita, sulla politica, sull’Italia, sulla metafisica, sulle relazioni umane, sulla natura, sulla scienza, sulla scrittura.
Nelle sue opere cerca di cogliere non la storia di un individuo o di un momento della civiltà, ma l’unico fare del mondo, di tentare la trascrizione di quello che solo la scienza ha appena toccato, di dare alla materia una credibilità poetica e di inventare infine, un supporto narrativo nel quale le luci ed i suoni, il cielo e la terra, gli animali e gli uomini si ci riparano.
Nei suoi scritti, introduce numerosi argomenti scientifici. Questo elemento potrebbe restituire all’uomo d’oggi, dopo la perdita delle certezze religiose, una conoscenza scientifica secondo la quale, nell’universo ciò che esiste, è destinato ad esistere anche se è opposto a continue ed imprevedibili metamorfosi.
Quanto all’itinerario linguistico di Bonaviri, è orientato verso la scoperta di un’unità primaria seppellita dalla superposizione di strati ed in questa discesa verso le zone profonde della vita e della psiche, lo scrittore deve recuperare una lingua immortale e quindi sente la necessità di inventarla per dare una forma poetica ai suoi fantasmi.
La valorizzazione di nuovi fonemi, il recupero di un lessico ai limiti del barocco, i prestiti chiesti alla filosofia, guidato da una vena ispiratrice quasi costante, riescono a dare vitalità ai racconti.
A ribadire la sua originalità di scrittore impegnato nella ricerca personale a carattere universale, possiamo dichiarare che G. Bonaviri non può essere schierato con nessun movimento letterario. L’autonomia di uno scrittore è quindi una costante nel discorso di Bonaviri. Lo scrittore, oggi, più di ieri, è chiamato ad esprimere la sua propria visione del mondo per non cedere a sollecitazioni non ubbidienti a ragioni profonde e che non possono trovare una giustificazione, morale e storica nell’ambito di una vocazione reale dell’atto di narrare.

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LA LETTERATURA FANTASTICA DI GIUSEPPE BONAVIRI
di Rawdha ZAOUCHI-RAZGALLAH

La definizione del fantastico nel dizionario Garzanti è prima di tutto: “che concerne la fantasia”, la seconda definizione è: “che è frutto della fantasia; per estensione irreale, strano o è una cosa che ha troppo del fantastico, per essere credibile”; dal senso antico, bizzarro, stravagante, dal latino tardo: phantasticus, dal greco phantastikós, deriva di phantάzein “far vedere, mostrare”.
La letteratura fantastica è un tipo narrativo che si basa sull’angoscia oppure sullo spavento causato dai fenomeni inspiegabili. Il fantastico nasce da una tensione tra realtà che serve da cornice al racconto e fenomeni che la scienza non può spiegare.
Il fantastico è l’hésitation provata da un essere che conosce soltanto le leggi naturali di fronte ad un avvenimento soprannaturale ad esempio, «I cavalli lunari che volano»: l’aspetto fisico dei cavalli lunari; «la femmina era fornita da una criniera azzurra; il maschio, da criniera rossa».
(…)
Dagli anni Sessanta, abbiamo visto un’evoluzione nell’interpretazione della letteratura fantastica. La critica, meno sotto l’influenza delle ideologie politiche, si è orientata verso un vero apprezzamento di una poetica specifica. Numerosi autori sono stati riscoperti o riletti sotto una dimensione nuova ponendo come base d’analisi il riconoscimento delle potenzialità creative del linguaggio.
La letteratura fantastica italiana e contemporanea ha visto la sfilata dei suoi massimi autori come Pirandello, Bontempelli, Landolfi, Calvino, Vigolò e Buzzati che sono stati incompresi dai lettori italiani. Questa letteratura faceva vivere, di nuovo, polemiche d’interpretazione e di critica. Non si arrivava a delimitare il “genere”. Da Todorov a Vax, a Caillois, a Bessière, a Ceserani e Lugnani, i critici ed i teorici del fantastico, nel sottolineare la sua problematica, insistono sul bisogno vitale di realismo di cui il fantastico ha bisogno per nascere e per sussistere. Ma, anche per dimostrare quanto il reale ha i suoi limiti.
A questo proposito, Leonardo Lattarulo, facendo uno storico dell’evoluzione del fantastico italiano, scrive:
L’autorità di uno scrittore celebre come Scott poteva dunque suffragare una persuasione che per altro era già largamente presente nella cultura italiana: quella del carattere essenzialmente nordico e germanico del fantastico e della sua difficile adattabilità alle condizioni culturali e morali italiane.
Nel cuore della crisi degli anni Sessanta, alla ricerca di un’identità nuova, il fantastico permette a numerosi scrittori di manifestare la loro preoccupazione e la loro insoddisfazione davanti alla realtà umana e quotidiana. Una nuova concezione del mondo si esprime in un idealismo magico in cui la vita subisce un dualismo permanente del mondo interno con quello esterno. Il bene ed il male s’intrecciano. Il malessere quotidiano induce l’autore a scrivere storie e novelle che trasportano il protagonista ed il lettore in un mondo diverso e bello con possibilità di interferenze tra il verosimile e l’inverosimile. E’ un’evasione liberatrice.
Fra questi autori, Giuseppe Bonaviri si singolarizza per la polivalenza dei suoi scritti. La loro varietà e la loro molteplicità ci fanno sentire l’estrema erudizione e vena narrativa dell’autore.
(…)
Molto spesso, Giuseppe Bonaviri inizia i suoi racconti con un’introduzione o con una nota come paratesto che utilizza per spiegare lo scopo della sua scrittura. Attraverso queste didascalie siamo illuminati dalle tappe della sua vita, dall’importanza che hanno i luoghi della sua infanzia (la Sicilia) ed i personaggi che l’hanno accompagnato durante la sua carriera. Vedremo come queste note caratterizzano la personalità dell’autore dove il ritorno alle origini è una costante nella sua biografia. “La nostalgia delle origini” è ricercata da numerosi scrittori ma in Bonaviri, è cosmica.
Vittorini, scoprendolo nel 1954 e presentandolo ai lettori, insiste su questa realizzazione dell’universo cosmico nell’opera di Bonaviri. La maturità narrativa gli permette di coniugare la verità alla fantasia. Con un dato reale, egli descrive un viaggio attraverso un paesaggio dando una conoscenza approfondita di tutti gli elementi che compongono la vita sulla terra e nel cosmo. L’uomo scientifico s’associa allo scrittore (Giuseppe Bonaviri è un chirurgo cardiologo). Questi due aspetti sono fondamentali nella vita dello scrittore.
Bonaviri è uno scrittore che ha la facoltà di dare elementi metafisici e trasmigratorie ad ogni creatura, ad ogni essere vivente una memoria di civiltà antiche seppellite. E giustamente, è in un fiore, in un albero, in un ramo che questi esseri viventi ritrovano il loro legame con il presente. La Sicilia, il suo paese natale, è la terra vivente e mitica dei suoi scritti. Tutto ritorna a questo mondo contadino che l’ha segnato profondamente. La nostalgia della felicità si traduce in lui nelle reminiscenze della sua infanzia, delle sue letture, delle persone care che sono vissute con lui. Franco Zangrilli ci conferma questo fatto:
La divina foresta (1969) apre un’altra fase della attività creativa bonaviriana. Ci presenta la visione cosmica di una natura consapevole a tutti i livelli. Una visione originale, sebbene si possano rintracciare lontani antecedenti nella Bibbia, in De Rerum Natura di Lucrezio, nelle Metamorfosi di Ovidio, e in Dante. E’ una favola che, a differenza di Martedina, persegue un viaggio di scoperta all’interno della natura sviluppando un religioso legame con essa. Si ambienta nel paesaggio naturale dei dintorni di Mineo, trasformato dalla fantasia dell’autore in un paesaggio primordiale. Mineo quindi viene qui scelta come località edenica, i cui primi abitanti anziché uomini sono dapprima il narratore Fermenzio, una particella appena cosciente, poi Senapo, una piantina di borragine, infine Apomeo, un avvoltoio, circondati da personaggi minori altrettanto coscienti. […] Si tratta di personaggi filosofi la cui meditazione si concentra spesso su idee universali.”
Italo Calvino, in una nota introduttiva a Le notti sulle alture di Giuseppe Bonaviri, presenta questo libro come “un delirio multicolore” dove si realizza un complesso e fantasmagorico universo che implica le materie difformi, dall’occultismo all’alchimia, dalla scienza all’etnologia con voli fantastici che non dimenticano mai le dimensioni del vero e del reale.
(…)
Gennaro Savarese nel suo articolo su Giuseppe Bonaviri lo presenta così:
L’interesse principale di Bonaviri non è l’uomo in sé, in chiave psicologica o naturalista o neorealista; ciò che l’attrae è un essere particolare che sente, immagina e indaga, tuffato in una natura scarsa, lontana dalle sue tre dimensioni tradizionali e messa a nudo nelle sue frontiere: quarta dimensione, campo di metamorfosi tra gli elementi ed i regni naturali, spazio tra vita e morte e viceversa.
Bonaviri stesso dice:
I miei orientamenti scientifici mi hanno dato di più la dimensione inquieta di uomo del nostro tempo. Chi conosce la possibilità e i limiti di una interpretazione scientifica del mondo, è preso in un primo momento da una vampa di conoscere quello che c’è oltre il visibile, ne vuole rielaborare i dati ricavati per impastare nuove possibilità; ma in un secondo momento si accorge che la suprema sapienza si trova in un nostro segreto equilibro circolarmente consonante col cosmo.
Certamente, il contatto con i malati gli è servito per entrare nei meandri dell’io, delle paure, dei sogni, delle trepide speranze, a contatto carnale con gli abissi dell’io piagato dal morbo.
Ci poniamo quindi la domanda: perché Bonaviri è uno scrittore che utilizza il fantastico nella sua opera? E’ il fantastico secondo i criteri di Heinrich Heine o Walter Scott. Tanti dibattiti intorno a questo genere sono stati discussi tra gli intellettuali italiani perché non si riesce a dare un’etichetta agli autori italiani di stampo fantastico. Gli scrittori italiani fantastici non sono simili a scrittori fantastici come gli autori americani, tedeschi o francesi (Poe, Hoffman, Maupassant o Kafka). I critici italiani l’hanno sentito e sottolineato nelle loro antologie critiche. Il genere fantastico italiano è diverso degli altri perché è poetico e basato su una cultura diversa e differente. Alessandro Scarsella pensa che si debba analizzare la letteratura italiana da un punto di vista nuovo: quello di una definizione trasversale. A questo proposito, egli dichiara:
A dispetto d’ogni più ragionevole criterio economico, la definizione prevalente del racconto fantastico si propone, nel suo complesso, come una costante di natura metastorica fissata nell’intersezione di più generi e sottogeneri narrativi. Mentre ciò che in qualche modo inibisce il ricorso alla pura storicizzazione è, evidentemente, l’aver identificato nel fantastico l’asse portante di una poetica, o come teoria della letteratura non mimetica ovvero, in ultima istanza, come confutazione dello sperimentalismo. Omogeneo ma divergente, questo atteggiamento si riscontra puntualmente nelle definizioni prodotte, con maggiore o minore incisività, da Calvino, Manganelli, Bonaviri, Sandro Canotto, Roberto Pazzi, in parte da Sgorlon e da Malerba, ed infine, ed a parte questa volta, da Ottieri. Vale a dire che, irriducibile ad una definizione di scuola, il fantastico si afferma trasversalmente come cifra di poetica duttile ed adattabile.
Giuseppe Bonaviri non è stato classificato ancora perché risponde a tutte le attese del lettore.

(tratto dallo studio di Rawdha ZAOUCHI-RAZGALLAH – LA SCRITTURA FANTASTICA DI
GIUSEPPE BONAVIRI in due opere: “La divina foresta” e “Il dottor Bilob”)

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AGGIORNAMENTO DEL 9 novembre 2008

Come promesso, aggiorno il post con un video e foto tratte da un incontro pubblico con Giuseppe Bonaviri (finalizzato ad omaggiarlo) organizzato il 30 maggio 2008 presso la Biblioteca Ursino Recupero della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania.
Nel video (purtroppo la qualità dell’audio e delle immagini non è ottimale) Giuseppe Bonaviri ringrazia per l’organizzazione dell’evento. Nelle foto, oltre all’ottantaquattrenne Bonaviri, sono riconoscibili – tra gli altri – Sarah Zappulla Muscarà e la scrittrice e poetessa Maria Attanasio.

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BONAVIRI CONTROVENTO

di Massimiliano Perrotta

Tutto comincia da Mineo. In questo piccolo paese siciliano Giuseppe Bonaviri era nato nel 1924 e proprio Mineo è il centro dell’universo letterario dello scrittore. Dopo la precoce rivelazione della sua vena poetica, nel 1938 si trasferì a Catania dove conseguì la maturità classica e si laureò in medicina. Nel 1954, scoperto da Elio Vittorini, Einaudi pubblicò Il sarto della stradalunga. Seguirono una trentina di volumi tra narrativa, poesia, teatro e saggistica.Nonostante il grande amore per
la Sicilia, dal 1958 visse a Frosinone esercitando la professione di medico. Sposato con Lina, ebbe due figli e quattro nipoti.

Bonaviri è uno scrittore complesso. In un certo senso è il tipo di autore che riscrive sempre lo stesso libro, in un certo senso è un artista dai volti numerosi. C’è Bonaviri lo scrittore moderno. Bonaviri il nuovista, lo sperimentatore, il romanziere che si diverte a  giocare con i codici narrativi.

C’è l’affabulatore bizzarro che inframmezza con notazioni stralunate e con nonsense le considerazioni filosofiche dei suoi personaggi. Un’ironia novecentesca, la sua, che da un lato alleggerisce il testo rendendolo più divertente, dall’altro lo complica aprendo la porta a non univoche interpretazioni.

C’è l’uomo contemporaneo curioso della scienza che verrà e c’è il custode della memoria familiare, ossessionato dai ricordi che chiedono di essere trasfigurati in simboli letterari.C’è il realista magico, il narratore funambolico, il poeta immaginoso…

C’è Bonaviri il siciliano, figlio di una generazione eccezionale: quella di Leonardo Sciascia, di Bartolo Cattafi, di Stefano D’Arrigo, di Angelo Maria Ripellino, di Sebastiano Addamo,  di Gesualdo Bufalino… Bonaviri siciliano fino al midollo che come tutti gli scrittori isolani sembra condannato dalla propria terra madre a parlare ininterrottamente di lei.

C’è il Bonaviri dormivegliante. In molte narrazioni, come nel dormiveglia da lui studiato e fantasiosamente romanzato, c’è una realtà riconoscibile i cui contorni progressivamente tendono a farsi  malcerti. Ci ritroviamo così in quella dimensione a mezza via tra sogno e veglia nella quale le visioni compaiono capricciosamente  e repentinamente svaniscono per lasciare posto ad altre visioni… C’è il Bonaviri nostalgico del tempo che fu, del piccolo mondo paesano nel quale aveva trascorso l’infanzia, della sapienza popolare che rendeva quel mondo umanamente ricco. Come gran parte degli scrittori moderni Bonaviri è in qualche modo un critico della modernità, di questo stadio della modernità. Il suo rievocare la dimensione mitica della Mineo contadina, con gli artigiani filosofi e ogni cosa intrisa di spiritualità, svolge una funzione critica nei confronti del presente fighetto e materialista. Il suo proclamare divina la natura si contrappone a certi abusi della scienza contemporanea nei confronti di essa. E poi c’era l’uomo. Bonaviri l’eccentrico, il timido, il solitario. Il malinconico dai lunghi silenzi interrotti da scoppi di umorismo lunare. Il collezionista di libri rari, il nonno affettuoso, il provinciale cosmopolita… Bonaviri visse a lungo autoesiliato nella bella casa di Frosinone che lasciava malvolentieri, restìo alle frequentazioni mondane. Uno stile di vita, il suo, poco adatto all’era degli uffici stampa e della vita pubblicitaria. L’intervista che segue, realizzata nel 2006 per il documentario Bonaviri ritratto, è stata ampliata con brani di interviste che mi aveva rilasciato precedentemente.Perrotta. Come nasce lo scrittore Bonaviri?Bonaviri. Tu sai che Mineo era un paese ricco di poeti vernacoli, c’era la pietra della poesia a Camuti, quindi sin da bambino il sogno mio era quello di diventare il poeta più importante di Mineo. A quattordici anni già scrivevo tre romanzi e ogni anno cercavo di fare tutti gli esami all’università specialmente per avere il tempo necessario per leggere e scrivere romanzi durante le vacanze. Ma il dato fondamentale, secondo me, resta uno: io sino a venticinque anni sono stato sempre in Sicilia, non mi sono mai mosso dalla Sicilia, per cui il primo contatto col mondo letterario importante l’ho avuto con l’Einaudi e con Elio Vittorini. Vittorini aveva in mano la collana dei Gettoni e gli piacque molto Il sarto della stradalunga. Pensa che quando l’ho incontrato, perché mi scrisse, a Bocca di Magra, pensava addirittura che io ero un operaio anziché un medico, cioè il nostro è stato un rapporto estremamente pulito.

Il sarto della stradalunga, che uscì nel cinquantaquattro ma era stato scritto nel cinquantuno, ebbe un buon successo critico: ricordo le recensioni di Tommaso Fiore, di Gaetano Trombatore… Insomma, questo giovane siciliano che non era mai uscito per  venticinque anni dalla Sicilia riuscì a immettersi con facilità nel giro dei maggiori letterati del tempo. Dopo l’Einaudi i miei libri sono usciti con
la Rizzoli, con
la Mondadori, con
la Sellerio.

Perrotta. Il sarto della stradalunga è ispirato alla figura di tuo padre, Settimo Emanuele detto Don Nanè.

Bonaviri. Mio padre da giovane faceva il sarto a Mineo nella stradalunga, ma purtroppo non fu fortunato nel suo lavoro e nel 1938 fu costretto ad emigrare in Abissinia a causa delle tasse eccessive. Scriveva anche poesie molto belle, con una certa capacità di narrazione del mondo,  ma le scriveva segretamente, di notte, perché era un uomo schivo, timido. Quando mia madre si metteva a letto e lo vedeva scrivere al lume del petrolio si chiedeva preoccupata: «Ma chi ho sposato, un pazzo?». Quando è morto ho trovato molte cartelle delle tasse sul cui retro aveva scritto delle poesie. Ho raccolto tutte quelle che ho trovato in un volumetto dal titolo L’arcano. Se ne trova una copia alla Biblioteca Nazionale di Roma.

Una delle sue poesie più belle parla della notte a Mineo. Allora l’illuminazione era fatta con pochi lampioncini per cui il paese verso le sei o le sette sprofondava nel buio. Quello che segnava l’arco del giorno, direi un limite quasi spirituale, spiritico, era la mezzanotte che era annunciata da cento colpi di campana. Ti cito alcuni versi: «Terribile la notte / oscura ed infinita; / mentre l’orologio batte / l’ora piu sciagurata».

Perrotta. Parliamo di Mineo, tuo paese natale e centro della tua opera.

Bonaviri. La formazione spirituale di ogni uomo è compiuta per le linee essenziali già a dieci/dodici anni, si è stati come insemenzati. Mineo ha lasciato dentro di me molti semi di memoria.

Il paese ha una lunga storia che rimonta a Ducezio. Io ho conosciuto
la Mineo di settant’anni fa, una cittadina molto povera ma umanamente ricca. La ricchezza maggiore consisteva nei proverbi e nella sapienza innata dei contadini. Molti di questi avevano una propensione alla filosofia e scrivevano poesie dialettali.

Perrotta. A Camuti, dove con la tua famiglia andavate a villeggiare e dove secondo la leggenda c’era la pietra della poesia, ogni anno aveva luogo un importante raduno di poeti dialettali.

Bonaviri. Fino al 1850, sull’altopiano di Camuti, si facevano delle gare poetiche che poi con l’unità d’Italia sono scomparse. Mentre le gare satiriche in piazza contro i partiti, contro il fascismo, si continuarono a fare fino al 1925 circa.

Perrotta.
La Mineo della tua infanzia era un paese povero.

Bonaviri. Ricordo un paese senz’acqua dove si mangiava pane e pane, un paese in cui gli uccelli volavano, specialmente gli sparvieri, sui monti… Ricordo il verde, le campagne, le fave, il grano… Ma anche l’estrema povertà e le condizioni igieniche molto difettose.

Perrotta. Nonostante il grande amore per
la Sicilia, da cinquant’anni vivi in Ciociaria. Come mai hai scelto di vivere qui a Frosinone?

Bonaviri. Mia moglie, che è di Marcianise in provincia di Caserta, ebbe l’incarico di dirigere una colonia estiva a Mineo, mentre io fui incaricato di fare il medico della colonia. Dopo esserci sposati ci trasferimmo a Frosinone perché avevo vinto il concorso di assistente ospedaliero. Allora c’era la divisione dei proventi: un primario prendeva il cinquanta per cento e l’assistente il sei per cento, figurati… È stata una vita piuttosto misera. Ho fatto sei anni di vita terribile, con guardie di trenta ore tre volte la settimana; poi, per la morte improvvisa di mio padre e per il mio grosso esaurimento nervoso, abbandonai l’ospedale ed entrai nell’Unità Sanitaria Locale. Ci sono rimasto trent’anni. Pensa che all’Unità Sanitaria Locale eravamo considerati dei lavoratori autonomi esterni e quindi non ho neppure diritto alla pensione.

Perrotta. Com’è vivere a Frosinone? Per il poco che l’ho visitata non mi ha colpito particolarmente.

Bonaviri. Frosinone è una cittadina a suo modo cosmopolita, ricca a livello agricolo e con un certo sviluppo industriale. Ma letterariamente non è molto sviluppata.

Perrotta. Tu vivi in una zona periferica della città.

Bonaviri. Ho vissuto sempre nella zona periferica di Frosinone perché mi ricordava un po’ la libertà dell’infanzia a Mineo.

Perrotta. In cosa differisce il paesaggio ciociaro da quello siciliano?

Bonaviri. Beh, il paesaggio qua è più ricco, più arboreizzato. Quello siciliano è un paesaggio secco, asciutto, pietroso.

Qua in Ciociaria i contadini, nei loro piccoli campi, hanno sempre accresciuto gli alberi, hanno accresciuto quella che è la civiltà della casa. Anche perché è una zona più ricca.

Perrotta. Come mai scegliesti di studiare medicina e non lettere?

Bonaviri. Verso i sedici anni sognavo di diventare uno scienziato biologico, ma purtroppo eravamo in piena guerra e miseria. Mi iscrissi in medicina per quell’ansia di ricerca tipica dello scorso secolo.

Del resto per me scrivere è anche sperimentare.

Perrotta. Come riuscivi a conciliare il lavoro di medico e la tua intensa attività letteraria?

Bonaviri. Era una vita affannosa, non gradevole, un continuo corricorri. La mattina lavoravo alla mutua, per la letteratura mi restava il pomeriggio. Talvolta mi capitava di scrivere o di leggere tra una visita e l’altra…

Perrotta. Veniamo ai tuoi libri. Come li presenteresti a chi non ti ha mai letto?

Bonaviri. I miei romanzi spaziano dal dato realistico al dato fantastico, dalla cultura mediterranea alla scienza medica della quale uso spesso molti termini cercando di renderli quanto più poetici possibile.

Perrotta. C’è qualcuno dei tuoi libri che ritieni più rappresentativo?

Bonaviri. I libri sono come i figli: di mamma tutti. Ognuno ha la sua storia, o pubblica o segreta.

Perrotta. Diversi critici hanno lodato la coerenza della tua opera. A te, dall’alto dei tuoi ottant’anni, come appare?

Bonaviri. Sento l’insieme delle mie cose come un tappeto persiano in cui fili e segni e intrecci si toccano, si distaccano, si ritoccano…

Perrotta. Mi piacerebbe tentare un’incursione nel tuo laboratorio creativo. Come nasce un tuo libro?

Bonaviri. Ogni libro ha una storia a sé. Può essere un nucleo di memorie che via via s’ingrandisce e diventa poi anche tela linguistica, può essere una cosa immediata che mi viene chiesta, può sorgere dal semplice desiderio di scrivere.

Perrotta. Come nascono i tuoi titoli così suggestivi?

Bonaviri. A volte spuntano da soli, a volte bisogna scegliere fra titoli diversi. Predomina la mutevolezza.

Perrotta. Le tue pagine hanno i colori dell’estate. Esiste un periodo dell’anno in cui scrivi meglio?

Bonaviri. L’estate mi dà più stimoli, è la mia stagione, forse perché sono nato in luglio.

Perrotta. Nella tua opera la dimensione del viaggio è centrale. E nella vita?

Bonaviri. Ti confesso che non amo molto viaggiare. Sono e resto un contadino con l’idea d’un punto fermo: il centro, la casa, il paese. Comunque dopo i cinquantacinque anni ho viaggiato molto.

Perrotta. Uno dei temi a te cari è la famiglia.

Bonaviri. Mio padre era il primo di sette figli, mia madre era l’ultima di ventiquattro fratelli: queste enormi famiglie tuttora me le porto dentro come un muro che ti circonda, che t’abbraccia. Cioè vorrei quasi  incarnare in me tutto questo mondo di parenti e farlo diventare carne della mia carne e sangue del mio sangue.

Perrotta. Sei molto legato anche ai tuoi nipotini.

Bonaviri. Gianluigi, Niccolò, Leopoldo e Raffaella per me hanno una grande importanza. In quasi tutti questi ultimi libri scritti sono presenti loro, anzi nel Vicolo blu addirittura li trasporto nel tempo come se fossero vissuti durante la mia infanzia e fossero miei compagni di giochi.

Perrotta. Un altro tema ricorrente è la morte.

Bonaviri. La morte è un’idea ossessiva universale. Poi, io facevo il medico…

Perrotta. A tuo avviso qual è, se c’è, la missione o la funzione dello scrittore?

Bonaviri. Scrivere è un lavoro come un altro, forse più meditato e coordinato e per il quale necessitano fattori predisposizionali. Secondo me le predisposizioni che noi abbiamo verso il mondo e verso noi stessi vengono trasmesse per via di DNA, cioè quell’elemento che si trova nelle cellule e che trasmette i fattori dell’ereditarietà. Oggi si pensa per lo più che la cultura sia un’elaborazione successiva al nostro sviluppo mentale, secondo me invece la base di fondo è e resta cromosomica.

Perrotta. Tu ti sei sempre tenuto ai margini della società letteraria italiana. Negli anni settanta hai perfino rifiutato il premio Campiello per il romanzo Dolcissimo.

Bonaviri. Si sapeva prima chi sarebbe stato il vincitore del superpremio finale. Valgono di più i soldi di un premio o il nostro no diretto contro un sistema di corruzione?

Perrotta. Insomma non ami i premi.

Bonaviri. Possono servire in piccolo (il viaggio, gli incontri, un che di liberatorio), ma non fanno storia.

Perrotta. Da diversi anni i giornali ti accreditano tra i favoriti al Nöbel…

Bonaviri. Il destino, quello che verrà dopo, è nelle ginocchia di Giove.

Perrotta. Quali sono stati i tuoi modelli letterari?

Bonaviri. La mia formazione infantile resta pre-libresca. Poeti contadini e vento di Mineo, fiabe raccontatemi da mia madre… quale miglior libro?

Perrotta. Dimmi allora quali sono i tuoi classici.

Bonaviri. Beh, a me affascinano i frammenti dei filosofi presocratici, quella è la massima espressione della cultura mediterranea. Poi tutto il filone della drammaturgia greca da Eschilo a Euripide. Tra gli italiani Leopardi, Pascoli, Gozzano.

Perrotta. Che te ne sembra della letteratura di oggi?

Bonaviri. Attualmente siamo purtroppo in una fase “filoamericana”, cioè più libri si vendono più l’autore è considerato importante. Si tratta di un grosso errore, anche perché spesso il lettore si trova tra le mani dei libri di una mediocrità assoluta.

Perrotta. Non ami i bestseller

Bonaviri. Sono fenomeni che sono sempre esistiti. Pensa per esempio all’Ettore Fieramosca di Massimo D’Azeglio, a Le mie prigioni di Silvio Pellico. Ormai per la nostra cultura sono ombre.

Perrotta. Tu sei stato amico di diversi scrittori siciliani della tua generazione, penso a Leonardo Sciascia o a Sebastiano Addamo, ma più volte hai affermato di sentirti estraneo al filone della letteratura siciliana.

Bonaviri. Beh, Leonardo Sciascia è uno scrittore civile, io sono un affabulatore. Tra me e Giovanni Verga ci sono di mezzo millenni, il suo mondo era assolutamente diverso da quello che abbiamo vissuto noi. In quest’ultimo cinquantennio s’è aperta una nuova fase storica per l’umanità: abbiamo messo il piede sulla luna, abbiamo scoperto un universo concreto fatto di astri che poi sono praticamente come la terra, grandi ammassi di pietre e di sostanze come metano, gas e così via. Quindi abbiamo allargato la nostra visione a una visione cosmica dalla quale non ci dovremmo allontanare, una visione secondo la quale l’uomo è una cellula ma è una cellula importante in quanto con la sua intelligenza riesce a entrare nei misteri del mondo.

Perrotta. La scienza oggi è ancora una speranza o è diventata anche una paura?

Bonaviri. La scienza per l’uomo comune è una paura, è una grande paura, perché se non è usata bene può causare dei disastri enormi, com’è successo con la bomba atomica. Nel mio romanzo L’incredibile storia di un cranio, uscito con Sellerio, questo aspetto viene preso in considerazione.

Perrotta. Parliamo dei tuoi estimatori illustri, cominciando da Italo Calvino.

Bonaviri. Di Calvino conservo molte belle lettere. A lui piacquero immensamente Il fiume di pietra, La divina foresta, Notti sull’altura… Altri estimatori sono stati Andrea Zanzotto, Carlo Betocchi, Mario Luzi, Libero de Libero… Tra gli stranieri ricordo il francese Guy Tosi, che insegnava alla Sorbona e via via tanti altri: in Russia, nella Repubblica Ceca, in Tunisia…

Perrotta. So che hai conosciuto Federico Fellini.

Bonaviri. Con Fellini ero in buoni rapporti, scambiammo qualche lettera, però il solo fatto di dover andare la sera a Roma a cena per me diventa un dramma. Per me è un dramma uscire fuori Frosinone, uscire dall’utero materno, dunque a un bel momento i rapporti sono caduti.

Perrotta. Un film di Fellini tratto da un romanzo di Bonaviri non sarebbe stata una cattiva idea.

Bonaviri. Per fare i suoi film Fellini aveva dei soggetti preferiti e incontrava anche difficoltà, sebbene fosse un grande regista cinematografico, a trovare i fondi.

Perrotta. Mi racconti della collaborazione col compositore Ennio Morricone? Insieme, nel 2001, avete scritto l’opera Ode in occasione dell’inaugurazione della nuova sede del Conservatorio di Frosinone.

Bonaviri. Ennio Morricone è una gran brava persona. Mi fu proposto dal senatore Massimo Struffi e dal direttore del Conservatorio di Frosinone di fare un poemetto sulla Ciociaria che sarebbe stato musicato da Morricone, cosa che avvenne. Solo che l’esecuzione, all’aperto, fu fatta in un giorno che c’era vento per cui Morricone non fu soddisfatto della registrazione e, tranne la copia che ho io, di quest’opera non c’è purtroppo altro documento.

Perrotta. Quali pittori contemporanei hai amato?

Bonaviri. Per quanto riguarda la pittura ho apprezzato diversi artisti, non so, Filippo Gentilini o Corrado Cagli, ma rapporti personali non ne ho avuti.

Perrotta. Bonaviri e la politica. Si sa che da giovane sei stato antifascista e comunista.

Bonaviri. Al ginnasio scrivevo temi antifascisti. Non perché fossi un antifascista convinto… era una specie di ribellismo, leggendo che Mussolini aveva sempre ragione o «Credere, obbedire, combattere!» mi disturbai e quindi scrivevo temi antifascisti. In quarta ginnasiale fui  rimandato ad ottobre, feci un bel tema e da allora in poi capii che la politica non bisognava toccarla.

Dopo la liberazione fui comunista: fui iscritto al movimento giovanile e al Partito Comunista per molti anni.

Perrotta. Collaboravi all’Unità.

Bonaviri. A Gaetano Trombatore piacque molto Il sarto della stradalunga e m’invitò a collaborare all’Unità. Ho collaborato per quattro o cinque anni alla pagina culturale; in seguito ho collaborato al Messagero, all’Avanti!, al Corriere della Sera e all’Osservatore Romano. La mia collaborazione giornalistica è molto estesa e poco conosciuta.

Perrotta. Anche della tua poesia si parla meno.

Bonaviri. Le mie poesie sono state tradotte in diversi paesi ma dovrebbero essere studiate e approfondite ancora di più perché sono un ramo dello stesso albero. Un ramo forse più vivace, più vivo.

Perrotta. Parliamo del Bonaviri privato. Come uomo godi fama di eccentrico.

Bonaviri. Se essere solitari… significa essere strani, lo sono.

Perrotta. Molti libri li hai dedicati a tua moglie. Leopardi aveva in Silvia la sua musa, per te Lina cosa ha rappresentato?

Bonaviri. Leopardi guardava la povera ragazza malata Silvia dalla finestra del palazzo… sposarsi, convivere, avere figli è un mondo con reazioni diverse.

Perrotta. Ci sono libri che non hai avuto ancora il tempo di scrivere?

Bonaviri. Ho ancora tanti pozzi di memorie, soprattutto dell’infanzia e dell’adolescenza. Bisognerebbe scrivere per secoli e secoli…

Perrotta. Che idea ti sei fatto del dopo?

Bonaviri. Siamo nel campo dell’incognito, la vita è un mistero. Tutto lascia pensare, secondo le nostre vedute biologiche (che potrebbero essere errate) che tutto finisce con la fine del nostro corpo biologico. Probabilmente, chiudendosi l’assillo di fuoco della nostra vita, si arriva nel vuoto spazio dove tutto è nulla e dove il nulla forse è il Tutto, ovvero il Dio che cerchiamo.

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